Il regista Michieletto fa sempre lo stesso effetto, dalla prosa al lirico “Rigoletto”

Per il teatro la ripartenza dopo l’arrivo del Covid-19 è stata più dura che in altri settori. Specie all’inizio, occorreva reinventarsi, ed è quello che ha fatto Damiano Michieletto, che nel luglio del 2020 ha portato in scena al Circo Massimo di Roma la propria versione del Rigoletto di Giuseppe Verdi. Da quell’esperienza è tratto ora il documentario Rigoletto 2020. Nascita di uno spettacolo, diretto da Enrico Parenti.

Michieletto è considerato dalla critica come uno fra registi teatrali più interessanti, non solo in Italia: lanciato come “giovane favoloso” nella prosa, finanche erede di Luca Ronconi, è poi passato alla lirica, complici due-tre flop registici nel tempio del teatro italiano, il Piccolo, dove carissima gli è costata, molto più di tre soldi, un’Opera da tre soldi giudicata kitsch e sopra le righe dai cultori del brechtismo nazionale.

Davanti alla telecamera di Parente, Michieletto racconta quella che, più che uno spettacolo, è un’impresa collettiva: in scena infatti non dovevano esserci contatti fisici per colpa del Covid e, allo stesso tempo, bisognava trovare una scena abbastanza capiente per contenere alla giusta distanza mimi e attori. La scelta è ricaduta dunque su una doppia messinscena: da un lato, un palco immenso di 1.500 metri quadrati; dall’altro, una serie di steadycam a seguire la recita, trasmessa su un maxischermo come fosse un film in presa diretta.

Questo originale e monumentale Rigoletto – sempre sopra le righe, ma questa è la cifra di Michieletto – è stato il primo spettacolo teatrale in Europa a essere stato messo in scena dall’inizio della pandemia. Nel documentario viene descritto il lavoro maniacale del regista e quello passionale del direttore d’orchestra Daniele Gatti. Entrambi volevano dare nuova vita a Verdi, mettendo in luce gli aspetti narrativi dell’opera originale di Victor Hugo, che qui trovano una forma inedita.

 

“Essere Strehler” è un caos (di genio)

Si sente “un musicista mancato”; diventa il più grande regista di prosa del Novecento italiano. Propugna un “teatro umano”; è un genio disumano. Coltiva in quanto artista “un profondo senso della vita”; non esce mai di casa, neanche a cena. Ama la natura e gli animali; preferisce le piante finte dello scenografo: “Mi sono trovato in questo teatro, una sera, dentro a un giardino immaginario, quello del Gabbiano di Cechov, e mi sono sdraiato per terra, nel semibuio, non c’era nessuno, era finita la prova e guardavo in alto, questo teatro con questi alberi, e mi figuravo che questo fosse più bello in fondo che stare in un prato con gli alberi veri”. Essere Giorgio Strehler è un casino, un paradosso, un rovello, un’esplosione di arte e angoscia.

A cent’anni dalla nascita, un documentario rende onori e oneri al demiurgo della scena italiana: prodotto da Didi Gnocchi, in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano e con la regia di Simona Risi, Essere Giorgio Strehler è stato presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma e, dal 13 novembre, approderà su Sky Arte. Voce narrante è quella del regista stesso, riesumato da interviste, video e altri materiali d’archivio e accompagnato dagli interventi di amici e colleghi, critici e biografi, tra cui Andrea Jonasson, Ottavia Piccolo, Ezio Frigerio, Franca Squarciapino, Cristina Battocletti.

Agiografico quanto basta – manca, ad esempio, la spinosa parentesi della droga –, il doc si apre nella Trieste del 1921, da poco italiana, ma ancora profondamente mitteleuropea: “A tavola si parlavano quattro lingue”, chiosa il protagonista, figlio di una violinista e orfano precoce di padre, cresciuto dal nonno dalmata, fumantino e appassionato. L’idillio infantile – tra mare, musica e un dolcissimo porcospino domestico – dura poco: alla morte del nonno, la famiglia emigra, complice l’ascesa dei picchiatori fascisti, inclementi soprattutto con chi ha cognomi “stranieri”. A Milano, però Strehler incontra il suo primo e unico amore: il teatro. Una relazione che lo incastrerà tutta la vita, inseguendo i fantasmi di Goldoni, sfondando la porta di quello che diventerà il Piccolo Teatro (nel 1947), sbattendo la porta in polemica coi sessantottini, intristendosi per la crisi morale della città negli anni Novanta di Tangentopoli, profetizzando la sua morte mozartiana (nel 1997)…

Dal sangue e dalle macerie della sala di via Rovello, luogo di torture delle squadracce nere, Strehler con Paolo Grassi e Nina Vinchi fonda il primo Stabile italiano, “d’arte ma popolare, povero e poetico… Attraverso il teatro si sono dette le cose più alte sul destino dell’uomo. Si è parlato della bellezza dell’essere uomo, come dell’orrore di essere uomo… Se noi non siamo pronti umanamente a fare del teatro, faremo un teatro che non ha niente a che vedere con l’umano: sarà in fondo, un teatro del disumano”. Poi però Giorgio si dimentica di vivere, impastato com’è di contraddizioni e tristezza, passione e solitudine.

Fa teatro, il regista, per “servire Eschilo e Shakespeare, le grandi costellazioni che guidano il nostro commino. Noi abbiamo paura di fare teatro: bisogna essere pazzi per mettere ogni sera il proprio cuore in mano alla gente”. Eppure, quel cuore batte solo sulle assi del palco, nel tentativo di risintonizzarsi con la lanterna magica dell’infanzia. Strehler è “un bambino, prima che un intellettuale”, ma è un gioco solitario il suo: impossibile, a detta dei conoscenti, “essergli amici”.

E così Giorgio sta solo sul cuore della terra, trafitto da un raggio di sole finto, impegnato com’è a “difendersi da se stesso… Curati, vinci, lavora. Nasconditi”.

 

“Art Raiders”, pure i tombaroli diventano una fiction

La struttura è piramidale, fuori dalle regole. Alla base c’è la manovalanza, che trova e vende il reperto archeologico al mediatore indigeno, che lo smista a un ricettatore in contatto con qualche sulfureo mercante internazionale. E se il pezzo è pregiato può ascendere fino alla collezione di un grande museo. Nell’ultimo mezzo secolo, sono state oltre tre milioni le opere artistiche trafugate e risucchiate da un mercato parallelo sordido, al netto della patina glamour.

C’è tutto questo in Art Raiders, caccia ai tombaroli, la nuova serie di Sky Original che ha debuttato martedì sera. La regia è di Simona Risi. Un po’ noir, un po’ docufilm lungo: l’opera d’arte è il “sequestrato speciale” al centro di un caravanserraglio di vicende febbrili e rocambolesche. Le interviste agli esperti e ai diretti protagonisti, le riprese nei luoghi degli scavi proditori, le animazioni di Tiwi imprimono ritmo ai fatti narrati.

La saga reticolare di collezionisti smaniosi e criminalità organizzata, ladri locali e faccendieri globali, strutture museali double face, alla bisogna. L’esempio luminoso del Tpc, i carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, il primo nucleo investigativo al mondo contro questa fattispecie di reati.

Nell’episodio inaugurale si è parlato del “cratere di Eufronio”, il più celebre pittore dell’antica Grecia. Una spy story di cronaca vera. Nel 1972 il Metropolitan Museum of Arts di New York festeggiò una nuova acquisizione: un vaso di grosse dimensioni del V secolo a.C. Ma il colpò generò lesti sospetti: come aveva fatto un pezzo di tale portata, pagato dal Met un milione di dollari, a sbucare dal nulla? Si scoprì così che a Cerveteri, non lontano da Roma, i contadini sbarcavano il lunario sgobbando, nottetempo, da tombaroli. Alla ricerca dei tesori nascosti nel ventre della “loro” terra.

Altro non sveliamo, per non guastarvi l’eventuale sorpresa. Nelle prossime tre puntate, una ogni martedì in prima serata su Sky Arte (o su Now), altri tre casi di squillante arte criminale: la Dea di Morgantina, la Triade Capitolina, il Vaso di Assteas. Un inestinguibile traffico illecito transazionale. Se anche l’estetica profana l’etica.

“Petite Maman”: gli adulti ritrovano l’occhio da piccini

Se Petite Maman fosse un quadro sarebbe una miniatura fatta di rare pietre preziose. Ma è un film, e di quelli che – a dispetto di titolo e dimensioni – fanno grande l’arte cinematografica. Céline Sciamma ne ha sognato la trama prima di sceneggiarla: ormai l’autrice lesbica e femminista francese ci ha abituati allo stupore, restituendo le meraviglie celate nell’animo di ragazze e bambine.

La sua filmografia fatta di parole (straordinaria sceneggiatrice per regie altrui, da Téchiné a Audiard e altri, passando per la serie cult Les Revenants) e visioni ha una coerenza granitica unita alla capacità di costante invenzione. Dalla bimba trans di Tomboy (2011) all’energia esplosiva delle teenager di Diamante nero (2014) fino alla composta irrequietezza di Ritratto della giovane in fiamme (2019) si assiste alle tappe di un viaggio intimo e universale alla ricerca d’identità.

Con Petite Maman, in concorso a Berlinale 2020 e riproposto in Alice nella Città in concomitanza all’uscita nelle sale del 21 ottobre, si partecipa a un autentico salto nel vuoto. Sciamma abbraccia la magia di una fiaba semplice e impossibile come quella di un viaggio nel tempo alla ricerca di una madre da poco defunta. Se è vero che già altri registi si sono “specializzati” nei voli temporali a scopo sentimentale (Kaufmann, Gondry, Malick…), la visione di Petite Maman ha un sapore diverso, con la sua sostanza di breve durata (solo 72’) ma così prodigiosa da assimilarsi alle creazioni di Miyazaki, non per caso dichiarata fonte d’ispirazione della regista.

Quasi interamente recitato dalle piccole gemelle Joséphine e Gabrielle Sanz, è un film a misura di bambina che tuttavia parla soprattutto agli adulti chiedendo loro di restituire ai propri occhi quell’incanto della scoperta e quella voglia di farsi sorprendere tipica dell’infanzia. E non tanto attraverso l’adozione teorica dei classici concetti del romanticismo letterario (Il fanciullino del Pascoli, L’età dell’Innocenza di Blake..) bensì attraverso l’uso sapiente dei codici filmici alle prese con il realismo magico, laddove il reale è rappresentato dallo sguardo infantile: l’invisibile si fa visibile, il tempo presente condensa il passato e il futuro, i colori perdono di sfumature saturandosi di brillantezza. Il dialogo è gioco anche quando si fa serio, anche quando sotto traccia vi è l’elaborazione del lutto di una madre e nonna morta in casa di riposo, così come il desiderio del reciproco perdono. Poche ma perfette inquadrature, cinque personaggi, una casa nel bosco, e alcune stanze e corridoi sono sufficienti a Céline Sciamma per edificare un incantesimo sulla maternità, la figliolanza e la sorellanza, sull’indissolubilità dei legami, sul Tempo-fuori dal tempo dove a farsi materia sono i grandi misteri dell’esistenza umana in cui vita e morte possono coesistere per-donandosi. Nulla è casuale e tutto diventa rivelazione in questo gioiello di commovente bellezza e verità.

“Vita da Carlo”, re di Roma. Verdone firma la sua prima serie tv

Se avesse candidato a sindaco Carlo Verdone anziché Roberto Gualtieri, il Pd non avrebbe avuto bisogno del ballottaggio per conquistare Roma: avrebbe vinto, anzi, stravinto al primo turno. Se (più di) due indizi fanno una prova, questa è la notizia che consegna Vita da Carlo, la prima serie diretta e interpretata da Verdone.

Ambientata ai giorni nostri, lancia l’attore alla corsa al Campidoglio su perentoria indicazione del presidente della Regione Lazio, nella finzione tal Gustavo Signoretti che fa rima con Nicola Zingaretti. La candidatura è a furor di popolo, ovvero social, complice un video virale che raccoglie lo sfogo di Carlo: “Roma è una città spenta, sporca e abbandonata: zozza. Mancano politici preparati, autorevoli, che abbattano la burocrazia: Roma chiede solo di essere amata”. In ossequio al genere della serie, autofiction, il dato è biografico, la proposta c’è stata davvero, e Carlo lo rivela alla Festa del Cinema, che presenta i primi quattro episodi: “Me l’hanno chiesto qualche anno fa, i sondaggi erano spaventosi: mi davano al 70%. Ma mi è bastata mezz’ora per ringraziare e declinare l’invito: posso avere la passione, ma non la preparazione necessaria, e poi perché abbandonare un lavoro che ho iniziato in un teatrino universitario nel lontano 1971?”.

Sul piano B del Partito democratico, Gualtieri, Verdone non si sbilancia: “Non lo conosco, spero abbia la fortuna e la capacità di trovarsi una squadra forte, determinata, rapida e soprattutto onesta, in grado di divellere le barriere burocratiche che bloccano la città”. L’attore cita il monumento di Garibaldi al Gianicolo colpito da un fulmine sette anni fa e ancora sotto lo scacco di tre soprintendenze: “Chiesi a Virginia Raggi, ‘tu non puoi fare nulla?’”. Non è successo niente, continuiamo così, a fare brutta figura con i turisti”.

Non avrà la carica, ma Carlo ha un programma: “Manutenzione, da programmare velocemente. E soprattutto bisogna partire dalle periferie, sono in uno stato disastroso. Trasporti, attività ricreative per anziani e bambini, ridare dignità estetica a librerie, cinema e teatri. Questa dev’essere l’abilità di un sindaco”. Insomma, la buona politica, che nulla ha a che fare con il politically correct. Gli viene chiesto dello scambio nel secondo episodio con Alessandro Haber: “Sono un povero ebreo che non se lo caga nessuno”. “Ma dai, tutto il mondo è amico vostro, vi aiutano tutti, cazzo dici Alessandro”. E Carlo sbotta: “Non ne posso più del politicamente corretto, tra un po’ non faremo più ridere nessuno. Mentre scrivevamo queste cose, ci siamo fermati cinque volte con una specie di terrore, basta”.

Targata Amazon Original, prodotta dalla Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, la serie comedy in dieci episodi da trenta minuti sarà disponibile su Prime Video dal 5 novembre. Accanto a Verdone, co-regista con Arnaldo Catinari, nel cast ci sono Max Tortora, Anita Caprioli, Monica Guerritore, Antonio Bannò, Caterina De Angelis, Filippo Contri, Giada Benedetti, Maria Paiato, Claudia Potenza e Andrea Pennacchi. “È stata una sfida, a quarant’anni dall’esordio Un sacco bello la mia prima serie. Mi ha permesso una maggiore libertà rispetto a un film, la dilatazione temporale attenua l’ansia drammaturgica, e amplifica l’intimità comica”. Nel miscuglio di verità e finzione, Carlo attribuisce a questa Vita “il 35-40%” di conformità a quella reale, e dopo i libri La casa sopra i portici e La carezza della memoria ribadisce la fonte biografica della propria creatività. Financo nei titoli: al cognome ci aveva abituati, con Bianco, rosso e Verdone (1981) e Grande, grosso e… Verdone (2008), per Carlo è un’altra prima volta, e che sia Vita da e non di è sintomatico.

La manipolazione autoriale – la sceneggiatura è a dodici mani con Nicola Guaglianone, Menotti, Pasquale Plastino, Ciro Zecca, Luca Mastrogiovanni – è sensibile, e non solo nell’evidenza: c’è una leggerezza ansiolitica, se non calviniana, una facilità di regia che è promessa di felicità, un minimalismo allargato, più familiare che esistenziale, notazioni piccole ma non prive di ambizione, un’autodichiarata però inconfutabile “malincomicità”. “Volevo lasciare un po’ di speranza”, ribatte Carlo allo sceneggiatore che gli apparecchia in chiave Palma d’Oro la svolta “tra Tarkovskij, Murnau e i fratelli Grimm” de L’incrocio delle ombre, e nelle dinamiche con la figlia e l’invadente fidanzato, il figlio a mezzo servizio e la moglie separata ma non allontanata (Guerritore: “Dopo la madre del Re, Francesco Totti, eccomi moglie dell’Imperatore di Roma”), il migliore amico (Tortora) e la farmacista di cui s’invaghisce (Caprioli) questa speranza effettivamente c’è.

Tranquilli, c’è anche il caro, vecchio Verdone, cui il trucido produttore intima una differente evoluzione: “Da lo famo strano a lo famo anziano”. Tutto il resto è res publica, nell’accezione del condomino Roberto D’Agostino: “La politica è la continuazione della comicità con altre battute, di solito pessime. Verdone dopo Grillo”.

 

Tel Aviv include sei ong palestinesi tra le organizzazioni terroristiche

Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha incluso sei organizzazioni non governative palestinesi tra i gruppi terroristici, per presunti legami con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. L’accusa è quella di utilizzato fondi poi finiti in realtà a famiglie di persone incriminati di gravi delitti. La decisione potrebbe avere ripercussioni a livello diplomatico: le ong hanno ricevuto donazioni da paesi europei. Critiche sono immediatamente arrivate da Amnesty International e Human Rights Watch: “Questa decisione ingiusta”, hanno scritto in una dichiarazione congiunta, “è un attacco del governo israeliano al movimento internazionale per i diritti umani, un’escalation allarmante che minaccia di mettere fine al lavoro delle più importanti organizzazioni della società civile della Palestina”.

La star Nba sostiene il Tibet: per la Cina è “da espulsione”

Enes Kanter, stella turca dell’Nba, va a canestro per il Tibet contro la Cina e si becca un’espulsione dal presidente cinese Xi Jinping, che oscura sui siti cinesi lui e la sua squadra. Il pivot, che ora gioca con i Boston Celtics, ha postato un video di 3’ sui social a sostegno dell’autodeterminazione del Tibet, indossando una maglietta con il voto del Dalai Lama. Kanter critica la stretta della Cina sul Tibet. “Caro brutale dittatore XI JINPING – tutto maiuscolo, alla Trump – e Partito comunista cinese, il Tibet appartiene ai tibetani! Sostengo i miei fratelli e sorelle tibetani e sostengo le loro richieste di libertà”, scrive il giocatore su Twitter e Facebook. Lo spot è accompagnato da foto delle scarpe con iconografia tibetana e lo slogan ‘Free Tibet’ indossate durante la partita d’esordio contro i New York Knicks al Madison Square Garden. Nato in Svizzera e cresciuto in Turchia, Kanter, pivot di 29 anni, è un devoto musulmano e si batte in difesa di varie cause politiche. Nella Nba, dove gioca da anni e ha disputato oltre 700 partite, è stato con gli Utah Jazz, gli Oklahoma Thunder e i Knicks, prima di sbarcare a Boston. Presunto sostenitore del movimento gulenista, che Ankara accusa d’avere orchestrato il fallito colpo di Stato contro il presidente Recep Tayyip Erdogan nel luglio 2016, Kanter evita da anni i contatti con i familiari in Turchia per paura di esporli a rappresaglie drlle autorità. Suo padre, Mehmet Kanter, un docente accademico, è stato assolto nel giugno 2020 dall’accusa d’appartenere al movimento Gülen, bollato da Ankara come terrorista. Il Tibet venne annesso dalla Cina nel 1951, ma rivendica autonomia e indipendenza. Attivisti per i diritti umani ed esuli accusano il governo cinese di praticare repressione religiosa, tortura, sterilizzazione forzata e rieducazione forzata. In Cina, il basket è popolare e la Nba molto seguita. Nel ‘19, le tv cinesi oscurarono la Nba dopo che Daryl Morey degli Houston Rockets, postò il proprio sostegno ai manifestanti di Hong Kong. Dopo la sortita di Kanter il sito sportivo del colosso Tencent ha rimosso le partite dei Celtics dal livestream.

Stop alla gravidanza, fuga all’estero di 34 mila donne

Le polacche che fuggono oltreconfine per abortire sono migliaia: negli ultimi sei mesi sono state almeno 34 mila, riferisce Aborcja bez granic (Aborto senza frontiere), associazione nata nel dicembre del 2019 dall’unione di sei Ong che si battono per i diritti fondamentali dei cittadini. Da ogni latitudine polacca le più benestanti vanno a ovest: Germania, Belgio, Spagna. Le meno abbienti a est: soprattutto verso Repubblica Ceca e Slovacchia. Chi decide di terminare la gravidanza dopo il secondo trimestre, ha invece una sola scelta: la Gran Bretagna, unico Stato dove si può praticare l’aborto entro le 24 settimane. Lo hanno già fatto almeno 460 polacche, riferisce ancora l’associazione, impegnata non solo a fornire pillole abortive, ma anche nella raccolta di fondi – finora quasi 100 mila euro –, necessari per pagare i viaggi delle ragazze.

Dalle campagne, zone rurali o dalle grandi città, le slave sono costrette a raggiungere reparti e cliniche straniere da quando i conservatori dell’ultracattolico Pis, partito Legge e giustizia, sono riusciti a rendere illegale l’interruzione di gravidanza nel Paese. L’esecutivo ora al Sejm (il Parlamento), ha compromesso lo stato sociale e annientato l’autonomia di giudici e magistratura: emessa rocambolescamente a ottobre dell’anno scorso, l’ultima sentenza del Tribunale costituzionale di Varsavia ha aggravato le già severissime restrizioni della norma. In Polonia adesso anche gli aborti di feti malformati costituiscono una violazione della legge, secondo cui si può non partorire solo in tre casi: se vittime di stupro, di incesto e se c’è rischio per la salute della madre, casi che, sapevano benissimo i togati, però costituiscono solo il 2% delle contingenze.

L’associazione però precisa anche che il numero reale delle donne che decidono di interrompere la gravidanza è molto più elevato. Secondo le cifre fornite da una struttura affiliata, Whw, acronimo inglese di “Donne che aiutano le donne”, da quando il divieto è entrato in vigore, ogni anno, dalle 80 mila alle 200 mila polacche hanno tentato di determinare il loro futuro senza assecondare una legge che le costringe solo al ruolo riproduttivo. A pagare più di tutte sono le donne emarginate e quelle che abitano in zone rurali, ma il picco che ha spaventato le attiviste è stato quello delle richieste di donne che sanno di essere gravide di feti malati che i dottori polacchi si rifiutano di dichiarare tali: “La severità delle anomalie è minimizzata dai medici, che a volte ritardano le diagnosi delle malformazioni di proposito per rendere più difficile l’aborto”, ha dichiarato la fondatrice dell’associazione Mara Clarke.

Private del diritto fondamentale garantito alle donne degli Stati democratici, le polacche, ha scritto due giorni fa Amnesty nel suo ultimo report, stanno affrontando “un danno incalcolabile”, mentre le circonda un ambiente “sempre più ostile e pericoloso”, quello che subisce ogni giorno, per esempio, Marta Lempart, fondatrice delle Strajk Kobiet (sciopero delle donne). L’attivista è stata numerose volte minacciata di morte per aver organizzato manifestazioni contro il divieto d’aborto e ha più di 80 cause aperte da quando è stata trascinata in tribunale da organizzazioni religiose e ultraconservatrici. La legge non è cambiata, ma non lo ha fatto nemmeno lei: le ragazze scese in piazza per le più grandi proteste che la Polonia ricordi dalla caduta del Muro di Berlino, promettono di tornare presto a marciare per le strade di Varsavia.

La corte: detenzione illegale del prigioniero

Si trovava nella prigione di Guantanamo dal luglio del 2007, anno in cui era stato catturato dall’esercito di Kabul nella città di Jalalabad e poi consegnato ai soldati americani. Che il cittadino afghano Asadullah Haroon Gul sia stato detenuto ingiustamente per 14 anni a Guantanamo lo ha stabilito adesso il giudice Amit Mehta, della Corte distrettuale di Washington, che ha rigettato la richiesta del governo Usa di continuare a trattenerlo. Gul, che non ha avuto diritto a consultare un legale per i primi nove anni e dal 2007 non è mai stato formalmente incriminato, ha vinto il processo per habeas corpus, quel principio che da secoli nelle Corti anglosassoni tutela il diritto dell’arrestato a conoscere la causa della sua detenzione. L’afghano, che era affiliato alla milizia islamica Hezb-e-Islami, gruppo che scese a patti con le truppe occidentali già nel 2016, non ha mai fatto parte del movimento talebano o di al Qaeda, come hanno sempre sostenuto i suoi accusatori. Nemmeno quando i leader talebani sono stati rilasciati nei mesi precedenti, Gul ha ottenuto la libertà. Nonostante la vittoria legale, la sua avvocatessa Tara J. Plochocki non si aspetta un immediato rilascio del prigioniero. Il verdetto significa che la detenzione è illegale, ma non garantisce che verrà rimesso su un aereo per Kabul, la difesa sta considerando di ricorrere in appello”.

“Afghanistan, il grave errore è stato imporre il pensiero occidentale”

The Afghanistan Papers, in Italia Dossier Afghanistan, è il libro scritto dal giornalista Craig Whitlock: un volume per capire come sia davvero andata una guerra perduta sin dall’inizio, ma proseguita per 20 anni per l’incapacità politica di George Bush, Barack Obama e Donald Trump di ammettere la debolezza americana.

Per ottenere i documenti alla base del libro, il Washington Post ha dovuto combattere una battaglia legale di tre anni. Qual è la differenza fra la vostra ricerca della verità, nel pubblico interesse, e quella di Julian Assange, che paga da anni con la libertà personale?

La vicenda di Assange è molto complessa e non l’ho seguita professionalmente, quindi sull’estradizione non mi esprimo. Ma francamente, se quei documenti mi fossero arrivati in qualche modo, sarei stato felice di pubblicarli senza dover andare in tribunale. Che ci siano sempre più fughe di notizie credo sia una risposta alla crescente segretezza e mancanza di trasparenza dei governi su informazioni che il pubblico ha il diritto di conoscere.

Più che la storia di 20 anni di conflitto, Lei racconta i 20 anni di una grande bugia che si è auto-perpetuata, quella dell’invincibilità degli Usa. Cosa è andato storto?

Paradossalmente l’istinto di Bush di andare in Afghanistan solo con le truppe necessarie a sconfiggere i Talebani come fiancheggiatori di al Qaeda era giusto. L’operazione militare si è conclusa in due mesi. La Casa Bianca ha creduto di aver vinto la guerra; si è fatta distrarre dal confitto, disastroso, in Iraq, e si è impelagata in una operazione per cui non aveva le capacità né l’umiltà: quella di ricostruire uno Stato. E tre presidenti consecutivi, Bush, Obama e Trump, non hanno mai avuto il capitale politico per uscirne, malgrado fosse chiaro che quella guerra non si poteva vincere. Difficile per loro ammettere che gli Usa potessero uscire sconfitti da quei cavernicoli di Talebani.

Lei enuncia nel libro i grandi errori: in sintesi, la mancanza di un obiettivo chiaro, insormontabili ostacoli culturali e appunto la necessità politica di nutrire la grande menzogna degli Usa invincibili.

Sì, l’Afghanistan ha dimostrato gli enormi limiti dell’apparato militare Usa. Limiti anche culturali: l’idea di poter ricostruire un Paese imponendo un sistema di valori americano, mandando sul campo ufficiali e soldati ignari perfino delle basi della complessa cultura afghana, che tornavano a casa appena cominciavano a capire qualcosa.

Qual è il bilancio totale in denaro, vite e status internazionale?

Quello economico complessivo è difficile da contabilizzare, per la reticenza politica ad ammettere il fallimento. La stima più vicina, comprensiva anche dei costi medici per i veterani, è di circa due trilioni, e 2.400 morti americani. Poi ci sono i civili afgani… Quanto alla reputazione, l’impatto è ovviamente negativo, ma è stato così anche dopo il Vietnam o l’Iraq.

Gli Stati Uniti sono stati manipolati dal Pakistan?

Non ci sono dubbi che il Pakistan abbia da sempre fatto il doppio gioco, sostenendo anche i Talebani, nella consapevolezza che gli Usa a un certo punto se ne sarebbero andati. I vertici Usa ci hanno messo troppo a capirlo, ma del resto non avevano alternative, perché la guerra dipendeva anche dal supporto logistico e di intelligence di Islamabad.

Lei ricorda che Biden conosceva bene il dossier afghano quando ha deciso di andarsene. Ha mentito quando ha garantito che il governo afghano avrebbe retto?

Credo conoscesse le debolezze del governo afghano, ma che davvero sia stato colto di sorpresa dalla velocità del collasso. In ogni caso è stato il primo presidente ad avere il coraggio e il capitale politico per agire di conseguenza.

Gli Usa a Kabul sono rimasti solo con l’intelligence?

Intelligence, diplomazia, aiuti umanitari. Ed è aperto il dialogo con i Talebani in funzione antiterrorismo islamico. Su questo c’è un interesse reciproco e mi aspetto una collaborazione.

Qual è stato l’impatto delle sue rivelazioni sul pubblico e sulle forze armate?

Nella psiche americana c’è il rifiuto della menzogna, che è il paradosso che porta tanti politici a edulcorare la verità. Le mie rivelazioni hanno provocato molta rabbia sia nel pubblico generico che fra i graduati, e soprattutto fra i veterani che sono andati a combattere, anno dopo anno, in buona fede, credendo di difendere il loro Paese, e nel libro hanno trovato la conferma di essere stati traditi dai vertici.