Smart working sì, ma meglio no

I dipendentipubblici potranno lavorare in smart working solo con le dotazioni tecnologiche e con la connessione a internet fornite dall’amministrazione di appartenenza. Se queste dovessero avere dei malfunzionamenti e rallentare l’attività, gli impiegati potranno essere richiamati in ufficio.

L’ordine di tornare in sede, tra l’altro, potrà comunque partire anche per generiche “sopravvenute esigenze di servizio” e non c’è alcun diritto a recuperare in seguito le giornate di lavoro agile non effettuate. In ogni caso, per ciascun lavoratore deve essere assicurato che il lavoro avvenga “prevalentemente” in presenza. Ieri il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha presentato ai sindacati le sue linee guida per lo smart working degli statali. Le sigle presenteranno le loro osservazioni e il tavolo sarà riconvocato tra due settimane. (nel frattempo continuano anche le trattative per il rinnovo dei contratti collettivi del settore pubblico, che dovrebbero normare nel dettaglio la materia).

In ogni caso Cgil, Cisl e Uil hanno già espresso alcune perplessità. Per Tania Scacchetti, segretaria Cgil, “è indispensabile gestire la transizione dall’emergenza al post emergenza in modo graduale e attraverso il confronto e le intese nei luoghi di lavoro, senza forzature e rispettando tutte le norme di sicurezza”. “Alcuni aspetti non appaiono ben delineati – ha spiegato Ignazio Ganga, responsabile pubblico impiego per la Cisl – e non si coglie la necessaria sensibilità verso lavoratori che hanno garantito, spesso con mezzi propri e difficoltà non di poco conto, il mantenimento della produttività e del pieno funzionamento della macchina pubblica durante l’emergenza”.

Torniamo alle linee guida: non ci sarà vincolo di orario, salvo che non venga attivata la modalità “telelavoro”, e dovrebbe essere garantito il diritto alla disconnessione attraverso la fascia di inoperabilità, con 11 ore minime di riposo. Il punto fondamentale, dunque, sono le strumentazioni: “Si deve fornire il lavoratore di idonea dotazione tecnologica”, recita l’articolato, aggiungendo che “per accedere alle applicazioni del proprio ente può essere utilizzata esclusivamente la connessione fornita dal datore di lavoro”. Nella pratica bisognerà capire quante amministrazioni saranno in grado di farlo e se questo non diventerà un altro motivo, il principale, per ridurre lo smart working.

Da quando Renato Brunetta è tornato ministro della Pubblica amministrazione, con la nascita del governo Draghi, si può dire che il suo obiettivo principale sia stato limitare il più possibile il lavoro agile, utilizzato come metodo prioritario dall’arrivo del Covid. Dopo un accordo con Cgil, Cisl e Uil, nel quale si è impegnato a far entrare la materia nei contratti nazionali, è intervenuto direttamente prima abbassando le percentuali minime di personale in smart working e poi facendo sì che il lavoro da casa tornasse l’eccezione: è appena il caso di ricordare che il Dpcm del 23 settembre ha previsto il rientro in sede dal 15 ottobre.

Niente tasse a Google & C. grazie a un’intesa Italia-Usa

Un fatturato di circa 1.100 miliardi di euro, equivalente al 70% del Pil italiano: questi i dati dei 25 giganti del digitale globale per il 2020. Sul podio, oro, argento e bronzo vanno alle americane Amazon (314 miliardi), Google (149 miliardi), Microsoft (116,5 miliardi); medaglia di legno per la cinese Jd.com (117 miliardi). Giganti del fatturato, con redditività superiore (escludendo l’e-commerce) a qualunque altro settore industriale, ma gnomi quando ci sono imposte da pagare. Il nuovo rapporto di Area Studi Mediobanca “Sofware&Web Companies” mostra come le multinazionali del digitale siano state soggette a un’imposta media effettiva sugli utili delle imprese del 12,8% nel 2020. Questo grazie anche a un 40% degli utili parcheggiati in paradisi fiscali con un risparmio globale di circa €10,7 miliardi nel 2020, €24,5 miliardi nel triennio 2018-2020. Sempre secondo questo studio, le filiali di alcune di queste multinazionali in Italia hanno dichiarato nel 2020 utili per €254 milioni e €80 milioni di imposte. Gli utili globali sono però 218 miliardi, con un margine di profitto pre-tasse del 19%: il 19% globale, mentre in Italia vengono lasciate le briciole, un 5% di utili sul fatturato dichiarato, pari a 254 milioni e €80 milioni di imposte per il 2020. A questo gettito si aggiunge però quello prodotto dalla Web Tax introdotta come una pezza temporanea per tentare di coprire parte dei 6-7 miliardi di elusione fiscale delle multinazionali in Italia: minori entrate minori entrate per l’erario grazie a un sistema fiscale internazionale che permette ai colossi digitali, ma non solo, di scegliere dove e come farsi tassare.

La web tax è una misura temporanea – 233 milioni di euro di gettito generato relativo al 2020 – ed è diventata operativa dopo un lungo calvario politico l’anno scorso, in attesa dell’esito dei negoziati per una riforma globale in sede G20/Ocse. Come noto, l’accordo è arrivato proprio all’inizio di questo mese e prevede che a partire dal 2023, per la prima volta, una piccola parte degli utili globali delle 100 multinazionali più grandi e profittevoli siano ripartiti tra Paesi sulla base del fatturato.

La parte residuale è però purtroppo molto piccola. Per esempio, se Google avrà un margine di profitto globale del 30% nel 2023, solamente il 5% di questi utili sarà ripartito in base al fatturato, ma le imposte si calcolano sugli utili: quindi il 5% di utili soggetto al 27,9% di aliquota Ires/Irap equivale a un gettito addizionale inferiore all’1,5% del fatturato, mentre la Web tax è pari al 3% del fatturato. Problema: l’entrata in vigore di questa nuova misura sostituirà proprio la Web tax. Un accordo definito dalla politica e da gran parte degli addetti ai lavori come “storico” rischia dunque di far pagare alle multinazionali soggette alla Web tax meno che oggi, almeno in Italia.

Andiamo con ordine. La misura più importante dell’accordo, applicata a tutte le grandi multinazionali, è quella che introduce un’aliquota globale minima sugli utili delle controllate nei paradisi fiscali: utili oggi tassati a un’aliquota effettiva inferiore al 15% (per esempio al 9% in Olanda) saranno tassati per la differenza tra l’aliquota effettiva nei paradisi fiscali e l’aliquota minima (15% o più alta) nel Paese dove risiede la capogruppo. Per la maggior parte di questi colossi, la capogruppo è negli Stati Uniti e in Cina. Per gli Usa, ad esempio, un’aliquota minima effettiva globale del 15% vale un gettito addizionale di 40 miliardi di euro l’anno, che salirebbero a 104 miliardi con un’aliquota del 21%. Per l’Italia, invece, a oggi non è chiaro se il gettito addizionale delle 100 multinazionali più grandi soggette alla nuova ripartizione globale di una piccola parte degli utili compenserà il gettito mancante derivante dall’abolizione della Web tax.

Non solo. Il governo italiano ha siglato ieri un accordo con gli Stati Uniti secondo cui – in cambio della rinuncia di Washington a imporre dazi sulle merci italiane – il gettito della Web tax che continuerà a essere pagata in Italia nel 2022 sarà utilizzabile come credito detraibile per le imposte che le multinazionali digitali dovranno pagare in Italia dal 2023, una volta cioè entrata in vigore la nuova norma sulla ripartizione degli utili globali. Insomma, dopo anni di indagini da parte della Guardia di finanza per assicurarsi che questi colossi che operano e fanno utili in Italia paghino le tasse qui e di pressioni dell’opinione pubblica per una tassazione più giusta, per le grandi multinazionali del web si prospetta invece uno o più anni di vacanze fiscali, fino all’esaurimento del credito accumulato con la Web tax.

Se le Over the top dal 2023 inizieranno finalmente a pagare molte più tasse grazie all’aliquota globale minima, i frutti di questa battaglia politica non arricchiranno l’Italia, che pur avendo avuto la presidenza del G20 quest’anno non è stata in grado di avanzare una proposta per una più equa ripartizione dei profitti globali, una richiesta fatta anche dai Paesi in via di sviluppo, che proprio come l’Italia continueranno a vedere le briciole dei mega utili dei colossi del digitale.

Mail box

 

Maroni da ministro negava la mafia a Milano

L’enclave dei Migliori si è ampliata. La ministra dell’Interno, con una mossa strategica, ha cooptato il signor Maroni, che da ministro dell’Interno non riconosceva l’esistenza nel Nord Italia di infiltrazioni mafiose, minacciando di querela un giornalista che ne aveva parlato. Gli è stato affidato l’incarico di vigilanza… Quando la partitocrazia fa rima con meritocrazia.

Alfredo Beltramini

 

Sembra che il progetto di Gelli stia proseguendo

Osserviamo che il partito degli astensionisti è quello che ha “non vinto” le elezioni, forse perché ha capito che votare non conta, nel senso che non cambia mai nulla, o molto poco. Se invece osserviamo che il governo attuale, quello dei Migliori, ci accorgiamo che non è stato deciso dagli elettori, ma imposto dalle necessità; e che questo stesso governo, in barba alla Costituzione, sta creando discriminazione e povertà. Dunque, se osserviamo pure che un pluripregiudicato potrebbe salire al Colle, mi sorge il dubbio che il progetto di Licio Gelli, cristallizzato nel breve discorso che segue, non si sia fermato: “La democrazia è un’illusione che viene concessa alle masse per poter esercitare liberamente il potere che conta, proprio in barba alla stessa democrazia. È questo il bello della democrazia. Non crede?”.

Angelo Caria

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo a firma di Antonio Massari “Agende ritoccate. La frase non arrivò ai pm del caso Eni”, Eni precisa che: 1) gli accertamenti svolti dagli inquirenti presso Eni e presso Claudio Granata hanno riguardato anche gli atri partecipanti alle riunioni segnate in agenda e ritenute di interesse delle indagini; 2) non si comprende quale rilevanza avrebbero sul procedimento Opl245 le falsità propalate da Amara sulla gestione dell’agenda di Granata; 3) il Patto della Rinascente è un falso storico, come risulta negli atti non solo attraverso le agende ma dai numerosi e approfonditi altri accertamenti svolti per oltre quattro mesi dagli inquirenti; 4) Granata non consegnò alcun misterioso cellulare (con schede attive, si deve ritenere) a chicchessìa; 5) Granata non diede alcun mandato ad Amara (o ad altri) di “registrare” Armanna, poiché Granata interloquì (per breve periodo) con Amara successivamente alla nota registrazione del 28 luglio 2014; 6) la genuinità storica e ideologica del video del 28 luglio è ora provata dal “secondo video” del 18 dicembre 2014, che certifica come Amara ed Armanna agissero per propri interessi economici personali a unitamente ad altri ex dirigenti infedeli di Eni; 7) la copie forensi del cellulare di Armanna sono state perfezionate ormai da luglio 2021, ma la Procura ne ha rifiutato la consegna della copia di spettanza di Granata. Granata ha impugnato e attende da circa un mese la decisione del Gip: ogni altra attività che riguarda Granata è affetta da insanabile nullità. Questo nel rispetto del segreto istruttorio che ancora (dopo quattro anni) incombe sul procedimento 12333/2017.

Antonio Massari, il suo Direttore e il suo Editore risponderanno nelle dovute sedi (dove peraltro sono già stati chiamati in causa da Eni) per le calunnie e falsità di cui continuano a rendersi portavoce.

Ufficio Stampa Eni

 

L’articolo spiega che gli accertamenti hanno riguardato “anche” – e non esclusivamente – l’agenda di Granata. È agevole per chiunque (tranne per Eni, evidentemente) rilevare che non abbiamo dato per certa la versione di Amara su agenda, telefono e video. È altrettanto agevole rilevare che non abbiamo mai scritto che le frasi di Amara su agenda e telefono abbiano una rilevanza in Opl-245. È parimenti elementare verificare che abbiamo scritto della perizia, tuttora in corso, sulle chat del telefono di Armanna, che è cosa ben diversa dalla copia forense del suo telefono, cui fa riferimento Eni. Il diritto prevede che un Gip si pronunci sulle richieste di Granata e non capiamo cosa c’entri questo con il nostro articolo. Se il patto della Rinascente è un falso oppure no lo stabilirà la Procura di Milano, quando depositerà l’avviso di conclusione delle indagini, che sono invece tuttora in corso, come peraltro afferma Eni nelle sue precisazioni. Infine, che piaccia o no, non siamo portavoce di nessuno, se non dei fatti e dei documenti accertati, verificati e riportati nei nostri articoli.

A. Mass.

Il ritorno di B. “Se va al Quirinale, io espatrio”. “Sono solo fandonie”

Quella che fino a poco tempo fa sembrava una boutade comica – B. presidente della Repubblica – sta prendendo contorni inquietanti. Io sono nato e ho sempre vissuto in Italia, non ho mai preso in considerazione l’ipotesi di poter andare a vivere in un altro Paese, ma se veramente B. diventerà il primo cittadino della Nazione, a costo di prendere un barcone, me ne scappo a gambe levate.

Mauro Chiostri

B. al Colle è un’assurdità. Eppure anche un’ipotesi così assurda, se ripetuta e ventilata con frequenza, può diventare orecchiabile. Tutto è perdonato. Vuoi l’età, Dudù o il rapporto con la Merkel, che passa così da “culona” a “statista di cui sentiremo la mancanza”. Può darsi che la scamperemo e B. venga allietato da altre cariche, ma solo il fatto che a qualcuno possa essere venuto in mente questo oltraggio alle Istituzioni mi indigna.

Massimo Marnetto

Ho sentito che B. verrà candidato alla presidenza della Repubblica: in un Paese normale sarebbe solo una barzelletta. Espatrio subito o aspetto?

Massimo Giorgi

Se veramente l’evasore fiscale B. dovesse diventare presidente della nostra Repubblica prenderò in seria considerazione l’emigrazione. Onesto: sì. Preso per il culo: no.

Giuseppe Messe

La possibilità che B. venga eletto presidente mi porterà a rinunciare alla cittadinanza italiana.

Riccardo Roversi

Svariate assoluzioni per depenalizzazione di reati compiuti, 9 prescrizioni per aver commesso reati, una condanna per evasione fiscale, decine di comportamenti inaccettabili, primo fra tutti aver pagato Cosa Nostra: questo è il profilo del candidato B. al Quirinale, un sociopatico “criminale naturale”. Notizia che in un Paese normale dovrebbe tenere banco e scatenare la rabbia di ogni cittadino.

Giovanni Contreras

A futura memoria, per l’ipotesi fantascientifica di ritrovarci B. al Quirinale, scommetterei che forse non è da ritenere per nulla peregrina. Si accettano scommesse.

Michele Scassa

E ora che l’hanno assolto, dovremo eleggere B. al Quirinale?

Cesare Finzi

Se l’incubo di un presidente della Repubblica “pregiudicato” si avverasse, saremmo di fronte a una tragicomica realtà. Suggerisco a tutti di recarsi in Comune e restituire la tessera elettorale.

Oreste Ferri

Potete per favore indire una petizione affinché B. non diventi presidente della Repubblica?

Elli

Prima era solo una proposta indecente, ma ora è ufficiale: il candidato alla presidenza della Repubblica del centrodestra è B. Io e la mia famiglia ci stiamo preparando a partire, senza meta.

Wakan Tanka

L’esempio virtuoso dell’anti-poliomielite

Domani, oltre a essere la giornata mondiale delle Nazioni Unite, è anche quella dedicata all’eradicazione della poliomielite. Nel 1988 la malattia paralizzava 10 bambini ogni 15 minuti, in quasi tutti i Paesi del mondo. A seguito della diffusione straordinaria del virus Polio, il 5 maggio 2014 il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha dichiarato essere in atto un’emergenza di sanità internazionale. È solo la seconda volta che avviene nella storia dell’Oms (la prima è stata con la pandemia influenzale 2009/10). Le motivazioni dell’allarme sono nella continua esportazione di casi di polio da Paesi ancora endemici a Paesi vicini: nel 2013 il 60% dei casi erano da importazione. La diffusione internazionale del virus è avvenuta da 3 dei 10 Paesi endemico-epidemici: in Asia centrale (dal Pakistan all’Afghanistan), in Medio Oriente (dalla Siria all’Iraq) e in Africa centrale (dal Camerun alla Guinea equatoriale). In questi tre Paesi, per limitare il rischio di diffusione internazionale del virus Polio, sono state identificate alcune regole: la dichiarazione interna di stato di emergenza, l’obbligo di una dose di vaccino vivo attenuato (OPV) o vaccino inattivato (IPV) a tutti i residenti che si rechino all’estero, l’obbligo di certificazione anti-polio per i viaggiatori all’estero, da applicare nei Paesi che abbiano esportato casi di poliomielite. Le altre nazioni che presentano una circolazione di virus Polio (Afghanistan, Guinea equatoriale, Etiopia, Iraq, Israele, Somalia e specialmente la Nigeria) devono sottostare alle stesse misure con un’attenuazione dell’obbligo, trasformato in “promozione” della vaccinazione additiva. Insomma, l’Oms riconosce il “diritto” dei Paesi Polio-free a non importare il virus e il “dovere” dei Paesi epidemico-endemici di far sì che i propri cittadini non siano in condizioni di poter diffondere il virus viaggiando. Dal 2014 è partita una campagna internazionale di vaccinazione che ha ridotto, a oggi, la circolazione del virus del 99%. Oggi sono disponibili due vaccini antipolio: il primo sviluppato da Jonas Salk, l’altro da Albert Sabin, che passò alla storia anche per aver ceduto i diritti in nome della scienza e dei bambini da salvare.

 

L’ansia di futuro del giovane Bonomi

Un vecchio adagioda caserma recita, eufemizzando, che non bisogna aspettarsi troppo dai generali perché li scelgono tra i colonnelli. Ecco da ieri ci è chiaro che lo stesso understatement andrebbe applicato ai presidenti di Confindustria che, con ogni probabilità, sono stati giovani imprenditori. Giusto ieri s’è infatti tenuta l’annuale riunione dei virgulti del capitalismo italiano, durante la quale abbiamo potuto ascoltare il discorso del loro presidente, Riccardo Di Stefano. Forse il lettore ricorderà che il capataz Carlo Bonomi a un certo punto se la prese col “Sussidistan” che tiene la gente sul divano; ebbene il giovane palermitano classe 1986 – dimostrando freschezza di linguaggio, inventiva e libertà di giudizio – ce l’ha col “Pensionistan” che “non è un Paese per giovani”. Il discorso, come capite già da qui, è di quelli indimenticabili: “Noi giovani vogliamo guardare avanti, vogliamo vivere in un Paese capace di incoraggiare il futuro”. Futuro è parola centrale in quello che un ottimista definirebbe il pensiero del nostro: “Per dare spazio al futuro, l’Italia deve lasciarsi alle spalle alcuni vizi capitali”, perché il “futuro può essere spazi da colmare per superare i divari oppure un baratro di debito pubblico”. Si chiederà il lettore: ma come, buon dio, come dare spazio al futuro? “Per dare spazio al futuro c’è una sola cosa da realizzare: riempiamo questi spazi e costruiamo una nuova Italia oltre le distanze”, tanto più che “il passato ci sta ospitando da troppo tempo, guardiamo avanti”, basta con “la sindrome dello specchietto retrovisore”, “il mondo sta mandando in pensione un’era”. Sì, certo, dottore, ma più precisamente? “Per non correre il rischio di perdere tempo e denaro, non abbiamo scelta e dobbiamo migliorare le performance della progettazione”: ora si apre una “lotta titanica tra lacci del passato e voglia di futuro”. Diciamolo, è dai pensierini del primo Matteo Renzi che non si sentiva roba così: felice come una giornata al centro commerciale, leggera come le bolle sulla battigia. Il futuro, lo sapeva James Baldwin, è come il paradiso: tutti ne parlano bene, ma nessuno ci vuole andare subito (e comunque se gli tagliate qualche punto di cuneo fiscale si fanno andare bene pure il presente).

Meloni & Salvini, l’errore fatale dei due gemelli dell’autogol

“Con l’età ci si accorge che tutti facciamo degli sbagli, e bisogna saper capire quando si tratta di errori commessi senza dolo”.

(da L’uomo del porto di Cristina Cassar Scalia Einaudi, 2021 – pag. 229)

Con oltre 43 milioni di vaccinati, pari all’80% della popolazione italiana adulta, sarebbe stato sorprendente se i partiti che sostengono i no-vax e i no-pass avessero vinto le ultime elezioni. In realtà, abbiamo assistito a un harakiri politico e mediatico da parte della coppia Meloni & Salvini, 44 anni l’una e 48 l’altro, i dioscuri di una “gioventù bruciata” che in preda a una furia autolesionista si sono impegnati in una folle gara per rincorrersi a vicenda. I “gemelli dell’autogol”, potremmo anche chiamarli.

Ma quello che più colpisce è l’incapacità, da parte di entrambi, di affrontare un esame di coscienza e di fare pubblicamente autocritica. Giorgia Meloni non ha trovato di meglio che scaricare le responsabilità della sconfitta sugli alleati di centrodestra, appellandosi alle divisioni interne sul governo Draghi, quando la più “divisiva” è stata proprio lei che s’è separata dalla Lega e da Forza Italia per lucrare sulla rendita dell’opposizione. E Matteo Salvini, vittima di un cupio dissolvi che l’ha indotto a tenere un piede dentro e uno fuori dalla maggioranza extralarge nell’ansia di essere scavalcato a destra, ha minimizzato la débâcle sentenziando che “i sindaci sono stati eletti da minoranze delle minoranze”: il che è vero, a causa dell’alto astensionismo, ma lo sarebbe stato anche se avessero vinto quelli di centrodestra.

Nessuno dei due ha avuto, o quantomeno manifestato, il dubbio di aver sbagliato la campagna elettorale, a parte la scelta infelice dei candidati. Sarà proprio vero che “il buon Dio acceca chi vuol perdere”. Di fronte a una pandemia come quella provocata dal Coronavirus, ai numeri dei contagiati, dei ricoverati in terapia intensiva e delle vittime, Meloni & Salvini non hanno ancora capito che nel frattempo il mondo è cambiato e così la vita di tutti noi. E hanno continuato, imperterriti, a fare una politica antagonista e distruttiva, nonostante la voglia di ripresa e di ripartenza che anima la gente comune, finendo per perdere il contatto con la realtà.

D’accordo: le amministrative non sono le politiche. Ma certamente valgono più dei sondaggi d’opinione. Il danno d’immagine e di credibilità che si sono procurati i “figliocci” di Silvio Berlusconi, ingaggiati ora per la corsa al Quirinale, minaccia di ripercuotersi sulle loro ambizioni e sul loro futuro politico. E su quello dei rispettivi partiti. Che cosa sarebbe accaduto durante l’epidemia se uno dei due fosse stato a capo del governo? Come si sarebbe comportata di conseguenza l’Europa? L’Italia avrebbe ricevuto la quota maggiore del Recovery Fund, quei 209 miliardi di euro che il governo Conte 2 aveva ottenuto e che il governo Draghi potrà spendere? E alle politiche, dunque, i cittadini potranno fidarsi più di loro?

All’origine della sconfitta elettorale di Meloni & Salvini c’è un errore fatale di presunzione e di arroganza. La presunzione di ritenersi immuni, non tanto dal Covid, quanto dai suoi effetti sociali e politici. E l’arroganza di andare contro la stragrande maggioranza degli italiani che, per spirito civico o istinto di sopravvivenza, sono rimasti a casa durante il lockdown, hanno utilizzato la mascherina e osservato il distanziamento, si sono vaccinati e poi muniti di Green pass.

La verità è che la politica, se non vuole morire soffocata dall’astensionismo, deve recuperare il senso di responsabilità e di concretezza in funzione dell’interesse generale. La demagogia paga fino a un certo punto. Ma, prima o poi, si ritorce contro chi soffia sul fuoco del disagio e del malcontento.

 

L’Italia è malata di cattiveria più che di Covid: un ergastolo

Il governo giustamente si occupa di arginare il virus attraverso i vaccini, ma chi si occupa della rabbia, del risentimento? L’Italia, come il mondo, si è ammalata di Covid, ma l’Italia si è ammalata di cattiveria forse assai più che il resto del mondo. Serpeggia un’intossicazione perenne nel nostro corpo sociale. E chi non ha rabbia pare sfinito, rassegnato.

Insomma, c’è uno sfondo depressivo da Nord a Sud di cui nessuno sa come occuparsi. Pare quasi che la politica neppure si avverta di questa condizione. Eppure qualche segnale ci sarebbe, a partire dall’astensione nelle urne. Niente da fare, ognuno va avanti coi riti sempre più stanchi delle proprie dichiarazioni vacuamente protese a salvaguardare un essere di destra e di sinistra che non si sa più bene cosa siano. E la confusione è tale che i libertari di un tempo sembrano confiscati da uno spirito conservatore e i conservatori con mala grazia assumono pose da libertari.

Non è un tempo facile da decifrare. Sicuramente ci sono troppe ferite senza guaritori, ci sono troppe domande senza risposte. La medicina non può diventare una religione. Il medico non è il parroco che ci deve dare l’assoluzione, il policlinico non è la nostra cattedrale e il virologo non può diventare il nostro teologo. Abbiamo bisogno di combattere il virus senza rimuovere l’idea che la vita per sua natura è essenzialmente pericolosa e sempre esposta alla sua fine. Una volta questa cosa si chiamava angoscia esistenziale, ora è un’espressione caduta in disuso. Ora nel gioco del consumare e produrre la faccenda della morte sembra fuori luogo, non si sa dove metterla, come se la questione fosse trovare un posto dove ingombra meno, e invece una società che non fa i conti con la morte è già sostanzialmente estinta, condannata al frivolo e al posticcio.

La politica in questo momento riesce a produrre solo soluzioni tecniche, non riesce a dire nulla al cuore degli uomini e delle donne e quando ci prova sono pensieri volgari, di poco conto, sempre tarati sull’ultima notizia. Abbiamo bisogno di un partito che ci aiuti a sostenere le nostre insonnie, le nostre tristezze. E invece siamo senza partiti e senza comunità. E in fondo anche senza amici. Gli amici servono a poco se il tono della vita sociale è quello della cattiveria. Ogni cosa che diciamo ci rende colpevoli agli occhi degli altri. La nostra semplice presenza è un poco fastidiosa perché ci muoviamo in uno spazio saturo di parole, perché abbiamo abolito il vuoto e il silenzio e dunque ora siamo gli ergastolani del chiasso, della connessione. E non c’è pace nei palazzi del potere e nelle case della gente. Dobbiamo fare qualcosa, ma forse la cosa più utile è non fare niente.

 

L’oligarchia draghiana sogna di abolire il voto

Li vedete i ballon d’essai? Volteggiano nell’aere per saggiare la direzione del vento. Dopo il palloncino del governo dei militari suggerito da Marcello Sorgi su La Stampa (fantasticheria forse troppo spinta, poi derubricata dal suo autore a provocazione), negli ultimi giorni il cielo si è riempito di mongolfierine inequivocabili. Sopra ci sono scritte cose come “maggioranza Ursula”, “stabilità”, “riforme”, etc.: sono stringhe di codice tra iniziati che significano solo una cosa: il sogno proibito del Sistema – la fine della democrazia e l’instaurarsi dell’oligarchia draghiana – non è più proibito.

Paolo Mieli è il capovaro del pallone più grosso: “E se decidessimo di non votare mai più?”, scrive nell’incipit del suo editoriale sul Corriere. In pratica centrosinistra e centrodestra, più le forze di centro “pronube”, si devono unire – una volta esclusi la Lega e i “grillini” (sic) – sotto la guida di Draghi, che deve “restare a Palazzo Chigi per il resto dei suoi giorni”. Certo, concede Mieli, “gli italiani voterebbero sì, tra un anno o due, per le politiche, ma l’effetto delle elezioni sarebbe, per così dire, fortemente mitigato”.

Ecco cosa ci vuole: una democrazia mitigata. Ci fanno votare per darci un trastullo, ma poi tanto governa Draghi fino alla fine dei suoi giorni (ma siamo sicuri che è mortale?). Lo stesso giorno il Corriere ospita l’intervista al padrone delle ferriere Bonomi, che con la consueta protervia asserisce: “Noi siamo sicuri che il governo sappia bene ciò che va fatto, ma i partiti lo assediano”. I partiti, questa istituzione in cui secondo una vetusta Costituzione i cittadini hanno diritto di associarsi per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, hanno rotto le palle, “non hanno ancora capito” cosa devono fare, cioè piegare la testa a Draghi – e a Bonomi che detta l’agenda, il cui primo punto prescrive di piantarla di “mettere soldi sulle pensioni”, troppo generose, pure per i lavori usuranti.

Ieri invece su Repubblica l’intervistato era il ministro Brunetta, uno dei Migliori: “Abbiamo bisogno di partiti all’altezza di Draghi”: non della democrazia, non del popolo che i partiti rappresentano, ma di Draghi. Si era mai vista nella storia della Repubblica una così smaccata sottomissione volontaria a un uomo solo al comando? Almeno ai tempi d’oro di Berlusconi il Pdl (e Brunetta) i voti li prendeva, pur col trucchetto del Porcellum.

Poi spara il suo pallone: un “semipresidenzialismo con Draghi al Quirinale”, perché ce lo chiedono “i vaccinati, le cassiere, i colletti blu, gli impiegati” (quelli che lui ha costretto a rientrare in ufficio per rimpinzare il Pil delle aree urbane dove si vendono i panini). Non si contano poi i fiati d’essai, gli ottoni, i tromboni: Calenda – che si comporta come se fosse stato incoronato dentro San Pietro la notte di Natale, ma è solo arrivato terzo alle Comunali di Roma – detta la linea alla Nazione: “Serve un fronte da Bersani a Giorgetti per Draghi a Palazzo Chigi anche dopo il 2023”.

Poi c’è Renzi, il Re del flatus vocis, che vuole Draghi fino al 2023; i sondaggi lo danno all’1 virgola qualcosa per cento, ma lui non se ne cura; propone un referendum contro il Reddito di cittadinanza – perché i poveri non li ha colpiti abbastanza quando era “premier” – e non riesce a raccogliere nemmeno 5 mila firme: cioè non l’hanno firmato nemmeno i padroncini che costituiscono il suo elettorato.

Il Pd, un po’ ringalluzzito dopo le Comunali, sillaba delle delicate critiche a Draghi; ma non si farà problemi a piegarsi docilmente al nuovo corso: sanno bene che gli elettori li votano perché l’alternativa sono i fascisti, i no-vax, gente come Michetti… Hanno tutti capito che la lotta politica non paga: chi glielo fa fare? Prima cercavano il consenso, adesso sanno che per governare – per regnare, per vivere di rendita con tutti i bonus – i voti non occorrono. È una fatica star lì a parlamentare, al Parlamento o nel consiglio dei Ministri (dove Draghi sa già cosa fare), col rischio di far incazzare Bonomi. L’establishment applaude. Il popolo tace e ringrazia. Già è andata a votare la metà degli elettori; si può arrivare a un terzo, a un quarto, al voto d’élite, o eliminare del tutto le elezioni, come suggerisce il maggior quotidiano nazionale. L’oligarchia non ha bisogno di energia esterna per perpetrarsi, è un sistema chiuso che si legittima da sé. Come dice Brunetta: avanti “fino al 2030, un decennio di stabilità e riforme”! Conflitti sociali spianati, nessuna “protesta aggressiva” che ostacoli la ripresa economica (Mattarella dixit), testa bassa e lavorare, ché a governare ci pensa Draghi, con Brunetta, Calenda, Giorgetti, Renzi, Berlusconi e le forze pronube. (Nota: i giornali che insegnano la via sono quelli che dicevano che i 5Stelle erano anti-sistema e hanno passato anni a denunciare la pericolosa deriva dell’anti-politica).

 

Bagatelle e massacro: tutto “Verissimo” nella tv delle porno-emozioni

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Canale 5, 16.30: Verissimo, talk show con Piersilvia Toffanin e i pianti di Anna Tatangelo, Lino Banfi, Gianluca Grignani, Federica Panicucci, Sonia Bruganelli, Jane Alexander, Giorgia Meloni, Wanda Nara eccetera eccetera. Qualche tempo fa, Vanessa Incontrada (che mi dispiace non conoscere, perché la trovo formidabile) recitò in tv un bel monologo contro i bulli che in rete umiliano le donne per il loro aspetto fisico. Il giorno dopo, i giornali in rete titolarono tutti su Vanessa Incontrada che si era commossa durante il monologo. E tutti – tutti! – pubblicarono il fotogramma in cui Vanessa aveva la faccia deformata da quello che sembrava un accenno di pianto. Solo che Vanessa, durante il monologo, non aveva pianto. Sì, nel finale si era commossa, per un attimo; ma è quell’attimo che interessava alla stampa in rete, perché è quello che calamita l’attenzione dei più. 3 minuti di monologo, 180 secondi. A 24 fotogrammi al secondo, fanno 4320 fotogrammi. Su 4320 fotogrammi, sono andati a prendere quello dove Vanessa cerca di trattenere le lacrime. Un sito giornalistico ci andò giù pari: “Vanessa Incontrada scoppia a piangere in diretta su Rai1”. Falso, ma è clickbaiting. Altra cialtronata: il “body shaming” diventò “baby shaming” in uno di quegli articoli, refuso che nessuno corresse perché tanto chi se ne frega, giusto? Ed era sulla home page della prima agenzia giornalistica italiana! Ma i bulli che umiliano le donne in rete sono forse peggiori di chi in tv e sui giornali specula sulla commozione come se lavorasse in un pomeridiano di Canale 5? L’anno scorso, un settimanale della sinistra pariolina pubblicò un articolo sull’emergenza Covid. In un boxino c’era una delle frasi liriche che lardellavano quella cronaca da un nosocomio lombardo: “Entrano i nuovi, con gli occhi che guardano il cielo. A lungo non potranno più vederlo, forse mai più”. Non è fuori luogo ricamare emotivamente su una tragedia a scopo giornalistico? La vita vera non è un film di Matarazzo. E in un reportage da un pronto soccorso non siete Gianni Mura al Tour de France. Date la notizia e stop, senza vellicare il clitoride della commozione, altrimenti non è più giornalismo, è pornografia delle emozioni. Certo, molti bravi giornalisti sono anche pornografi delle emozioni, vedi Maurizio, ma esserlo non ti rende una brava giornalista, vedi Maria. Purtroppo ci si guadagna la fiducia del pubblico più con la pornografia emotiva che con la deontologia giornalistica: il prodotto emotivo vende (ha un pubblico di donne semplici, ma non solo, stando ai sondaggi di settore) anche perché il giornalismo italiano è talmente mediocre, nella stragrande maggioranza, che non vale la pena seguirlo, è davvero tempo perso. Io leggo certi giornali e guardo certi programmi quando voglio incazzarmi un po’. Non vedo che squallide distese di pavonerie e coglionerie. Non c’è mai niente, nelle bagatelle di cui si occupano, che possa veramente appassionarmi. È risciacquatura di piatti, tanto che, quando certi quotidiani falliscono e certi programmi chiudono, non si produce nemmeno un vuoto: non c’era nulla. E i giornalisti italiani? Sono furieri zelantissimi, messi al posto giusto, docili, devoti, finemente gangster, quasi tutti. C’è chi dice: “Sono degli stronzi, sono delle teste di cazzo!”. No no no. Stronzi o teste di cazzo? Si chiamano sfumature.

Rai 1, 10.00: La Santa messa, serie. Fenomeni sovrannaturali, presenze demoniache, crocifissioni, cannibalismo, libagioni di sangue, resurrezioni dai morti: chi ama spaventarsi non resterà deluso.