Covid, la curva sale. Draghi: “Facciamo più tamponi ora”

Una lieve risalita dell’incidenza (da 29 a 34 casi per 100mila abitanti) e un altrettanto leggero (da 0.85 a 0.86) aumento dell’Rt ma la situazione della pandemia in Italia è “sotto controllo”. È il quadro epidemiologico tracciato dal presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro che invita tutti a mantenere “comportamenti prudenti”. Ne ha parlato anche il premier Mario Draghi: “I contagi da coronavirus in Italia sono in salita, anche se molto meno rispetto ad altri Paesi. Però sono maggiori di pochi giorni fa. Dobbiamo capire se sono maggiori perché il numero di tamponi è molto più elevato di prima, visto che siamo passati da 300mila a più di mezzo milione regolarmente. O se è il prodotto di una diffusione maggiore del SarsCov2. Il tasso di occupazione degli ospedali, sia in area medica sia in terapia intensiva, è in diminuzione e non vengono rilevati segnali di allerta. Passano invece da tre a quattro (Abruzzo, Campania, Friuli Venezia Giulia, Piemonte) le regioni catalogate a rischio moderato. Restano ancora 7,6 milioni di persone over 12 non vaccinate.

I monoclonali salvavita marciscono in frigo: 60 mila fiale in scadenza

I farmaci salvavita? Rischiano di scadere nei frigo. Le farmacie regionali di tutta Italia sono piene di confezioni di anticorpi monoclonali mai utilizzate che si avvicinano pericolosamente alla data di scadenza. Il rischio riguarda oltre 60 mila fiale, corrispondenti ad almeno 30 mila trattamenti: ai ritmi prescrittivi attuali non si riuscirà a somministrarle per tempo, realizzando così il più odioso tra gli sprechi, in sfregio a 130 mila morti e 73 mila infetti nella morsa del virus. Perché?

Perché quando ce li hanno offerti gratis li abbiamo pagati, e una volta arrivati li abbiamo dispensati col contagocce: in sette mesi sono stati curati poco più di 11 mila pazienti ad alto rischio, a fronte di 50 mila nuovi contagi. È una questione scottante, di cui sono informati il generale Figliuolo, le Regioni e Aifa che ogni 15 giorni fanno una riunione per dirottare sulle regioni virtuose le giacenze delle altre. Guai però a parlarne, un’impresa trovare numeri ufficiali. La Corte dei Conti ha da poco aperto un’indagine sull’inizio della storia, quando alla vigilia della seconda ondata 2020, Aifa e ministero della Salute fecero spallucce di fronte alla possibilità di curare subito (e gratis) 10 mila pazienti con l’anticorpo Bamlamivimab della Eli Lilly, grazie all’impegno del virologo Guido Silvestri. Salvo comprarle poi a marzo. I magistrati accerteranno se il rifiuto fu “una scelta pubblica adeguatamente ponderata”.

Meno ponderabile è la circostanza a un anno di distanza migliaia di fiale rischiano di finire tra i rifiuti. Quante di preciso non si sa. I monoclonali sono farmaci biologici, scadono a 12 mesi dal confezionamento. A marzo 2021 sono arrivate 4 mila dosi di Bamlamivimab di Eli Lilly e ne sono state utilizzate 823, anche perché a maggio è stato sospeso in monoterapia a favore dell’associazione con Etesevimab. I primi lotti scadono già il 31 dicembre, gli altri tra gennaio e febbraio.

Il composto Bamlanivimab/Etesevimab è stato utilizzato per 4.329 trattamenti, la giacenza è stimata in 19 mila fiale con scadenza maggio-giugno 2022. Nei frigo ci sono poi 44 mila confezioni di Casirivimab e Imdevimab (Roche) che, combinati, garantirebbero 22 mila trattamenti circa, a fronte dei 6 mila fatti finora. Il conto sfiora così le 60 mila fiale che scadono a metà dell’anno prossimo. Smaltirle tutte, con 400-500 prescrizioni a settimana, sembra impossibile. Il rischio era prevedibile almeno in parte. Da marzo Aifa pubblica report sulle prescrizioni che mostrano una progressione deludente, marcate differenze tra regioni che non dispensano le cure in base ai contagi che hanno, nonostante si sostanzino in un’unica flebo e un paio d’ore di cura in ospedale: difficile garantirle entro 72 ore dal tampone, i medici di base non collaborano, i criteri di somministrazione sono troppo restrittivi (Aifa li ha via via allargati).

Risultato: le fiale restano nei frigo, o finiscono all’estero. La Lombardia ha pagato il più alto tributo di vite al virus (34 mila morti) ma ha usato solo 741 dosi per evitarlo. Ragion per cui il 12 ottobre ha colto al volo l’occasione di “smaltire” quelle in giacenza caricandone 5.200 su un’aerocargo diretto a Bucarest. La Romania, straziata dai contagi, aveva chiesto all’Europa ossigeno, ventilatori e farmaci. A fornire monoclonali è stata però solo l’Italia, che non sa usarli. Erano almeno le prime a scadere? La risposta si rimpalla da giorni ai piani alti del Pirellone. Non lo sa Vincenzo Tamarindo, portavoce dell’ambasciata a Bucarest. “Non abbiamo i dettagli tecnici dei lotti consegnati”. Valore della donazione? Non meno di 6,5 milioni. “Non siamo ancora in zona rossa”, dice Barbara Rebesco, responsabile della logistica farmaceutica ligure. “Abbiamo un centinaio di dosi in scadenza a gennaio, altre a febbraio. Voglio pensare che non una andrà sprecata”.

Con una media di 25 dosi a settimana, però, il rischio c’è. I centri autorizzati del Piemonte conservano 3 mila dosi: nell’ultima settimana ne hanno somministrate nove. Il solo Amedeo di Savoia di Torino ha 1500 dosi mai usate. “Nel massimo picco – ha spiegato Giovanni Di Perri, responsabile Malattie infettive – con 60 mila ospedalizzazioni, abbiamo usato 350 dosi. Avremmo potuto evitare 15 mila ospedalizzazioni e chissà quanti morti”.

“I Dpcm Conte furono legittimi, nessuna violazione della Carta”

I Dpcm di Giuseppe Conte erano legittimi, almeno dopo il decreto legge 19 del 26 marzo 2020. Quelle norme infatti “non hanno conferito al presidente del Consiglio dei ministri una funzione legislativa in violazione degli artt. 76 e 77 Cost., né tantomeno poteri straordinari da stato di guerra in violazione dell’art. 78 Cost., ma hanno a esso attribuito unicamente il compito di dare esecuzione alla norma primaria mediante atti amministrativi sufficientemente tipizzati”. Lo scrive la Corte costituzionale nelle motivazioni, rese note ieri, della sentenza n° 198 del 23 settembre. Estensore, il giudice Stefano Petitti.

All’esame della Consulta, giudice della costituzionalità delle leggi e degli atti con forza di legge e quindi non dei Decreti del presidente del Consiglio dei ministri, c’erano gli articoli 1 e 2 del dl 19/2020 che autorizzavano appunto il governo a stabilire nel dettaglio restrizioni e sanzioni allo scopo di contenere la diffusione del contagio. L’Italia era in lockdown dal 9 marzo, in forza al decreto legge 6 del 23 febbraio adottato subito dopo i primi casi di “nuovo Coronavirus” rilevati nel nostro Paese.

“Prima o poi anche la Consulta boccerà le misure anti-Covid” era il titolo dell’intervista che La Verità fece il 4 gennaio a un’intervista a Sabino Cassese, docente di Diritto amministrativo, giudice emerito della Corte costituzionale, riferimento di decine di alti dirigenti dello Stato. A Conte rimproverava, tra l’altro, di “aver trasposto contenuti normativi nei noti dpcm, che sono atti amministrativi”. Ma il giudice delle leggi non la vede così. Secondo la Consulta, il decreto legge 19/2021 “non soltanto ha tipizzato le misure adottabili dal presidente del Consiglio dei ministri, in tal modo precludendo all’autorità di governo l’assunzione di provvedimenti extra ordinem, ma ha anche imposto un criterio tipico di esercizio della discrezionalità amministrativa, che è di per sé del tutto incompatibile con l’attribuzione di potestà legislativa ed è molto più coerente con la previsione di una potestà amministrativa, ancorché a efficacia generale”. Nessuna violazione dunque degli articoli 76 e 77 della Costituzione, che disciplinano decreti delegati (autorizzati cioè con legge delega) e decreti legge (adottati in caso di necessità e urgenza), né dell’articolo 78 sui poteri straordinari in caso di guerra.

La questione era stata sollevata dal giudice di pace di Frosinone dopo il ricorso di un signore multato (400 euro) il 20 aprile 2020 dai carabinieri di Trevi nel Lazio, perché era uscito di casa per motivi diversi da quelli di salute, lavoro o necessità, consentiti dal Dpcm in vigore. Nel frattempo, però, il decreto 19/2021 aveva sostituito il 6/2021 come base legale dei Dpcm che elencavano divieti e sanzioni. La Corte fa intendere che qualche dubbio potrebbe sussistere sul decreto 6/2021, ma lo ritiene irrilevante perché era comunque “inapplicabile ratione temporis” al caso di Trevi nel Lazio.

E Palazzo Spada se la prende con il Fatto

Eora Palazzo Spada, dove ha sede l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa, se la prende con la stampa. Anzi con il Fatto Quotidiano, reo di aver dato notizia che nell’elenco degli affiliati alla presunta “Loggia Ungheria” compilato da Piero Amara davanti ai pm milanesi vi sarebbero stati pure alcuni magistrati della loro schiatta. “Preso atto degli articoli pubblicati il 18 settembre 2021 e del riferimento in essi contenuto a magistrati amministrativi, auspica che il legittimo esercizio del diritto di cronaca venga sempre esercitato nel rispetto delle regole giuridiche consolidate in materia e tenendo conto del contesto e del rilievo dei soggetti coinvolti e del rischio del pregiudizio all’immagine complessiva e alla funzione della giurisdizione amministrativa”, è il messaggio ufficiale diramato ieri dal plenum dove in molti non hanno gradito la pubblicazione degli stralci dell’interrogatorio reso a dicembre 2019 dall’ex legale esterno dell’Eni già condannato per corruzione e ora indagato a Perugia per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Resi noti dai colleghi Antonio Massari e Gianni Barbacetto che, nell’articolo incriminato, avevano precisato che Amara “è l’unico indagato tra i nomi che leggerete e la sua versione (che ha già provocato da ieri l’annuncio di numerose denunce per calunnia) è tuttora al vaglio dei magistrati inquirenti”.

Ma che aveva detto Amara ai magistrati? Che “fanno ulteriormente parte di Ungheria e sono magistrati amministrativi De Nictolis, Di Francisco, un certo Simonetti…”. Magistrati che il 30 settembre si erano rivolti al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa per chiedere una pratica a tutela della loro onorabilità lamentando tra l’altro che “sarebbe stato preciso dovere” del nostro quotidiano che ha pubblicato i verbali di interrogatorio “effettuare un primo vaglio, pur minimo, in ordine al contenuto delle dichiarazioni rese” da Amara. Per poi auspicare che l’organo di autogoverno adottasse “opportune risoluzioni e, se del caso, la promozione di azione a tutela dell’immagine della giustizia amministrativa” . Iniziativa condivisa e sostenuta dai membri del plenum sebbene solo a maggioranza.

Sì, perché già quando la pratica era stata analizzata in commissione c’era stato chi aveva fatto notare che il regolamento interno prevede che le risoluzioni del consiglio di presidenza possono essere adottate “purché non interferiscano con lo svolgimento di procedimenti in corso”. Ma alla fine l’organo di autogoverno ha ufficializzato lo stesso la nota su come vada esercitato il diritto di cronaca quando riguarda soggetti di rilievo come sono i magistrati in questione.

Una decisione assunta dopo un confronto a porte chiuse durato circa un’ora e mezza tra l’imbarazzo di molti. Forse anche quello del presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, che ha deciso di non partecipare al dibattito: mesi fa era stato iscritto nel registro degli indagati a Roma con l’accusa di aver indotto Amara a non licenziare una sua amica assunta su pressione di Fabrizio Centofanti, il lobbista-amico di Luca Palamara. Patroni Griffi è stato archiviato: per sé non aveva chiesto alcuna pratica a tutela da parte dell’organo di autogoverno che presiede.

Loggia, ecco i verbali che non dovevano uscire dalla Procura

La fuoriuscita dei verbali secretati sulla Loggia Ungheria rivelata tre giorni fa dal Fatto presenta caratteristiche inquietanti. Il motivo principale – oltre al fatto che questi verbali erano e tuttora sono soltanto nella disponibilità di pm e investigatori – risiede nel fatto che sono spesso fotografati dal monitor di un pc e a volte sottolineati. Hanno le caratteristiche di una copia di lavoro. E quindi: perché queste copie di lavoro – dobbiamo ipotizzare dei pm o della polizia giudiziaria – sono finite in mani sbagliate? Analizzando le sottolineature possiamo valutare le tracce di lavoro di chi le ha segnate.

Usiamo un metodo cronologico. Verbale del 2 dicembre 2019: sottolineate tre pagine su 18 e sempre quando Amara parla del suo collega Giuseppe Calafiore. Verbale del 6 dicembre 2019. Per la prima volta Amara parla della loggia Ungheria. Prima sottolineatura a pagina 3 dove Amara menziona Luca Lotti e il pennarello segna – con ben tre linee parallele – il passaggio in cui sostiene: “avere il placet di Lotti a quell’epoca significava avere la maggioranza al Csm in quanto Lotti aveva rapporti sia con Ferri che con Palamara che con la componente laica del Pd”. Sottolineati anche i nomi della procuratrice aggiunta di Roma, Lucia Lotti, e di un ex capo degli ispettori ministeriali. Ampi segni lì dove Amara parla dei rapporti con Vietti e riferisce dell’incarico conferito dalla Acquamarcia Spa all’ex premier Giuseppe Conte e all’avvocato Guido Alpa (incarico effettivamente affidato ma sul quale le indagini hanno smentito Amara).

Segnata anche pagina 4: Amara riferisce che l’avvocato Paola Severino fa parte di Ungheria (lei ha smentito e la Procura di Perugia non ha trovato alcun riscontro). Evidenziato il passaggio in cui si parla dei tentativi di “vivisezionare” il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e Amara spiega che “l’interesse era soprattutto di Lotti (Luca, ndr) e Granata (attuale numero 2 di Eni, ndr) era contento di aiutarlo”. Dichiarazioni che, come tutte quelle menzionate in questo articolo, attendono il vaglio della Procura di Perugia e potrebbero essere false.

Ma il punto non sono le dichiarazioni di Amara. Sono le sottolineature e la verosimile traccia di lavoro di un pm o di un investigatore. Ne troviamo anche nel verbale del 14 dicembre 2019. Due sono molto particolari: viene cerchiata la data di nascita di Amara, correggendone il mese da ottobre ad aprile. All’interrogatorio, oltre ai legali di Amara sono presenti il pm Paolo Storari, la procuratrice aggiunta Laura Pedio e un compianto luogotenente della Guardia di Finanza, Daniele Spello, investigatore di grande spessore ma soprattutto fidatissimo. C’è un’altra sottolineatura bizzarra nella prima pagina, che evidenzia il canonico avviso che i pm rivolgono agli indagati: se parlerà di fatti che riguardano la responsabilità di altre persone potrà assumere la veste di testimone. E chi sottolinea evidenzia la seguente frase: “esclusivamente riguardo tali fatti”. Perché ha corretto la data di nascita di Amara e sottolineato quest’ultima annotazione? In questo verbale Amara inizia a sviluppare le sue dichiarazioni sulla presunta loggia Ungheria: troviamo i fogli sottolineati sui lati, per due volte, quando l’avvocato fa riferimento alla corrente “Magistratura Indipendente” e riferisce di Luca Lotti, Michele Vietti e della nomina del procuratore di Firenze. Sono gli unici punti evidenziati di questo interrogatorio che, almeno a giudicare dalla pagina, qualcuno ha fotografato dal monitor di un computer.

Che qualcuno questi fogli li abbia lavorati, insomma, non v’è dubbio. E che siano stati portati fuori dalla procura idem. Da chi? Perché? E quando? Il sospetto è che siano usciti prima del 17 febbraio 2020, data in cui l’ex manager Eni, Vincenzo Armanna, durante un interrogatorio, sventola il foglio di un verbale di Amara reso appena un mese prima, l’11 gennaio, anch’esso secretato.

Le mani della camorra su 5 ospedali

C’è un capitoletto dell’ordinanza che è titolato: “Il controllo della camorra sugli ospedali”. Una presenza criminale “pervasiva, asfissiante e, si può dire, totalizzante”, scrive il giudice che ha firmato 36 arresti in carcere, 10 ai domiciliari e 2 divieti di dimora in Campania. È il racconto di come l’Alleanza di Secondigliano si è arricchita sugli appalti di cinque ospedali. Un sistema di estorsioni e tangenti (soldi, auto, ingressi in discoteca), quello sgominato ieri dall’inchiesta della Dda di Napoli – procuratore capo Giovanni Melillo, pm Celestina Carrano ed Henry John Woodcock – e della Squadra Mobile, nata dalle dichiarazioni di un imprenditore già arrestato per corruzione intorno agli appalti del Cotugno. L’uomo ha rivelato di essere stato costretto a pagare una tangente in più tranche, di 20mila euro, ad Andrea Basile, considerato un reggente del clan Cimmino, zona Vomero. I cinque ospedali sono il Cardarelli, il Monaldi, il Cotugno, il Cto e l’azienda ospedaliera Federico II. Tra gli arrestati ci sono i capi dei clan che fanno capo all’Alleanza di Secondigliano: Basile, il boss Luigi Cimmino e il figlio Franco Diego Cimmino, gli imprenditori Marco Salvati, titolare di fatto della Croce San Pio, associazione per il trasporto degli infermi con ambulanze, Raffaele e Giuseppe Sacco, imprenditori della distribuzione del cibo negli ospedali. “Il settore degli appalti ospedalieri cittadini – si legge nell’ordinanza – ha sempre rappresentato per la criminalità organizzata fonte di consistenti introiti economici e costituisce il core business di tutti i gruppi criminali che si spartiscono i proventi delle estorsioni”.

Nelle carte si trova anche una maxi tangente da 400mila euro per un appalto da 47 milioni nell’ospedale Cardarelli. L’estorsione vedrebbe vittima l’associazione temporanea di imprese composta dalla Cosap e dalla Co.Ge.Pa. aggiudicataria dei lavori per la manutenzione straordinaria per l’adeguamento tecnologico di sei padiglioni del Cardarelli. L’episodio risale al settembre del 2017. Se ne parla in un’intercettazione tra alcuni indagati: Andrea Basile, Giovanni Caruson e Alessandro Desio (tutti in carcere). Desio, parlando con Caruson, si lamenta del fatto che i soldi se li era presi il boss Luigi Cimmino. Gli confida un incontro con il figlio del capoclan: “…ha detto che il padre si sta facendo la galera e gli ho detto che pure noi ci siamo fatti la galera per il Vomero e che il padre non si deve rubare niente… sono andato a fare pure io il reato e pretendo i soldi miei… (…) i soldi già se li sono presi , se li è presi Gigino (Luigi Cimmino, ndr) … circa 400mila euro… hai capito?”. Truccata anche la gara per i distributori automatici di cibo e bevande nel Policlinico: il bando, grazie a un ex sindacalista, sarebbe stato fatto pervenire su una pen drive a una impresa “amica”.

Manfredi si affida a Baretta. A De Luca due assessori

Per concretizzare il “Patto per Napoli”, la promessa Letta-Conte di iniettare al più presto 1 miliardo di euro nei conti disastrati del Comune, senza la quale non si sarebbe candidato, il neosindaco giallorosa Gaetano Manfredi ha chiamato affianco a sé come assessore al Bilancio Pier Paolo Baretta. Una scelta di peso: ex deputato Pd, ex sottosegretario al Mef quasi ininterrottamente dal 2013 in poi, ultima esperienza nel Conte-2, Baretta è chiamato a dare sostanza a quello che finora è solo un pezzo di carta speso in campagna elettorale. Nelle bozze della manovra in discussione nel governo Draghi non c’è traccia di questo impegno. Per il momento. Manfredi dice: “Siamo in contatto col governo e ricordo che la finanziaria si chiude a fine dicembre”.

Il nome di Baretta è uno dei più importanti della prima giunta Manfredi, varata nella serata di giovedì e presentata ieri a palazzo San Giacomo. Cinque uomini, quattro donne, il sindaco ha trattenuto per sé deleghe di peso: Pnrr, finanziamenti europei e coesione territoriale; grandi progetti, personale, organizzazione; decentramento; digitalizzazione e innovazione. Le cronache locali riferiscono di una giunta nata da un parto tribolato, di uno scontro tra Manfredi e il governatore Pd, Vincenzo De Luca, che avrebbe voluto più spazio per i suoi uomini. Si dovrà accontentare di aver indicato l’ex questore Antonio De Iesu, al quale vanno legalità e polizia municipale, e la sua ex assessora Chiara Marciani, che a Palazzo Santa Lucia si occupava di formazione e a Palazzo San Giacomo tratterà politiche giovanili e lavoro.

Come sua vice Manfredi ha designato la dirigente scolastica Maria Filippone, 67 anni, con delega all’istruzione. E ha sciolto il nodo politico della rinuncia del segretario napoletano Pd, Marco Sarracino, nominando in esecutivo il presidente del partito, l’ex procuratore antimafia Paolo Mancuso, al quale viene assegnata la delega ai rifiuti, che a Napoli è sempre una rogna. Sarracino avrebbe rappresentato un argine alle mire espansionistiche di De Luca e dei deluchiani, Mancuso – che come Sarracino appartiene all’area Orlando – dal canto suo promette di non essere da meno. Sempre in quota Pd, area Franceschini, entra Teresa Armato, già assessora regionale ai tempi di Bassolino. Con Franceschini ministro del Turismo, Manfredi ha pensato di affidare ad Armato la delega al turismo. La continuità della filiera.

I due nomi indicati dal M5S sono Luca Trapanese, alle politiche sociali, fondatore di associazioni impegnate nel sociale, ed Emanuela Ferrante allo sport e alle pari opportunità, avvocato, funzionario dell’Agenzia delle Entrate. Nella mappa pentastellata si collocano entrambi vicini al presidente della Camera, Roberto Fico.

Merita di essere segnalata la presenza di due assessori dagli inequivocabili trascorsi di centrodestra. Uno, in “quota sindaco”, è il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Napoli, Edoardo Cosenza, chiamato da Manfredi a occuparsi di infrastrutture, mentre con il governatore azzurro, Stefano Caldoro, curava i lavori pubblici. L’altro, espressione di Azzurri per Napoli, che sin dal nome fa capire che si tratta di forzisti in disaccordo con il centrodestra ufficiale, è Vincenzo Santagada, candidato con Forza Italia alle Politiche, al quale vanno salute e verde. Santagata è colui che ad aprile denunciò l’inopportunità dell’ingresso di Maurizio Manna nel Comitato centrale di Fofi (Federazione ordini dei farmacisti italiani), ottenuto grazie alla vicinanza con il presidente di Fofi dal 2009, il deputato forzista Andrea Mandelli. Manna, ricordò Santagata, era l’uomo che durante una conference call disse: “Dobbiamo ringraziare Santo Covid che ci sta dando un’opportunità incredibile”.

La “culona”, il golpe e le risatine con Sarkò

Oggi compie dieci anni questa immagine iconica: un’istantanea del tramonto del berlusconismo in Italia. Era il 23 ottobre 2011, piena crisi dello spread, il governo di centrodestra guidato da B. traballa. In conferenza stampa, a precisa domanda – “Siete stati rassicurati da Berlusconi?” – Angela Merkel e Nicolas Sarkozy rispondono con una risatina ironica. Poche settimane dopo, il Cavaliere lascerà la presidenza del Consiglio a Mario Monti. Per anni l’ex premier ha accreditato l’ipotesi del “golpe”: una congiura dei mercati e delle cancellerie europee per farlo cadere.
È stata anche la tesi al centro del libro di un altro ministro che poi si è riscoperto euro entusiasta: Renato Brunetta.

Come si cambia. Dieci anni più tardi Angela Merkel non è più la famigerata “culona” della “belle epoque” di B. o la responsabile del colpo di Stato da cui sono iniziate le sue disgrazie. Berlusconi ormai è posseduto dalla sua maschera di moderato saggio, padre nobile del centrodestra, improbabile candidato al Quirinale. Merkel, come sussurra Berlusconi nel retroscena di ieri del Corriere della Sera, è un’amica degli italiani. E giovedì il Cavaliere ci ha tenuto a omaggiare la cancelliera uscente tedesca: “Ho avuto modo di collaborare con Merkel, sempre notando in lei un atteggiamento molto amico nei confronti del nostro Paese”. Altro che golpe.

Colle: B. fa la conta. Ma in Forza Italia c’è la curva Draghi

Sulla scrivania di Arcore c’è un taccuino che viene aggiornato quasi ogni giorno. Ci sono nomi, numeri, gruppi parlamentari, collegio di elezione. È il pallottoliere di Silvio Berlusconi per il Quirinale. Un sogno, forse impossibile, ma a cui il leader di Forza Italia crede più di ogni altra cosa vista la ritrovata centralità: ieri ha sentito addirittura il premier Draghi per parlare degli esiti del Consiglio Europeo. “È ossessionato – dice chi ci parla – ogni questione politica viene letta con la chiave del Colle”. I conti, ad Arcore, sono presto fatti e Berlusconi si fa aiutare dai suoi che conoscono bene le dinamiche parlamentari: l’ex premier è convinto di avere 452 voti. Alla Camera i deputati del centrodestra che lo sosterrebbero (tra Lega, FI, FdI, Cambiamo!, Noi con l’Italia) sulla carta sono 276, al Senato 140. A questi vanno aggiunti i 36 voti dei delegati regionali sui 58 totali. Il totale fa 452, 53 voti in meno dei 505 necessari per essere eletti alla quarta votazione.

Tutti voti ipotetici perché nel segreto dell’urna, si sa, i franchi tiratori sono i protagonisti. Epperò quei 50 voti di distanza dal Quirinale fanno sperare Berlusconi. Che per questo ha iniziato a corteggiare i renziani: per avere qualche possibilità di farcela l’ex premier ha bisogno del sostegno dei 43 parlamentari di Italia Viva. A quel punto gli mancherebbero solo una decina di grandi elettori, ma quelli, ad Arcore, non sono visti come un ostacolo: la promessa di una ricandidatura nelle file di FI potrebbe convincere qualche ex grillino a votarlo. Che Renzi ci stia, al momento è un’ipotesi lontana visto che il suo candidato resta Pier Ferdinando Casini ma tanto vale provarci. E così sono partiti gli abboccamenti: Renzi e l’ex Cavaliere dovevano incontrarsi in gran segreto a Roma, ma quando la notizia è uscita il faccia a faccia è stato annullato. Un indizio sono anche i rapporti frequenti tra Renzi e Gianni Letta e Niccolò Ghedini e in FI si racconta che da Arcore siano iniziate le telefonate ai parlamentari renziani ed ex 5S per tastare le loro disponibilità.

Intanto però Berlusconi deve sedare la rivolta nel suo partito. Situazione che lo irrita molto: “Ma com’è possibile che mentre io faccio fare pace a Salvini e Meloni e incontro la Merkel, questi litigano sul capogruppo?” si è sfogato coi suoi. Ieri è stata una nuova giornata di attacchi rivolti ad Arcore dai tre ministri. Molto scalpore ha destato l’intervista di Renato Brunetta a Repubblica in cui ha proposto una coalizione per Draghi “tra popolari, liberali e socialisti” che si distacchi dai sovranisti di Lega e FdI. Poi il ministro, che punta a Palazzo Chigi come membro più anziano, spezza i sogni del proprio leader e propone di mandare Draghi al Colle facendo diventare l’Italia “un semipresidenzialismo”. L’ipotesi del grande centro proposto da Brunetta nel 2023 titilla molti. “In una parte di FI sta maturando la consapevolezza che con i sovranisti non si governa”, esulta Carlo Calenda. Anche il dem Andrea Marcucci fa la ola: “Lo scenario evocato dal ministro Brunetta è molto interessante. Così si può superare definitivamente populismo e sovranismo”. Il capogruppo di Iv Ettore Rosato alQN ha aperto le porte ai forzisti e poi ribadisce: “Brunetta dice cose sagge. E mi aspetto che diventino le politiche di Berlusconi”. Le parole di Brunetta non sono piaciute all’ala filo-sovranista di FI né a Salvini che da Palermo spiega di voler “chiamarlo” per chiedere spiegazioni, ma adesso “bisogna unire e non dividere”. Resta la freddezza con Giorgia Meloni che non ha risposto, irritata, all’audio di Salvini con i parlamentari in cui chiede alla leader di FdI di “non rompere i c…”. Nel frattempo Gelmini ribadisce le accuse al cerchio magico: “Il populismo non tira più”. Con i tre ministri ci sono una cinquantina di parlamentari che si organizzano come una corrente. Una truppa che potrebbe avere il suo peso anche sull’elezione del Quirinale tradendo il capo. Potrebbero diventare i “101 di Berlusconi”.

Dalle escort alla mafia: gli altri guai del Caimano

L’assoluzione di Silvio Berlusconi a Siena al processo Ruby ter, “propaggine toscana” del principale a Milano, per corruzione in atti giudiziari di testimoni che hanno trasformato i Bunga Bunga di Arcore in “cene eleganti”, non chiude il cerchio giudiziario dell’ex premier che sogna il Quirinale.

Il Ruby ter si celebra oltre che a Milano, anche a Roma, costola del troncone principale milanese sulla presunta corruzione delle Olgettine e di altri testimoni e a Siena, appunto, dove è stato sdoppiato: processo per corruzione in atti giudiziari, assolti sia B. sia il coimputato, il pianista Danilo Mariani; processo per falsa testimonianza, imputato Mariani, condannato il 13 maggio scorso a 2 anni, per le dichiarazioni rese ai giudici milanesi del processo Ruby. Com’è possibile una condanna per falsa testimonianza a favore di Berlusconi e 5 mesi dopo un’assoluzione dall’accusa di aver preso soldi dall’ex premier per mentire ai giudici? Ovviamente si potrà sapere quando leggeremo le motivazioni dell’assoluzione del collegio presieduto da Simone Spina, ma si possono fare due ipotesi: o i giudici hanno ritenuto che ci sia stata falsa testimonianza, ma che non ci siano le prove che Mariani abbia mentito in cambio di soldi, perché ne ha ricevuti tanti anche negli anni precedenti; o che non ci sia stata proprio la falsa testimonianza e sarebbe, in questo caso, una smentita assoluta dell’altro collegio, presieduto da Ottavio Mosti, che ha da poco depositato le motivazioni della condanna del pianista.

Il giudice estensore, Chiara Minerva, ha ricordato che Mariani, nel 2012, sotto giuramento, escluse feste a carattere sessuale, contatti fisici “diversi da una stretta di mano, in quanto l’ex presidente del Consiglio rimaneva sempre seduto a parlare”. Risultano, invece, accertate nei procedimenti definiti dalle sentenze del Tribunale di Milano che nelle serate di Arcore, cui Mariani partecipò “ci fossero stati approcci e comportamenti individuali di sicura valenza sessuale”. Sul filo di questa ricostruzione scrive che è “possibile affermare l’oggettiva falsità delle dichiarazioni” quando Mariani testimoniò. Quanto ha incassato nei giorni delle udienze del processo in cui testimoniò? 14mila euro in due volte: un bonifico da 7mila euro “il 12.12.2012” e un secondo “l’11.01.2013”; il “23 ottobre 2013” ebbe da Berlusconi “un prestito infruttifero di 25.000 euro”. Inoltre, come scritto all’epoca dal Fatto, nel gennaio 2012 Berlusconi gli aveva comprato la sua casa, modesta, a Sarteano, vicino a Siena. C’è pure un video in cui Mariani spiega che Berlusconi ha pagato un prezzo giusto (non dice quanto), che gli ha fatto senza dubbio un favore, ma non ha comprato così il suo silenzio sulle notti di Arcore. L’ex premier ha dato al pianista molti soldi anche prima del processo: tra il 2006 e il 2011 oltre 474mila euro e prestiti infruttiferi tra il 2008 e il 2011 per 500mila euro. Ma per i giudici senesi non c’è corruzione, quindi assoluzione. Per Berlusconi, però, i processi non sono finiti.

Ruby ter MilanoA B. vengono contestati 10 milioni di euro complessivi per corruzione di testimoni, 28, tra cui la maggior parte ex Olgettine, ma c’è anche la senatrice Mariarosaria Rossi, fino a un paio di anni fa, instancabilmente al fianco di B., e il giornalista Carlo Rossella. Fuori dall’aula del Tribunale, il 6 ottobre scorso, Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli, ex Olgettine, ai giornalisti avevano detto: “Cene eleganti? Ci viene da ridere, non scherziamo”. Il processo milanese è rimasto fermo per oltre un anno per impedimenti di salute di Berlusconi, ma il 16 settembre, quando il collegio, all’ennesima richiesta di rinvio, sempre per asseriti motivi di salute, ha chiesto una perizia psichiatrica, c’è stata la ribellione di Berlusconi, che ha scritto una lettera ai giudici: quella richiesta è “lesiva della mia storia e della mia onorabilità. È fuori da ogni logica”. Per dimostrare che è lucido e può fare ancora il leader politico, anche se ultraottantenne, puntualizza che “nell’ambito delle consulenze depositate” dagli avvocati “vi è stato anche un contributo sotto tale profilo (psichiatrico, ndr), ma esclusivamente per dimostrare la correlazione che lega lo stress alla patologia cardiaca di cui sono portatore”. E quindi, prosegue, “non posso accettare” la perizia, “si proceda in mia assenza alla celebrazione di un processo che neppure sarebbe dovuto iniziare”. La procuratrice aggiunta, Tiziana Siciliano, in udienza aveva detto che Berlusconi poteva presenziare: “Questa estate lo abbiamo visto scorrazzare in Sardegna sul kart, le sue patologie sono compatibili con la vecchiaia”.

Ruby Ter RomaA fine maggio i giudici hanno stralciato la posizione di Berlusconi, per motivi di salute, da quella del coimputato, il suo cantante storico, Mariano Apicella. Secondo l’accusa, B. avrebbe dato ad Apicella 157mila euro in cambio della falsa testimonianza al processo Ruby, finito con l’assoluzione di Berlusconi sia per concussione sia per prostituzione minorile di Ruby, oggi anche lei tra gli imputati a Milano.

Bari-escortÈ imputato di induzione a mentire. Secondo l’accusa B. avrebbe indotto l’imprenditore Gianpi Tarantini a dire il falso ai pm durante le indagini sul giro di escort finite nelle ville dell’ex premier tra il 2008 e il 2009, in cambio di soldi. Il 18 ottobre, intanto, è diventata definitiva la condanna di Tarantini a 2 anni e 10 mesi per reclutamento e favoreggiamento della prostituzione.

Firenze-Stragi Qui ci sono le gravi dichiarazioni del capomafia stragista, Giuseppe Graviano, durante il processo di Reggio Calabria alla “’Ndrangheta stragista”. Graviano ha accusato Berlusconi di aver fatto affari con suo nonno, che gli avrebbe consegnato 20 miliardi di lire per investirli nel campo immobiliare. L’indagine riguarda le stragi mafiose, e non solo, del 1993 a Roma, Firenze e Milano.