“Noi inesperti: lo sanno tutti”. Ma gestiranno i fondi Pnrr

Eadesso chi glielo dice a Renato Brunetta? Il ministro ci ha messo la faccia: ha giurato che il Concorsone per reclutare esperti da affiancare alle amministrazioni del Sud perché gestiscano meglio le risorse dell’Europa destinate al Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) ha avuto sì qualche problemino, ma niente di che. Per lui è andato tutto a meraviglia e se i numeri sono stati risicati rispetto alle attese (sono arrivati a vincerlo in 821 e ora serve un nuovo concorso per reclutarne altri 2022), vuol dire che l’esame “è stato serio e rigoroso”. Perché Brunetta, che fa parte del governo dei Migliori, ha voluto scegliere i migliori esperti su piazza.

Eccoli, allora alcuni degli espertissimi del ministro della P.A. tra cui però regna il timor panico: vogliono sapere quali amministrazioni li assumeranno, ma soprattutto chi si farà carico di formarli. Ché “considerato come ha funzionato questo concorso, per la maggior parte siamo inesperti e lo sanno pure i sassi”, si sfoga in chat una candidata che ha vinto la selezioni e si è rivolta al Comune di Foggia per sapere quando dovrà prendere servizio: “Sapendo che non ho la minima esperienza (quelli del comune, ndr) si sono messi le mani nei capelli”. Un caso isolato? Magari. Le risponde un altro che come lei ha agguantato il contratto come tecnico specializzato in politiche della coesione: “Tranquilla, sei in ottima compagnia: io vengo dal Dams e ho una specializzazione in cinema. Al più ci metteranno a fare le fotocopie”. Un’altra mette le mani avanti chiarendo con i “colleghi” cosa ha già anticipato ai funzionari del Comune di Cagliari dove prenderà servizio: “Io sono stata chiara al telefono: ho già detto che non ho esperienza in materia di rendicontazione e quindi ho bisogno di un minimo di formazione”. E ancora. Un’altra vincitrice del Concorsone si sfoga. “Mi hanno chiamato dal Comune di Trapani per dirmi di rendermi disponibile per un colloquio. Mi hanno chiesto cosa sapessi di rendicontazione visto che la mia laurea in lingue non c’entra molto”. E c’è pure chi pensa di non presentarsi perché i comuni ora vogliono quantomeno vedere titoli e competenze. Come spiega un altro che ha preso contatti con l’amministrazione di Calimera (Lecce): “Vogliono sapere anche le mie esperienze lavorative e di formazione: panico, help”. Un altro confessa: “Con la mia laurea triennale non penso di avere un profilo appetibile o un’alta specializzazione”. Ma c’è chi cerca di rassicurarlo, come Elena: “L’esperienza la faremo sul campo”. Tutti si sfogano perché a un contratto di 3 anni non si può mica rinunciare: “Che voi sappiate ci sarà un po’ di formazione? Me lo chiedevo perché in teoria ci assumono come esperti, cosa che non sento di essere. A proposito io sono psicologa”.

Ma come è stato possibile tutto questo? In realtà all’inizio il Concorsone era davvero roba per esperti dove pesavano titoli di studio, specializzazioni e soprattutto competenze specifiche nel settore delle politiche di coesione da certificare puntualmente sulla piattaforma Step One gestita da Formez. Infatti dei 70mila che si erano affrettati a compilare la domanda, solo 8528 erano passati alla seconda fase, quella dei test scritti, che però sono stati il solito macello: domande sbagliate, refusi, tablet non funzionanti o che hanno fatto cilecca al momento dell’inserimento delle risposte ai test.

Risultato: solo poche decine sono arrivati a totalizzare il punteggio richiesto, ma poi c’è stato il colpo a sorpresa. Il ministero ha riammesso quelli che alla prima scrematura erano risultati sprovvisti dei titoli o delle competenze a cui è stato poi riservato un altro test di prova. Con il risultato che la gran parte degli 821 che alla fine hanno vinto il concorso sono proprio quelli riammessi con l’aiutino. E quelli con più competenze? Esclusi e lasciati a casa. Inutile finora ogni tentativo di recuperarli.

Ha provato a chiederlo il deputato di Alternativa c’è Andrea Vallascas in un’interrogazione in cui ha denunciato “la disparità di trattamento per quanto concerne i titoli richiesti e aggravata dal diverso grado di difficoltà delle prove”. Da Brunetta nessuna risposta. Avanti così.

FdI scarica Michetti. E a Milano niente “firma” antifascista

“Non sono fascista e non ho mai accettato finanziamenti irregolari o illeciti per la mia campagna elettorale”. Chiara Valcepina parla per la prima volta. O meglio, avrebbe dovuto parlare in Consiglio comunale a Milano, dove è stata eletta con Fratelli d’Italia, nonostante un’inchiesta di Fanpage testimoniasse la sua vicinanza ad ambienti di estrema destra e ipotizzasse la disponibilità a incassare soldi in nero. Alla fine il testo dell’intervento di Valcepina arriva comunque in Consiglio con una lettera consegnata al sindaco: “Ha perfettamente ragione Giorgia Meloni – scrive la consigliera, oggetto pure di una contestazione anti-fascista fuori dal Consiglio – quando dice che nel dna di FdI non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non sono una pericolosa estremista, ma una cittadina, una professionista, una moglie, una mamma”. Valcepina definisce “gogna” quella da lei subita e si dice per una “destra moderna e democratica”, escludendo di aver ricevuto fondi in nero: “La rettitudine è per me uno stile. Voglio dire con fermezza che non ho mai accettato finanziamenti irregolari”.

E così Valcepina si siede al suo posto, con Beppe Sala che rinuncia – almeno per ora – a far firmare a tutti i consiglieri un documento sull’antifascismo. Una dichiarazione già bocciata da Vittorio Feltri, eletto con FdI, che all’ingresso ribadisce il suo no: “Non firmerò niente del genere, non devo dimostrare nulla”. Feltri si siede affianco a Luca Bernardo, il candidato sindaco di centrodestra sconfitto, che qualcuno vorrebbe spingere alle dimissioni: “Resto cinque anni – assicura – l’ho promesso agli elettori”.

Una questione che lo accomuna a Enrico Michetti, lo sconfitto della destra a Roma già scaricato da tutti. Nel giorno del passaggio di consegne tra Virginia Raggi e il nuovo sindaco di Roma, Roberto Gualtieri (seppur senza fascia tricolore), nel centrodestra romano continua infatti la saga tragicomica del tribuno radiofonico. Michetti da giorni si è chiuso in un eloquente silenzio (“l’esito del voto è laconico”, l’unico commento di lunedì) ma presto dovrà insediarsi in assemblea capitolina. Peccato che Fratelli d’Italia, il partito che lo ha candidato, vorrebbe definitivamente archiviare la pagina dell’avvocato gaffeur. Nelle ultime ore, infatti, il partito di Giorgia Meloni sta facendo pressione su Michetti perché si dimetta da consigliere comunale lasciando il posto a un esponente di FdI. Infatti, con la pesante sconfitta al ballottaggio, invece dei 17 consiglieri previsti, i meloniani si troveranno con soli 6 eletti in assemblea capitolina in ordine di preferenze: Rachele Mussolini, Giovanni Quarzo, Francesco Barbato, Andrea De Priamo, Lavinia Mennuni e Michetti.

L’ex candidato sindaco toglierebbe il posto a Federico Rocca, fedelissimo di Meloni, che risulterebbe non eletto nonostante le quasi 5 mila preferenze. Uno smacco che sta portando i vertici romani del partito a chiedere a Michetti un passo indietro. Lui, per il momento, non commenta. La soluzione più probabile è che resterà per qualche mese in Consiglio per fare passare la bufera e l’attenzione mediatica che susciterebbe una sua sostituzione immediata, per poi fare posto a Rocca.

Conte presenta la sua squadra “Mai con Calenda e i renziani”

La scena che racconta un clima è quella dei parlamentari, parecchi, che subito dopo la presentazione dei cinque vicepresidenti vanno fuori a fumare e a masticare risentimento. Le parole sono quelle di chi gli rinfaccia di “essere arrivato solo terzo a Napoli” (Vincenzo Spadafora) e lo accusa di “avere inseguito il Pd” (Giulia Sarti). Per Giuseppe Conte è un giovedì malmostoso quello dell’assemblea congiunta alla Camera con i parlamentari dei 5Stelle. Davanti agli eletti l’ex premier ammette la sconfitta, ma dice di non volere “la caccia ai singoli”, chiede unità ma semina avvertimenti a chi “rilascia interviste incendiarie e diffonde informazioni distorte ai giornali”. Mentre al Pd ricorda che Carlo Calenda e Matteo Renzi non possono essere alleati.

Prova a uscire così dallo stallo post elettorale, con una rotta e soprattutto annunciando i suoi cinque vicepresidenti: Paola Taverna, che sarà la vicaria, la viceministra al Mise Alessandra Todde, il vicepresidente dei deputati Riccardo Ricciardi, il senatore Mario Turco, il deputato Michele Gubitosa. L’ex reggente Vito Crimi, invece, sarà il responsabile dei dati personali. Ma dopo la presentazione dei nomi nella sala si contano molti vuoti. Reagiscono così alla segreteria di contiani doc, tra cui un fedelissimo come l’ex sottosegretario Turco. Nessuno dei dimaiani, a occhio rimasti a distanza di sicurezza, e qualche assenza che fa rumore, Lucia Azzolina e Chiara Appendino. L’ex sindaca di Torino fa sapere di aver declinato l’offerta perché sta per avere il secondo figlio. E dal M5S raccontano che Conte le avesse chiesto di trasferirsi stabilmente a Roma, per lei cosa impossibile. Ma già dalla mattina, con i nomi dei vice ormai noti anche ai parlamentari, tracimano polemiche. “Non ci sono eletti del Nord” notano. E in diversi ruminano di “segreteria fragile”. Un’aria da tutti contro tutti, che avvolge l’assemblea. In scena senza Luigi Di Maio, in missione in Libia. C’è invece Davide Crippa, capogruppo a Montecitorio in scadenza a gennaio, che l’ex premier avrebbe voluto sostituire a breve con Alfonso Bonafede. Mercoledì Conte aveva chiesto pubblicamente un passo indietro a tutto il Direttivo, per non far coincidere il rinnovo delle cariche con le votazioni per il nuovo presidente della Repubblica. Ma poche ore dopo, proprio il Direttivo gli aveva detto no, concedendogli solo di anticipare a dicembre l’elezione dei nuovi vertici. Impossibile spostare ora Crippa, sostenuto anche da Beppe Grillo. E in assemblea Conte fa inevitabilmente buon viso al prevedibile gioco altrui: “Avevo chiesto che la scadenza potesse essere anticipata e il direttivo della Camera ci è venuto incontro, dobbiamo ringraziarli”.

Ma l’ex premier vuole parlare soprattutto della sconfitta nelle Comunali. “Ci ho messo la faccia, ma abbiamo preso percentuali come il 2, il 3, il 3,5 per cento. E a Roma e Torino, siamo stati spettatori”. E allora “dobbiamo decidere cosa essere e cosa non essere, tornare sui territori”. Basta con “le illusioni da social”. Conte, che difende anche Gianroberto Casaleggio dalle accuse di fondi dal Venezuela – “accuse infamanti, il figlio Davide ha fatto bene a querelare” – è convinto che molti voti perduti nell’astensionismo si possano recuperare: “È il dato da cui ripartire, molti vogliono capire il futuro del M5S”. Ma ora ai suoi chiede innanzitutto disciplina: “Abbiamo preso risultati che dovrebbero indurci al silenzio e invece vedo manifestazioni di insofferenza”.

Tenta di ringalluzzire il gruppo seminando paletti politici: “Al leader di Azione (Calenda, ndr) diciamo che nessuno di noi ha mai detto di volerlo come alleato”. Quanto a Renzi, “si vergogna a presentarsi con il suo simbolo, il suo partito sta all’1 per cento”.

Molti lo accusano di essere troppo schiacciato sui dem, e lui precisa che il rapporto con il Pd continua, certo, ma a parità di peso e ruolo, in sostanza senza essere inferiori. E il governo Draghi? “Stando fuori non avremmo difeso il Reddito di cittadinanza, la riforma della giustizia o il superbonus – rivendica –, ma noi non esultiamo per gli idranti di Trieste, sabato Stefano Patuanelli incontrerà i portuali”. Applausi. Poi però arriva Spadafora: “L’effetto della sua leadership non si è sentito, ci dica se vuole il voto dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato”. Sarti invece ringhia: “In Emilia Romagna abbiamo dimezzato i consensi, siamo corsi dietro al Pd per gli incarichi”. E c’è pure il deputato Marco Bella che fa sapere: “Al momento potrei non votare il Green pass”. Frammenti, dal M5S atomizzato.

“Io silurato come capogruppo di Fi? Ha deciso lui, come sempre”

Sestino Giacomoni, lei era candidato capogruppo alla Camera, con richiesta di voto segreto. Poi si è ritirato e ha vinto il suo competitor Paolo Barelli. Che è successo?

La richiesta del voto segreto serviva a far sì che ognuno potesse esprimersi liberamente. Nel momento in cui è arrivata la lettera di Berlusconi con la designazione di Barelli il voto segreto non aveva più senso e mi sono ritirato.

Berlusconi ha imposto Barelli?

È stata una scelta del presidente. Né più, né meno com’è sempre accaduto. Sono un suo collaboratore da oltre 20 anni. Non sono abituato a commentare, né giudicare le sue decisioni.

Barelli sembra una scelta dettata dalla linea Tajani-Ronzulli…

In FI esiste solo una linea, quella di Berlusconi. La linea politica la decide lui, ma ci sono sensibilità diverse, modi diversi di declinarla. Queste anime devono avere voce e spazio. Tra l’altro io e Barelli siamo amici. Siamo pure laziali, quindi non può esserci nessun derby fra noi.

Lei ha detto che FI deve “tirare fuori le palle”. Che intende?

FI ha 27 anni ed entro i 30 deve avere la forza di camminare sulle proprie gambe. Non solo ricorrendo alla democrazia interna, ma riaffermando la nostra identità. L’alleanza di centrodestra non è in discussione, ma noi siamo cosa diversa da Meloni e Salvini. E dobbiamo avere il coraggio, ‘le palle’, di dirlo e di farci rispettare di più.

Gelmini ha parlato di un Berlusconi poco informato, cui si racconta solo una verità parziale: Silvio è in ostaggio?

Berlusconi non si fa tenere in ostaggio da nessuno ed è lui a prendere ogni decisione. Ma se un ministro pone pubblicamente un problema così grave, c’è qualcosa che non va, anche per l’assenza forzata di Berlusconi da Roma, che ha reso impossibile il confronto quotidiano a cui eravamo abituati.

Tajani deve continuare a fare il coordinatore?

Nessuno l’ha messo in discussione, ma il suo compito è di unire e non di dividere.

FI deve smettere di inseguire Salvini e guardare più al centro, verso Draghi?

Nessuna delle due, ma l’alleanza a trazione sovranista non vince, si è visto alle Amministrative. Vince dove è a guida moderata, di centro, come in Calabria e a Trieste.

“Mario forever”: gli ultras vogliono imbullonare Mr Bce a Palazzo Chigi

Mario Draghi al Quirinale? “Sarebbe certamente un ottimo presidente della Repubblica, mi domando se il suo ruolo attuale continuando nel tempo non porterebbe più vantaggi al nostro Paese”. Parola di Silvio Berlusconi. “Farò un tour per far conoscere le mie idee. Quelle di una forza liberal socialista. Un pensiero che ci accomuna a Mario Draghi”. Parola di Carlo Calenda. Mentre immagina uno schema che rappresenti “l’Italia seria”: “Giorgetti e Bersani governano insieme, e sono entrambi persone serie”. Draghi premier oltre il 2023? “Draghi è una persona di cui siamo orgogliosi. La sua figura è spendibile in tanti ruoli: dalla commissione Ue, come al governo o al Quirinale”. Parola di Dario Nardella, sindaco di Firenze. Ancora: “Se Salvini vuol fare cadere Draghi, vada in Parlamento e lo sfiduci. Ma non pensi di usare le istituzioni per le sue pensate”. Parola di Pier Luigi Bersani.

In questa Italia post-Amministrative, che si prepara a eleggere il presidente della Repubblica, si confrontano apertamente (e pure sotterraneamente) due schieramenti. Da una parte quelli che vedono Draghi come una necessità (oppure un accidente), vorrebbero magari mandarlo al Quirinale per rendere rapidamente contendibile Palazzo Chigi e puntano a mantenere un sistema elettorale tendenzialmente maggioritario (anche lo stesso Rosatellum) per favorire le coalizioni ed evitare che tutto si perda in un indistinto grande centro. Sono Giorgia Meloni e Matteo Salvini, ma anche Enrico Letta e la parte del Pd che fa capo a Nicola Zingaretti e a Goffredo Bettini, quelli dell’amalgama con il Movimento 5 Stelle. Dall’altra parte ci sono quelli che vogliono cristallizzare questa situazione, che sognano un proporzionale (così le alleanze si fanno dopo il voto) e meditano di andare da soli, comunque vada: una sorta di maggioranza Ursula che va da Calenda a Matteo Renzi, passando per ampi settori di Forza Italia (Mariastella Gelmini, Renato Brunetta) e per la Lega giorgettiana per arrivare alla minoranza dem ex renziana, Base riformista. Tra gli obiettivi, mettere del tutto fuori gioco i Cinque Stelle, sia nella versione Giuseppe Conte, che in quella Virginia Raggi o Alessandro Di Battista. Per loro, il frontman presente e futuro dovrebbe essere comunque Draghi.

Ieri ad evocare lo scenario – seppur per paradosso – di fare a meno del voto nerl nome di Super Mario è stato Paolo Mieli sul Corriere della Sera. Mentre invece Giuliano Ferrara sul Foglio si lanciava in un elenco delle tante cose che lo stesso al Colle potrebbe fare.

Per capire come andrà a finire bisogna però seguire prima di tutto i movimenti intorno al Colle. Perché tra i fautori del Draghi forever si possono ascrivere anche tutti quelli che sognano il Quirinale. E dunque, lo stesso Berlusconi. Ma pure Pier Ferdinando Casini, Dario Franceschini. Tanto per citare qualche nome che può entrare nella trattativa politica e magari cozzare con i progetti dei leader di partito. Nel centrodestra la discussione è aperta e complessa. Nel centrosinistra si aspettano le mosse del federatore Letta. Soprattutto, si aspetta di capire se davvero riuscirà a convincere a stare dentro la stessa coalizione Calenda e Conte. Il primo è pronto a dare battaglia: meglio non conquistare alcun collegio, presentandosi da solo, che portare acqua al mulino del segretario del Pd. Il secondo non ha vita facile nel Movimento e vede sbarrarsi la strada di un improbabile ritorno a Palazzo Chigi dal segretario del Pd. Che a imboccare quella porta di nuovo ci sta provando davvero. A fine legislatura, o magari con il voto anticipato, se il premier va al Colle e i partiti non reggono.

Gli schemi di gioco sono questi, i protagonisti restano ai blocchi di partenza. Con più di un’incognita: le vere intenzioni di Draghi, la posizione finale di Sergio Mattarella, per ora fermo sulla non rielezione. E – last but not least – la reale capacità di individuare una strategia e realizzarla, senza precipitare nel caos imprevedibile.

B. e il pianista assolti: solo bugie, non c’è corruzione

Assolto. “Il fatto non sussiste”. Silvio Berlusconi è stato assolto ieri sera a Siena dall’accusa di corruzione in atti giudiziari in un filone minore del processo Ruby ter. I giudici senesi non hanno considerato provato che il pagamento di Berlusconi a uno dei tanti testimoni dei processi Ruby, e cioè Danilo Mariani, il silenzioso pianista che allietava le serate del bunga-bunga, sia stato il prezzo della corruzione pagato affinché Mariani mentisse sulle feste di Arcore. Assolto anche Mariani, che aveva testimoniato ai giudici, sotto giuramento, di non aver visto alcun atto sessuale nelle feste di Arcore della calda estate del 2010. “Cene eleganti”, dunque. O al massimo teatrini di Burlesque. Lo stesso Mariani è però già stato condannato, il 13 maggio, a 2 anni per falsa testimonianza. Dunque ha detto il falso, ma i soldi che ha ricevuto dall’amico Silvio non erano per corromperlo.

Il processo di Siena è un filone del Ruby ter con due soli imputati, Berlusconi e il suo pianista, nato da una costola del processo principale Ruby ter in corso a Milano, con 29 imputati: il presidente di Forza Italia e una piccola folla di testimoni e di ragazze ospiti dei festini, pagati da Silvio – secondo l’accusa – per raccontare la fola delle “cene eleganti”. In attesa della sentenza di Milano, l’assoluzione di Siena mette un primo punto fermo sulla vicenda, ma limitatamente a un unico testimone. Dalle motivazioni, quando arriveranno, potremo capire se i giudici senesi hanno creduto alla spiegazione di Berlusconi, che ha sempre ammesso di aver pagato il pianista Mariani, come il cantante Mariano Apicella (su questo è in corso un altro processo a Roma) e come molte delle ragazze (processate a Milano) che partecipavano alle feste di Arcore; ma soltanto per disinteressata generosità, per dare un aiuto a persone che gli erano state vicine e poi avevano avuto molte difficoltà a causa delle indagini dei magistrati e degli articoli dei giornalisti. La sentenza di Siena peserà anche sul processo principale di Milano? Lo vedremo, anche se a Milano sono molti i testimoni che sono stati pagati e i giudici dovranno valutare le prove portate in aula dall’accusa.

A Siena, ieri, sembrava di essere tornati ai bei tempi in cui un Silvio Berlusconi agguerrito e battagliero sfidava i magistrati ricusando i giudici che lo stavano giudicando. Certo, restano inarrivabili i toni di guerra degli avvocati di un tempo, Gaetano Pecorella o Niccolò Ghedini. Ma ci ha comunque provato il difensore di oggi, Federico Cecconi, abituato a modi ben più cortesi, e che ieri, prima della sentenza, ha provato a fermare la macchina del processo, chiedendo che venissero sentiti altri testimoni e poi annunciando l’intenzione di presentare un’istanza di ricusazione per estromettere dal processo i giudici che stavano per entrare in camera di consiglio per decidere il verdetto. La ricusazione, che poteva essere presentata nei prossimi giorni davanti alla Corte d’appello di Firenze, ora non sarà più necessaria.

Quella di ieri è stata l’udienza finale in cui il filone senese del processo Ruby ter è ripreso dopo mesi di rinvii causati dalle richieste di “legittimo impedimento” presentate dai difensori di Berlusconi per asseriti motivi di salute e dopo che già nel 2020 il dibattimento era arrivato alle fasi finali. I giudici avevano alfine stralciato la posizione di Berlusconi e concluso il processo al solo Mariani, condannato appunto a 2 anni per il reato di falsa testimonianza. La difesa Berlusconi ieri aveva chiesto, in zona Cesarini, di rinnovare l’istruttoria a istruttoria ormai chiusa: per sentire tre testimoni, il ragioniere contabile di Berlusconi, Giuseppe Spinelli, il musicista Apicella e la moglie di Mariani, Simonetta Losi. Il Tribunale ha respinto la richiesta, ritenendola fuori tempo massimo, e ha imposto le conclusioni. Per poi arrivare all’assoluzione.

Superate dai fatti le proteste lanciate – come ai vecchi tempi – degli esponenti di Forza Italia, che evidentemente si aspettavano una condanna. “A Siena, tradizionale feudo del Partito democratico, il collegio presieduto da Simone Spina, noto esponente di Magistratura democratica, manifesta una ingiustificata fretta di andare a sentenza”, aveva dichiarato Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia della Camera. Dimenticando che la “ingiustificata fretta” si riferisce a un processo che è stato rallentato e bloccato per un oltre un anno dalle continue richieste di “legittimo impedimento”. Non era mancato anche un accenno al sognato approdo al Quirinale di Berlusconi: “Si cerca la giustizia”, aveva chiesto il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, “o piuttosto interessa danneggiare un leader politico e interferire anche sul voto per il Quirinale?”.

Colle, Berlusconi si lancia: “Draghi ora resti premier”

Raccontano che solo a sentir pronunciare la parola “Quirinale” a Silvio Berlusconi si illuminino gli occhi. Sogna la sua vecchiaia tra arazzi, corazzieri, specchi e i maestosi corridoi del palazzo che fu prima dei papi e poi dei monarchi. Non è solo per il potere che la più alta carica dello Stato gli conferirebbe ma, spiega chi ci ha parlato, la voglia di passare alla storia come “uno statista” in grado di “riappacificare il Paese”. Sogni che, probabilmente, resteranno tali. Ma l’assoluzione di ieri a Siena già fa parlare i suoi di “riabilitazione definitiva”. E lui nel Colle ci crede eccome. Mercoledì a villa Zeffirelli ha addirittura chiesto agli alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni di sostenerlo. Aggiorna costantemente il pallottoliere e sostiene che gli manchino poco più di 30 voti. Ieri, poi, volato a Bruxelles per il vertice del Ppe con Angela Merkel, lo ha anche detto facendo capire che Mario Draghi starebbe meglio a Palazzo Chigi: “Draghi sarebbe un ottimo candidato – ha spiegato Berlusconi – Mi domando però se il suo ruolo attuale, a Palazzo Chigi, continuando nel tempo non porterebbe più vantaggi al nostro Paese”. E a chi gli ha chiesto se lui punta al Colle, ha risposto in terza persona: “Berlusconi lo vedo in forma, dopo un po’ di acciacchi dovuti al Covid, e non ha idee al riguardo…”. Un sogno cavalcato anche da Salvini: “Se Berlusconi si candida, lo sosteniamo”. Per farlo però l’ex Cavaliere deve tornare al centro della scena. E così, dopo aver fatto fare la pace ai suoi “allievi” Salvini e Meloni (“io sono il Professore”), ieri è andato in trasferta europea: ha pranzato con Merkel, le ha portato un regalo e con lei si è fatto scattare una photo opportunity. La “culona i…” è solo un lontano ricordo. Il pranzo con la quasi ex cancelliera tedesca serve a Berlusconi per riaccreditarsi anche all’estero. “Cara Angela, all’Europa mancherai molto”. “Anche tu Silvio hai governato molti anni”. Poi hanno parlato del lavoro del marito di Merkel all’Università di Torino e Berlusconi ha colto l’occasione per invitarla a Roma: “Verrai spesso in Italia, chiamami e ci vediamo”. E nei suoi sogni, l’invito sarà al Quirinale.

Nel frattempo, a Roma, il leader deve risolvere la frattura interna al partito. Dopo lo scontro di mercoledì sulla nomina del capogruppo alla Camera e lo sfogo di Mariastella Gelmini (“non mi sento più berlusconiana e noi ministri siamo corpi estranei”), la spaccatura tra Berlusconi e il suo cerchio magico (Tajani e Ronzulli) e i ministri Gelmini, Carfagna e Brunetta diventa sempre più profonda. Da Bruxelles ieri il capo ha sparato su Gelmini: “Le sue parole sono contrarie alla realtà”. Poi ha attaccato i tre ministri che avevano firmato il documento per chiedere il voto del capogruppo: “Non so cosa gli è preso a questi qua – ha continuato – sono sereno, non succederà niente”. I ministri non vogliono andarsene, né “farsi cacciare” come Gianfranco Fini, ma intanto si organizzano con una corrente per provare a scalzare il duo Tajani-Ronzulli. Mercoledì al ministero di Brunetta si sono incontrati con una decina parlamentari ribelli tra cui Porchietto, Russo, Baroni e Casciello e hanno deciso che si coordineranno con amministratori e parlamentari dell’ala moderata – 30 alla Camera e 20 al Senato – per fare la guerra ai filo-salviniani che, per dirla con Carfagna, “dicono a Berlusconi parte della realtà”. “Far finta che tutto funzioni non fa bene al partito” ha aggiunto la ministra del Sud, considerata la nuova leader. Brunetta conferma: “Gelmini ha denunciato un malcontento diffuso”.

Prima del Quirinale i tre faranno una battaglia interna, poi chissà. Che il centrodestra non sia così compatto come poteva sembrare a villa Zeffirelli lo si è capito ieri nell’assemblea di Salvini con parlamentari. Dopo aver spiegato che ci sarà più unità con FI, il leghista ha attaccato ad alzo zero Meloni: “C’è modo e modo di fare opposizione – ha detto in un audio pubblicato dal Foglio – Si può concordare una quota comprensibile di rottura di coglioni, che però vada a minare Pd e 5S e non sia fatta scientemente per mettere in difficoltà la Lega e il centrodestra com’è accaduto”. Meloni non ha commentato, Salvini ha detto che “non sarà un audio a farci litigare, ci messaggiamo ogni giorno”. Poi il leghista in assemblea ha attaccato Giorgetti (assente perché negli Usa): “Fare un’intervista in cui si dice che perdiamo le elezioni non va bene”. Sul Green pass ha dato libertà di voto, mentre sul Quirinale ha spiegato che “Draghi vuole andarci” e che “si voterà nel 2023”.

U Tiradrittu

Storia di ordinario Consiglio dei ministri svelata dal Corriere. I capidelegazione dei due partiti più votati, Patuanelli (M5S) e Orlando (Pd), esprimono un sommesso disagio a Draghi per un fatto “mai successo”: devono approvare il Documento programmatico di bilancio “senza che ci sia stato nemmeno distribuito il testo”. A scatola chiusa, come si usa da quando fu posta fine al “vulnus democratico” di Conte e tornò la democrazia con Draghi. Poi Franceschini chiede di rifinanziare il bonus per le facciate. Il premier lo gela: “Le risorse sono finite, se no il sistema salta”. Franceschini fa notare che il Consiglio dei ministri si chiama così perché è un organo collegiale che prima discute e poi decide: “Le riunioni di governo servono proprio a costruire un compromesso”. Ma Draghi, abituato a Bankitalia e alla Bce, dove lui decideva e gli altri obbedivano, stronca sul nascere la rivolta di Spartacus “visibilmente infastidito”, con un perentorio “Eppoi basta”. Il Corriere, per nulla scandalizzato dalla trasformazione del Consiglio dei ministri in Gran Consiglio del Draghismo, censura il pigolio di Franceschini come pericolosa “curvatura politica”: come si permette un politico, per giunta ministro, di fare politica?

Se i commessi di Palazzo Chigi cercano negli archivi, potranno affiggere sul portone uno di quei bei cartelli che campeggiavano negli uffici pubblici quando c’era Lui: “Qui non si fa politica: si lavora”. Nel 1929 l’Unione Fascista degli Industriali pubblicò un libretto di istruzioni: “Qui non si fanno previsioni né discussioni di alta politica o di alta strategia. Si lavora”. È quel che dice anche il presidente democratico degli industriali Carlo Bonomi al Corriere: “I partiti non capiscono, stanno assediando il premier. Ognuno dà battaglia per la sua bandierina: un partito per le pensioni, un altro per il reddito di cittadinanza, un terzo per qualcos’altro”. Orrore: i partiti fanno politica, ovvero ciò per cui sono stati votati. Dove andremo a finire. Già che ci siamo, insieme a Forza Nuova, perché non sciogliamo pure gli altri partiti? Per fortuna la stampa libera disperde subito con gli idranti i frenatori dell’aratro che traccia il solco e della spada che lo difende. Repubblica: “Draghi tira dritto”. Riformista: “La svolta di Draghi: prima decidere, poi tirare dritto”. Il copyright è del Duce, che l’8 settembre 1935, dal balcone di Palazzo Venezia, replicò “Noi tireremo diritto!” alla Lega delle Nazioni che sanzionava l’Italia per la guerra d’Etiopia. Ne nacque anche una canzoncina: “Noi tireremo diritto, se pur la Lega ci taglieggia il vitto. Questa è l’Italia: un popolo poeta: crede e combatte, fisso alla sua meta, ed obbedisce, se obbedir non è viltà”. Ma che andate a pensare: quella era una dittatura.

Marisa Laurito apre a Napoli una “Stanza delle Meraviglie”: dove l’arte è uno show totale

“Uno scrigno virtuale, che contiene tutta la cultura della canzone napoletana”. Maria Laurito, attrice e artista, descrive così la Stanza delle Meraviglie, l’innovativo spazio tecnologico inaugurato il 14 ottobre al teatro Trianon Viviani, nel cuore del centro storico di Napoli. Ma cos’è, di preciso, la Stanza delle Meraviglie? “È una specie di realtà virtuale senza casco – spiega Laurito, che ne è stata l’ideatrice insieme al curatore Bruno Garofalo – con cui il pubblico si tuffa sul ricco panorama musicale napoletano”. Sulle pareti di questo spazio sono infatti proiettati dei video originali, in cui cantanti e attori, con costumi d’epoca, interpretano le canzoni popolari che il pubblico ascolta in sottofondo, muovendosi fra gli angoli della stanza; per aumentare la partecipazione, alle loro spalle sono stati utilizzati dei quadri risalenti a inizio Novecento che ritraggono gli storici vicoli partenopei, mentre camminando è percepibile anche il suono del mare, come se passasse sotto i piedi. Il progetto, attuato dalla Scabec (la società in house della Regione Campania per i beni culturali), è visitabile gratuitamente, tramite prenotazione, fino a fine novembre, come se fosse un piccolo museo.

Proprio in quel periodo debutterà, sempre al Trianon Viviani, uno spazio parallelo, la Stanza della Memoria, curata da Pasquale Scialò e che permetterà di accedere a una fruizione completa del patrimonio della canzone napoletana e delle culture musicali, grazie alla digitalizzazione di ogni bene materiale e immateriale fatta in questi anni dalla regione Campania. Tramite una serie di schermi touchscreen, in questo luogo sarà possibile fruire di ogni cosa che riguardi la cultura popolare partenopea, dall’età d’oro di fine Ottocento fino ai giorni nostri: ci saranno registrazioni audio, spartiti a stampa, manoscritti autografi, locandine, manifesti, fotografie, caricature e molto altro ancora. “E sarà tutto gratuito, per sempre” precisa Laurito.

Sempre il 14 ottobre ha debuttato la prima stagione di un altro lavoro dell’attrice, questa volta teatrale, ovvero “Adagio Napoletano: Cantata d’amore”, un musical con la compagnia Stabile della Canzone napoletana, scritto e diretto da Bruno Garofalo. Composto da un ricco staff di musicisti, attori, cantanti e danzatori, Adagio Napoletano è un’opera che riprende le melodie partenopee del periodo d’oro, fra la fine dell’Ottocento e l’inizi del Novecento. “Le prime date sono state un successo quasi inaspettato – aggiunge Laurito – e addirittura un giornalista statunitense, venuto per l’occasione, ha detto che è un musical da far invidia anche a Broadway”. Le prossime date dello spettacolo, che era già stato presentato al pubblico in streaming durante il primo lockdown del 2020, saranno dal 22 al 24 ottobre, sempre al teatro Trianon Viviani.

“Ho pianto per la Caselli sul suicidio del padre”

Renato De Maria alla Festa del Cinema di Roma, e dal 13 al 15 dicembre in sala con Nexo, porta il documentario Caterina Caselli – Una vita, cento vite: genesi?

La musica è sempre stata la mia passione. Avevo già fatto negli anni Novanta un doc sull’emergente scena rap italiana (Lu Papa Ricky, 1992, ndr). La Sugar Play mi ha contattato, ho voluto incontrare Caterina, ho trovato in lei una luce, una potenza popolare che mi ha conquistato.

Modelli?

No Direction Home, che Martin Scorsese ha dedicato a Bob Dylan: il menestrello seduto, il suo flusso di coscienza affascinante. Volevo quell’energia, quella verità. E Caterina me l’ha restituita: sincera, spiazzante, calda.

Una donna, un Paese?

Riflettiamo prima in una giovane donna, poi nell’icona pop, quindi una madre, infine una produttrice il cambiamento dell’Italia intera: è un racconto di formazione, anzi, di trasformazione.

Caterina negli anni Sessanta lodava il fermento di una nazione libera, l’indipendenza femminile e la Beat generation arrabbiata. Oggi che ne è di quella rabbia giovane?

Domanda difficile. Credo che la rivolta dei Sessanta e Settanta non sia sfociata nella rivoluzione, ma nella regressione: la viviamo ancora, i giovani per primi.

La Caselli ricorda il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo e quello del padre: un picco emotivo, sentiamo tremare la macchina da presa.

Non mi era mai successo qualcosa del genere, mi sono commosso. Non aveva mai parlato del suicidio del padre depresso. La madre, che non voleva se ne discutesse, se n’è andata pochi anni fa, forse il documentario nasce proprio dall’urgenza di Caterina di tirare fuori questa roba, e trovare una catarsi.

Che cosa ha imparato da lei?

A non mollare mai. Era diventata la moglie del capo, Piero Sugar, non c’è stata e s’è reinventata: al pregiudizio altrui ha opposto il proprio orgoglio. Per Mario Luzzatto Fegiz la CGD non era appunto la casa – discografica – madre, ma “marita”: Caterina quella definizione non l’accettò.

Per Paolo Conte era una lavandaia, almeno, cantava come se lo fosse.

Lui e Francesco Guccini sono due amici veri, li ho fatti chiacchierare con lei senza filtri: l’ennesimo flusso di coscienza. Ho il dispiacere di non aver potuto fare lo stesso con altri artisti, ma non c’era spazio.


Paz!, che ha tratto dai fumetti di Andrea Pazienza, sta per compiere vent’anni.

Ed è in splendida forma. Mi sono piegato volentieri: sarò per sempre il regista di Paz!. Ancora oggi trovo giovanissimi che ne conoscono le battute a memoria: è un cult.

Che cos’hanno in comune Pazienza e Caselli?

La ribellione: alle convenzioni, alle aspettative, all’impossibilità. Hanno coltivato il talento della libertà, preservato la propria unicità dai condizionamenti sociali.

Il suo prossimo progetto è Robbing Mussolini – Netflix – interpretato da Matilda De Angelis e Pietro Castellitto.

Siamo in postproduzione. Confido sarà divertente, una mescolanza pazzesca di heist movie, commedia, action e amore. Con due padri: Monicelli e, spero, lo stesso Paz!.

Si parla di fascismo…

Ne racconto la caduta, purtroppo la Storia tende a ripetersi: il fascismo è crollato come regime, ma resiste quale tentazione sociale.