Pubblichiamo alcune pagine del libro di George Orwell “La strada di Wigan Pier” appena pubblicato da Alegre.
La nostra civiltà, con buona pace di Chesterton, è fondata più di quanto pensiamo sul carbone (…) Quando scendete in una miniera è importante vedere la vena mentre i caricatori sono all’opera (…). Bisogna andarci quando le macchine rombano e l’aria è nera di polvere di carbone, quando davvero si può vedere cosa devono fare i minatori. In quei frangenti la miniera è un inferno (…). Gran parte delle cose che vi immaginate siano all’inferno le troverete qui: il calore, il frastuono, la confusione, l’oscurità, l’aria fetida e soprattutto gli spazi tremendamente angusti. (…) Quando finalmente sarete scesi in miniera striscerete attraverso l’ultima fila di puntelli del pozzo e vedrete di fronte a voi una parete nera scintillante, dell’altezza di circa un metro. Questo è il fronte del carbone. Sul vostro capo c’è un soffitto liscio formato dalla roccia da cui è stato estratto il carbone. E c’è roccia anche sotto i vostri piedi. Pertanto la galleria in cui vi trovate è alta soltanto quanto il fronte del carbone, probabilmente anche meno di un metro. La prima impressione è il rumore spaventoso della catena di rimozione che porta via il carbone. Non si può vedere molto in là per la nebbia di polvere di carbone. Vedrete comunque su due lati una fila di uomini seminudi, in ginocchio, disposti uno ogni quattro o cinque metri, che spingono la pala sotto il carbone caduto e lo lanciano velocemente sopra la propria spalla sinistra. (…) È impossibile guardare i caricatori all’opera senza provare una fitta d’invidia per il loro fisico robusto. È un lavoro orrendo quello che fanno, un lavoro quasi superumano. Perché non solo spostano quantità mostruose di carbone, ma lo fanno in una posizione che raddoppia o triplica lo sforzo. Devono costantemente rimanere in ginocchio (…). C’è il calore e la polvere di carbone che riempie la gola e le narici e si condensa sulle ciglia, c’è il rombo incessante del nastro trasportatore, che in uno spazio così ristretto sembra il fragore di una mitragliatrice. Ma i caricatori sembrano poter lavorare come se fossero fatti di ferro (…). È solo vedendo i minatori giù in miniera, nudi, che vi rendete conto di quanto siano uomini splendidi. Di solito sono piccoli ma quasi tutti hanno corpi magnifici: spalle ampie che si stringono verso una vita stretta e duttile, piccole natiche scolpite e cosce forti, senza un grammo di carne in eccesso in tutto il corpo. Nelle miniere calde indossano solo un paio di mutande sottili, zoccoli e ginocchiere. In quelle troppo calde usano solo zoccoli e ginocchiere (…). Lavorano per sette ore e mezza, in teoria senza fare pause. In realtà riescono a strappare un quarto d’ora quando mangiano il cibo che si sono portati da casa, di solito un pezzo di pane e lardo e una bottiglia di tè freddo. La prima volta che ho visto i caricatori al lavoro ho messo la mano su qualcosa di disgustoso e viscido nella polvere di carbone. Era una presa di tabacco da masticare. Masticano tabacco, che si dice prevenga la sete. (…)
Prima di scendere in miniera immaginavo in maniera vaga che il minatore uscisse dalla gabbia e cominciasse a lavorare. Non mi rendevo conto che prima ancora di cominciare deve strisciare per corridoi lunghi. All’inizio, ovviamente, il pozzo della miniera scende nei pressi della vena di carbone. Ma quando quel filone viene esaurito e bisogna seguire nuove vene, il fronte delle operazioni di scavo si allontana. La distanza media tra il pozzo e il fronte del carbone è in genere di un paio di chilometri, ma cinque chilometri rappresentano una distanza ordinaria. (…) All’inizio camminare curvi sembra uno scherzo, ma è uno scherzo di cui ci si stanca presto. Io ho l’handicap di essere particolarmente alto, ma quando il soffitto si abbassa a un metro e venti o anche meno, diventa duro camminare per chiunque non sia un bambino o un nano. Non solo dovete camminare piegati in due, ma dovete anche tenere la testa alta per tutto il tempo, di modo da vedere i pali e le travi, così da poterli evitare quando ci passate sotto. Pertanto avrete continuamente i crampi al collo. Ma non è nulla rispetto al dolore alle ginocchia e alle cosce. Dopo poche centinaia di metri il dolore diventa un’agonia inenarrabile (…). Il ritorno è peggio, non solo perché siete già stanchi, ma anche perché per tornare verso il pozzo dovrete probabilmente camminare in lieve salita. Procedete sotto le basse travi a passo di tartaruga e ormai non vi vergognate più di chiedere una sosta quando le ginocchia non ce la fanno. (…) Quando alla fine tornate in superficie siete rimasti forse tre ore sottoterra e avete camminato per tre chilometri ma siete esausti. Per una settimana poi le vostre cosce saranno così dure che vi sarà difficile scendere le scale e vi toccherà muovervi in un modo particolare, senza piegare le ginocchia (…). Ma quel che voglio sottolineare è questo: quella tremenda faccenda di strisciare all’andata e al rientro, che per ogni persona normale rappresenterebbe di per sé già una giornata di duro lavoro, non fa neanche parte del lavoro di un minatore, è semplicemente un extra, come un viaggio in metropolitana per un impiegato della City. Il minatore fa questo viaggio avanti e indietro e il tutto viene farcito con sette ore e mezzo di lavoro selvaggio.