Un inferno chiamato miniera

 

Pubblichiamo alcune pagine del libro di George Orwell “La strada di Wigan Pier” appena pubblicato da Alegre.

 

La nostra civiltà, con buona pace di Chesterton, è fondata più di quanto pensiamo sul carbone (…) Quando scendete in una miniera è importante vedere la vena mentre i caricatori sono all’opera (…). Bisogna andarci quando le macchine rombano e l’aria è nera di polvere di carbone, quando davvero si può vedere cosa devono fare i minatori. In quei frangenti la miniera è un inferno (…). Gran parte delle cose che vi immaginate siano all’inferno le troverete qui: il calore, il frastuono, la confusione, l’oscurità, l’aria fetida e soprattutto gli spazi tremendamente angusti. (…) Quando finalmente sarete scesi in miniera striscerete attraverso l’ultima fila di puntelli del pozzo e vedrete di fronte a voi una parete nera scintillante, dell’altezza di circa un metro. Questo è il fronte del carbone. Sul vostro capo c’è un soffitto liscio formato dalla roccia da cui è stato estratto il carbone. E c’è roccia anche sotto i vostri piedi. Pertanto la galleria in cui vi trovate è alta soltanto quanto il fronte del carbone, probabilmente anche meno di un metro. La prima impressione è il rumore spaventoso della catena di rimozione che porta via il carbone. Non si può vedere molto in là per la nebbia di polvere di carbone. Vedrete comunque su due lati una fila di uomini seminudi, in ginocchio, disposti uno ogni quattro o cinque metri, che spingono la pala sotto il carbone caduto e lo lanciano velocemente sopra la propria spalla sinistra. (…) È impossibile guardare i caricatori all’opera senza provare una fitta d’invidia per il loro fisico robusto. È un lavoro orrendo quello che fanno, un lavoro quasi superumano. Perché non solo spostano quantità mostruose di carbone, ma lo fanno in una posizione che raddoppia o triplica lo sforzo. Devono costantemente rimanere in ginocchio (…). C’è il calore e la polvere di carbone che riempie la gola e le narici e si condensa sulle ciglia, c’è il rombo incessante del nastro trasportatore, che in uno spazio così ristretto sembra il fragore di una mitragliatrice. Ma i caricatori sembrano poter lavorare come se fossero fatti di ferro (…). È solo vedendo i minatori giù in miniera, nudi, che vi rendete conto di quanto siano uomini splendidi. Di solito sono piccoli ma quasi tutti hanno corpi magnifici: spalle ampie che si stringono verso una vita stretta e duttile, piccole natiche scolpite e cosce forti, senza un grammo di carne in eccesso in tutto il corpo. Nelle miniere calde indossano solo un paio di mutande sottili, zoccoli e ginocchiere. In quelle troppo calde usano solo zoccoli e ginocchiere (…). Lavorano per sette ore e mezza, in teoria senza fare pause. In realtà riescono a strappare un quarto d’ora quando mangiano il cibo che si sono portati da casa, di solito un pezzo di pane e lardo e una bottiglia di tè freddo. La prima volta che ho visto i caricatori al lavoro ho messo la mano su qualcosa di disgustoso e viscido nella polvere di carbone. Era una presa di tabacco da masticare. Masticano tabacco, che si dice prevenga la sete. (…)

Prima di scendere in miniera immaginavo in maniera vaga che il minatore uscisse dalla gabbia e cominciasse a lavorare. Non mi rendevo conto che prima ancora di cominciare deve strisciare per corridoi lunghi. All’inizio, ovviamente, il pozzo della miniera scende nei pressi della vena di carbone. Ma quando quel filone viene esaurito e bisogna seguire nuove vene, il fronte delle operazioni di scavo si allontana. La distanza media tra il pozzo e il fronte del carbone è in genere di un paio di chilometri, ma cinque chilometri rappresentano una distanza ordinaria. (…) All’inizio camminare curvi sembra uno scherzo, ma è uno scherzo di cui ci si stanca presto. Io ho l’handicap di essere particolarmente alto, ma quando il soffitto si abbassa a un metro e venti o anche meno, diventa duro camminare per chiunque non sia un bambino o un nano. Non solo dovete camminare piegati in due, ma dovete anche tenere la testa alta per tutto il tempo, di modo da vedere i pali e le travi, così da poterli evitare quando ci passate sotto. Pertanto avrete continuamente i crampi al collo. Ma non è nulla rispetto al dolore alle ginocchia e alle cosce. Dopo poche centinaia di metri il dolore diventa un’agonia inenarrabile (…). Il ritorno è peggio, non solo perché siete già stanchi, ma anche perché per tornare verso il pozzo dovrete probabilmente camminare in lieve salita. Procedete sotto le basse travi a passo di tartaruga e ormai non vi vergognate più di chiedere una sosta quando le ginocchia non ce la fanno. (…) Quando alla fine tornate in superficie siete rimasti forse tre ore sottoterra e avete camminato per tre chilometri ma siete esausti. Per una settimana poi le vostre cosce saranno così dure che vi sarà difficile scendere le scale e vi toccherà muovervi in un modo particolare, senza piegare le ginocchia (…). Ma quel che voglio sottolineare è questo: quella tremenda faccenda di strisciare all’andata e al rientro, che per ogni persona normale rappresenterebbe di per sé già una giornata di duro lavoro, non fa neanche parte del lavoro di un minatore, è semplicemente un extra, come un viaggio in metropolitana per un impiegato della City. Il minatore fa questo viaggio avanti e indietro e il tutto viene farcito con sette ore e mezzo di lavoro selvaggio.

“Blitzkrieg” tedesco: il piano per conquistare i media Usa

Bild, il giornale più letto d’Europa, è decapitato da uno scandalo. Il direttore Julian Reichelt, 41 anni, è stato licenziato dopo la pubblicazione di un’inchiesta del New York Times. “Ecco come funziona alla Bild: chi va a letto col capo ha il lavoro migliore”. A marzo, per il suo comportamento con le colleghe, Reichelt era stato sospeso e poi reintegrato. Mathias Döpner, amministratore delegato della casa editrice Axel Springer, aveva espresso totale fiducia nel giornalista. Poi, lunedì scorso, il NYT ha raccontato non solo gli abusi di potere del direttore, ma descritto tutta la Bild come un ambiente insano. Martedì, assieme al licenziamento, è avvenuta una cosa molto più importante per l’editoria tedesca. Il gruppo Spinger ha formalizzato l’acquisto di Politico, il media statunitense più seguito dalla classe dirigente di Washington. I dettagli sono riservati, ma si parla di una cifra superiore al miliardo di dollari. L’azienda di Berlino è già il più grande editore di tutta Europa, solo il tabloid Bild vende ogni giorno oltre 1,2 milioni di copie.

L’espansionismo editoriale tedesco ha messo in allarme gli statunitensi. La settimana scorsa è stato il Wall Street Journal a pubblicare un’inchiesta sulla Axel Springer. Tutta la strategia editoriale, ancora segreta, per il futuro di Politico spiegata punto per punto, persino con il numero di nuove assunzioni in programma, sulle pagine del quotidiano economico più diffuso al mondo. Tra le questioni più controverse c’è una richiesta che l’editore potrebbe fare ai suoi dipendenti. I giornalisti dovrebbero firmare un contratto che li vincoli ai valori dell’azienda: difendere l’unità dell’Ue, il diritto di esistere di Israele e il libero mercato. “Questi valori sono come la Costituzione” ha risposto Döpner al WSJ, sottolineando che chi non ci si riconosce “non dovrebbe lavorare” per la casa editrice.

Döpner non è solo il capo azienda, ma anche azionista di maggioranza, detiene il 22% delle quote. Nel 2002 la Bild vendeva 5 milioni di copie al giorno, la digitalizzazione avrebbe potuto spezzarne il primato. A Döpner venne affidato il compito di traghettarli online. Axel Springer, morto nel 1985, fondatore dell’azienda, era un uomo singolare. Si sposò cinque volte, due delle sue mogli erano prima state sposate con il suo vicino di casa. L’ultima signora Springer, Friede, era la tata di famiglia prima di sposare Axel ed ereditare il controllo dell’editore. Proprio Friede ha affidato a Döpner la ristrutturazione dell’azienda per poi facilitargli la scalata alla proprietà. L’amministratore delegato, dopo la stabilizzazione in Germania, ha puntato il mercato statunitense, con l’obiettivo conclamato di diventare il più grande editore al mondo. Per volere di Döpner, nel 2012, tutti i dirigenti della casa editrice volano e San Francisco. Devono carpire il segreto della Silicon Valley. Pubblicano un video del viaggio: uomini tedeschi di mezz’età che tra un incontro con una start-up e un gigante tecnologico condividono letti matrimoniali nei motel californiani. Il primo risultato nel 2014: Döpner in comproprietà con Politico, crea Politico Europe. Viene istituita una sede a Bruxelles e il nuovo media diventa immediatamente il riferimento per europarlamentari, lobbisti e imprenditori. Lo stesso anno Döpner tenta l’acquisto del Financial Times, gli va male. Mentre con 440 milioni di dollari si assicura Business Insider, oggi Insider. Nel 2020 acquisisce Morning Brew, la newsletter più diffusa tra millennial e imprenditori. Per seguire la campagna elettorale tedesca Bild lancia il suo canale televisivo, decine di troupe vengono invitate a seguire tutti, ma proprio tutti gli eventi dei candidati cancellieri. Un altro successo commerciale. Intanto Friede Springer concede a Döpner un super bonus: 1, 2 miliardi di euro in azioni e separatamente gliene vende altre. L’amministratore delegato diventa l’azionista di maggioranza e non sembra volersi fermare. Nei suoi piani Politico si svilupperà in diverse lingue ed entro la fine del decennio avrà superato i contendenti statunitensi. Ovviamente senza più stampare nemmeno una riga. Tutto sarà online e a pagamento.

Energie fossili, Total conosceva i rischi sul clima già dal 1971

Total era a conoscenza dell’impatto nefasto che le energie fossili hanno sul clima già da 50 anni. Ma, invece di allertare l’opinione pubblica, non solo il colosso francese del petrolio ha taciuto i rischi e negato il riscaldamento climatico, ma ha anche contrastato tutte le politiche che negli anni hanno tentato di ridurre le emissioni di gas serra. È quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Global Environment Change curato dall’ateneo di Sciences Po di Parigi, dal Cnr francese e dall’Università Usa di Stanford. I ricercatori hanno consultato documenti di archivio di Total e di Elf (le due aziende sono state fuse nel 1999) e passato al setaccio rapporti interni e interviste. Già in un documento del 1971 si legge che “la combustione di fonti fossili conduce alla liberazione di enormi quantità di biossido di carbonio” con una conseguente concentrazione di questi gas nell’atmosfera “piuttosto preoccupante”. Lo stesso testo già mette in conto il rischio di un aumento della temperatura “con il conseguente scioglimento almeno parziale delle calotte polari, da cui risulterebbe un aumento sensibile del livello dei mari. Le conseguenze catastrofiche si possono immaginare”. Nel 1986, Bernard Tramier, direttore per l’ambiente di Elf, poi di Total, dal 1983 al 2003, in un rapporto scrive che “l’accumulazione di CO2 e di metano nell’atmosfera e l’effetto serra che ne deriva modificheranno inevitabilmente l’ambiente. Tutte le proiezioni predicono un riscaldamento”.

Ma, come fanno notare i ricercatori, in quegli anni “c’è uno scarto enorme” tra ciò che si sa già nell’azienda, ma viene taciuto, e i discorsi ufficiali tenuti dalla multinazionale. Non si esita a parlare del settore petrolifero come di una “fabbrica dell’ignoranza”: una strategia volta a seminare il dubbio e a ritardare la lotta al cambiamento climatico. E in questa macchina di disinformazione, Total non si è comportata meglio di ExxonMobil, il gruppo Usa il cui doppio gioco è stato smascherato nel 2017. Solo nel 2002, alla luce dei rapporti allarmanti dell’Ipcc, Total ha cominciato a riconoscere l’impatto della sua attività sul clima e oggi si presenta come un attore indispensabile della transizione energetica: ma poi investe in un progetto miliardario di oleodotto gigante in Uganda, in contrasto anche con gli Accordi di Parigi.

Il Libano rischia la guerra: “Siamo ostaggi di Hezbollah”

A una settimana esatta dallo scontro armato tra i sostenitori dei partiti sciiti libanesi – Hezbollah e Amal – e i residenti di un quartiere a maggioranza cristiana di Beirut, il governo è paralizzato e Hassan Nasrallah ha gettato pubblicamente benzina sul fuoco accusando, durante un lungo monologo televisivo, il partito Forze cristiano-libanesi di Samir Geagea di essere responsabile della morte dei propri otto miliziani uccisi da cecchini appostati sui tetti.

La battaglia, durata alcune ore, ha fatto temere un’escalation settaria, se non l’inizio di una nuova guerra civile. Secondo molti libanesi invece è stata proprio la decisione del leader di Hezbollah di far scendere anche nelle strade abitate dai cristiani i propri miliziani pesantemente armati a provocare la fatale risposta. Tra i più strenui sostenitori di questa tesi e della pericolosità del partito armato di Nasrallah c’è Fares Souaid, cristiano maronita, già segretario generale della disciolta coalizione anti occupazione siriana “14 Marzo”, ex parlamentare e ora a capo di Saydet El jabal.

Dal gruppo che si opponeva alle intromissioni siriane fino a questa nuova iniziativa: di cosa si tratta?

Di un movimento interconfessionale, cioè composto non solo da cristiani ma anche da ex figure politiche sunnite e sciite, studenti, docenti e rappresentanti della società civile.

Perché sarebbe colpa di Nasrallah quanto accaduto giovedì scorso? In fondo a morire sono stati solo dei suoi uomini…

Se il leader di Hezbollah avesse voluto fare una manifestazione pacifica non avrebbe mandato in strada i suoi miliziani equipaggiati con kalashnikov e lanciarazzi anti carro e se avesse voluto evitare scontri con i cristiani avrebbe dovuto dire ai propri sostenitori di raggiungere il Palazzo di Giustizia direttamente, senza entrare nel quartiere cristiano assalendo negozi e sfasciando auto. Infine perché è il capo di un partito-milizia, peraltro più forte dell’esercito nazionale libanese, che si sente il padrone del Paese. Per questo Nasrallah si permette di mandare i propri miliziani al Palazzo di Giustizia a minacciare il giudice istruttore, Tareq Bitar, che sta indagando sull’esplosione del porto affinché dia le dimissioni. Ricordo che Bitar ha rilevato l’inchiesta dopo che il primo giudice è stato rimosso con un pretesto ridicolo.

Per quale motivo chiedono che Bitar si dimetta ?

Il capo della sicurezza di Hezbollah era andato recentemente al Palazzo di Giustizia per cercare di minacciare il giudice, ma non riuscendo a incontrarlo aveva lasciato detto a una giornalista di informarlo che se non si fosse dimesso l’avrebbe ‘sradicato’. Il motivo di questa campagna intimidatoria è che Bitar, come il giudice precedente, vuole portare a processo due personaggi di spicco del fronte sciita-cristiano. Uno è Youssef Fenianos, ex ministro dei Trasporti e Lavori pubblici del partito cristiano Marada, alleato del regime siriano e di Hezbollah; l’altro è l’ex ministro delle Finanze, Ali Khalil, oggi parlamentare di Amal, il partito sciita alleato di Hezbollah e del partito patriottico cristiano del presidente della Repubblica, Michel Aoun. Ciò che ha fatto infuriare Hezbollah e Amal è che Bitar non solo non si è dimesso, ma ha addirittura osato spiccare un mandato di arresto in contumacia per entrambi perché finora si sono rifiutati di essere interrogati. Sono accusati di omicidio colposo, dolo e incuria. Intanto il neo ministro della Giustizia, Henry Khoury, sta tentando di convincere i parlamentari a votare a favore di una commissione d’inchiesta allo scopo di intervenire sulle decisioni di Bitar. Sarebbe una mossa anticostituzionale, il potere esecutivo deve rispettare l’indipendenza di quello legislativo e giudiziario.

Lei ritiene Hezbollah il male peggiore che affligge il Libano?

Sì, e vi spiego la mia opinione: Hezbollah fa solo gli interessi di Teheran. Nasrallah si è definito più volte un soldato dell’Iran, non ha deposto le armi come previsto da varie risoluzioni dell’Onu e con quelle armi e i soldi provenienti dal traffico di droga tiene in scacco le vite e l’economia di tutti i libanesi.

Mail Box

 

Ma non è che si esagera un po’ con la privacy?

Faccio una proposta da liberale e vaccinato: una contromanifestazione per chiedere che il mio datore di lavoro possa disporre liberamente e conservare il mio Green pass col mio pieno consenso per garantire la sicurezza di tutti i miei colleghi e dei clienti. Ma non è che si esagera un po’ con questa privacy che tutela anche chi non vuole esserlo?

Marco Private

 

Obbligo di mascherina ovunque, tranne a messa

Nei luoghi pubblici al chiuso come cinema e teatri, compresi i luoghi di lavoro, è obbligatorio il Green pass. Perché non lo è nelle chiese durante la celebrazione della messa? Tra l’altro, per fare la comunione bisogna anche togliersi la mascherina. Persino all’aperto, quando si formano degli assembramenti, bisogna indossare la mascherina. Forse durante le funzioni religiose l’assembramento scompare? Il virus teme di essere scomunicato, se entra nelle chiese? I no Green pass hanno torto marcio, però, quando il governo vara delle misure contraddittorie, non in sintonia con l’art. 97 della Costituzione (“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”), contribuisce a esasperare gli animi. A volte, per amministrare bene uno Stato, basta il semplice buon senso, che invece sembra mancare al governo dei migliori. Perché affidare, in una situazione di emergenza, la guida dello Stato a un banchiere?

Maurizio Burattini

 

“Draghi con quell’arietta da Maria Antonietta”

Travaglio, chiamando Maria Antonietta il nostro presidente del Consiglio, ha sintetizzato il timore e in parte la profezia fatta anni fa da Cossiga, quando si esprimeva riguardo a Draghi come primo ministro.

Francesco Facciolo

 

Cop 26: una delegazione per tutelare l’agricoltura

Manca poco a Cop 26, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ma ancora non si parla delle conseguenze per gli agricoltori in Asia, Africa e America Latina. Inondazioni, uragani, periodi di siccità e gelate improvvise saranno fenomeni sempre più frequenti e intensi, che comprometteranno la capacità degli agricoltori di produrre il cibo che serve al mondo. È quindi un tema che dobbiamo sentire vicino. Noi di Fairtrade porteremo una delegazione di agricoltori a Glasgow per ribadire ai grandi della Terra le istanze di 1,8 milioni di contadini, tra cui la promessa di investire 100 miliardi di dollari in finanza per il clima all’anno nelle nazioni a basso reddito. Ma anche un maggiore impegno a rafforzare le regole commerciali, in modo che le aziende siano incoraggiate a investire in filiere sostenibili, pagare prezzi corretti agli agricoltori e riconoscere l’origine dei problemi ambientali delle loro filiere. Insomma una due diligence ambientale, oltre che sociale. Non siamo ingenui, tuttavia, e le prospettive che le nostre richieste siano assecondate sono poche. Ma per quanto a lungo dovremo sopportare tutto questo blabla?

Giuseppe Di Francesco

 

La crisi immobiliare svela il vero volto della Cina

La crisi economica che sta sconvolgendo la Cina costituisce un evento che non è affatto trascurabile, essendo al contrario un punto di svolta determinante. Finalmente è emersa quella verità che le autorità politiche cinesi hanno cercato di nascondere per anni, ossia che l’impetuosa crescita cinese era stata gonfiata artificialmente, e interi settori, come quello immobiliare, sono finanziariamente insostenibili. Il mito dello Stato capace di salvare le aziende dal fallimento si sta sgretolando dinanzi alla crudele realtà dei fatti, ossia all’impossibilità di sostenere un’economia improduttiva, sostenuta soltanto dal debito. Inoltre si è infranto un altro miraggio, quello dell’eterna promessa della liberalizzazione del mercato cinese che continua invece a essere regolato da leggi comuniste che impediscono il libero accesso agli investitori stranieri. La dirigenza cinese sta affrontando la situazione con una ottusità inaudita, continuando a promuovere il centralismo statale e il controllo asfissiante dell’autorità politica, e peggiora la situazione alimentando una propaganda xenofoba contro gli stranieri rappresentati come nemici da combattere.

Cristiano Martorella

Di Battista e M5S. “È lui ad averci lasciato”. “Sì, ma c’è spazio politico”

 

Ho letto Scanzi parlare di terzo polo, di Di Battista e di un 5% ipotetico. Sono un lucano che ha seguito Di Battista sulle Alpi, poi a Termoli, poi a Maratea durante il suo tour in moto, quando era un grillino e credeva in ciò che diceva sui valori del Movimento. Ora, però, purtroppo mi ha deluso, ha dimostrato, con i fatti, che non crede nella democrazia diretta dei grillini e confermata nel nuovo statuto di Conte, approvato dalla base. Ha lasciato il M5S e non si è accorto che da quel momento viene invitato in tv per ripetere che “lui ha lasciato il M5S”. Per chi non lo sapesse, lui ha lasciato il M5S perché non ha accettato la votazione della base che, col 60 %, ha deciso di far parte del governo Draghi per contare qualcosa e difendere le conquiste del Movimento. Ma lui ha lasciato il movimento e, a difendere le conquiste, anche sue, ci devono pensare gli altri, lui si limita ai girotondi. Purtroppo, come lui ha tradito il 40% di coloro che, per questioni economiche, sono usciti dal Movimento, fingendo di non accettare che il 60% ha deciso di entrare nel governo a difendere la restaurazione dall’interno e non andando in tv a criticare il suo M5S. Io credo in Conte e nei valori del Movimento e mi auguro che, con questa legge elettorale, non faccia alleanze col Pd alle Politiche e vada a prendersi dalle urne il consenso personale di quelle piazze che lo acclamano. Il Pd che continua il dialogo con Renzi e Berlusconi non interessa a nessuno del M5S. Sarò dalla parte di Conte, anche con la speranza del politometro.

Biagio Stante

 

Caro Biagio, non sei l’unico ad avermi criticato per una sorta di eccessiva “benevolenza” nei confronti di Di Battista, espressa tanto sul cartaceo quanto nella mia rubrica “L’affondo” su TvLoft. Temo però che tu, e non solo tu, abbiate confuso la mia constatazione di uno spazio libero (per Di Battista) con una mia adesione politica. Detta più brutalmente: se io dico che c’è spazio per un soggetto politico, non vuol dire che poi io lo voterei. Per esempio: c’è spazio per Calenda, ma io non lo voterei mai. E neanche voterei un PdB (partito Di Battista), proprio perché ne conosco il (rischio di) velleitarismo, il talebanismo, il bastiancontrarismo e l’incapacità di mediare. Ho detto e scritto mille volte che, per me, l’unica strada è un campo progressista. Ho fiducia in Bersani e Conte. La priorità è sconfiggere questa destraccia. La politica non è che scegliere ogni volta il meno peggio (dunque un mondo deludente a priori). E temo che Di Battista imbarcherebbe le Lezzi e le Laricchia, ovvero il nulla politico. Ma uno spazio politico per lui c’è, perché il conformismo dilagante è insopportabile e in questi casi c’è sempre la possibilità che nasca una minoranza “spettinata” di medio successo (Democrazia Proletaria, Italia dei Valori, etc). La percentuale? Non posso saperlo. Può essere il 2 come il 5. Boh. Sulle qualità umane di Alessandro garantisco e metto la mano sul fuoco. È forse un ingenuo, ma è certo un puro. Persona corretta, coerente, onestà e sincera. E non è poco. Rinunciare a ministeri e soldi “facili” non è da tutti e merita il più profondo rispetto. Tu alludi poi a beghe interne al M5S, democrazie dirette e Rousseau vari: capisco il tuo dispiacere, ma è un tema che non mi interessa. Mai stato iscritto a partiti o movimenti, e mai lo sarò.

Grazie per voler bene al Fatto!

Andrea Scanzi

La zanzara giapponese

Chi sta tirando un sospiro di sollievo per l’arrivo dell’autunno che, solitamente, ci libera dalle fastidiose zanzare, non lo faccia. È arrivata in Italia la zanzara cosiddetta “giapponese”. Non teme il freddo e perciò potremmo incontrarla anche nei prossimi mesi. I cambiamenti climatici stanno infatti cambiando sia la flora che la fauna del nostro continente. L’Italia sta già vivendo una tropicalizzazione che si avverte più pesantemente al Sud, ma che già è una realtà in tutto il territorio. Basta guardare le piante che stazionano tutto l’anno sui terrazzi delle città del Nord. Troviamo banani, dracene, palme. Più silenziosamente ma subdolamente, con le nuove piante arrivano anche gli insetti. Qualche anno fa è stata la volta della zanzara tigre (Aedes albopictus), poi della zanzara coreana (Aedes koreicus).

È di questi giorni l’annuncio dell’arrivo della zanzara giapponese (Aedes japonicus). Era stata identificata, qualche mese fa, in Austria e poi, in uno studio di monitoraggio, è stata trovata anche in Italia nelle Venezie, precisamente nella provincia di Udine. È stata trovata già in diversi Paesi europei. La zanzara giapponese è considerata la terza specie più invasiva tra le zanzare ed è nella top 100 delle specie più invasive del mondo. Ciò vuol dire che presto la troveremo diffusa su tutto il territorio. La sua diffusione è facilitata anche dalla sua particolare resistenza al freddo. Diurna, è stato dimostrato che può trasmettere alcune malattie come Dengue, Chikungunya ma pare che possa anche inserirsi nel ciclo epidemiologico di Weat Nile. La deposizione delle uova avviene ovunque vi è acqua stagnante, un habitat difficile da cancellare. Peraltro è ormai dimostrato che quando un insetto si insedia in un nuovo territorio, è impossibile eliminarlo. Sono ormai a uno stadio avanzato ricerche che permettono di produrre e mettere nell’ambiente maschi sterili, capaci di accoppiarsi con le zanzare femmina, ma da cui non nascerà mai una prole. Metodo che ha sollevato le reazioni degli animalisti.

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Il filosofo sul campo e décolleté in vista

I ribelli di tutto il mondo non hanno capito nulla. C’è un campione del gesto alternativo, Bernard Henri Levy, e se lo fa scappare. Intervistato da Repubblica (i suoi reportage per Maurizio Molinari sono ora un libro e un film) ci ha sopraffatti con le sue gesta da “filosofo sul campo”. Se c’è un popolo che soffre, si chiami Bangladesh, Libia o Panshir, lui corre sul posto con la camicia sbottonata e il petto offerto agli avversati. E ai fotografi. Certo, si muove con le spalle coperte. Racconta che il padere gli disse: “Visto che stai per rinchiuderti in quel luogo d’inferno tanto vale tu lo faccia nelle migliori condizioni possibili”. Quello chiamò l’amico François Pinault che fondò apposta una casa di produzione. Parliamo di Pinault, il magnate del lusso, che BHL vuole stare tarnquillo. Ma è uno che lotta contro l’ingiustizia e in politica sceglie solo presidenti della Repubblica doc: Mitterand, Sarkozy, oggi Macron, uno vale l’altro. Le Monde diplomatique gli ha dedicato uno speciale: “l’impostura BHL”. E in un ritratto di qualche anno fa lo chiamava “il più bel decolté di Francia” per via della camicia sempre aperta. La stessa con cui nel Panshir assicurava al figlio di Massud che lo avrebbe aiutato, anche con le armi. E quello è ancora lì che aspetta. Magari gli apre una casa di produzione.

La quota 100 dei giornalisti

Ottobre, è tempo di manovra e quando è tempo di manovra è sempre tempo di parlare di pensioni. Quest’anno il tema è particolarmente delicato perché scade “Quota 100”, misura voluta da Salvini ai tempi del Conte-1. Premessa: Quota 100 è stata un flop ed è stata pure un favore fatto a lavoratori (uomini) a reddito medio-alto coi soldi di tutti: flop perché doveva servire a un milione di persone intrappolate dalla “riforma Fornero” e l’hanno usata finora in 341mila; pessima idea perché per andare in pensione a 62 anni con 38 di contributi – e relative, pesanti penalizzazioni per ogni anno risparmiato – bisogna poterselo permettere. Sui giornali, però, la critica principale – spesso appaltata alla Ue – è stata il costo. Un paio di esempi: “Quota 100 e pensioni anticipate: una zavorra sui conti“ (Il Sole 24 Ore nel 2019); “Quota 100 costa troppo, allarme pensioni” (Il Messaggero nel 2020); “Addio Quota 100, torni la Fornero” (La Stampa nel 2021). Bisogna stare al lavoro fino a 67 anni, anzi meglio 70: opinioni che non ci sentiamo di condividere, ma di certo legittime. È un po’ strano però che siano pubblicate su quotidiani che da oltre dieci anni, e ancora oggi, prepensionano giornalisti anche di 58 anni a spese dei contribuenti (l’ultima novantina sono del gruppo Gedi). L’onere di queste uscite anticipate dal lavoro – Il Fatto lo ha già scritto – è per buona parte a carico dello Stato già dal 2009 ed è stato rifinanziato nel 2014, 2016, 2017 e 2019: nel 2020 è stato di 44 milioni. State sicuri che ora arriveranno altri soldini pubblici per abbassare il costo del lavoro di lorsignori editori. E ancora: questa faccenda ha ulteriormente peggiorato – e ancor più lo farà in futuro – i già malmessi conti dell’Inpgi, l’ente previdenziale dei giornalisti, in rosso dal 2011 e con un buco che oggi s’aggira sul miliardo e mezzo che in futuro sarà coperto dallo Stato sia che Inpgi rimanga autonomo sia che, soluzione più sensata, venga assorbito dall’Inps. Pare, così dicono sindacato e molte associazioni di categoria, che avere una cassa autonoma sia una garanzia per l’autonomia dei giornalisti, però poi se mentre tu prepensioni dici agli altri che devono morire al lavoro più che autonomo sembri il marchese del Grillo…

Gualtieri style, tra visciole e zero cinghiali

Notiamo con un certo rammarico il tentativo di non cogliere la vera, grande novità che accompagna l’arrivo di Roberto Gualtieri in Campidoglio. Pur di sviare i cittadini-lettori, la grande stampa usa come arma di distrazione di massa la torta con ricotta e visciole. Lui “sceglie sempre lei” e pur “in tempo di marron glacés”, il più votato non sente ragioni e si fionda, competente e determinato, sulla lasciva leccornia, scansando “pastarelle, crostatine, meringhe, rotoli con cioccolato e mont blanc” (Repubblica). Un racconto ad alta gradazione glicemica quello sul nuovo sindaco di Roma (uno di noi, uno come noi) che si dipana da Dolce Kosher, l’amata pasticceria di via Fonteiana, al barbiere di fiducia (“lo stesso di Francesco Totti”, da bravo romanista), fino alla soglia del “supermercato” naturalmente “Doc”. Egli, invariabilmente “discreto, squisito, gentile, quando viene si mette in coda come tutti”: proprio come Mario Draghi, negli alimentari di Città della Pieve, non spintona, non sputa per terra ed evita di prendere a calci chi lo precede. Un comportamento straordinario che non sfugge neppure al Messaggero, infatti (e qui torniamo in zona visciole e ricotta) “non passa mai avanti, non prova a intrufolarsi o a farsi vedere per essere servito prima”. È l’inconfondibile stile dei Migliori, baciati dalla sorte e da madre natura: “È alto, ha un passo svelto, sempre vestito elegante, diciamo che si nota, spiega una signora” (Repubblica). Insomma, un figaccione. Su tutto aleggia “un misto di commozione e di grande speranza, il sentimento che si fa largo tra le strade alberate di Monteverde tra gli angoli di questa parte di Roma che ieri rivendicava un primato tutto suo: è qui che abita il nuovo sindaco” ( Il Messaggero). Come si vede, un ritratto sobrio ed emozionante, ma che insiste a non voler cogliere il vero significato dell’Avvento: la scomparsa dei cinghiali. Gli ultimi erano stati avvistati nei paraggi della Cassia, proprio alla vigilia dei ballottaggi, come estremo monito per l’elettore e le guardie zoologiche. Ma allora che senso ha divagare tra pasticcini e rasoi nel momento in cui i voraci ungulati, eterna piaga della Città eterna negli anni bui di Spelacchio e di Virginia Raggi, sembrano disdegnare i cassonetti (forse già svuotati e tersi) per un ritorno alla natura? Non cogliere questi prodigi come manifestazione di una epifania belloccia e di un rinascimento alle visciole, è omissione che non può non sconcertare.