I giganti del web nel primo semestre 2021 hanno registrato una crescita del fatturato a doppia cifra (+31,1%) pari a 667 miliardi di euro. In Italia valgono 4,6 miliardi di euro secondo l’indagine annuale dell’area Studi Mediobanca sulle 25 Software&Web companies mondiali con un fatturato oltre i 9 miliardi. Metà dei 1.153 miliardi fatturate da tutte nel 2020 sono riconducibili a Amazon, Alphabet (ovvero Google) e Microsoft. Circa il 40% dell’utile ante imposte è stato tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con conseguente risparmio di 10,7 miliardi nel 2020. Il fisco italiano ha incassato 80 milioni.
Poche modifiche, il bavaglio Costa passa alla Camera
Via libera della Commissione Giustizia della Camera al decreto legislativo del governo che imbavaglia pm e giornalisti. La maggioranza, compreso M5S, nonostante avesse presentato delle modifiche per evitare le censure, ha dato parere positivo al dl sulla presunzione di innocenza che prevede “esclusivamente comunicati ufficiali” dei procuratori e in casi eccezionali conferenze stampa, impedendo così ai giornalisti di informare su inchieste che coinvolgono esponenti pubblici. Nel parere di Enrico Costa, Azione, si suggerisce al governo pure di chiarire meglio i paletti delle conferenze stampa: i procuratori possono organizzarle, come dice il testo governativo, “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti”, ma con “un atto motivato”. Costa, in realtà, avrebbe voluto l’abolizione delle conferenze (d’accordo centrodestra e renziani, contro M5S, Pd e Leu), la mediazione del sottosegretario Sisto e infine il sì della maggioranza al bavaglio originale, senza altri giri di vite. Contro solo Alternativa c’è. Esulta Costa: il procuratore “non potrà più svegliarsi la mattina e convocare i giornalisti, perché ci vuole un interesse pubblico, senza il quale deve limitarsi al comunicato ufficiale. Non potrà più accadere che ogni inchiesta sia spiattellata e non potrà accadere che in base al numero degli arresti di una inchiesta dipenda la presunzione di innocenza degli indagati”. Esulta anche Anna Rossomando: “Un testo condiviso a sostegno dei principi che i processi si celebrano nei tribunali con le relative garanzie, non nelle piazze mediatiche”. Nessun commento dal M5S.
Siae, hacker attaccano e chiedono 3 milioni. Rischio nuovi brani dei big sul “Dark web”
“Hello, Siae! All your files have been stoled!” (Ciao, Siae! Tutti i tuoi file sono stati rubati). Iniziava così il messaggio in inglese giunto alle 4.53 del 18 ottobre scorso sulla casella email del direttore generale della Siae, Gaetano Blandini. L’attacco hacker al database dell’ente che si occupa della protezione del diritto d’autore in Italia è ancora in corso, anche se il furto di dati sembrerebbe – il condizionale secondo gli investigatori è d’obbligo – essere stato bloccato. Il gruppo di pirati informatici Team Everest, nato nel 2020 e già autore di decine di atti di pirateria in tutto il mondo, in sostanza ha sottratto alla Siae circa 28 mila file afferenti a carte d’identità, codici fiscali, contratti e altri dati sensibili e ne ha pubblicati una piccola parte sul Dark web a titolo di “sample”, chiedendo il pagamento di 3 milioni di euro in bitcoin per bloccare la pubblicazione.
“Abbiamo un numero enorme di passaporti, patenti di guida, documenti di pagamento, conti correnti bancari, carte di credito e altri dati”, hanno scritto gli hacker nel loro messaggio di rivendicazione. I vertici dell’ente hanno già comunicato che non hanno intenzione di pagare alcun riscatto. Uno dei problemi più gravi, stando a quanto spiegano fonti informali della Siae, non è tanto per i dati sensibili – c’è anche questo aspetto, ovviamente – quanto al fatto che fra i file sottratti potrebbero esserci anche brani musicali inediti appena depositati, che dunque potrebbero entrare nella disponibilità di chiunque. In sostanza, la band o il cantautore famoso che hanno depositato delle canzoni nuove, magari con l’intenzione di pubblicarle su un nuovo disco o di presentarle al Festival di Sanremo, potrebbero vedersele pubblicate sul Dark web. Ovviamente, nulla è dato per certo e gli approfondimenti sono ancora in corso.
Al lavoro ci sono i tecnici della Polizia postale, che nelle prossime ore invieranno un’informativa alla Procura di Roma. A quel punto sarà aperta un’inchiesta con le relative ipotesi di reato, fra le quali dovrebbero esserci accesso abusivo a sistema informatico e tentata estorsione. A differenza dell’attacco hacker subito in agosto dalla Regione Lazio, in questo caso i file non sarebbero stati criptati, ma solamente rubati. Questo li rende accessibili, anche se il fatto che il ransomware sia ancora attivo non fa stare tranquilli i tecnici. Il virus è entrato nei database Siae attraverso una email di phishing, una “trappola” cui potrebbe aver abboccato un dipendente. “Per ora non c’è un danno economico per la società, c’è comunque un danno d’immagine grave”, ha detto il dg Blandini.
Lamorgese, colpo a Salvini: Maroni arriva al ministero
Dopo settimane di attacchi, richieste di faccia a faccia e di dimissioni, il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha fatto passare la buriana dell’informativa sull’assalto alla Cgil per servire la vendetta nei confronti di Matteo Salvini: ha nominato Roberto Maroni, suo predecessore nella Lega, presidente della Consulta per l’attuazione del Protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura e del caporalato. Il compito della Consulta sarà quello di sostenere le iniziative anti caporalato previste dal Piano triennale per contrastare lo sfruttamento lavorativo in agricoltura. L’ex segretario si è insediato ieri al Viminale. “Grazie a Maroni, che ci potrà aiutare con la sua grande esperienza” ha detto Lamorgese. “Sono onorato – ha risposto lui – c’è molto da fare, gli sfruttatori sono sempre in agguato”.
Quello di Lamorgese è un colpo a Salvini, perché Maroni è un nemico del segretario nella Lega, espressione della vecchia guardia di Bossi, Giorgetti e dei governatori. Negli ultimi mesi aveva attaccato più volte il capo. Da ultimo aveva definito un “errore” la linea di Salvini contro il Green pass criticandola duramente: “Così rischia di sconfinare nell’assenza di progetto per il domani della Lega” aveva detto elogiando i governatori “che infatti non ragionano così”. Ieri, fonti della Lega hanno fatto filtrare “grande soddisfazione” per la nomina di Maroni: “Per ottenere dei risultati, un ministro palesemente inadeguato deve ricorrere a un importante esponente della Lega. Maroni ha il pieno sostegno del partito”. L’ex segretario doveva essere il candidato sindaco della Lega a Varese, ma a giugno aveva rinunciato per problemi di salute e lunedì al ballottaggio il suo sostituto Matteo Bianchi ha perso contro il dem Davide Galimberti. Ora la chiamata al Viminale. Proprio mentre Salvini chiede da settimane un incontro con Lamorgese, finora ignorato.
La Lazio sospende il falconiere “fascista”
Juan Bernabé, lo storico addestratore dell’aquila Olympia, simbolo della Lazio, al termine del match vinto dai biancocelesti sull’Inter per 3-1 lo scorso sabato è andato sotto la tribuna Monte Mario, occupata dai tifosi di casa. Il falconiere dopo aver fatto a più riprese il saluto romano, ha partecipato ai cori fascisti dei sostenitori che cantano a gran voce “Duce! Duce!”. Il video della performance finito presto in Rete gli può costare il posto dopo dieci anni. Protesta la comunità ebraica di Roma. Lui si giustifica: “Sono di Vox non fascista” e ritiene che il gesto fosse “militare”. La nota della Lazio parla di “atteggiamenti che offendono la Società, i tifosi e i valori ai quali la comunità si ispira”. Per adesso è sospeso.
Juve, biglietti facili. Ultras condannati
I Drughi, principale gruppo di ultrà della Juventus, avevano costituito un’associazione a delinquere per cercare di estorcere biglietti e abbonamenti a prezzo agevolato dal club di Andrea Agnelli. Lo ha stabilito il tribunale di Torino ieri sera infliggendo una condanna a quattro anni e dieci mesi di reclusione al leader Dino Mocciola. Pene inferiori per altri tre Drughi. È l’esito del troncone principale dell’inchiesta “Last Banner”, con cui nel settembre 2019 la Digos della questura torinese aveva disarticolato i principali gruppi della curva sud. Il tribunale ha riconosciuto la validità delle accuse di associazione a delinquere, tentata estorsione e violenza privata, commesse dagli ultrà nei confronti di altri tifosi. I giudici hanno stabilito anche alcune assoluzioni, soprattutto agli esponenti del gruppo “Fighters-Tradizione”. Un risarcimento è stato riconosciuto al club bianconero, ad Alberto Pairetto e altri dirigenti per un totale di 53mila euro. Dall’operazione “Last banner”, la Questura di Torino non ha più autorizzato la costituzione di nuovi gruppi ultrà nello stadio della Juventus.
Il Newcastle vieta ai fan i vestiti “arabi”
Nell’ultima di campionato contro il Tottenham, alcuni fan del Newcastle indossavano abiti tradizionali e altri copricapi mediorientali. Ieri una nota diffidava i tifosi della squadra da poco passata sotto il controllo del fondo per gli investimenti pubblici saudita (Pif) gestito dal principe Bin Salman, dal rifarlo. L’acquisizione del club ha già scosso la Premier, tanto che il comunicato del Newcastle mette le mani avanti: “Nessuno del nuovo gruppo di proprietà si è in alcun modo offeso dall’abbigliamento dei tifosi che hanno scelto di festeggiare in questo modo. È stato un gesto che è stato riconosciuto come positivo e accogliente nei suoi intenti. Tuttavia, rimane la possibilità che vestirsi in questo modo sia culturalmente inappropriato e rischi di offendere gli altri”.
Anche Bisignani tra gli indagati, Verdini sarà sentito a giorni
Violazione della legge Anselmi. È l’ipotesi di reato per la quale la Procura di Perugia ha iscritto Luigi Bisignani tra gli indagati dell’inchiesta sulla presunta “Loggia Ungheria” di cui ha parlato in diversi verbali dinanzi ai pm di Milano l’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara. Al manager ed ex giornalista viene contestata la violazione della legge che vieta la costituzione delle associazioni segrete, stessa accusa per la quale è finito nel registro dei pubblici ministeri guidati da Raffaele Cantone il nome di Denis Verdini, come rivelato dal Fatto Quotidiano. Bisignani, sentito ieri nel capoluogo umbro: “Ogni volta che c’è una Loggia mi mettono in mezzo e ogni volta ne esco fuori. Non sono mai stato massone e della Loggia Ungheria non ho mai saputo niente”, ha commentato poi Bisignani. L’inchiesta conta quindi un nuovo indagato dopo i primi tre iscritti, ovvero Piero Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro, che si sono autoaccusati ammettendo di averne fatto parte, e dopo l’ex coordinatore di Forza Italia. Verdini, difeso dall’avvocato Marco Rocchi, è ai domiciliari, confermati a luglio, per scontare la pena di sei anni e sei mesi per la bancarotta dell’ex Credito Cooperativo Fiorentino. E proprio al suo avvocato è stato notificato l’invito a comparire dinanzi alla Procura perugina: l’interrogatorio è stato calendarizzato per la prossima settimana.
L’indagine con la quale si sta riscontrando la veridicità delle dichiarazioni rese da Amara davanti ai pm di Milano è in pieno svolgimento. Inizialmente a Perugia le iscrizioni nel registro degli indagati erano rimaste quelle originarie fatte per la violazione della legge Anselmi dai magistrati milanesi. Questi ultimi avevano poi inviato gli atti ai colleghi del capoluogo umbro, che avrebbero anche nuovamente sentito l’avvocato Amara, già in carcere a Terni per un’inchiesta dei pm di Potenza. L’avvocato siciliano dovrebbe essere risentito il mese prossimo.
“Agende ritoccate”. La frase non arrivò ai pm del caso Eni
Il verbale dell’11 gennaio 2020 che il Fatto ha potuto visionare è diviso in due parti. La prima si chiude alle 18.58 e alle 19.55 viene sottoscritto. La seconda si chiude alle 13.04 ma in questo (unico) caso mancano le firme. Si tratta della foto di una copia stampata. In quest’ultimo verbale si legge un dettaglio interessante: parlando di un funzionario Eni che si occupa di security, Amara racconta alla procuratrice Laura Pedio e al pm Paolo Storari che l’uomo gli avrebbe consigliato, in caso di “appuntamenti sensibili”, di “segnare sull’agenda nella stessa data e ora un appuntamento falso, in un luogo diverso” per “precostituire la prova di essere stato altrove”. Amara sostiene che in quell’occasione anche Claudio Granata, attuale numero due dell’Eni, gli avrebbe confidato di adottare la stessa accortezza. Ovviamente Amara potrebbe aver mentito e, fino a prova contraria, ipotizziamo che sia così. Il punto però è un altro.
Nel febbraio 2021 Storari invia una serie di mail ai colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, titolari del fascicolo Opl-245 che vedeva l’Eni accusata di corruzione (è terminato in primo grado con assoluzione per tutti gli imputati e Granata non era tra gli indagati, ndr). I due pm avrebbero dovuto trasmettere l’esito delle sue indagini alle difese di Eni: dimostravano l’inattendibilità di Vincenzo Armanna e anche le calunnie perpetrate, con la complicità di Amara, nei riguardi di Granata. Storari trasmette una bozza di richiesta di arresto di Armanna e Amara. Hanno accusato falsamente Granata di aver promesso ad Armanna, su incarico dell’ad di Eni Claudio Descalzi, la riassunzione nel colosso petrolifero, più altre utilità per un valore di 1,5 milioni l’anno. In cambio Armanna avrebbe dovuto attenuare le dichiarazioni contro Descalzi nel processo Opl-245. L’accordo si sarebbe chiuso nel 2014, nei pressi della Rinascente di Roma, tra Amara, Armanna e Granata.
Tutto falso, ricostruisce Storari, che nella bozza di richiesta di arresto cita gli interrogatori resi da Amara il 18 e il 24 novembre 2019. Non cita, però, l’interrogatorio dell’11 gennaio 2019 in cui – vero o falso che sia – Amara sostiene di aver saputo che Granata “taroccava” le sue agende quando aveva appuntamenti sensibili. Storari sostiene che Granata non poteva essere presente al “patto della Rinascente” perché ha ricostruito gli appuntamenti proprio attraverso l’agenda di Granata, incrociandoli con i pass degli ascensori Eni e le celle telefoniche. Era necessario citare anche il verbale dell’11 gennaio 2020? Non siamo magistrati e non sta a noi stabilirlo. Il fatto certo è che Storari ha accusato i suoi colleghi (che ora rischiano un processo per rifiuto di atti d’ufficio) di non aver trasmesso alle difese Eni i suoi risultati investigativi sulla questione Granata (e anche altre informazioni) ma non fornisce loro le dichiarazioni di Amara sui (presunti) camuffamenti delle agende. In altri passaggi Storari sostiene che alcune chat del 2013 tra Armanna, Descalzi e Granata – esibite proprio dal Fatto su richiesta della procura e ritrovate sul cellulare di Armanna – siano false perché Vodafone ha dichiarato che le schede di Granata e Descalzi in quel momento non erano intestate a loro. Nel verbale del 18 novembre 2019 (menzionato nella bozza di richiesta di arresto) Amara racconta di aver ricevuto da Granata un telefono che avrebbe dovuto utilizzare solo per chiamare l’alto dirigente Eni. E fu in quell’occasione che Granata gli avrebbe chiesto di registrare Armanna, in vista delle sue dichiarazioni in procura, per ricattarlo. Fino a prova contraria, consideriamo quella di Amara una menzogna, ma il punto resta identico: Amara sostiene che in Eni siano circolati telefoni particolarmente protetti ma di questa dichiarazione (che fu omissata, quindi probabilmente letta dai suoi colleghi, quando confluì nel processo Opl-245) nella bozza d’arresto non abbiamo trovato traccia. De Pasquale e Spadaro anche su questo punto sono stati accusati da Storari – e dalla Procura di Brescia – di rifiuto di atti d’ufficio. Peraltro, la perizia sulle chat tra Armanna, Descalzi e Granata, disposta dalla Procura di Milano per stabilirne l’autenticità, è in corso.
“Ungheria”, così si tentò di inquinare l’inchiesta
La storia dell’inchiesta sulla loggia Ungheria, e della divulgazione dei verbali secretati di Piero Amara, rischia di dover essere riscritta alla luce di una scoperta che il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare ai propri lettori: l’esistenza – e la circolazione – di ben nove verbali d’interrogatorio resi dall’ex legale esterno dell’Eni che riportano le seguenti date: 18 e 24 novembre 2019; 2, 6, 12, 14 e 15 dicembre 2019; 11 gennaio 2020. Quel che finora è stato ricostruito, infatti, è che nell’aprile del 2020, il pm Paolo Storari consegna al consigliere del Csm Piercamillo Davigo sei verbali in formato Word, quindi non firmati. Datiamo l’evento ad aprile 2020 perché è lo stesso Storari a indicare questa data, confortato dinanzi alla Procura di Brescia da Davigo che però l’anno prima, dinanzi ai colleghi di Perugia, qaundo collega la rottura col consigliere del Csm Sebastiano Ardita, alla conoscenza di notizie coperte dal segreto, colloca l’ evento a marzo, l’epoca in cui venne messo a conoscenza dell’esistenza della Loggia Ungheria. Chi vi scrive, però, di verbali secretati ne ha visionati nove – quindi tre in più – ma, soprattutto, non in formato Word: si tratta di verbali firmati dai pm, dall’indagato, dal suo avvocato. Copie che dovrebbero essere nei cassetti delle Procure. Ma non è stato né un pm, né un investigatore a metterci nelle condizioni di vederli. Erano altrove. E già questo è un elemento inquietante: perché mai queste copie sono in giro? Prendiamo a prestito le parole che Storari proferisce alla Procura di Brescia quando dà una definizione del contenuto di questi interrogatori: un “inferno”, roba che, se fosse risultata vera, avrebbe potuto far “cadere mezzo Paese”. Bene, com’è possibile che questo “inferno”, che questo materiale incandescente sia in circolazione? Delle copie Word affidate da Storari a Davigo s’è già scritto molto e le copie che il Fatto ha visionato non vanno confuse con i documenti Word affidati all’ex consigliere del Csm. Qui si parla d’altro: documenti ufficiali che qualcuno ha fotografato e portato all’esterno della Procura. A quale scopo? E soprattutto, quando?
Un indizioce lo dà proprio l’interrogatorio di Storari dinanzi alla Procura di Brescia quando dichiara che Vincenzo Armanna, durante un interrogatorio, mostra a lui e alla procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio un foglietto. Armanna è un ex dirigente Eni, in quel momento imputato per corruzione internazionale, con l’ad di Eni Claudio Descalzi e Luigi Bisignani, nell’ambito del processo Opl 245 (sarà assolto con tutti gli altri imputati in primo grado). Ma è anche l’uomo che ha dichiarato, confortato dalle conferme di Amara, di essere stato convinto a ritrattare proprio da uomini legati a Eni le sue accuse nel processo in cambio di una riassunzione nel colosso petrolifero e la conclusione di altri affari. Se tutto questo sia vero o falso lo stabilirà la Procura di Milano e l’eventuale processo. Quel che conta, però, è il dettaglio rivelato da Storari: “Il 17 febbraio viene interrogato Armanna… e durante l’interrogatorio mi sventola in faccia una pagina dell’interrogatorio dell’11 gennaio 2020, di Piero Amara, dove si parla di Ungheria. Interrogatorio secretato ovviamente… e me la sventola la fotografia dove ci sono le firme. Richiesto di dire: chi è che te l’ha dato s’inventa un sacco di balle”.
In sostanza, Armanna indica il nome di una persona – Filippo Paradiso, ex funzionario del ministero dell’Interno – che, perquisito, non risulterà in possesso di alcun documento. Il punto è questo: se la fotografia di quell’ultima pagina sventolata da Armanna, quella del verbale dell’11 gennaio 2020, dovesse coincidere con quella che il Fatto ha visionato, allora è certo che questo verbale – e potenzialmente, tutti – è in circolazione già dal febbraio del 2020. Quindi appena due mesi dopo le dichiarazioni di Amara e due mesi prima dei file Word consegnati da Storari a Davigo. Non male per essere un’inchiesta delicatissima.
Una spiegazione la fornisce sempre Storari nel suo interrogatorio, quando dice che a dicembre – ma probabilmente confonde il mese con gennaio –, Amara chiede di poter rileggere tutti i suoi verbali e, precisando che lui non era presente, dichiara: “Probabilmente in un momento di distrazione (dei presenti, ndr) mentre leggeva (Amara, ndr) ha fotografato una pagina”. Spiegazione valida per una pagina, ma non per un blocco di circa 90 fogli. A meno che – ed è difficile da credere conoscendo la serietà degli inquirenti – Amara non sia stato lasciato solo a pascolare per le stanze della Procura di Milano. Altra ipotesi: gli atti sono stati fotografati in più occasioni. Anche perché alcuni verbali – quello del 16 dicembre, per esempio – risultano fotografati direttamente dal monitor (con i bordi neri e di marca Samsung) di un computer. Ma essendo secretati, da quale altro computer, se non quello di una Procura o di un investigatore, potevano essere stati fotografati?
Per quanto il Fatto ha potuto verificare, i verbali combaciano nel contenuto letterale (anche se a volte sono disallineati: a tratti non collimano le righe, le ultime parole di qualche pagina finiscono nella successiva) con quelli in formato Word consegnati da Storari a Davigo e, quindi, da questo esame risultano autentici. Altri verbali sono stati invece fotografati mentre erano sul tavolo di una scrivania. Si scorge un codice (non si capisce se di Diritto civile o penale) edito dalla Hoepli. In altri casi i fogli presentano delle sottolineature o dei segni sui bordi con un pennarello. Non v’è scenario, in questa ricostruzione, che data la delicatezza di una simile indagine non risulti inquietante.
Ipotizziamo che li abbia fotografati Amara per conservarne memoria: ma come mai Armanna è in possesso di uno di questi fogli? Chi glielo ha dato? E perché? Qual è l’obiettivo? E come mai Armanna riporta il foglio in Procura “sventolandolo”? Qual è il segnale che sta lanciando agli inquirenti? I casi sono due: o la circolazione di questi verbali era funzionale a distruggere l’indagine avvertendo gli indagati o spingendo qualcuno a smentire Amara, oppure a rafforzarla, fornendo a eventuali testimoni l’opportunità di confermare le sue parole. In entrambi i casi, saremmo di fronte a un inquinamento probatorio devastante. Se davvero le foto e il contenuto di questi verbali, come è probabile, erano in circolazione già nel febbraio 2020, l’inchiesta sulla Loggia Ungheria è stata inquinata sul nascere. E, se così fosse, per raccontare la vera storia di questa indagine – e forse dell’esistenza stessa della Loggia Ungheria – è proprio da qui che si dovrebbe ricominciare.