“Alberghi, ristoranti e foto: Open pagava le spese per Renzi”

Spese alberghiere, ristoranti, sale e teatri in affitto. E ancora, spese telefoniche, servizi fotografici e riprese video. Sono i servizi che sarebbero stati pagati dalla Fondazione Open e di cui negli anni avrebbe usufruito Matteo Renzi. Precisamente dal 2012 al 2018, periodo in cui, secondo le ricostruzioni della Procura di Firenze, la Fondazione avrebbe sborsato in totale, per diversi servizi “fruiti” dall’ex premier, circa 549 mila euro. Due giorni fa, i magistrati hanno chiuso le indagini nei confronti di Matteo Renzi e altri 14. Il leader di Iv insieme agli ex ministri Maria Elena Boschi e Luca Lotti, all’imprenditore Marco Carrai e ad Alberto Bianchi (che della Open era presidente) è indagato per concorso in finanziamento illecito. I magistrati ritengono che la Open sia stata un’articolazione politico-organizzativa della corrente renziana del Pd, tanto che a “dirigerla” sarebbe stato proprio l’ex premier. Secondo i pm, parte delle donazioni volontarie alla Open (3,5 milioni in totale dal 2014 al 2018) sono state utilizzate per “sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana”.

Anche sul concetto di articolazione di partito da mesi si combatte un braccio di ferro tra Carrai e la Procura. L’imprenditore, ormai anni fa, ha presentato un primo ricorso contro le perquisizioni subite nel 2019 e ha incassato due pareri favorevoli della Cassazione che ha annullato l’ordinanza impugnata rinviando al Tribunale del Riesame per una nuova valutazione. L’ultima decisione del Riesame di Firenze è arrivata qualche giorno fa, quando i giudici hanno rigettato il ricorso di Carrai. Nella loro ordinanza ripercorrono le spese della Fondazione dal 2012, all’epoca Big Bang, poi Open, al 2018. “Tutti i prospetti di spesa – scrivono i giudici del Riesame – (…) appaiono indicativi che la Fondazione Big Bang prima e Open dopo hanno seguito le iniziative politiche e le strategie di Renzi per proporsi alla guida del Pd, della coalizione di centrosinistra, del governo nazionale, modulando i propri interventi e le proprie spese sulla base di esigenze e direttive” di Renzi. “Non sono emersi – aggiungono – impegni per convegni, tavole rotonde, dibattiti (…) che non fossero finalizzati al buon esito di una delle campagne elettorali nelle quali si impegnava il leader. Di per sé non c’è nulla di illegittimo e si rientra nell’auspicabile dialettica costituzionale, ma espone la Open a essere una creatura meramente simbiotica con Renzi e col raggruppamento” del Pd “a lui facente capo”.

 

“Poca cultura” Le hostess pagate più dei musei

Si parte dunque dal 2014. Quell’anno, per la kermesse fiorentina “Leopolda”, la Open ha speso poco più di 358 mila euro.

I giudici ritengono “di rilievo” lo scambio di email tra Bianchi, Renzi, Boschi e Lotti: “L’Avv. Bianchi illustra la situazione economica della Fondazione, in passivo al 30.09.2014 per 176.430 euro, l’ammontare immaginabile del costo per organizzare la Leopolda 2014, indicato in circa 400mila euro e l’importanza di trovare degli sponsor”. Bianchi chiede tra le altre cose anche la possibilità di rinviare la data della manifestazione. Annotano i giudici: “La decisione sul da fare risulta averla presa Renzi, che preferiva non rinviarla, optando per una cena di finanziamento ‘pro Leopolda’ e limitando gli spazi occupati nella struttura”.

Nel 2015 le spese della Fondazione per l’organizzazione della Leopolda ammontano, secondo la ricostruzione dei giudici, a 496 mila euro. In quell’anno “le uniche spese culturali – scrivono – risultano i biglietti pagati ad alcuni invitati ammessi a visitare Palazzo Vecchio, Palazzo Strozzi (ingresso mostra ‘Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana’) e il Museo dell’Opera del Duomo, costati 4.338, meno dei 20.666 costati per l’alloggio dello staff di Roma e per le hostess addette al servizio bimbi”.

 

2016-2018 il riscaldamento, gli uffici e il Falcon 900

Il 2016 è l’anno del Referendum costituzionale (che decretò la fine dell’esperienza di Renzi a Palazzo Chigi). Scrivono i giudici: “Si rileva che l’organizzazione della Leopolda 2016 e la Campagna per il Sì al referendum hanno impegnato la Fondazione Open per 1,8 milioni di euro”. In un passaggio dell’ordinanza si parla di un contributo da 260 mila euro della Open al Comitato referendario, “somma che verrà quasi completamente restituita (255 mila euro)”.

Il 2017 è invece l’anno delle primarie del Pd. Secondo i giudici, già a Natale del 2016 inizia la ricerca di alcuni uffici a Firenze. I giudici fanno riferimento ai messaggi tra Bianchi e Carrai in cui si parlava dell’“ufficio per Matteo”. È scritto nell’ordinanza: “Non si trattava soltanto di una ricerca fatta da amici per un altro amico, ma di un impegno che la Fondazione Open si assumeva per Renzi”: il canone di 7 mila euro al mese, 84 mila euro in totale per il 2017, “era a carico della Fondazione”. Bianchi e Carrai in quell’occasione, secondo i giudici, si “preoccupavano anche di aspetti meramente tecnici, come il mancato funzionamento del riscaldamento, ma anche dell’assistenza lavorativa a Renzi: vennero assunte due dipendenti”.

E poi c’è il 2018, quando la Open viene sciolta. Quell’anno Renzi viene invitato a Washington in occasione dei 50 anni dell’omicidio di Robert Kennedy”. Alla fine si deciderà di noleggiare un aereo privato – per i giudici pagato dalla Open –, un “Falcon 900 da 12 posti” per “134.900 euro”. Ovviamente le spese che la Fondazione ha sostenuto in questi anni per le Leopolde non sono state usufruite da Renzi. Nell’ordinanza però vi è una tabella con i servizi che invece, secondo i giudici, sarebbero stati usufruiti dal solo ex premier e pagati dalla Fondazione: 548.990 euro in totale dal 2012 al 2018. Scrivono i giudici: “Le voci sono costituite da: editoria, libri, giornali, acquisti di carburante e lubrificanti, spese alberghiere, pedaggi autostradali, biglietteria varia, spese ristoranti, rimborsi spese a piè di lista, locazione di sale, palchi e teatri, spese telefoniche, Internet, noleggi auto, altri costi inerenti (…), servizi fotografici e riprese video, contributi, donazioni ed erogazioni liberali, costi sostenuti in attesa di documentazione, acquisti vari”. Renzi attende di conoscere le carte dell’inchiesta, mentre da fonti a lui vicine “traspare un grande ottimismo una volta letta l’ordinanza del Riesame su Carrai”, definita “contraddittoria”.

Bundesbank, si dimette il superfalco Weidmann

Dopo dieci anni lascia il super falco d’Europa. Hanno colto tutti di sorpresa le dimissioni di Jens Weidmann, governatore della Banca centrale tedesca (Buba). Guidava l’istituto dal 2011, prima era stato consigliere di Angela Merkel. Ieri mattina, in una lunga lettera ai dipendenti della Buba, Weidmann ha scritto: “Sono giunto alla conclusione che più di 10 anni sono un buon periodo di tempo per voltare pagina, per la Bundesbank, ma anche per me personalmente”. Il capo della Banca centrale tedesca in questi anni ha guidato il fronte nordico contro le politiche monetarie espansive che hanno tenuto in piedi l’euro. È stato il più duro oppositore di Draghi alla Bce.

Weidmann è sempre stato critico con i piani di acquisto di debito pubblico per tenere in piedi l’eurozona. Durante la crisi del debito fu uno dei più vicini alla politica rigorista dell’allora ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble. E ancora prima delle elezioni tedesche, si auspicava un repentino ritorno, entro il 2023, al pareggio di bilancio e all’applicazione rigida del Patto di Stabilità. Per il banchiere centrale, il programma di acquisto di titoli sovrani, messo in piedi per fronteggiare la pandemia, dovrà terminare al più presto. Posizioni che lo hanno visto spesso isolato.

Con le dimissioni di Weidmann, effettive dal 31 dicembre, si libera una casella importante sulla scacchiera di Olaf Scholz. Il candidato cancelliere procede a grandi passi verso la formazione del governo. È probabile che l’avvicendamento con Merkel avvenga entro fine anno. Il socialdemocratico dovrebbe lasciare il ruolo che ricopre come ministro delle Finanze al liberale Christian Lindner. Quindi la presidenza della Buba toccherebbe a uno dei suoi socialdemocratici. Se fosse così si aprirebbe uno spiraglio per un atteggiamento forse più flessibile di Berlino sul tema delle regole fiscali europee, in particolare per assecondare la richiesta dei Verdi (terzo alleato di governo) che chiedono grandi finanziamenti per la riconversione energetica.

Bollette, solo 2 miliardi contro i rincari del 45%

Le decisioni prese in extremis non sono più una strada percorribile. Non c’è più solo il rischio di un aumento a doppia cifra: un rincaro fino al 45% sulle bollette di luce e gas è quello che accadrà tra poco più di due mesi, quando l’Autorità per l’energia (Arera) dovrà pubblicare il nuovo aggiornamento sulle tariffe valido per i primi tre mesi del 2022. Ma il governo, per contrastare il maxi-aumento, si è impegnato a stanziare 2,071 miliardi di euro nel 2022 e altrettanti nel 2023 (lo 0,1% del Pil) che dovrebbero confluire in un apposito fondo, così come prevede il Documento programmatico di Bilancio. Sicuramente però non basterà. A fine settembre, nonostante 3,5 miliardi messi dal governo, la bolletta della luce è aumentata del 29,8%, mentre il gas del 14,4%. Nel terzo trimestre con 1,2 miliardi stanziati, una famiglia ha pagato il +9,9% per la luce e il +15,3% per il gas.

“Si tratta di misure immediate – ha spiegato ieri il premier Mario Draghi, durante il suo intervento al Senato in vista del Consiglio europeo – a cui dovranno necessariamente seguirne altre di lungo periodo per migliorare la sicurezza degli approvvigionamenti e prevenire un’eccessiva volatilità dei prezzi”. Intanto, però, ci sono sul tavolo solo 2 miliardi che non riusciranno a contenere i rincari dei prezzi dell’energia che non solo per il momento non scenderanno, ma le oscillazioni potrebbero portare a ulteriori rialzi in vista dell’inverno quando a salire sarà soprattutto la domanda di gas per i riscaldamenti. Ma in Italia anche i prezzi dell’energia elettrica seguono il mercato del gas naturale e di quello dei permessi di emissione. Tanto che se per Terna (la società che gestisce la rete elettrica nazionale) nell’ultimo anno la bolletta elettrica ha visto un aumento di 40 miliardi di euro, le previsioni per l’Arera, l’Authority di settore, sono ancor più drammatiche. “Le previsioni di medio periodo – ha detto il presidente Stefano Besseghini – lasciano intravedere un processo ancora lento di riallineamento verso prezzi più bassi, con prezzi del gas naturale superiori ai 40 euro/MWh per il 2022, per scendere verso i 30 euro solo nel 2023”.

L’aumento dei prezzi dell’energia riguarda anche il resto dell’Ue, in particolare Spagna, Portogallo e Francia. Il 13 ottobre la Commissione ha presentato la sua strategia che formalmente punta al contenimento dei rincari ma di fatto dà indirizzi sul mercato del gas che, come ribadito dalla presidente Ursula von der Leyen, rimarrà il combustibile della transizione. Le strade sono due: da un lato rendere l’Europa quanto prima indipendente dalle forniture esterne attraverso la spinta sulle rinnovabili e dall’altro provare ad assicurare una riserva strategica comune europea da cui attingere in momenti di crisi. “L’Italia ha sollecitato la Commissione a esplorare rapidamente l’opzione di acquisti e stoccaggi congiunti di gas naturale su base volontaria con misure di medio periodo”, ha detto ieri Draghi. La proposta è appoggiata soprattutto da Spagna e Italia, meno dalla Francia del nucleare. Se ne parlerà comunque oggi e domani al Consiglio europeo. “Affronteremo la questione dello stoccaggio del gas – ha detto Von der Leyen, visto che non esiste un quadro per le riserve strategiche di gas come c’è per il petrolio, per poi passare al condizionale–. Potremmo prepararci meglio, ad esempio attraverso regolari stress test delle nostre capacità di stoccaggio e reazione, ed esploreremo anche il potenziale dell’approvvigionamento congiunto di gas, possibilmente su base volontaria”. Per le famiglie, invece, sono previsti sostegni di emergenza (buoni o pagamenti parziali e dilazionati delle bollette finanziati con i proventi delle aste per emettere C0) e misure di salvaguardia per evitare di rimanere senza luce e gas.

Draghi avvisa l’Ue: “Lo Stato è decisivo, ora meno vincoli”

Siamo ancora agli avvisi di principio, ma la scelta delle parole e la tempistica illuminano il cambio di passo e la sfida in atto. Ieri Mario Draghi – cresciuto politicamente nella grande stagione degli anni 90, del ritiro dello Stato dall’economia attraverso le privatizzazioni, di cui è stato il padre ideologico – ha cambiato il testo del suo discorso per inserire un elogio del ruolo del pubblico e lanciare un avviso a Bruxelles.

In Senato, il premier era chiamato a riferire in vista del Consiglio europeo di oggi con all’ordine del giorno: pandemia e vaccini; transizione digitale; costo dell’energia; migrazioni; commercio estero e la Cop26 sul cambiamento climatico. La fase è delicata, l’aumento dei prezzi di gas ed elettricità sta portando a rincari a doppia cifra delle bollette e la carenza di materie prime mette in crisi intere filiere produttive. In questo quadro la Commissione si muove a rilento. Martedì ha avviato l’iter per rivedere le regole fiscali Ue, ma non prima della fine del 2022, quando scadrà la sospensione del Patto di Stabilità decisa con la pandemia. Partita decisiva che può schiantare quel poco di ripresa garantita anche dal Pnrr, con i Paesi del Nord che mirano a lasciare intatto il quadro.

Draghi spiega che l’Italia vuole strategie condivise, dal digitale all’energia alle catene produttive. Vuole che Bruxelles discuta “con urgenza” l’acquisto collettivo e lo stoccaggio di gas per evitare una crisi energetica; che l’Europa raggiunga l’autonomia tecnologica in settori, come la produzione dei semiconduttori, che oggi sono la frontiera economica della scontro geopolitico. “L’Ue intende arrivare al 20% della produzione mondiale dei semiconduttori entro il 2030 – spiega – Per farlo, dobbiamo intervenire subito. La Cina e gli Stati Uniti lo stanno già facendo, investendo decine di miliardi. Per darvi un’idea, i sussidi statali di Cina e Stati Uniti vanno dal 30 al 60% del costo di un impianto”. È qui che il premier inserisce una considerazione non prevista nel testo distribuito in mattinata: “Questo, in realtà – spiega – fa venire alla mente un punto più generale: per fare questa transizione ecologica, per fare questa transizione digitale, non ci sono alternative all’intervento dello Stato. Lo Stato non può che essere pienamente impegnato. Se non c’è lo Stato, queste due transizioni non avverranno. E questo vale anche nei nostri rapporti con gli altri Paesi dell’Ue sulle molte regole che sono state sospese in questo momento”. Su questi aspetti, dice Draghi, “ci sarà occasione per parlarne man mano che le discussioni su queste regole procederanno nei prossimi mesi, ma ho voluto illustrare forse il punto fondamentale che bisogna affrontare nella discussione sulla ricostruzione di queste regole”.

Il senso è chiaro. La svalutazione del ruolo del pubblico, cominciata decenni fa, è oggi parte delle regole europee, ma è anacronistica nel mondo post Covid. In ballo ci sono le regole fiscali, ma anche e quelle sugli aiuti di Stato, oggi attenuate o sospese fino a fine anno. Questa architettura pesa come un macigno nella competizione internazionale e lo farà sempre di più. Le decisioni relative sugli aiuti di Stato risentono dei rapporti di forza politici, sono lente e farraginose mentre attori globali come Cina e Usa si muovono liberamente.

Come detto, siamo alle dichiarazioni di principio e non è chiaro se Draghi intenda l’intervento pubblico con lo Stato in un ruolo di guida o solo a supporto di investimenti privati. Ma almeno inquadra la battaglia per cui l’ex Bce rappresenta un valore aggiunto per l’Italia: quando e come si torna alle regole pre-pandemia.

Manovra, ecco le cifre. Rissa sui bonus edilizi. No di tutti a quota 102

Ultima tra i 19 Paesi dell’Eurozona ad aver presentato alla Commissione Ue il Documento programmatico di bilancio (Dpb) che definisce l’architettura della prossima legge di Bilancio, l’Italia si caratterizza anche per la modalità di compilazione: le macro-voci, con le relative tabelle dei costi, non riescono a mettere d’accordo i partiti con numerose richieste all’interno della maggioranza di rivedere le varie misure che vanno presentate e discusse in Parlamento. La manovra, che dovrebbe ottenere il via libera del Consiglio dei ministri la prossima settimana, vale in deficit 23,4 miliardi. Ma tra le definizione ancora tutte da spiegare per superbonus, ammortizzatori sociali, reddito di cittadinanza e fisco, ad annunciare battaglia sul fronte delle pensioni sono anche i sindacati.

Ecobonus. La maggiore tensione che si registra nel governo arriva dalla possibile limitazione della proroga del Superbonus solo ai condomini. Nel Dpb, che stanzia 4 miliardi per la proroga dei bonus per ristrutturazioni edilizie, riqualificazione energetica, mobili, sisma e verde, non ci sono infatti dettagli sul Superbonus 110% (a fine settembre la spesa per gli interventi ha raggiunto 7,5 miliardi di euro) e non si fa riferimento al bonus facciate del 90% (introdotto nel 2020, quest’anno aveva una dote di 5,8 milioni di euro). Sono le due misure fortemente volute nel governo Conte 2, rispettivamente, dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini (Pd) e dal M5S. Ma anche la Lega non si dice contraria, soprattutto per il Superbonus. “Escludere le abitazioni diverse dai condomini significa escludere quasi del tutto la maggioranza dei Comuni italiani”, spiega il 5S Riccardo Fraccaro. “Il governo deve fare di più, il Superbonus contribuisce alla formazione di 12 miliardi di Pil e all’attivazione di 153 mila posti di lavoro”, sottolinea il presidente M5S, Giuseppe Conte. Il problema per il governo è legato al contenimento dei costi. Con la crisi delle materie prime stanno volando le spese di ristrutturazioni e, di conseguenza, le spese per lo Stato. Nelle ultime ore, è arrivata l’ipotesi del bonus 110% per le ristrutturazioni edilizie nel 2023, per ridurlo al 70% nel 2024 e al 65% nel 2025.

Pensioni.Resta il grosso punto in sospeso della prima manovra del governo Draghi. Per ora, stando alla tabella del Dpb, ci saranno solo 600 milioni nel 2022 (circa 450 nel 2023 e 500 nel 2024). La destinazione è ancora oggetto di confronto politico tra superamento di Quota 100, ape sociale, lavori gravosi o precoci e opzione donna. Il Cdm è riuscito ad approvare il Dbp solo grazie alla decisione di congelare la discussione sul capitolo pensioni, superando così la riserva della Lega che continua a dirsi contraria alla soluzione proposta dal ministro dell’Economia Franco. Tra le opzioni per modificare il pacchetto ci sarebbero deroghe a Quota 102 e Quota 104 per i lavoratori precoci. Anche il Pd spera in alcuni correttivi, come una flessibilità garantita per i lavoratori con mansioni gravose e la proroga di Opzione donna. Ma lo “scalone” da Quota 100 – la misura sperimentale targata Lega in scadenza e che si è rivelata un flop (solo 341 mila domande accolte) – è considerato inaccettabile anche dai sindacati. “Siamo sconcertati della proposta”, commenta la Cisl. Per Maurizio Landini (Cgil) “ è una presa in giro” L’ unico punto in comune è che tutti vogliono impedire un ritorno tout court alla legge Fornero (età pensionabile a 67 anni).

Reddito di cittadinanza. Qui lo scontro è decisamente meno acceso. I 5Stelle hanno incassato un aumento dello stanziamento di 800 milioni, che porta la cifra finale vicina ai 9 miliardi che si spenderanno nel 2021. In cambio arriveranno dei correttivi sulla misura, soprattutto sui controlli e una riduzione degli importi per chi rifiuta le offerte di lavoro (che, per la verità, sono assai rare).

Fisco. In due step si concretizzerà anche il taglio delle tasse, richiesto da Salvini, in attesa della delega fiscale. La misura vale 8 miliardi, 6 messi in manovra e due già stanziati e servirà soprattutto per la riduzione dell’Irpef (per il dettaglio servirà il testo della Legge di Bilancio, atteso per la prossima settimana).

Ammortizzatori sociali.Lo stanziamento disposto per una delle grandi incompiute del governo riaccende le polemiche. Per gli ammortizzatori sociali – che “saranno universali”, ha promesso ieri il ministro Andrea Orlando –, con il potenziamento della Naspi e nuovi strumenti per gestire le crisi industriali, nel 2022 ci saranno a disposizione almeno 3 miliardi, di cui 1,5 miliardi di nuove risorse e un altro miliardo e mezzo che arriva dalla sospensione del Cashback nel secondo semestre dell’anno. Ma il testo a cui lavora Orlando, e che non è ancora chiuso, in teoria costa più del doppio: cifra che il Tesoro non vuol concedere.

Gruppo M5S Camera, Crippa resiste. Oggi l’assemblea congiunta con Conte

Giuseppe Conte chiedeva e chiede il cambio del capogruppo del M5S alla Camera, ora, ma il Direttivo gli ha detto di fatto no. Non ha funzionato, l’appello di ieri del presidente dei 5Stelle: “Ho piena fiducia nei Direttivi uscenti, ma ho chiesto loro di valutare l’opportunità di anticipare il proprio rinnovo così da affrontare l’elezione del presidente della Repubblica con direttivi pienamente legittimati per tutta la durata della procedura”. Ossia, nulla di personale contro Davide Crippa, capogruppo a Montecitorio che scade a gennaio, e che non ha alcuna fretta di dimettersi, tanto più che gode del sostegno di Beppe Grillo. In serata però il Direttivo della Camera si riunisce e si accorda per restare in carica fino a dicembre, ossia per anticipare solo di un mese il rinnovo. Meno del minimo sindacale per Conte, che stasera vedrà i parlamentari in assemblea per analizzare l’esito delle Comunali. Ma l’ex premier dovrebbe anche presentare i cinque vicepresidenti. Le ultime voci davano certi in lista Paola Taverna e Riccardo Ricciardi. In corsa anche Alessandra Todde e Mario Turco.

Berlusconi “richiama” le ragazze

È sul piede di guerra, Barbara. “Il giorno dopo la mia presenza in Tribunale, ho ricevuto una telefonata da Berlusconi che mi invitava ad Arcore”: così racconta Barbara Guerra; “io ho rifiutato l’invito dicendo che, se voleva, poteva contattare i miei legali. I toni di Silvio non erano molto amichevoli”. All’udienza di ieri del processo Ruby ter, la ragazza – già assidua ospite alle feste del bunga-bunga ad Arcore – ha ribadito la sua linea d’attacco. Vuole spiegare anche in Tribunale che quelle riunioni del 2010 non erano “cene eleganti”. All’udienza precedente, quella del 6 ottobre, aveva dichiarato: “Eleganti? Mi viene da ridere, non scherziamo”. E ancora: “Ci ha rovinato la vita. Non troviamo più lavoro per colpa sua”. Ventiquattr’ore dopo, era arrivata la telefonata di Berlusconi e l’invito ad Arcore. Rifiutato. Sulla stessa linea anche Alessandra Sorcinelli, altra ospite dei festini che aveva espresso l’intenzione di “dire la verità” su quelle feste. “Anche a me il giorno dopo è arrivata una telefonata, ma non ho risposto”. Guerra e Sorcinelli continuano a tenere la scena. Sono due delle 29 persone sotto processo a Milano, insieme a Silvio Berlusconi, per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza. Il fondatore di Forza Italia è accusato dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Luca Gaglio di aver pagato milioni di euro per convincere i testimoni ad addomesticare i loro racconti davanti ai magistrati, a proposito delle feste organizzate ad Arcore nella pazza estate del 2010, quando per i saloni di villa San Martino girava anche Ruby, ovvero Karima El Mahroug, allora minorenne. Berlusconi ammette i pagamenti: ma per pura e disinteressata generosità, per aiutare ragazze e amici che gli erano stati vicini.

Già condannato a 2 anni in primo grado per falsa testimonianza, in un parallelo processo a Siena, Daniele Mariani, il silenzioso pianista delle feste notturne ad Arcore. “Berlusconi ha chiamato anche me”, ha aggiunto Sorcinelli, “ma non ho voluto rispondere sapendo che era lui”. Poi ha aggiunto: “Mi difenderò perché sono innocente, non sono stata corrotta e non ho preso soldi. Sono solo una vittima di questo processo. Siamo due persone perbene, di buona famiglia, e invece ci siamo trovate sui giornali come due criminali, due poco di buono. Io sono qua come donna per riprendere la mia dignità che per dieci anni è stata calpestata, ho il diritto di difendermi e di chiarire situazioni in cui sono stata coinvolta da gente che aveva la responsabilità di quanto è accaduto. Onestamente, non posso risponderne io, io sono piccola così, rispetto a un uomo così potente: ho anche un po’ di paura”.

Berlusconi non era in aula, ma il suo avvocato, Federico Cecconi, non ha escluso la possibilità che – dopo tante assenze e tanti rinvii – si presenti a rendere l’esame da imputato nel processo milanese. “È una valutazione che dovremo svolgere più avanti, tenendo certamente conto delle sue condizioni di salute, ma è un’opzione certamente praticabile”.

Camera: Marta si pappa lo stipendio per accudire B.

“Eccola! Eccola!”. Quando sta per iniziare la riunione di Forza Italia per decidere chi sarà il nuovo capogruppo alla Camera, gli occhi sono tutti per lei: per la Marta, intesa come Marta Fascina, la fidanzata di Berlusconi. A Montecitorio non si vedeva da un pezzo ché l’ex Cavaliere manca da Roma da un bel po’ causa Covid e altri acciacchi che gli hanno consigliato un lungo soggiorno in Francia oltre che un ricovero via l’altro a Milano, giusto per marcare visita di fronte ai magistrati che lo hanno atteso inutilmente.

Ma lei, Marta, non ci sta a passare per lazzarona ancorché di assenze a Montecitorio – dove è stata eletta quando la love story con il presidente non era ancora di pubblico dominio – ne abbia collezionate un mucchio: da che non mancava un giorno a inizio legislatura, ha rarefatto le sue presenze per stare appresso al compagno al punto da piazzarsi in fondo alla classifica, seconda solo ad Antonio Angelucci il ras delle cliniche laziali ed editore del Tempo e di Libero che con il suo 95,9 per cento di assenze è imprendibile. Ma Fascina lo segue a ruota: le votazioni alle quali non ha partecipato sono il 70 per cento del totale, ma per la gran parte delle volte risulta assente giustificata, anche ai fini della diaria.

“Evidentemente il nostro gruppo ritiene che fare l’assistente sentimentale di Berlusconi sia una funzione politica che merita di essere premiata” dice a denti stretti una deputata azzurra che, con la garanzia dell’anonimato, tira una legnata a Marta, ma pure ai vertici del gruppo fino a ieri guidato da Roberto Occhiuto, che ha lasciato l’incarico perché eletto presidente della Regione Calabria. Sì, perché, par di capire, che sia stato perlopiù il gruppo a firmare le giustifiche alla Fascina che ormai è una star.

E come tutte le primedonne è amata, ma pure odiata se qualche suo collega suggerisce che goda di un privilegio che è riservato a pochi: altrove sono soprattutto i leader di partito a essere messi assenti giustificati ai lavori parlamentari, dato che si fanno carico di tanti impegni politici che si svolgono fuori dal Palazzo.

In Forza Italia, per la proprietà transitiva, ne godrebbe invece la fidanzata che è soggetto politico a tutti gli effetti. Lo si è visto al suo rientro a Roma dove è stata accolta con tutti gli onori. “Bentornata, ben rivista, ci sei mancata”: è il susseguirsi di onorevoli voci che sgomitano pur di farsi al suo cospetto. D’altra parte c’è chi rimane folgorato da tanta sua eleganza, sebbene con una punta di malizia: “Tailleur e pantalone bluette, camicetta bianca e merce in bella vista: è una dea, proprio come appare in foto vicino a B.”.

Lei, la Marta, non ha bisogno di farsi largo: al suo incedere la ressa degli eletti si apre come le acque del Mar Rosso di fronte a Mosè per farla accomodare al primo banco nell’auletta dei gruppi dove si deve compiere il passaggio di consegne di Occhiuto. Che non è indolore perché attorno alla scelta del nuovo capogruppo si consuma lo psicodramma dei “ministeriali”: Mariastella Gelmini, Renato Brunetta, Mara Carfagna (e i loro seguaci) rumoreggiano: volevano che il nuovo capogruppo fosse Sestino Giacomoni, mentre Antonio Tajani, il facente funzioni di Berlusconi è riuscito a imporre Paolo Barelli con una mandrakata: si è presentato ad Arcore un giorno prima di tutti gli altri che avevano chiesto udienza, per convincere il capo che la contestazione sul capogruppo era un pretesto e che in realtà era in corso una specie di fronda.

Glielo ha rinfacciato nella riunione di ieri Gelmini, che per la resa dei conti si è rivolta direttamente alla Fascina: “Marta non è vero niente di quello che vi vengono a dire ad Arcore: noi che stiamo con Draghi non siamo dei traditori”.

Scioglimento Fn: il centrosinistra alla fine preferisce non disturbare

Tanto tuonò che finì con un ordine del giorno, il minimo sindacale, per non disturbare troppo il governo Draghi. Sul finire di una giornata di accelerazioni e frenate in un Senato pieno di vuoti, il centrosinistra molto (troppo) largo che va da Pd e M5S fino a Italia Viva ripone in un cassetto le mozioni con cui voleva chiedere al governo lo scioglimento del partito di estrema destra Forza Nuova, e si raggruma su un ordine del giorno unitario, approvato ieri sera da Palazzo Madama.

Un atto di indirizzo non vincolante per l’esecutivo, meno incisivo di una mozione, con cui “si impegna il governo a valutare le modalità per dare seguito al dettato costituzionale in materia di divieto di riorganizzazione del partito fascista e alla conseguente normativa vigente, adottando i provvedimenti per procedere allo scioglimento di Forza Nuova e di tutti i movimenti politici di ispirazione fascista”. Dall’altra parte, in tutti i sensi, resta il centrodestra, che alla fine si compatta su una mozione dove non si cita mai il fascismo. Piuttosto, il testo chiede al governo “di valutare le modalità per attuare ogni misura prevista dalla legge per contrastare tutte – nessuna esclusa – le realtà eversive che intendano perseguire il sovvertimento dei valori fondamentali dell’ordinamento costituzionale” esortandolo inoltre “a dare seguito alle verifiche e agli accertamenti della magistratura in ordine agli episodi del 9 ottobre”, cioè al sabato dell’assalto alla Cgil. Sillabe concordate anche con Fratelli d’Italia, il partito ovviamente più sotto pressione sulla vicenda, che rinuncia alla propria mozione “contro tutti i totalitarismi”. Ma il capogruppo di FdI, Luca Ciriani, morde ugualmente: “Il Senato è semideserto, eppure sembrava che la nostra democrazia stesse per cadere sotto i colpi dell’emergenza fascista e squadrista”. Effettivamente a Palazzo Madama il colpo d’occhio non è da grandi occasioni, e la mancanza di certezze sul numero legale è un nodo con cui il centrosinistra deve fare i conti per tutta la giornata. E che influisce sulla scelta di planare su un ordine del giorno unitario, così da non dover affrontare varie votazioni, con il rischio di andare sotto o, chissà, dividersi. Ma c’entra, eccome, anche la voglia di lasciare le mani libere a Palazzo Chigi: propenso ad attendere una sentenza della magistratura prima di decidere per la soppressione di Fn. E infatti ai piani alti del governo notano i toni “non secchi” sullo scioglimento dell’ordine del giorno.

Il resto lo fa il clima colloso di un mercoledì post elettorale, in cui gli emissari del governo e il Pd cercano un testo condiviso da tutti i partiti. Attorno alle 16.30 la capogruppo dem Simona Malpezzi chiede e ottiene un’interruzione dei lavori per un’ultima riunione. Ma dopo una breve e vivace capigruppo, in cui il leghista Massimiliano Romeo si fa sentire parecchio, si va in aula con due testi differenti. Ma c’è un patto di minima non belligeranza: centrosinistra e centrodestra votano e fanno approvare i rispettivi testi senza votarsi contro. A violare l’accordo sulle astensioni incrociate sono solo il dem Andrea Marcucci e Sandro Ruotolo del gruppo Misto, che votano no alla mozione del centrodestra. Su Forza Nuova è tutto qui: almeno per ora.

Il Caimano intima a Meloni e Salvini: “Voglio il Colle”

Dovevano vedersi per riappacificarsi dopo la batosta elettorale. E dare l’idea, con tanto di photo opportunity con Dudù e Dudina (i barboncini portati da Arcore), di essere una coalizione unita dopo i litigi e il derby per la leadership degli ultimi mesi. E così ieri in villa Zeffirelli, sull’Appia Antica, Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono stati ricevuti da Silvio Berlusconi nella sua residenza romana. I tre a pranzo hanno siglato il “patto della pera cotta”: centrodestra più unito, legge maggioritaria e voto compatto per il Quirinale. Per eleggere Berlusconi? Quello – è stato deciso su pressione del padrone di casa – “è il piano A” poi si vedrà. Di certo c’è solo una cosa: l’ex Cavaliere nel Colle ci spera eccome. Ed è disposto a fare di tutto per essere eletto.

Il primo ad arrivare nella lussuosa villa che fu di Franco Zeffirelli è Salvini, che si concede un giro per la residenza. Poi arriva anche Meloni, accompagnata dal fido Ignazio La Russa, mentre con Berlusconi ci sono Antonio Tajani e Licia Ronzulli. Il pranzo è servito: risotto vegetale, spigola e verdure e, per concludere, le pere cotte glassate con la marmellata. Il primo argomento è la sconfitta elettorale. Un’analisi con una veloce autocritica sui “candidati sbagliati” (Berlusconi) e arrivati “troppo tardi” (Salvini) che porta la conversazione sul futuro: entro dicembre saranno individuate le candidature delle Amministrative del 2022 e si tornerà su nomi politici.

Ma il leader di FI va oltre: chiede ai due “figliocci” di porre fine ai litigi e al derby interno. Una richiesta condivisa da Salvini e da Meloni che lunedì aveva detto che la sconfitta era dovuta al fatto che il centrodestra “ha tre linee diverse”. La soluzione trovata però si ferma al metodo e manda in soffitta la “federazione”: solo un maggior coordinamento sui temi. I tre leader si sono impegnati a incontrarsi settimanalmente per concordare la linea. Niente di più. Un’idea che resta sulla carta e che non si realizzerà visto che Lega e FI sono al governo e FdI all’opposizione. Salvini però ha chiesto a Berlusconi una riunione tra i ministri del centrodestra per coordinare le scelte al governo. La conversazione poi si sposta sui prossimi appuntamenti. In primis sull’elezione del presidente della Repubblica. “Posso farcela – ha detto Berlusconi ai presenti – se ho il sostegno di tutto il centrodestra, alla quarta votazione lo spazio c’è. Al quarto scrutinio mi mancano 30 voti. Voi mi sostenete?”. Salvini e Meloni, spiazzati, gli hanno risposto che lui “è il piano A”, poi “si vede”. “Dipende cosa vorrà fare Draghi” è stata la risposta imbarazzata di Meloni, che solo due giorni fa proponeva di mandare il premier al Quirinale e poi votare. Anche tra i fedelissimi di Berlusconi si pensa che la sua sia una candidatura di bandiera ma lui no, lui ci crede e vuole fare di tutto per arrivarci. E gli altri glielo fanno credere: “Il centrodestra sarà compatto e determinante per il Colle, abbiamo 450 voti su mille” arringa Salvini dopo il vertice. Berlusconi invece, nel faccia a faccia, si piega sulla legge elettorale: “Silvio, non facciamo scherzi – gli dicono Salvini e Meloni – niente inciuci dopo il voto e basta governi con tutti dentro. Devi dire no al proporzionale”. E così, nella nota finale, i tre leader si dicono “indisponibili” a una legge “proporzionale”. Si resta sul Rosatellum, insomma, che fa comodo a Salvini e a Meloni.

Negli stessi attimi però alla Camera va in scena lo psicodramma dentro FI sulla nomina del capogruppo per sostituire Roberto Occhiuto. Il gruppo è spaccato tra i filo-salviniani che sostengono Paolo Barelli (fedelissimo di Tajani) e il governista Sestino Giacomoni. Martedì sera 26 deputati – tra cui i ministri Brunetta, Carfagna e Gelmini – avevano firmato un documento per chiedere il voto segreto ma ieri è arrivato l’intervento di Berlusconi che sembrava aver posto fine alla querelle prima dell’assemblea dei deputati: su richiesta di Tajani, Berlusconi fa leggere a Occhiuto una lettera per nominare Barelli e Giacomoni come vice. Ma lo strappo si consuma lo stesso. Brunetta chiede comunque il voto, Bruno Pittalis ritira la sua firma per evitare la conta e così Barelli viene eletto per acclamazione. Ma a quel punto, dopo il ritiro di Giacomoni (“con il voto segreto avremmo tirato fuori le palle e camminato con le nostre gambe”), interviene Mariastella Gelmini che lancia un pesantej’accuse contro il cerchio magico Tajani-Ronzulli, facendo pensare a una scissione. “L’ultima stagione del berlusconismo non mi rappresenta e non rappresenta nemmeno lui – dice Gelmini – basta andare dietro agli alleati, non è tempi dei falchi: serve la linea moderata di Mara Carfagna. Abbiamo sbagliato tutte le candidature”. Poi accusa di non aver nemmeno ricevuto una telefonata negli ultimi giorni: “Noi ministri siamo esclusi dai tavoli con Berlusconi, siamo rappresentati come un corpo estraneo”. E ancora, rivolgendosi a Marta Fascina. “Hanno raccontato a Berlusconi che ci saremmo venduti e invece non è così. Gli raccontano solo parte della verità”. “Narrazione falsa e irreale” risponde Giorgio Mulè mentre Licia Ronzulli è durissima: “Gelmini insulta l’intelligenza di Berlusconi”.