2 B. al prezzo di 1

Quando pensavamo di esserci liberati definitivamente di B. (in senso politico), scopriamo con raccapriccio che ce ne sono addirittura due. Uno eurodeputato e candidato al Quirinale, l’altro imputato e candidato a varie sentenze per corruzione giudiziaria nei processi “Ruby-ter”, in aggiunta alla condanna definitiva per una frode fiscale da 7,3 milioni (ma solo perché altri 360 milioni di dollari frodati si erano prescritti), ad altre nove prescrizioni e a una raffica di assoluzioni perché si era depenalizzato il reato. Fino al 2013, quando divenne ufficialmente un pregiudicato e uscì a viva forza dal Senato per entrare nell’ospizio di Cesano Boscone ad assistere incolpevoli coetanei affetti da Alzheimer, dunque per fortuna ignari di tutto, i due B. erano una sola persona. Provvedeva lui stesso a ricordarcelo ogni giorno, usando le istituzioni per sistemare i suoi processi, le sue tv, i suoi affari e malaffari. Poi da antieuropeista che era si travestì da europeista, da estremista si camuffò da moderato, da riciclatore di fascisti allergico ai 25 Aprile si mascherò da antifascista, da padre del populismo si travisò da antipopulista. E la carnevalata funzionò. Giornalisti e politici cominciarono a scindere il delinquente dal politico. I suoi processi (perlopiù rinviati per malattie vere o immaginarie) nelle cronache giudiziarie (peraltro con titoli e articoli sempre più invisibili), tutto il resto in quelle politiche. Come se ci fossero due B.. Fino all’ultima pochade con le farsesche riabilitazioni dai (finti) nemici: da De Benedetti a Stampubblica a Enrico Letta, che non manca mai di rimpiangerlo ed esaltarlo come “grande federatore del centrodestra”.

Intanto le Olgettine raccontano le sue mazzette per non farle parlare e i cazziatoni perché han parlato. La Cassazione conferma i suoi finanziamenti a Cosa Nostra e condanna i suoi sodali per aver violato mezzo Codice penale: dalla prostituzione (Tarantini, Mora, Fede, Minetti) alla corruzione giudiziaria (Previti), dalla mafia (Dell’Utri, Cuffaro, Matacena) alla corruzione semplice (Paolo B., Formigoni, Sciascia), dalla bancarotta (Verdini) alla compravendita di senatori (De Gregorio), dall’estorsione alla truffa (Lavitola). Quanto basta per farne un appestato da non toccare neppure con una canna da pesca. Invece lo rimpiangono pure i presunti avversari, ansiosi di riabbracciarlo con qualsiasi pretesto (“maggioranza Ursula”, Quirinale, briscola) anche se comprava senatori per rovesciare i loro governi, li faceva lapidare dai suoi mazzieri e vanta un Palmarès che neppure Al Capone. Un po’ per la sindrome di Stoccolma, un po’ perché paga bene, un po’ perché tanti vorrebbero essere lui, un po’ perché non è quel B. lì: è quell’altro. “Mica so’ Silvio: so’ Pasquale!”.

“Ho sognato pecore elettriche” tra Mozart e “Blade Runner”

Pochi come Franz Di Cioccio e Patrick Djivas possono assurgere all’olimpo del rock nel nostro Paese. Le colonne portanti della Premiata Forneria Marconi sono tra i migliori musicisti internazionali e sono stati i primi ad avere un successo oltralpe già negli anni Settanta.

Ho sognato pecore elettriche è il loro nuovo album, da venerdì in uscita in tutto il mondo: dieci tracce cantate in italiano e altrettante in inglese (non la mera traduzione dei testi, ma la loro riscrittura a opera della poetessa Marva Marrow). Due i super ospiti, Ian Anderson e Steve Hackett, e molti i musicisti amici, tra cui il co-fondatore della band Flavio Premoli e Lucio Fabbri.

Franz e Patrick l’hanno presentato al Museo della scienza e della tecnica di Milano, per contestualizzare l’oggetto del concept album, il periodo distopico che stiamo vivendo. “Ma gli androidi sognano pecore elettriche” è una fase estratta dal film Blade Runner, vero ispiratore dei testi e delle musiche, contro ogni degenerazione dell’abuso e dell’invadenza dei computer nella nostra vita.

La musica è una fusione perfetta tra elettronica e prog rock: Atmospace ha un riff delizioso spiazzante a metà del brano; Mondi paralleli è simile per intensità a Burn The Witch dei Radiohead; La grande corsa rende omaggio a Schock In My Town di Battiato. Le altre tacce richiamano anche Marillion e Police, sono un vero inno alla jam session: c’è una libertà stilistica introvabile oggi in un album italiano e solo gli autori di Impressioni di settembre se lo possono permettere.

“Stiamo perdendo il potere del sogno” spiega Di Cioccio, “quello che ti spinge a fare le cose belle nella vita. Troppa invadenza della tecnologia, bisogna ritrovare l’entusiasmo, la fantasia. Io ho ancora il ragazzo dentro di me”. Djivas descrive bene questa loro libertà da “fratelli di ritmo”: “Ci siamo lasciati andare completamente, siamo sempre con l’orecchio aperto a tutti i tipi di suono. Nell’album ci sono innesti di duecento anni di musica, da Prokofiev al prog a Mozart: la sua espressione rende bene quello che significava per lui l’armonia, ‘metto delle note insieme che si vogliono bene’. Il nostro segreto è modificare costantemente le nostre composizioni”.

E Di Cioccio chiosa: “Abbiamo attinto alla classica e poi alla musica distopica, elegiaca e caotica insieme”. È previsto un incontro con i fan in vari Feltrinelli store (a Genova il 22.10, a Roma il 26, a Milano il 27) mentre il tour riprenderà già da questo mese, in attesa del cinquantennale della band.

Lampi di genio in letteratura che brillano come un’“Eclissi”

Un piacere sottile ma inestimabile. Sottolineare, trascrivere, serbare gelosamente le frasi dei libri. Brian Dillon ci ha ricamato Inseguendo eclissi, appena pubblicato da Il Saggiatore. Docente di Scrittura critica al Royal College of Art di Londra, le ha ricopiate per 25 anni nei suoi taccuini. Affini, interroganti, sfaccettate, capienti. L’arte discreta e sublime del saper tratteggiare interi universi nel volgere di un diorama di parole.

Ogni capitolo prende le mosse da una citazione, sfogliando l’atlante sentimentale delle letture del suo collezionista e meta-narratore. L’incanto suadente e obliquo dei distillati della grande prosa, poesia e saggistica. Le frasi come eclissi: intermittenze di bellezza, scintillii d’illuminazione. Possono trasformarci per sempre. Che si parli di amore o delitti, amicizie o viaggi avventurosi, imprese o astrazioni, “malattia e salute, la luce di un pomeriggio a New York, un ragazzo bianco che vuole essere nero”. Che siano brevi, lunghe, eleganti possibilmente.

Le 27 frasi del libro, tutte provenienti dal suo “cielo brulicante di annotazioni”, sono quelle che “brillano più intensamente”. E intorno a ognuna di queste Dillon addensa, alla stregua di Roland Barthes (“il santo patrono delle mie frasi”), un piccolo saggio. Zoom in avanti e carrellate all’indietro, come nel cinematografico effetto Vertigo. Niente aforismi o locuzioni a effetto: è il trionfo della libertà d’interpretazione. “Il tempo che antiqua le Anticaglie, e ha l’arte di far polvere di tutto, eppure ha risparmiato questi minori monumenti” scrisse Sir Thomas Browne, medico e saggista del Diciassettesimo secolo in un suo testo di ricerca sulle usanze funerarie. Già Virginia Woolf aveva affermato: “Pochi amano gli scritti di Sir Thomas Browne, ma quei pochi sono parte del sale della terra”. “A prescindere da quanto elaborato sia il rituale o quanto sicura la sepoltura, il nostro destino è essere dimenticati – aggiunge qui Dillon –. La lingua in cui Browne esprime tutto questo, tuttavia, è indelebile, le sue frasi elevate durano più a lungo della sua stessa tomba”.

Frasi che sopravvivono per l’eternità, “perché ogni frase scritta è una sorta di fantasma di fronte all’oblio universale”. Le frasi (la specialità della casa) di Thomas De Quincey, autore dell’ottocentesco Confessioni di un oppiomane inglese: “Non solo descrivevano o esprimevano i suoi accessi di pensiero e di sentimento, ma erano a loro volta eccitate, ispirate, sovrabbondanti a livello di logica, ritmi, sintassi, scelta delle parole e punteggiatura”. Dillon ne cita una (rigogliosa) in apertura, ma lascia il segno anche questa: il sogno, scrisse, è “quel meraviglioso apparato che costringe l’infinito a penetrare nel chiuso di un cervello umano, e getta cupi riflessi delle eterne verità”.

A proposito, diamo la parola a George Eliot. Dal ventesimo capitolo di Middlemarch: “Le immagini che si succedono come quelle di una lanterna magica nel sonno; e in certi momenti di malinconica desolazione Dorothea, per tutta la vita, rivide la vastità di San Pietro, l’enorme baldacchino di bronzo, gli atteggiamenti enfatici e i vestiti dei profeti e degli evangelisti sui mosaici in alto, come pure i drappi rossi appesi per Natale che si stendevano dappertutto come una malattia della retina”. Osserva Dillon: “Non mi aspettavo un linguaggio come questo, in cui l’empatia è fisica o chimica oltre che spirituale, morale ed estetica”.

Altre eclissi letterarie, inseguite e ghermite: Gertrude Stein (“Supponendo che…”), Samuel Beckett (“Quel sorriso sulla condizione umana tanto poco soggetto a essere spento dalle bombe…”), Joan Didion (“Nella pagina accanto, in alto: in tutta la casa, colore, verve, tesori improvvisati in felice ma anomala coesistenza”), Maeve Brennan (“Una singolare prospettiva aveva la signora guardandosi intorno nella stanza dove nulla era vero tranne i suoi occhi azzurri”). Qualche esempio dalla sala degli specchi allestita in un volume da leggere, e poi rileggere. “La frase richiede pazienza; è come aspettare che una fotografia si sviluppi”.

Tarantino: “Così uccisi Hitler”

Tarantino Unchained. Premiato alla carriera dalla Festa del Cinema di Roma, Quentin sentitamente ricambia, facendo la festa al politically correct, al Ku Klux Klan (e ancor prima David Wark Griffith) e, perché no, a Hitler. Ne ha per tutti, stampa compresa: “Qual è il rapporto tra epica ed etica nel mio cinema? Rispondere equivarrebbe a sollevare il pianeta, passiamo oltre”.

Sopra la sua testa incombe l’estatica Uma Thurman di Kill Bill: Volume 2, scelta quale effigie della XVI Festa, ma se ci sarà un terzo capitolo di quella saga o quale altro sarà il suo decimo – e ultimo? – film non è dato sapere: “Ignoro”. Eppure, la fine è vicina, parola di neo papà: Leo, che ha avuto dalla moglie israeliana Danielle Pick, non è arrivato per caso il 22 febbraio del 2020, “l’ho fatto quasi fatto apposta come tempistica, ovvero verso l’epilogo della mia carriera”. L’autocontrollo delle nascite è da dittatore della Settima Arte, per la quale contrariamente a illustri profeti di sventura – ultimo David Cronenberg: “Il cinema è morto” – Quentin si dice ottimista: “La sala che ho a Los Angeles, il New Beverly, programma film vecchi, e dopo la pandemia ha registrato un’affluenza incredibile: tutti avevano voglia di ripartire. Non credo che il cinema sia spacciato, altrimenti non avrei da poco acquistato una seconda sala, ma è vero che parliamo di una nicchia d’essai: non so se i blockbuster continueranno a uscire in tremila copie…”.

Futuro incerto e presente fosco, alla voce politicamente corretto: “È vero, oggi fare un film è più difficile, ma non impossibile. Bisogna volerlo, credere nei propri principi e non preoccuparsi di quel che piace alla gente: non bisogna starci su a riflettere troppo”. Il rischio è la paralisi creativa, lo spauracchio dell’autocensura, ma il nostro ha fatto tesoro dell’esperienza del superlativo ma divisivo Pulp Fiction (1994): “L’importante è che un film esprima lo spirito del tempo, e non sia istantaneamente dimenticabile: ci saranno sempre persone a cui non piacerà, ci saranno critiche spietate, fa parte del gioco. Se gli anni Novanta si sono rivelati molto più permissivi degli Ottanta, lo si deve anche a Pulp Fiction”.

Vuoi per cinefilia o memoria lunga, il passato per il cinquattottenne regista di Knoxville, Tennessee, non è mai una terra straniera, piuttosto un territorio di caccia, e non alle streghe: “Non ho voluto intenzionalmente riscrivere la Storia in Bastardi senza gloria (lo dice in italiano, “mi piace questo titolo!”), poi in Django Unchained e quindi in C’era una volta… a Hollywood, sceneggiando il primo mi sono messo in trappola da solo, non sapevo come uscirne sicché ho deciso di uccidere Hitler. E no, non ho rimpianti”. Il bersaglio grosso è addirittura precedente, e Quentin non l’ha ancora centrato sul grande schermo: David Wark Griffith, il regista del capolavoro muto The Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1915). “Non solo è intrinsecamente razzista, quell’opera ha favorito la rinascita del Ku Klux Klan negli Usa. In sessant’anni sono stati assassinati dal Kkk tanti neri ed ebrei, e sono convinto che se Griffith fosse stato processato a Norimberga con gli stessi principi secondo cui lo furono i nazisti sarebbe stato dichiarato colpevole. Non voglio ucciderlo, non voglio uccidere nessuno, ma ci sono persone che se non fossero esistite…”. Appunto, meglio parlare di amici e nemici immaginari: “Con Cliff Booth (Brad Pitt in C’era una volta) ci troveremmo bene, mi piace, è simpatico. Odio Calvin Candie (lo schiavista Leonardo DiCaprio di Django Unchained), discuterei a non finire con quel piagnucolone di Rick Dalton (DiCaprio, C’era una volta). Del resto, in C’era una volta a Hollywood ci vivrei, a differenza di tutte le mie altre opere”.

E chissà Tarantino che avrebbe potuto fare di Monica Vitti, irripetibile eccellenza cinematografica italiana, la prima e unica mattatrice, capace di incomunicabilità assoluta – la tetralogia di Antonioni – e confessioni disarmanti: “Se mi si toglie la paura, la nevrosi, l’angoscia, io come faccio ad andare avanti? Se mi ritrovo sono perduta”. È Fabrizio Corallo a firmarne un ritratto rotondo, sensibile, perfino struggente, dal titolo strepitoso: Vitti d’arte, Vitti d’amore. Prezioso nel repertorio, meno nelle talking heads, troppe e non tutte con qualcosa da dire, il documentario restituisce meritoriamente il primo piano a nostra Monica dei miracoli, con “vis comica pari a Tina Pica” (Christian De Sica), residenza “nel cuore di tutti” (Carlo Verdone), “carattere incoercibile” (Sandro Veronesi) e “una grandissima conoscenza dell’esistenza” (Barbara Alberti).

 

Meloni e l’ipotecapara-fascista

La reazione antifascista alla devastazione della Cgil, l’adesione corale alla manifestazione sindacale di piazza San Giovanni, lo sdegno per le frasi demenziali di Michetti, il livore per le furbesche ambiguità di Salvini e Meloni, hanno certamente contribuito a rendere netta la vittoria elettorale della sinistra.

Gli elettori hanno capito che non occorre aspettare situazioni estreme per evitare un ritorno del fascismo: se Mussolini e le sue sparute squadracce fossero state bloccate in piazza San Sepolcro il 23 marzo 1919, nel 1922 non ci sarebbe stata l’oceanica marcia su Roma. L’allarme nei confronti dei rigurgiti fascisti non è mai eccessivo e avere fascisti confessi nelle liste elettorali, avere centinaia di migliaia di giovani che militano in una miriade di formazioni parafasciste non sono indizi di poco conto. È anzi opportuno chiedersi come mai i fascisti, rozzi ma non stupidi, abbiano osato proprio ora un’azione eclatante come l’attacco al sindacato. Se lo hanno fatto pochi giorni prima di queste elezioni è perché, con un atto così estremo, intendevano mettere la propria ipoteca sul partito della Meloni in vista di una sua vittoria alle comunali di Roma e, poi, alle elezioni politiche.

L’Italia è l’unico paese europeo con un partito di centro-destra e due partiti di destra. Quando ci sono tre partiti di destra che insistono sullo stesso elettorato, almeno uno dei tre è costretto, se non altro per distinguersi, ad assumere una posizione estremista. Secondo un sondaggio di due giorni fa Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, raccogliendo il 47,5% dei consensi, sono ormai a due passi dalla maggioranza assoluta e, quindi, da Palazzo Chigi. Poiché il più a destra dei tre partiti, capeggiato dalla Meloni, è anche quello che probabilmente conquisterà più voti, quindi avrà il diritto di esprimere il presidente del Consiglio.

A quel punto la Meloni-premier, per imporre al Paese una leadership più autoritaria di quella cui ci hanno abituato settant’anni di democrazia e più simile alle pseudo-democrazie dei suoi amici Orban e Kaczynski, ha bisogno di rasentare il fascismo e, quindi, ha bisogno di agitare almeno lo spauracchio dei fascisti veri. I quali, con le azioni squadriste di questi giorni, hanno battuto un colpo per far capire a tutti noi che essi esistono e sono forti, ma anche per far capire alla Meloni che non si azzardi a scaricarli e che garantisca loro, fin da ora, uno spazio d’azione collaterale per quando andrà al governo. Rifiutando un’abiura chiara e netta, la Meloni, di fatto, ha firmato un patto di collateralismo con questi fascisti.

Gli si assicura, così, il lasciapassare per espandersi facendo adepti nelle masse di cittadini esasperati dalla crescente precarietà e dall’iniqua distribuzione della ricchezza, del lavoro e del potere. Secondo Talcott Parsons “è proprio la partecipazione delle masse l’elemento che distingue il fascismo dal conservatorismo tradizionale”.

Da questo diffuso risentimento si può uscire da sinistra, con la lotta di classe e la conquista di rafforzati diritti democratici, o da destra con l’approdo al fascismo attraverso il populismo. In questo caso il gioco avviene in cinque mosse e parte sempre da un diffuso disagio imputato alla corruzione e all’incapacità dei governanti. Vale la pena di ricordarle.

Prima mossa. Chi intende trasformare il potere in regime autoritario comincia col vincere le elezioni democratiche, poi dilata la sua egemonia, ne sbiadisce i confini costituzionali, si circonda di cricche oligarchiche. Nel 1923 Mussolini disse: “Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli”.

Seconda mossa. Le elezioni popolari, precedentemente manipolate, vengono poi eliminate del tutto affinché il despota non debba rendere più conto né al parlamento, né al popolo. Nel 1926 Mussolini disse: “Coloro che io preferisco, sono quelli che lavorano duro, secco, sodo, in obbedienza e, possibilmente, in silenzio”.

Terza mossa. Il potere si concentra interamente nelle mani di uno solo e della sua cricca mentre lo Stato di diritto si trasforma in Stato autoritario.

Quarta mossa. Il gruppo dominante promette di sospendere solo temporalmente le garanzie democratiche allo scopo di portare il Paese fuori dalla profonda crisi in cui versa, per poi restituirlo alla piena democrazia.

Quinta e ultima mossa. Il dittatore, avendo consolidato il suo potere, concentra i massimi sforzi in un’azione pedagogica che, coniugando disinvoltamente il bastone con la carota, educa i sudditi a un’obbedienza cieca e generosa, che resterà sorda e latente per molto tempo, anche dopo che la dittatura sarà cessata. Nel 1930 Mussolini dette per conclusa la trasformazione del paese in uno stato-guarnigione: “L’Italia oggi è veramente come io la volevo: un esercito di cittadini e di soldati, pronti per le opere di pace, laboriosi, silenziosi, disciplinati”.

I recenti risultati lusinghieri della sinistra alle elezioni amministrative non debbono farci dimenticare che l’assalto alla Cgil voleva preludere alla prima di queste cinque tappe.

 

Michetti & C., sconfitte con effetto Blues Brothers

Gli esperti la chiamano “sindrome di John Belushi”, ricordando quando nei Blues Brothers il protagonista le provava tutte: “Non ti ho tradito! Ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, c’era il funerale di mia madre, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette!”. Più modestamente – ma con simile effetto comico – oggi il centrodestra prova a giustificare la disfatta delle Amministrative e il campionario delle scuse non manca di fantasia.

Per Giorgia Meloni la destra perde “perché la coalizione è divisa rispetto al governo Draghi”, ma soprattutto perché “la sinistra ha trasformato la campagna elettorale in una lotta nel fango”. Per Matteo Salvini il problema è un altro: “L’errore è stato quello di arrivare troppo tardi”. “Eh già – gli fa eco il leghista Matteo Banchi sconfitto a Varese – Un mesetto in più di campagna elettorale sarebbe servito”. O forse avrebbe soltanto peggiorato la situazione.

Ma tant’è, ogni scusa è buona. Candidati deboli? O forti, ma poco sostenuti? Vai a sapere. Certo, se a Roma ci fosse stato “un personaggio di statura nazionale come Guido Bertolaso” (Augusto Minzolini dixit) chissà che goduria. E invece ci è toccato quel “brav’uomo di Enrico Michetti”, il quale non sapendo di preciso che scusa accampare s’è fatto criptico: “L’esito del voto è comunque laconico”. Due giorni dopo, nessuno ha ancora capito cosa volesse dire. E non è che non ci si sia messi d’impegno.

A Torino Paolo Damilano ha tutta l’aria di chi s’è già pentito di far politica: “Abbiamo perso perché qualcuno non ci ha creduto, i partiti sono stati pigri”. Parole che meravigliano anche solo perché negli ultimi anni ai partiti si è detto di tutto (“ladri!”, “mafiosi!” “di Bibbiano!”) ma “pigri” sembra proprio un inedito. E infatti, colpito nell’orgoglio, il presidente del Piemonte Alberto Cirio si affretta a smentire: “Non credo che ci sia stata pigrizia”. Cos’altro? “Credo che il risultato sia comunque storico e quando un risultato è storico anche se si perde giocandosela è una grande vittoria”. L’arte di accontentarsi.

Quella che manca a Vincenzo Zaccheo, rimontato a Latina dopo che aveva stravinto al primo turno: “Il centrodestra che ha elettori che storicamente disertano il ballottaggio”. Pigri pure loro, insomma. Ma Latina è pure la terra di Claudio Durigon, l’ex sottosegretario leghista che vuole intitolare ad Arnaldo Mussolini il parco oggi dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lui sì che ha una spiegazione seria della sconfitta: “I fascisti non esistono, non hanno votato”.

Quando i fascisti pigridisertano le urne son problemi, è vero, ma a destra sono anche convinti che tutta questa storia delle infiltrazioni nostalgiche nella Lega e in FdI – unita ai guai di Luca Morisi – sia una gran montatura. Francesco Lollobrigida è certo: “C’è stato un oggettivo tentativo di demonizzare l’avversario, si è iniziato a parlare di fascismo dipingendo FdI come pericoloso”. Idem Massimiliano Romeo (Lega): “C’è stata una campagna di delegittimazione clamorosa”. E ancora Vittorio Sgarbi: “Una congiura costruita dall’inizio”. Un complotto che pare aver pesato soprattutto in periferia, dando il via a un altro fortunato filone di scuse. Ignazio La Russa si impettisce: “Ha vinto il partito della Ztl, il partito del centro storico, il partito dei radical chic”. Alle periferie però va dato un buon motivo per andare a votare, altrimenti lamentarsi serve a poco. Ne è convinto Edoardo Rixi (Lega): “Ci sono stati errori nelle ultime due settimane di campagna elettorale, non hanno portato voti in più”. Insomma “rincorrere terrapiattisti per tutte le piazze d’Italia”, come dice Giovanni Toti, non paga, come anche tenere un piede dentro al governo e uno fuori: “Abbiamo perso voti perché parte dei nostri sembra stia all’opposizione”, si cruccia Gian Marco Centinaio.

Ma al termine di questo safari degno dei libretti delle giustificazioni del liceo, la sintesi migliore ha ancora la firma della Dc, i cui eredi, quale è Gianfranco Rotondi, conservano il talento dell’aforisma: “Il centrodestra ha perso perché in Italia non esiste più dal 2018”. Sottotesto: Silvio, solo tu puoi salvarci.

È morto Luigi Amicone, il fondatore di Tempi

Nella nottefra il 18 e il 19 ottobre è morto per un infarto Luigi Amicone, giornalista fondatore della rivista Tempi, di cui era stato direttore, ed ex consigliere del Comune di Milano fra le file di Forza Italia. Amicone aveva compiuto 65 anni il 4 ottobre scorso. Tantissimi i messaggi di cordoglio sui social. Gad Lerner ha scritto che Amicone “è stato per me un avversario appassionato ma gentile con il quale ci siamo sempre voluti bene. Oggi lo piango insieme ai suoi familiari e alla sua comunità di fede”. Durante la campagna elettorale appena trascorsa, si era schierato contro Matteo Salvini per la scelta di Luca Bernardo come avversario di Sala alle Comunali. “Ha confuso Milano con Milano Marittima” aveva detto.

L’Italia al fianco di Ursula, il M5S anti-sovranista. Ma la Ue va rivista

Non ci sono ripercussioni particolari sul governo italiano a seguito dello scontro europeo sulla Polonia. Il sottosegretario agli Affari europei, Enzo Amendola, può permettersi di ribadire il sostegno pieno alla Commissione europea e soprattutto alla rule of law, come da copione, sapendo che su questa vicenda non ci saranno alzate di scudi da parte dell’alleato più a destra della maggioranza. La Lega di Matteo Salvini è impegnata soprattutto sulla legge di Bilancio o ad attaccare il proprio bersaglio preferito, la ministra Lamorgese, mentre l’unica voce critica è quella di Fratelli d’Italia, che con l’europarlamentare Raffaelle Fitto, già berlusconiano, si schiera senza mezzi termini al fianco del premier polacco, Mateusz Morawiecki a cui ha portato “il saluto” di Giorgia Meloni.

La novità più rilevante, semmai, è la determinazione con cui si schiera sul fronte europeista il M5S, che in una nota dei deputati della Commissione Politiche Ue, invita Lega e Fratelli d’Italia ad “avere il coraggio di schierarsi apertamente in contrasto con le invettive provenienti dalla Polonia e confessare il fallimento di quella internazionale sovranista basata soltanto su egoismi nazionali” fino a chiedere il congelamento dei fondi del Pnrr.

Il problema politico di rilievo, mascherato da diatriba giuridico-costituzionale, in realtà è questo. La Commissione vuole vincolare quei fondi, 36 miliardi, a una piena subordinazione alle regole e ai valori europei, mentre la Polonia vuole continuare a tenere i propri giudici subordinati e sottomessi al governo. Il commissario all’Economia, l’italiano Paolo Gentiloni, lo ha detto molto chiaramente: “Noi ci occupiamo di risorse economiche da dare a questi Paesi se rispettano alcune delle condizioni presenti nelle raccomandazioni e finora gli impegni a rispettarle non sono sufficienti”.

Come nota il quotidiano di Bruxelles, Politico.eu, non sospettabile di sovranismo, il problema è però più profondo. Anche la Germania, la Francia e la Danimarca hanno più volte, dagli anni 60 in poi, invocato quella supremazia del diritto nazionale che ora viene rimproverata a Varsavia. La questione non può essere tagliata con l’accetta e investe, invece, l’architettura istituzionale europea che è rimasta arretrata rispetto alle scelte degli ultimi anni. La Polonia si incunea nei buchi di questa struttura e per risponderle adeguatamente la Ue dovrebbe rinnovare profondamente se stessa. Per ora preferisce invece alzare la voce.

Unione, i capricci di Varsavia. “No a Polexit, noi restiamo”

“Non accettiamo ricatti. Noi abbiamo combattuto contro i nazisti”, dice il premier polacco Mateusz Morawiecki. Replica la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: “Non permetteremo che i nostri valori siano messi a rischio” da una Polonia sempre più imbizzarrita. Uno show di 35 minuti quello di ieri al Parlamento di Strasburgo da parte del capo del governo di Varsavia, che alla fine non rinuncia alla sfida: niente Polexit perché “il nostro posto è l’Europa, non andiamo da nessuna parte”. Ma allo stesso tempo il primo ministro ha detto “no al centralismo dell’Unione”.

Si conclude con uno stallo la sfida tra la Polonia governata dai conservatori del Pis e l’Unione. Adesso Bruxelles vincola la concessione dei 36 miliardi del Recovery Fund, destinati a Varsavia per la ripresa economica post-pandemia, al rispetto dei valori comunitari e dello Stato di diritto che la Polonia ha iniziato a violare ormai sette anni fa, quando sono arrivati al potere i nazionalisti del partito Legge e Giustizia. Sotto la loro egida, nel gennaio del 2020, è entrata in vigore la “legge museruola” contro i togati, una norma che ha abolito de facto l’indipendenza del sistema giudiziario da quello politico. Se critici verso il partito o la politica del Pis, i giudici polacchi possono essere multati, licenziati e definitivamente allontanati dalle loro corti. In loro solidarietà fu compiuta “la marcia del silenzio” da migliaia di cittadini, tra l’eco di accuse e critiche che già allora, per l’ennesima volta, arrivavano dall’Unione, pronta a minacciare sanzioni, procedure d’infrazione o privazione del diritto di voto. Ieri la presidente Von der Leyen ha ricordato che per il rilascio dei fondi “le regole sono chiarissime: gli investimenti sono legati a riforme specifiche per ogni Paese. Per la Polonia si tratta del ripristino dell’indipendenza della giustizia”. L’Europa chiede a Varsavia di eliminare la sezione disciplinare e ripristinare al loro posto quei giudici licenziati solo perché non allineati alla politica dei nazionalisti conservatori. La guerra tra Varsavia e Bruxelles era iniziata molto tempo fa e molto prima del 7 ottobre scorso, quando il tribunale costituzionale polacco ha stabilito che i trattati europei sono incompatibili con la costituzione del Paese, ufficializzando con questa sentenza la prevalenza delle norme nazionali su quelle dell’Unione già approvate nel 2004, quando il Paese è diventato membro Ue. Prima dei giudici, un anno dopo l’altro, il Pis ha eliminato i diritti della stampa libera, delle minoranze, dei migranti e soprattutto delle donne. Negli anni il partito ha cementificato un’alleanza inossidabile con l’ala più antiprogressista della chiesa polacca, fautrice della legge contro l’aborto, oggi praticamente vietato in ogni sua forma entro i confini.

La norma che rende illegale l’interruzione di gravidanza (salvo in caso di incesto, stupro e pericolo di vita della madre, ma non del feto, anche se gravemente malformato), è stata promulgata definitivamente a gennaio scorso, quando il movimento Straik kobiet, “sciopero delle donne” – ormai uno dei più grandi movimenti d’opposizione civile d’Europa – è tornato a riempire le strade di 20 città dello “Stato-inferno per le donne”. Ma se al Sejm, Parlamento polacco, gli illiberali del Pis detengono ancora la maggioranza dei seggi, non dominano più come prima la nazione, sempre più polarizzata ai suoi opposti, e le piazze delle grandi città, che negli ultimi anni hanno cominciato a riempirsi di proteste e manifestazioni contro il governo. “Basta torture al confine”. Solo tre giorni fa le coperte termiche usate per ristorare i rifugiati sono state sventolate dai giovani polacchi come simboliche bandiere dorate “contro i respingimenti inumani” alla frontiera bielorussa contro i migranti.

Un’ultima legge appena varata permette ai soldati appena arrivati al confine di respingere i richiedenti asilo, violando la Convenzione di Ginevra vigente in Ue. Solo all’estate scorsa risale invece l’inasprimento della legge sulla stampa, che vieta alle testate di avere proprietari o finanziamenti pubblicitari stranieri, una norma che ha eliminato le ultime voci critiche contro il Pis, e ha reso la Polonia molto simile a quella nemica mortale cui rinnova il suo odio storico ogni giorno: Mosca.

La Corea del Nord ha lanciato un nuovo missile balistico

Ieri la Corea del Nord ha lanciato un altro missile balistico, poi finito nel Mar del Giappone. Il lancio è arrivato poche ore dopo che gli Stati Uniti hanno ribadito la proposta di riprendere i lavori diplomatici sul programma nucleare con Pyongyang. Il comando Indo-Pacifico Usa ha condannato la Corea del Nord, invitandola ad astenersi da “qualsiasi altro atto destabilizzante”. Seul si è detta molto delusa, per un gesto che arriva durante una fase diplomatica nella quale si sta provando a far ripartire il dialogo fra le due Coree.