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Quelli degli ultimi giorni non sono scioperi giusti

È vero che gli scioperi, da quando esistono, sono praticati dalle minoranze e gli altri molto spesso erano tacciati da fascisti e crumiri, ma non tutte le rivendicazioni sono uguali. Infatti molte di quelle del passato sono entrate a far parte delle regole della vita dei lavoratori, mentre protestare come stanno facendo i no-vax contro la possibilità di mantenersi in salute è tutta un’altra cosa, rappresenta la summa del nostro tempo. Quindi, caro Travaglio, cerchiamo di chiamare le cose con il loro nome ed evitiamo di tirare righe e paragoni impropri.

Angelo Di Fant

E chi decide quali sono gli scioperi giusti? Il governo? E che diremmo se a decidere che uno sciopero è cattivo fosse un governo di centrodestra? Tutti i precedenti antidemocratici che si stanno creando col governo Draghi verranno usati da qualunque governo futuro. E chi li avrà subiti senza reagire se ne pentirà amaramente.

M. Trav.

 

Per sopravvivere, M5S deve tornare alle origini

Alla luce dei risultati delle Amministrative, nonché dell’alto numero di astenuti, non trovate che al M5S convenga decisamente togliere la fiducia a Draghi e ritornare alle origini, come tutti noi aspiriamo? Sarebbe l’ultimo tentativo per evitare che sparisca.

Alessandro Sparvoli

Caro Alessandro, non vedo rischi di sparizione: le elezioni politiche sono diverse e per certi versi opposte alle Comunali. E il ritorno alle origini è impossibile, perché è cambiato il mondo e perché il M5S ha guidato due governi. In ogni caso ho sempre sostenuto che Grillo suicidò il M5S facendolo entrare senza condizioni nel governo Draghi.

M. Trav.

 

Rainews ignora “Il Fatto”: Ma sarà un caso, vero?

La rassegna stampa in onda nella nottata del 16 ottobre su Rainews 24 era tutto un coro trionfale sulla fermezza di Draghi nel fronteggiare la sfida dei No Pass. Tutte le testate sono state passate in rassegna, tutte tranne una, quella del Fatto. E vabbè, sarà un caso.

Francesco Scotillo

Certo: purtroppo non è un caso che ci tocchi finanziare con il canone una Rai talmente asservita al governo Draghi da farci rimpiangere quella asservita a Berlusconi.

M. Trav.

 

La dinastia dei Borbone non va mai al plurale

Per la seconda volta in pochi giorni sul Fatto, il nostro giornale, un giornalista, citando la dinastia Borbone, declina il cognome al plurale. La prima volta ho creduto che si fosse trattato di un errore di stampa e, poiché l’errore si è ripetuto, ritengo doveroso segnalare tale imprecisione.

Maria Marino

Cara Maria, hai ragione! Mai più “Borboni”!

M. Trav.

 

Riconfermato il sindaco di Trieste con solo il 21%

Il riconfermato sindaco Roberto Dipiazza ha “vinto” con un miserabile 21% di voto della città. Trieste non è di destra, è solo profondamente delusa. Il centrosinistra lo sfidava con nove candidati. Questo ha aumentato i non-votanti e gli ha regalato la vittoria. È molto triste constatare che otto mesi fa avevamo pienamente ragione nell’indicare ai candidati alternativi che dovevano unirsi in un progetto più alto e importante. Sarebbe stato quello il solo modo per ridare fiducia ad almeno la metà dei concittadini demotivati. Hanno scelto “ognuno per sé”, e abbiamo perso tutti. Tutti, anche Dipiazza, perché essere il sindaco del 21% della città non è certo una vittoria!

Paolo Angiolini

 

Il Pd ha sempre trovato i soldi per le banche

Il Green pass era nato con l’intenzione di invogliare la fascia d’età dei 50/60enni scoperti dal vaccino. Non mi sembra che il governo dei migliori sia riuscito nel suo intento. Sono d’accordo con la linea del Fatto: il governo dovrebbe trovare i soldi per i tamponi, per non lasciare tutti i lavoratori a casa e fermare la produttività del Paese. Ho sempre sentito Letta dire che i test gratuiti sarebbero “un condono per i no-vax”. Be’, diciamo che per salvare le banche i soldi li hanno sempre trovati durante questi ultimi anni.

Giovanni Caggegi

 

DIRITTO DI REPLICA

L’impegno per la ricostruzione post-sisma nel Centro Italia da parte della Croce Rossa Italiana è ben noto a tutto il Paese e costante nel tempo. Siamo sgomenti, pertanto, per gli attacchi immotivati del sindaco Andrea Ianni di Isola del Gran Sasso, secondo cui le scuole donate sarebbero “marce perché ora ci piove dentro” (come riportato nel pezzo di Antonio D’Amore sul Fatto Quotidiano del 17 ottobre). L’affermazione lascia esterrefatti per due motivi: il primo è perché il sindaco non ha mai comunicato alla Croce Rossa formalmente il problema tecnico; il secondo per aver dato notizia della vicenda alla stampa in modo fuorviante e lesivo, non solo dell’immagine della Cri e dei donatori, ma veicolando notizie palesemente errate.

La scuola di Isola del Gran Sasso realizzata dalla Croce Rossa è attiva da gennaio 2020 ed è il frutto di donazioni per 1,6 milioni di euro: ospita 180 studenti e nell’edificio è presente una sede Cri e un presidio psicologico. Un luogo, pertanto, dove l’Associazione opera costantemente, tanto che siamo venuti a conoscenza del problema pochi giorni fa non dal Comune, ma direttamente dai nostri operatori e abbiamo già effettuato un primo sopralluogo tecnico. Il problema delle perdite dal tetto negli spogliatoi della palestra non compromette assolutamente l’attività didattica che è, infatti, tuttora attiva. La Croce Rossa è stata contattata informalmente dal sindaco Andrea Ianni solo sabato scorso e sei ore dopo, senza attendere da parte nostra alcun intervento, ha iniziato ad attaccare la Cri sulla stampa. Da parte della Croce Rossa c’è la massima volontà e sollecitudine nel voler ripristinare la funzionalità completa della struttura scolastica e intervenire con ogni forma e mezzo.

Croce Rossa Italiana

Morti sul lavoro “Il sindacato sia più netto nella battaglia sui diritti”

 

Cara redazione, sono inorridita. Ogni giorno leggo di morti sul lavoro… e mi sembra poco, pochissimo, che Maurizio Landini – leader della Cgil – usi il condizionale, dicendo “bisognerebbe fare di più!… La salute e la sicurezza diventino vincolo, non un costo” (dichiarazioni alla manifestazione “Mai più fascismi”, indetta dai sindacati sabato scorso).

A mio avviso, Landini deve – indicativo – gridare ogni giorno il rifiuto governativo, al soldo dei super poteri, di introdurre la patente a punti su morti e sicurezza per partecipare agli appalti, nonché il rifiuto di introdurre, per questi incidenti-reati, l’omicidio colposo (con pene dai 5 anni), configurandolo al pari di quelli stradali.

Se non si ripete “papale papale” cosa NON vuole fare il governo, a muso duro, si diventerà sempre più indifferenti alle morti. Dei poveracci che continuano a morire come mosche, mentre i politici procedono lento pede…

Ho conservato la lettera di Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, pubblicata sul Fatto Quotidiano il 5 ottobre con il titolo “La strage silenziosa”. Quando si parla a scuola di educazione civica e diritto al lavoro – lavoro sicuro– mostrerò quella lettera, molto più eloquente di un qualsiasi sermone.

Con stima immensa al direttore Marco Travaglio e a voi tutti del Fatto Quotidiano.

Giusy de Milato

Chi protesta è perduto, lo dice (anche) Mattarella

Spiace fare i guastafeste. Noi stiamo con i buoni, intendiamoci: doppia dose (Pfizer, però: non ci siamo stretti a coorte offrendo il deltoide a AZ) e Green pass alla mano, dispostissimi a esibirlo pure per camminare per strada. Però qualche nota stona, in questa perfetta armonia di sfere da Repubblica platonica, in cui chiunque contesti il Green pass – che è una misura del governo, non la Teoria della Relatività – viene fatto passare per ottenebrato, violento, No vax e pure amico di Forza Nuova (ricordate quando i pasticcioni toscani volevano cambiare la Costituzione e accusavano i contrari di essere come CasaPound? È un modo per segare le gambe al dibattito).

Ebbene, l’altro ieri il Presidente Mattarella, all’Università di Pisa, ha detto: “Sorprende e addolora che proprio adesso… che vediamo una ripresa incoraggiante, economicamente, socialmente, culturalmente, e il Paese si sta rilanciando, esplodono fenomeni, iniziative e atti di violenza, di aggressiva contestazione, quasi a volere ostacolare, intercettare la ripresa che il Paese sta vivendo”.

Questo, il giorno che a Trieste i manifestanti No Green pass, per la quasi totalità pacifici benché eterogenei (portuali, studenti, filofascisti, centri sociali, novax etc.) venivano dispersi con gli idranti e i manganelli dalle forze dell’ordine, inopinatamente solerti dopo il sacco della Cgil ad opera dei tatuati con le svastiche. Posto che non vediamo all’orizzonte nessuna ripresa sociale e culturale, ma esattamente il contrario, ora non si può più pretestare (a torto o dalla parte della Ragione, non importa) perché sennò si ostacola la ripresa economica e si rovina la festa all’oligarchia dei Migliori? E se un gruppo di persone ritiene che la democrazia sia a rischio, deve prima pensare al Pil e al Pnrr? “Siamo ripartiti, la condizione economica del Paese è in una crescita che supera le speranze”: sarà, vedremo chi ne beneficerà, ma possibile che chiunque dica “a” sul Green pass pure per lavorare (quando il vaccino non è obbligatorio) sia un violento che blocca la pioggia di denari? Oppure (e quindi): assaltare la sede di un sindacato non si deve fare perché ostacola la ripresa? Ma davvero?

Il salario minimo è un argomento tabù, ma soltanto in Italia

In Germania, dopo le elezioni, uno dei punti cardine del nuovo contratto di governo è l’aumento del salario minimo. Da giorni Spd, Verdi e Liberali stanno discutendo un testo in cui si prevede che da subito la paga dei lavoratori più poveri salga a 12 euro l’ora. In Italia, invece, il salario orario minimo non c’è mai stato e ancora non c’è. Così, da noi, quattro milioni e mezzo di persone percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora, due e mezzo meno di 8 euro e 360mila vengono pagate così poco da dover integrare le loro entrate con il Reddito di cittadinanza. Detto in altre parole, il nostro Paese è pieno zeppo di gente che arriva a stento a fine mese pur spezzandosi la schiena da mattina a sera. In genere si tratta di cittadini e cittadine che vivono nei sobborghi delle città. Fanno i lavori più vari e umili, spesso legati alle pulizie, alla vigilanza o i servizi di portierato dove, in alcuni casi, sono in vigore contratti non rinnovati da anni – o pirata – che garantiscono anche meno di 5 euro l’ora. La situazione non è solo moralmente inaccettabile per un Paese come il nostro in cui la ricchezza privata in altre fasce della popolazione abbonda. È pure economicamente e politicamente folle. Chi lavora ed è così indigente non consuma e non favorisce la crescita; a volte è spinto all’illegalità per ragioni di sussistenza e sempre è legittimamente adirato nei confronti delle classi dirigenti. Tutte: da quelle politiche a quelle sindacali, passando ovviamente per i datori di lavoro.

In questo scenario sarebbe logico aspettarsi che partiti e movimenti di qualsiasi colore politico avessero al primo posto la questione salariale. Ma non è così. Quando si sottolinea che il salario orario minimo esiste in 21 Stati dell’Unione europea su 27 salgono sempre in cattedra i benaltristi che, spalleggiati da quasi tutti i sindacati, spiegano come la questione da affrontare sia diversa. Per loro è meglio avere dei buoni contratti nazionali di categoria o spingere su una forte riduzione del cuneo fiscale (cioè la differenza tra quanto spende un’azienda per ciascun dipendente e quello che invece viene erogato in busta paga). Tutto giusto. Tranne che per un non irrilevante particolare. In attesa che il meglio si realizzi, come affrontiamo milioni di persone che lavorano e fanno la fame? Diciamo loro di aspettare ancora? O attendiamo che scendano un giorno in piazza tutti assieme per metterci poi a gridare: mamma mia, sono tornati i populisti?

Proprio ieri in Commissione Lavoro del Senato è iniziato l’esame di una proposta di legge, firmata dall’ex ministro Nunzia Catalfo, che prevede un salario orario minimo di 9 euro lordi e che nessun contratto di categoria possa scendere sotto questa cifra. Cosa intendono fare i partiti?

Il Pd, a cui la proposta in teoria non dispiace, si ricorderà che oltre ai sacrosanti diritti civili esistono pure quelli sociali? Matteo Salvini rammenterà che il salario minimo nel 2017 lo voleva pure lui o si metterà di traverso come fece nel 2019 quando si trattava di far cadere il governo gialloverde? Giorgia Meloni butterà la palla in tribuna sostenendo, come ha fatto più volte, che prima vanno aumentati i compensi (certamente magri) delle forze dell’ordine? Tutti loro dovrebbero partire da un dato. L’Ocse ci dice che l’Italia è l’unico Paese europeo in cui i salari medi sono diminuiti rispetto al 1990. Chi lavora sottopagato lo sa bene e alle ultime Amministrative ha scelto l’astensione. Alle prossime, temiamo, potrebbe scegliere gli schiaffi. Qualcuno in Parlamento lo ricordi.

 

La politica pop. I leader sono come tormentoni. E gli elettori poi si stufano

Siccome Giorgia Meloni l’altra sera aveva la stessa faccia di Paul McCartney quando si sono sciolti i Beatles, tocca segnalare che dare alla politica una svolta pop comporta qualche rischio. Giorgia era – fino a una settimana fa – enormemente trendy, vezzeggiata, “brava” – e non c’era cronaca, anche critica con Fratelli d’Italia, che non le regalasse quel personale premio di consolazione: è una vera leader. Non so se subirà il contraccolpo della sconfitta (in genere succede), ma ecco che intanto Giorgia perde qualche posizione nella top ten del pop politico italiano. Aveva da poco scalzato il campione, il suo socio Salvini, che aveva avuto estati furenti, ogni dichiarazione un titolo, ogni titolo un rimbalzo nei sondaggi. Fino al crollo perché – semplicemente – aveva rotto le palle, non piaceva più, se lo trovavi alla radio cambiavi stazione, o canale in tivù, come certe canzoncine estive che ti piacciono in agosto, in spiaggia, e trovi ripugnanti in novembre. È il pop, bellezza, è quel meccanismo – almeno in politica – per cui qualcuno ha molta più visibilità e successo di quel che realmente raccoglie nel Paese. A un certo punto ci si accorge che il tizio, o la tizia “tirano”, e questo garantisce loro una specie di premio di maggioranza nella copertura mediatica e nei sondaggi. La storiografia delle hit-parade del pop politico registra casi analoghi, anche più drammatici, si pensi a Renzi, che oggi per trovarlo in classifica bisogna immergersi come palombari. Ma insomma: resta il fenomeno pop, in cui il gradimento politico si mischia alle copertine, alle mattane nei talk-show, alla comunicazione social, insomma un impasto di sussulti pre e post politici in cui la politica finisce per entrare poco.

I sondaggi seguono, in parte, o fotografano, questa logica. Quando era accreditato del 34 per cento – ancora un annetto fa – Salvini raccoglieva i frutti del suo primo posto nella classifica pop. Un sondaggio di popolarità, diciamo, la cosa non è sorprendente. Ciò che stupisce, invece, è che quel numero fosse preso per buono, e Salvini andasse in giro (e si comportasse, e venisse ascoltato, e intervistato, ed esposto) dicendo di essere “il primo partito in Italia”. Così come oggi (cioè, l’altroieri) Giorgia Meloni parlava di Fratelli d’Italia come della “prima forza politica del Paese”. I sondaggi, insomma, fanno l’agenda politica, dettano spazi e protagonisti, il che, con un Parlamento semidefunto che si limita a votare fiducie e a ratificare decreti, non stupisce.

Una volta trasformati i cittadini e gli elettori in pubblico dello spettacolino pop (ci sono anche band underground che ogni tanto spuntano e scompaiono, tipo Calenda), non ci si può stupire se hanno gusti volubili, se cambiano idea spesso, se si innamorano e disamorano in fretta. Oppure se decidono – i cittadini-spettatori – all’improvviso (mica tanto, il segnale c’è da tempo) che il teatrino non gli interessa, che la top ten degli ego non risolverà i loro problemi, che la noia ha preso il sopravvento.

Non saprei dire quanta importanza abbia, ora, rimproverare di questa situazione il sistema mediatico. È lì, dopotutto che si compiono le grandi “operazioni simpatia”, è lì che si creano i front-men, che si gettano i semi. Gli stessi media che facevano un titolo a nove colonne per un sospiro di Matteo (dei Mattei), o per una canzoncina su Giorgia, registreranno ora un calo in classifica degli ultimi beniamini. Pazienza, arriverà qualcun altro, è il pop, bellezza, e tu non puoi farci niente.

 

Cosa devono chiedere Letta e Conte a Draghi

Fare politica vuol dire tentare di trovare alleati, costruire coalizioni, candidare coloro che meglio rappresentano idee, valori, soluzioni. Non è sufficiente, anzi, è sbagliato, pensare che i “civici” siano rappresentanti migliori dei politici per quel che riguarda le idee, le proposte, le visioni, che è quanto, cedendo alle sirene dell’antipolitica, hanno malamente fatto i leader del centrodestra. Continuare a sostenere che il centrodestra era/è uno schieramento compatto cozza(va) con la realtà che fotografa un partito all’opposizione, dura, anche se non proprio pura, un partito con rappresentanti nel governo e il suo “capitano” nelle piazze, un partito nel governo con inclinazioni e declinazioni, anche per necessità, largamente europeiste. Tutto meno che compatto, il centrodestra è attraversato da non facilmente componibili differenze e in preda a forti incomprimibili ambiguità. Adesso, Meloni e Salvini sollevano qualche polverone (no, non scriverò “polverina”) per celare le dimensioni notevoli della loro sconfitta. L’esito, però, rimane visibilissimo. Nessuna delle città italiane di dimensioni medio-grandi ha un sindaco della Lega e di Fratelli d’Italia. L’astensionismo riguarda tutti e, invece di gettare dubbi sul grado di legittimità politica e democratica dei sindaci eletti dalle alleanze di centrosinistra, Salvini farebbe meglio a chiedersi dov’è finita la sua leggendaria capacità di raggiungere (la pancia del)l’elettorato. Invece di dire che non c’è stato abbastanza tempo per fare la campagna elettorale, anche la Meloni dovrebbe chiedersi se la spartizione delle candidature è un metodo efficace per individuare e scegliere i (mai “le”?) migliori.

A loro volta, sondaggisti e commentatori dovrebbero rivedere le loro categorie analitiche, ad alcuni sarebbe sufficiente ricordare i basics, le fondamenta del mestiere. I sondaggi fotografano le opinioni e le propensioni del momento nel quale sono effettuati. Anche se più sono i sondaggi migliori diventano le informazioni delle quali tenere conto, il trend conta. Più del trend, però, e questa è una buona notizia democratica, conta la campagna elettorale. Tra il sondaggio e il voto si trovano molti elementi importanti dei quali gli elettori, non solo italiani, ma non voglio in nessuno modo blandirli, sanno tenere conto: candidature, priorità programmatiche, prestazioni passate e promesse future, credibilità complessiva. I potenzialmente vincenti avranno poi la capacità e la forza di amministrare e governare. I civici, privi di un’organizzazione propria a loro sostegno, saranno facile preda di chi li ha candidati. Per lo più i politici sono anche il prodotto di un’organizzazione che ha tutto l’interesse a impegnarsi nell’ardua opera di realizzare buongoverno. La lezione vale anche per quel che verrà. Con tenacia e pazienza il segretario del Pd Enrico Letta ha costruito un campo largo operando intelligentemente a partire da quel non molto che c’è: il Movimento 5 Stelle guidato da Conte. L’apporto di Conte è indispensabile e le sue indicazioni sono state abbastanza seguite e tradotte in pratiche di voto vincenti sia a Torino sia a Roma. L’analisi dei flussi degli elettori pentastellati al primo turno rileverà che una parte si è astenuta al ballottaggio, una parte si è recata alle urne per votare il candidato più vicino alle loro preferenze, ai loro interessi, alle loro posizioni. Qui, inevitabile, si colloca una sintetica, ma cruciale riflessione sul sistema elettorale. Al primo turno gli elettori si orientano giustamente a votare il candidato da loro preferito, scelgono nel menù. Al ballottaggio, consapevoli che il loro voto sarà decisivo, avendo perso il candidato più gradito, cercano il candidato meno sgradito, eleggono. Nel passaggio dal primo turno al ballottaggio la politica, nei confronti degli elettori, ma anche nello stringere alleanze, trova spazio e nuova lena. Naturalmente, non è il caso di esagerare nel valutare positivamente quanto è avvenuto in un confronto elettorale che pure ha coinvolto ben più di 10 milioni di elettori.

In conclusione, due elementi meritano di essere evidenziati e ribaditi. Il centrodestra è attraversato da tensioni “scompositive” e i due leader che si confrontano hanno subìto un colpo al loro troppo esibito compiacimento personale e politico. Sul versante del centrosinistra, Conte, ma soprattutto Letta hanno ottenuto una significativa conferma che stanno andando nella direzione giusta. A questo punto, forse, avrebbero anche l’opportunità di ricordare a Draghi che persino il governo dovrebbe in qualche modo tenere conto dell’esito del voto e spingersi e spendersi in una ripresa e resilienza che dia maggiore attenzione e più risorse alle periferie italiane, non soltanto geografiche, ma anche sociali e culturali.

 

Il gran circo della vita tra elefanti, reginette e produttori appolipati

“I film biografici sono solo pretesti per attori in cerca di Oscar. Sono cinema corrotto” (Quentin Tarantino, 2021).

L’altro motivo è che la vita è più fantasiosa dei cliché cinematografici. Penso alla volta che la Callas doveva esordire a New York con la Norma. I biglietti del Metropolitan esauriti da mesi, a mezz’ora dal debutto la Callas fu colpita da una laringite inopinata. Non poteva quasi parlare. Il Met telefonò alla sostituta, una ragazza che non aveva mai cantato in un teatro così prestigioso. Il manager le disse: “Possiamo rinviare la serata a un’altra data, oppure possiamo far cantare te nel ruolo della Callas. Pensi di esserne in grado?”. “Sì!” esclamò la giovane soprano. “Studio quella parte da anni. So che posso farcela. Mi dia solo una possibilità”. Avuto il consenso del direttore d’orchestra e del regista, il manager disse alla ragazza: “D’accordo. Vai a metterti il costume. È la tua grande occasione”. La giovane corse in camerino, e il manager, scostato il sipario, si presentò alla ribalta per rassicurare il pubblico: “Signore e signori, questa sera, a causa di una grave laringite, Maria Callas non potrà cantare la Norma. Il suo ruolo sarà interpretato da una giovane di grande talento, Miranda Birdwhistle. Quanti fra voi preferiscono non rimanere potranno farsi rimborsare il biglietto al botteghino”. Tutti si precipitarono all’ingresso per riavere i loro soldi; Miranda Birdwhistle quella sera non cantò la Norma; e nessuno sentì più parlare di lei. Un altro esempio è quello di Bella Flutterby, la reginetta di bellezza di una piccola cittadina del Nebraska, che un giorno decise di tentare la fortuna a Hollywood nonostante il parere contrario dei genitori e del suo ragazzo. Dopo mesi di tentativi, finalmente ottenne un colloquio di lavoro con J. B. Paramount, il noto produttore. E sappiamo tutti cos’è un produttore: un polipo col pisello. J. B. le offrì la parte della protagonista nel suo nuovo musical, Amami o lasciami oppure entrambe le cose, ma a una condizione: “Devi venire a letto con me”. Bella si alzò indispettita: “No, voglio farcela da sola, col mio talento”. Trascorsero altri mesi di tentativi inutili: tutte le porte di Hollywood restavano chiuse, si era sparsa la voce; e così Bella se ne tornò in Nebraska, dove sposò il suo ragazzo, Bob: perché lui la amava. E quando Bob, dopo un paio di mesi, si rivelò uno stronzo manesco della peggior specie, Bella rimpianse amaramente di non aver fatto sesso con J. B. Paramount. L’ultima storia emblematica riguarda Jumbo, il famoso elefante del Circo Barnum. Dopo aver rallegrato per decenni i bambini di tutto il mondo, il vecchio Jumbo divenne cieco, e P. T. Barnum annunciò che sarebbe stato soppresso. Allora una giornalista scrisse un articolo sulla vicenda, informando che uno zoo era disposto ad accudire Jumbo fino alla morte naturale, ma occorrevano 30 mila dollari per coprire le spese. Concludeva quindi con un appello: “Se da piccoli avete riso con Jumbo, contribuite a dargli una vecchiaia serena!”. La risposta dei lettori fu entusiastica: vennero raccolti 100 mila dollari, e la giornalista, coi fotografi appresso, si recò al circo. Era in posa accanto all’elefante quando Jumbo, spaventato dal primo flash, scartò di lato, perse l’equilibrio, e si depositò sopra di lei. Mentre i flash impazzivano, Barnum cambiò idea. Riportò Jumbo in gabbia e fece stampare poster giganti che annunciavano a caratteri cubitali la nuova attrazione: “JUMBO! L’ELEFANTE SELVAGGIO CHE HA SPIACCICATO UNA GIORNALISTA!”. I biglietti andarono a ruba, ma Jumbo non riuscì a tornare in scena: morì tragicamente il 15 settembre 1885, investito da una locomotiva in Canada. Non era solo cecato: era infiammabile.

 

Gualtieri, chitarrista già idolo dei giornali

Comunque vada sarà un successo, almeno sui giornali. Il giorno dopo la vittoria di Gualtieri a Roma, la stampa nazionale spalanca un sorriso smagliante. L’Urbe si risparmia Michetti, e fin qui ci sono fondate ragioni di sollievo, ma il plauso quasi unanime al neo sindaco suona strano, soprattutto se si pensa a come furono accolti tanti predecessori. Nonostante in termini assoluti sia il vincitore meno votato della storia recente, è apoteosi collettiva per Gualtieri. Repubblica: “Gualtieri conquista la piazza dell’Ulivo. ‘Ho un assillo, la rinascita’”. Corriere della Sera: “Il trionfo del decisionista timido”. La Stampa gli dedica un’intervista con domande di questo spessore: “Sindaco, è più la fiducia o il realistico timore di un muro alto da scalare?” (spoiler: “La fiducia!”). Ma è soprattutto il Messaggero di Caltagirone che s’inchina al nuovo primo cittadino e guarda con rinnovato entusiasmo ai destini capitolini, chissà perché. Pure qui intervista di livello – (“In Campidoglio porterà la chitarra. Che musica suonerà?” “Magari i Maneskin”) – ma soprattutto editorialino di Mario Ajello, entusiastico già nella titolazione: “Studio e sobrietà, la lezione di Bruxelles per il Campidoglio”. Chi ben comincia…

Tanti motivi per disertare le elezioni

Abito in un bilocale che cade a pezzi di Tor Bella Monaca, o di Porta Palazzo, o di Secondigliano. O in un’altra periferia degradata, come dite voi. O in un altro cubicolo di cemento, a scelta. Coabitiamo in due, in tre, in quattro con mio padre disabile, l’ascensore che da mesi non funziona e i tecnici del Comune che non si presentano perché forse non sanno neppure dove siamo, oppure temono i sorci. Perché diamine dovrei votare?

Lavoro in un negozio del centro, mi alzo all’alba, minimo un’ora per andare e due ore buone per tornare la sera, sfinita, premuta da un’umanità dolente e priva di mascherina. Spreco la mia vita su bus e metro, ma interessa a qualcuno? Dovrei votare per i miei aguzzini?

Vivo in una zona residenziale e adopero l’auto per raggiungere l’ufficio all’altro capo della città. Ogni semaforo è un ingorgo, lavori dappertutto e dunque altre file infinite. La mia vita è un’attesa perenne. Che senso ha votare se sono tutti uguali e di me se ne fregano?

Ho fatto il vaccino, ma per i tanti nella mia stessa condizione il Green pass è un grave abuso in violazione delle libertà fondamentali. Votare? Prima si elimini questo obbrobrio e poi ne parliamo.

Se ho votato? Sono un No-vax convinto e non accetto provocazioni da chi si è messo al servizio del grande complotto universale.

Sono un Sì-vax convinto e il sottoscritto in una cabina elettorale infestata da germi e da virus no che non ci mette piede.

Tocca a me? In passato la mia tessera elettorale era colma di timbri e per nulla al mondo mi sarei perso un dibattito in tv. Poi ho aperto gli occhi e ho capito che le elezioni sono l’oppio dei popoli, lo strumento infame della classe dominante per tenerci sottomessi e perpetuare il potere immenso di pochissimi ricchi su una moltitudine di poveri e sfruttati. C’è più politica in Squid Game che in qualunque stupido e manipolatorio talk.

Come? Cosa? Ho perso il lavoro, la mia compagna mi ha lasciato, stavo tornando a casa per i fatti miei e sono stato investito da un potente getto d’acqua mentre un tale in divisa mi manganellava, e voi mi parlate di elezioni? Che ne dite di un bel cazzotto sul naso?

Oggi si vota contro la plastica, ma la norma è a metà

Nel primo pomeriggio in Commissione Ambiente alla Camera si vota – con tre mesi di ritardo – il recepimento della direttiva europea sulla riduzione dell’incidenza dei prodotti di plastica sull’ambiente e sulla promozione dell’uso di prodotti sostenibili e riutilizzabili. Il testo del governo accoglie gran parte di quanto previsto dalla direttiva, ma cela alcune misure scivolose, su tutte la definizione di plastica. Lo rileva un dossier del Centro studi della Camera: la norma, spiega, oltre a materiali quali vernici, inchiostri e adesivi, tiene fuori anche “rivestimenti in plastica aventi un peso inferiore al 10% rispetto al peso totale del prodotto”. Per avere una idea, il film in plastica che riveste gli involucri di cibo. Si legge: “Tale principio non viene affermato. In particolare nelle linee guida viene evidenziato che quando viene applicato un rivestimento in plastica interno o esterno sulla superficie di un materiale a base di carta, cartone o altro per proteggerlo dall’acqua o dal grasso, il prodotto finito è considerato un prodotto composito, costituito da più materiali di cui uno è plastica. In questo caso si ritiene che il prodotto finito sia fatto in parte di plastica”. Greenpeace parla di “evidenti criticità che palesano un forte disallineamento della norma italiana rispetto a quanto stabilito a livello comunitario”. Il rischio è che l’Italia finisca in procedura d’infrazione e che si favorisca “la riconversione dell’industria verso prodotti che nell’Ue non sono considerati una soluzione efficace per contrastare l’inquinamento da plastica”. Senza contare che “la riduzione a monte della produzione del rifiuto è prioritario rispetto al riciclo o al recupero di rifiuti” spiega il deputato Giovanni Vianello, che identifica pure un altro problema: “Anche i compostabili sono un problema per il riciclo a causa dei minori tempi del trattamento dell’organico rispetto ai più lunghi tempi necessari per la scomposizione delle bioplastiche”. Insieme, a oggi, non funzionano. E smaltirli è molto complicato.