“Loggia Ungheria”, Perugia indaga anche Denis Verdini

Denis Verdini è indagato per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Per la prima volta l’inchiesta sulla presunta loggia massonica Ungheria conta quindi nuovi indagati dopo i primi tre iscritti, ovvero Piero Amara (l’ex avvocato esterno dell’Eni che per primo ne aveva parlato dinanzi alla procura di Milano), Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro, che si sono auto-accusati ammettendo di averne fatto parte. Verdini, difeso dall’avvocato fiorentino Marco Rocchi, in questo momento è agli arresti domiciliari, confermati tre mesi fa, per scontare la pena di sei anni e sei mesi per la bancarotta dell’ex Credito cooperativo fiorentino. E proprio al suo avvocato è stato notificato l’invito a comparire dinanzi alla Procura perugina, per i prossimi giorni, con la contestazione di aver violato la legge Anselmi. Contestazione che nasce proprio dalle dichiarazioni di Amara. Non soltanto quelle già rese tra dicembre 2019 e gennaio 2020 dinanzi alla procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio e al sostituto Paolo Storari. Da mesi, infatti, Amara (che è detenuto a Terni, dove sconta una pena per corruzione in atti giudiziari) sta continuando a verbalizzare interrogatori che, a questo punto, devono aver fornito elementi sufficienti a convincere la Procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone, a iscrivere nuovi indagati nel fascicolo ereditato da Milano. Già dinanzi alla Procura milanese Amara aveva rilasciato dichiarazioni sull’ex segretario di Ala: “Verdini – racconta Amara – mi ha presentato diverse persone che appartengono all’associazione”. Oltre ad avergliene presentate alcune, gliene ha citate altre, come membri di Ungheria. Tra questi l’ex comandante generale della Guardia di Finanza, Giorgio Toschi, l’ex comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Tullio Del Sette, e Luigi Bisignani, l’uomo che fu condannato per la maxi-tangente Enimont ed era iscritto – ma lui ha sempre negato – alla loggia P2 di Licio Gelli. Toschi, Del Sette e Bisignani hanno smentito categoricamente qualsiasi appartenenza alla presunta loggia Ungheria. E quando la Procura di Milano chiede se vi siano “state nomine di magistrati ordinari gradite o non gradite all’associazione Ungheria”, Amara risponde di essere a conoscenza di un unico episodio: “L’unico episodio di cui sono a conoscenza è stata la nomina di Luca Turco come procuratore aggiunto di Firenze. Tale nomina non era assolutamente gradita a Verdini il quale se ne lamentò con grandissima forza – direi proprio con rabbia – con Luca Lotti e Cosimo Ferri (i due hanno smentito di aver mai avuto rapporti con Amara, ndr). Io stesso sono stato presente a tale sfogo, era presente anche Ferri mentre Lotti era stato chiamato al telefono da Verdini. La ragione della rabbia era che tale nomina si sarebbe potuta evitare se si fosse usato un minimo di attenzione”.

Genovese condannato: niente cella

L’ex deputato del Partito democratico, poi passato in Forza Italia, Francantonio Genovese, non andrà in carcere nonostante una condanna definitiva a 6 anni e 8 mesi per i “corsi d’oro” sulla formazione in Sicilia con i fondi europei. Ex sindaco di Messina, “Ras” delle preferenze, dopo la sentenza della Cassazione pensava di dover entrare in carcere come tutti i condannati definitivi a pene alte.

Invece, il colpo di scena: non ci andrà per molto tempo, perché secondo la Procura generale di Reggio Calabria, competente per l’esecuzione della pena, va applicata una sentenza della Cassazione secondo la quale esiste “l’inscindibilità del giudicato”, come nel caso di Genovese.

Cosa vuol dire? Per comprendere dobbiamo ricostruire brevemente la storia del processo. L’ex parlamentare è stato condannato in via definitiva in Cassazione, l’11 ottobre scorso, per truffa aggravata, frode fiscale e tentata concussione. Assolto in Appello per il reato di riciclaggio, la Cassazione, accogliendo il ricorso della Procura generale di Messina, per questa imputazione ha ordinato un nuovo processo di secondo grado. Ed è proprio per questo Appello bis, limitatamente all’imputazione di riciclaggio, che Genovese non va in carcere. Per usare parole semplici, è come se il processo continuasse ancora dato che i fatti sono i medesimi. Secondo la Procura generale di Reggio Calabria, dunque, “è troppo presto” per mandare in carcere l’ex parlamentare, si deve attendere la fine del nuovo processo che può concludersi o con l’assoluzione, e in questo caso, resta ferma la condanna a 6 anni e 8 mesi o con la condanna anche per riciclaggio e la pena, in questo caso, può aumentare. Ma, intanto, per Genovese si allungano i tempi di libertà almeno di un paio d’anni, se si considera che devono concludersi Appello bis e Cassazione.

L’inchiesta è stata condotta a Messina dall’allora procuratore aggiunto e oggi togato del Csm, Sebastiano Ardita, assieme ai pm Antonio Carchietti, Fabrizio Monaco e Liliana Todaro. Nel 2014 chiesero l’arresto, che il Parlamento autorizzò. Genovese è stato in carcere per 10 mesi e per altri 4 ai domiciliari (periodo che si dovrà detrarre dalla pena definitiva). Ex veltroniano ed ex bersaniano, passato con i renziani, Genovese, nel 2015, alla fine delle misure preventive, è passato in Forza Italia, che ha lasciato nel 2019. Nel frattempo, nel 2017, con una condanna già in primo grado, ha lanciato in politica il figlio Luigi, che ad appena 21 anni, alle Regionali siciliane è stato eletto con 17.463 preferenze, il più votato, neanche a dirlo, a Messina.

“Luca Lotti si adoperò per Bat in cambio di soldi alla Open”

Il do ut des, un presunto interscambio tra Luca Lotti e la British American Tobacco Italia Spa secondo la Procura di Firenze si sarebbe concretizzato tra il 2014 e il 2017. In quel periodo, Lotti, ex sottosegretario e segretario del Comitato interministeriale per la programmazione economica, si sarebbe “ripetutamente adoperato” in merito a disposizioni normative di interesse della società. Che in cambio avrebbe finanziato la Open. La Fondazione che la Procura ritiene essere un’articolazione politico-organizzativa della corrente renziana del Pd, tanto che era “diretta” (secondo i pm) proprio da Renzi.

E così ora Lotti, come pure alcuni rappresentanti della Bat, si ritrovano indagati per corruzione per l’esercizio della funzione. L’episodio emerge dall’avviso di conclusione indagine. E che riguarda (ma per altri reati) il cuore del fu Giglio magico. Per l’ipotesi di concorso in finanziamento illecito ora rischiano il processo il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ma anche l’ex ministro Maria Elena Boschi (membro del consiglio direttivo della Fondazione insieme all’imprenditore Marco Carrai) e Alberto Bianchi, che della Fondazione è stato presidente. Al centro dell’indagine ci sono dunque 3,5 milioni di euro incassati dalla Open dal novembre del 2014 al 2018.

“Alla fine di questa scandalosa storia emergerà la verità: non c’è nessun finanziamento illecito ai partiti perché tutto è bonificato e tracciato”, ha commentato ieri Matteo Renzi che ha 20 giorni di tempo per chiedere di essere interrogato, come gli altri indagati. A quel punto i pm decideranno se archiviare o chiedere il processo.

Nel mirino rientrano anche i finanziamenti di Bat Italia Spa. E qui si annida la vicenda della presunta corruzione, reato contestato a Lotti e a Bianchi. Secondo l’accusa, Lotti “per l’esercizio delle sue funzioni” si sarebbe “ripetutamente adoperato, nel periodo temporale 2014-2017, in relazione a disposizioni normative di interesse per la Bat Italia Spa (delega fiscale 2014 in materia di accise sui tabacchi lavorati, procedura comunitaria 2015 relativa al cosiddetto ‘pacchetto generico’, emendamenti a legge di Bilancio 2016, emendamento onere fiscale minimo legge di Bilancio 2017)”. Per i pm, Lotti in cambio avrebbe ricevuto utilità “per sé e per altri, utilità”, ossia i contributi che la Bat ha destinato alla Open: 170 mila euro (è la somma totale) nel 2014, 2015 e 2017, secondo quanto ricostruito nel capo di imputazione. Tra le utilità i pm citano anche gli “83.200 euro corrisposti dalla Bat” a gennaio 2017 all’avvocato Bianchi, “a fronte di una prestazione professionale fittizia, avendo versato il Bianchi il ricavato, al netto delle imposte, alla Fondazione Open”. Per corruzione sono stati indagati anche Giovanni Carucci, vicepresidente del Cda di Bat, e Carmine Ansalone, responsabile relazioni esterne. La Bat è invece iscritta in merito alle norme sulla responsabilità amministrativa delle società. Il reato di corruzione per l’esercizio della funzione viene contestato a Lotti e Bianchi anche per un altro episodio, quello che coinvolge il Gruppo Toto. In questo caso, secondo i pm, l’ex ministro si era “adoperato” tra il 2014 e il 2018 “affinché venissero approvate dal Parlamento disposizioni normative favorevoli al Gruppo Toto, concessionario autostradale”. In cambio – secondo la costruzione dell’accusa – tra le utilità ricevute “per sé e per altri”, i pm elencano i circa 800 mila euro che il Gruppo Toto Costruzioni generali paga a Bianchi a fronte di una “prestazione professionale”. Nonostante la fattura, per i pm si tratta di un lavoro “fittizio”: la somma sarebbe stata poi “versata da Bianchi” in parte, 200 mila euro, alla fondazione Open, e altri 200 mila euro al “Comitato nazionale per il Sì” al Referendum costituzionale, quello che decretò la fine dell’esperienza di Renzi a Palazzo Chigi. Alfonso Toto è indagato per corruzione e finanziamento illecito.

L’indagine conta anche nomi finora inediti. Come quello di Riccardo Maestrelli, l’imprenditore oggetto di un articolo de L’Espresso per il prestito di 700 mila euro fatto dalla madre a Renzi (che lo ha restituito) per acquistare una villa (episodio questo estraneo all’inchiesta). Maestrelli è accusato di finanziamento illecito per 150 mila euro in totale versati tramite tre società nel 2018. Per i pm la Open ha utilizzato “tali contributi” nell’acquisto di “beni e servizi destinati a Renzi”.

E poi c’è Piero Di Lorenzo, presidente della Irbm di Pomezia, azienda inserita nella filiera del vaccino AstraZeneca: l’imprenditore è accusato di traffico di influenze illecite con Bianchi. Secondo l’accusa, “Bianchi, sfruttando relazioni esistenti con Lotti (…), indebitamente si faceva dare da Di Lorenzo” 130 mila euro, contributi versati alla Open da società riferibili all’imprenditore. Per i pm, era questo il “prezzo” della mediazione illecita di Bianchi “verso il predetto pubblico ufficiale e per remunerare lo stesso in relazione all’esercizio delle sue funzioni (con riguardo all’erogazione di finanziamenti pubblici per la realizzazione di una tv scientifica su piattaforma digitale e satellitare in favore del consorzio Cnccs, partecipato da Irbm)”.

Lamorgese ammette “criticità” con i fascisti e difende le cariche a Trieste. FdI: vada via

Questa volta Luciana Lamorgese ha spiegato, ha ammesso le “evidenti criticità che hanno contrassegnato la gestione dell’ordine pubblico” il 9 ottobre, il sabato dell’assalto fascista alla sede della Cgil e dell’assedio a Palazzo Chigi. Interrotta più volte dai parlamentari di Fratelli d’Italia, la ministra dell’Interno ha parlato del “numero di partecipanti più che triplicato rispetto al previsto” e della “sproporzione” tra forze dell’ordine e dimostranti. Poi non è entrata nel merito dello schieramento dei due blindati mandati davanti alla Cgil senza posizionarli in modo da impedire l’effrazione, che la polizia non si aspettava da quei 1.500 quasi tutti a volto scoperto. Semmai ha difeso “l’equilibrio” delle forze dell’ordine e respinto le accuse di “strategia della tensione” giunte da Giorgia Meloni. Il corteo verso la Cgil “non era autorizzato”, ha ribadito la ministra dell’Interno ieri alla Camera e al Senato, respingendo la lettura degli atti della Digos di Roma in cui lo spostamento “permesso” ai manifestanti all’interno di Villa Borghese è diventato un via libera a Giuliano Castellino e Roberto Fiore di Forza Nuova, che guidavano il corteo e sono in carcere con altri sei per devastazione e saccheggio e altri reati. Quella tesi “insinua il dubbio che le forze della polizia si prestino a essere strumento di oscure finalità politiche”, ha detto.

Lamorgese ha difeso anche la scelta discutibile di attaccare con gli idranti, lunedì, la manifestazione contro il Green pass al porto di Trieste, assunta – ha chiarito – dal Comitato provinciale per l’ordine pubblico, presieduto dal prefetto che da lei dipende. Si votava ancora per il ballottaggio: chissà cosa sarebbe successo se Roberto Dipiazza, al quarto mandato per il centrodestra, non avesse vinto.

Naturalmente non basta a Meloni e a FdI, che lanciano addirittura una petizione per le dimissioni della titolare del Viminale: “Non ha detto la verità”, accusa Francesco Lollobrigida. Né a Matteo Salvini, che attacca la ministra Lamorgese da quando ha preso il suo posto al Viminale: “Idranti a urne aperte, ma neanche in Cile, in Venezuela”. La maggioranza la difende tra perplessità e inviti a far meglio. Lamorgese ha il sostegno del Quirinale e la nomina di chiunque altro all’Interno scatenerebbe tensioni tra i partiti. Il banco di prova, per lei e per la Prefettura e la Questura di Roma, è ora il G20 del 30 e 31 ottobre. Certo sarebbe grave se il governo, dopo il fallimento della “trattativa” con Forza Nuova, avesse scelto la linea dura sull’ordine pubblico.

“Il boomerang-Durigon, ma ora dialogo con tutti”

Il centrosinistra ha vinto in tutti i sei capoluoghi di provincia al ballottaggio. Ma quello di Latina, fino al 2016 roccaforte della destra, è il risultato più eclatante. Sembrava un’impresa impossibile, invece l’ha spuntata di nuovo Damiano Coletta, il civico che 5 anni fa aveva interrotto un regno che durava dal 1993.

Quando ha capito che ce l’avrebbe fatta?

È stata un’impresa diversa da quella del 2016 perché questa volta il centrodestra si è presentato unito. Ci si giocava il futuro, la gente lo ha capito. Il mio competitor (Vincenzo Zaccheo, già sindaco dal 2002 al 2010, ndr) era portatore di valori politici passati, da cui la città aveva preso distanze. Ha vinto il concetto di bene comune, partecipazione, legalità, trasparenza. Negli ultimi 15 giorni ho capito che la gente sapeva di poter perdere questi valori e ci ha votato. Ringrazio la città.

Una vittoria di Zaccheo avrebbe cancellato la sua esperienza.

C’è un centrodestra che non si è riconosciuto in lui. Questa volta poi siamo andati in coalizione con il Pd e l’apparentamento con i 5 stelle è stato importante. Poi c’è il valore dei giovani: la più votata nella coalizione è stata Valeria Campagna, 24 anni, il secondo del Pd è stato Leonardo Maiocchi che ne ha 23, gli stessi del più votato dell’altra civica, Francesco Pannone.

Qualcosa però è successo nella destra tra il 1° turno, vinto da Zaccheo, e il 2°.

Ha pesato molto la persona. Quando si corre si mette in ballo tutto, il proprio passato, la propria esperienza amministrativa nel caso di Zaccheo. Poi ha pesato la sua scelta di fare una competizione di tipo ideologico, quando io parlavo di progetti. C’è il Pnrr, l’occasione va sfruttata: abbiamo già ottenuto 27 milioni per le periferie.

Qualcuno dice che lei ha votato la riconferma dei vertici di Acqualatina e che ora il suo dominus Claudio Fazzone, ras di Forza Italia che fece cadere Zaccheo, ha fatto il suo.

Se avessi puntato su questi calcoli, avrei fatto scelte diverse nella mia gestione.

Ora il centrodestra ha la maggioranza in consiglio. Come governerà? Si parla di “modello Ursula”.

Ora inizia la fase del dialogo. Le risorse che arrivano dall’Ue dovranno essere gestite bene. Come sta avvenendo a livello nazionale, ci sono le basi per un campo largo in cui le forze politiche possono mettere a disposizione le migliori competenze. Incontrerò tutti i segretari e spero di stilare insieme a loro un’agenda su cui lavorare.

Un’apertura verso il centrodestra, magari ai dialoganti di Forza Italia. Con il Pnrr nell’orizzonte.

Da civico posso rappresentare l’elemento di garanzia, purché non siano partiti in contrasto con i nostri valori.

Quanto ha contato la questione del Parco Mussolini?

C’è stata una strumentalizzazione, per loro è stato un evidente boomerang.

Che Latina immagina?

Immagino Latina come la città della modernità: puntiamo sullo sviluppo dell’Università, la Sapienza già sta investendo molto. Investire sui giovani vuol dire investire sull’innovazione digitale, che è un capitolo importante del Recovery.

B. torna a Roma per “cazziare” Salvini e Meloni

Il momento nel centrodestra è grave. Tant’è che nel day after della batosta elettorale è dovuto “scendere” a Roma il padre nobile, ormai anziano e acciaccato, chiamato a rimettere insieme i cocci di una coalizione ormai allo sbando. E non è nemmeno detto che Silvio Berlusconi ci riesca. L’ex premier non tornava nella Capitale da febbraio, da quando aveva partecipato alle consultazioni del governo Draghi, e ieri sera in Villa Zeffirelli sull’Appia Antica ha incontrato i suoi collaboratori e Antonio Tajani. Primo obiettivo: cercare di organizzare il vertice chiesto lunedì da Giorgia Meloni e Matteo Salvini per analizzare la sconfitta e dare una linea chiara al centrodestra a partire dal primo appuntamento importante, ovvero l’elezione del presidente della Repubblica a inizio anno. Ieri sera l’incontro a tre non era ancora in agenda. Potrebbe tenersi domani o venerdì. “Devono incastrare tutti gli impegni” è la versione dei rispettivi staff. Ma in realtà il problema è anche politico: Salvini non vuole legittimare Meloni come leader della coalizione, Berlusconi sa che deve dare una strigliata ai due figliocci, soprattutto al leghista, per dare alla coalizione un profilo più moderato. “Vinciamo al centro e con figure moderate, i nostri candidati erano tutti sbagliati” sarà la ramanzina che l’ex premier farà ai due alleati. Berlusconi oggi dovrà risolvere anche la grana del nuovo capogruppo alla Camera per sostituire Roberto Occhiuto: la corsa è tra il fedelissimo di Antonio Tajani, Paolo Barelli, e Sestino Giacomoni, espressione dei governisti e spinto da Gianni Letta. Una contesa su cui si sta consumando una faida nel partito tra l’ala filo-salviniana e quella più liberal tant’è che ieri 26 deputati – tra cui i tre ministri Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Renato Brunetta – hanno avanzato la richiesta scritta di voto segreto (ha sempre deciso Berlusconi) con il partito che potrebbe spaccarsi. Ieri sera il pallottoliere contava 39 voti per Barelli e 37 per Giacomoni. Tutto ora è in mano a Berlusconi che potrebbe anche optare per un terzo nome, come Valentino Valentini.

Dalla sua, Meloni ha chiesto un colloquio faccia a faccia con Salvini e Berlusconi per far capire loro che ormai è lei la leader della coalizione. “Salvini non è più in grado di federare – scandisce un esponente di peso di Fratelli d’Italia – dal 2019 ci ha fatto perdere le elezioni, adesso la musica deve cambiare”. Sarà lei dunque a convocare i tavoli per le candidature alle prossime Amministrative, a provare a imporre la linea con riunioni settimanali e soprattutto a chiedere un coordinamento maggiore. La soluzione potrebbe essere quella di ritirare fuori la vecchia idea di un “intergruppo parlamentare” anche se gli alleati restano freddi. Intanto ieri le leader di FdI si è presentata in conferenza stampa per rilanciare sulla commissione d’inchiesta sul Covid anti-Arcuri, sulla mozione di sfiducia al ministro Lamorgese anche se ha fatto un passo indietro sulle accuse agli alleati: “Non ho chiesto a Salvini e Berlusconi di uscire dal governo”.

Infine c’è Matteo Salvini, che ormai è sempre più all’angolo nella coalizione. Lunedì è volato in Calabria ed è apparso, anche ai suoi, molto distante dalle vicende romane. Nei gruppi parlamentari però c’è fermento: “Bisogna fare una scelta chiara – dice il sottosegretario Gian Marco Centinaio, considerato vicino a Giorgetti – o si sta al governo o all’opposizione”. Opposta la linea di Claudio Borghi, a capo dei pasdaran anti green pass: “Siamo troppo piegati sul Pd”.

Nella Lega però non si respira più l’aria da processo al segretario anche perché chi voleva fargli le scarpe – i governatori del Nord e i ministri – è uscito ammaccato dalle elezioni. Giorgetti aveva scommesso tutto su Torino e Varese dove correvano candidati moderati e hanno perso, Luca Zaia ha subito una scoppola in Veneto con tre ballottaggi persi su tre a Este, Bovolone e Conegliano. Qui il suo candidato Pietro Garbellotto è stato sconfitto dal forzista Fabio Chies. Non che a Salvini sia andata bene visto che la Lega ha perso in tutti i capoluoghi del Sud su cui il segretario aveva puntato molto, da Latina a Caserta e Cosenza. Ma con la sconfitta anche al Nord si è liberato, per il momento, dei fantasmi sulla sua leadership. In attesa del congresso.

Il M5S vince se va da solo (con le civiche e senza Pd)

Il Pd che trionfa e che torna a parlare di nuovo Ulivo o comunque di coalizione larga, i Cinque Stelle che stanno a guardare e Giuseppe Conte che nel post di lunedì sera i dem neanche li cita. I ballottaggi dei giallorosa sono stati innanzitutto questo, facce e toni opposti per due partiti alleati ma non sempre. Ma a botta meno calda il dopo urne del M5S racconta anche molto altro.

Per esempio che nei pochi Comuni dove il Movimento ha (ri)vinto con i propri sindaci uscenti, di apparentamenti formali non ne ha fatti, neppure con il Pd, e neanche dove i dem hanno annunciato il loro sostegno per il 5Stelle di turno. Ha vinto con i propri candidati, appoggiati solo da liste civiche. È accaduto a Pinerolo, in provincia di Torino, dove i dem hanno garantito appoggio al grillino Luca Salvai, ma precisando che sarebbero rimasti “all’opposizione”. E lo stesso è successo anche a Ginosa (Taranto), dove il 5Stelle Vito Parisi ha battuto il centrodestra anche con i voti dei dem e degli altri partiti di centrosinistra, ma senza accordi formali.

Invece a Noicattaro vicino Bari, l’uscente Raimondo Innamorato ha rivinto battendo proprio i dem, avendo a supporto del M5S solo una sua lista civica. Poi c’è Castelfidardo (Ancona), dove Simone Ascani è stato riconfermato con quasi il 60 per cento, contro una candidata di centrodestra. Anche in questo caso il M5S correva assieme solo a una lista civica. Città e storie diverse, ma il risultato finale è sempre quello. E per certi versi si torna allo schema del 2016, quando il Movimento si prese Roma e Torino in solitudine, pescando da sinistra come da destra. La stessa formula con cui i 5Stelle espugnarono Livorno e Carrara e conquistarono la provincia di Roma, da Civitavecchia a Genzano fino a Guidonia. La novità, per il M5S del 2021, sono le civiche. “Sui territori andiamo meglio aprendoci alla società civile piuttosto che con i partiti” sussurra un big. Non può essere una regola, perché ci sono città dove l’alleanza formale tra Pd e M5S ha funzionato. Come a Isernia, uno dei dieci capoluoghi in gioco, e a Cerignola, vicino Foggia. Un’altra bandierina nella Puglia che è rimasta un fortino del Movimento, nonostante il Tap e l’Ilva. Tutt’altra storia in Emilia Romagna, dove il M5S ha perso Cattolica, proprio contro il Pd. E poi comunque ci sono i sospetti. Quelli di diversi 5Stelle, secondo cui i dem hanno chiesto e ottenuto sempre aiuto elettorale dal Movimento: ma talvolta senza ricambiare il favore.

Il caso che ha più fatto arrabbiare i grillini è quello di Marino, vicino Roma, dove il sindaco uscente Carlo Colizza, stimatissimo nel M5S, ha perso al ballottaggio per 500 voti contro il centrodestra. Dal Movimento accusano apertamente il Pd di non averlo votato. E c’è rabbia anche per il voto nel VI Municipio di Roma, quello che comprende periferie come Tor Bella Monaca e Torre Angela, dove i dem dovevano sostenere la grillina Francesca Filipponi. Ma ha vinto il centrodestra, di netto. L’unico successo su 15 municipi, sufficiente per alimentare altri cattivi pensieri. Anche se la direzione del nuovo corso di Conte resta quella, verso sinistra. Con qualche paletto, magari. Così ecco il veterano Stefano Buffagni: “Nuovo Ulivo? Non credo che vecchie alchimie possano ancora funzionare. Il nostro campo ormai è quello, ma i matrimoni non vanno forzati, piuttosto costruiti sulle proposte”.

Potrebbe essere una buona indicazione per Conte, che prima di varare la nuova segreteria vorrebbe prima nominare i nuovi capigruppo, Alfonso Bonafede alla Camera ed Ettore Licheri in Senato. Ma a Montecitorio Davide Crippa scade in dicembre e va convinto a dimettersi. Sostenuto anche da Beppe Grillo, ha chiesto altro tempo. Ieri sera una riunione (“vivace”, dicono) del Direttivo si è conclusa con un nulla di fatto. Conte ha chiesto a tutti i membri di lasciare. Ma il nodo è sempre Crippa. Solo dopo arriveranno i vicepresidenti, “tra i 4 e i 6” dicono dai piani alti.

“Ecco le modifiche dei 5 Stelle al Rdc, così la misura non è stata ridotta”

Una bella porzione di maggioranza lo vorrebbe stravolgere, qualcuno stracciarlo. Ma Stefano Buffagni, veterano dei Cinque Stelle, assicura che il Reddito di cittadinanza, una bandiera del M5S, non verrà ammainata: “Mario Draghi condivide l’esigenza di conservare questa misura perché è fondamentale per la tenuta sociale, ci ha dato garanzie. Grazie al nostro contributo evolverà e verrà rimodulato, altrimenti sarebbe già stato smantellato”.

Il Reddito ha molti nemici. Vi state rassegnando a ridurne la portata?

Assolutamente no. Il Reddito è una misura fondamentale, e lo hanno ribadito anche la Banca d’Italia e la Caritas. Ma i due terzi dei cittadini a cui è destinato non sono occupabili, ossia sono bimbi, anziani o persone con vari tipi di problemi che non gli permettono di lavorare. Per tutti gli altri servono incentivi e miglioramenti delle norme che facciano crescere l’occupazione.

Con quanti soldi verrà rifinanziato per il 2022?

Con più di 8 miliardi.

Troppa gente lo prende senza averne diritto: è falso?

I soldi indebitamente percepiti per il reddito sono meno dell’1% di quelli erogati negli ultimi 21 mesi censiti dalla Guardia di finanza.

In termini assoluti si tratta sempre di cifre elevate.

Ci siamo concentrati su dei miglioramenti per affrontare il problema, anche se su questo argomento c’è una narrazione alimentata solo per contrastare il Reddito.

Cosa proponete?

Innanzitutto servono controlli approfonditi sulle residenze, per evitare che venga frodato lo Stato, come fanno certe organizzazioni. In pratica incrociando le banche dati dei Comuni con le richieste di accesso al Reddito di cittadinanza arrivate all’Inps riusciremo a combattere coloro che attestano false residenze. Poi vogliamo ampliare il divieto di accesso al Reddito ai condannati per reati dolosi con pena superiore ai tre anni.

Chi prende il Reddito troppo spesso non trova lavoro.

L’obiettivo è spingere i Comuni ad attivare i progetti di inclusione, per far lavorare di più le persone occupabili. Siamo dell’idea che le amministrazioni che non si attivano debbano perdere una parte dei fondi che ricevono dallo Stato.

Bisogna intervenire anche su chi rifiuta il lavoro, no?

Secondo la nostra proposta, se rifiuti la prima offerta di lavoro e sei occupabile, l’importo del Reddito viene ridotto dell’1% ogni mese. A patto che si sia rifiutata un’offerta congrua, ossia con una retribuzione oraria sufficiente.

Può bastare?

Pensiamo che sia necessario anche fare perno sulle agenzie private del lavoro. Possono fare da intermediari con le aziende, trovando lavoro ai percettori del Reddito. In cambio, verranno ricompensate con il 20% del reddito prima percepito dalla persona cui hanno trovato lavoro.

Gli stranieri possono prendere il Reddito solo se residenti da almeno dieci anni in Italia. Non è il caso di abbassare il tetto?

È una discussione in essere, ma riteniamo prioritario migliorare la misura attuale. I soldi non sono infiniti, ma penso che il Parlamento ne possa discutere.

In Parlamento arriveranno emendamenti di Lega e Iv contro il Reddito: quanto siete disposti a concedere?

Me li aspetto, c’è chi pensa solo a distruggere. Ma poi bisognerà votare la legge di Stabilità e sarà tempo di essere seri. Bisogna creare lavoro e sviluppare la crescita, non prendersela coi poveri. Con il Superbonus del 110 per cento abbiamo creato 92 mila posti di lavoro di cui 52 mila a tempo indeterminato, e con il fondo innovazione abbiamo creato 3 mila start up.

Nodo pensioni, Lega contraria a quota 102 (e pure i sindacati)

Decisione rinviata. Questa la sentenza sulle pensioni al termine di un combattuto Consiglio dei ministri, dove la proposta del ministro dell’Economia Daniele Franco di procedere con Quota 102 (64 anni d’età più 38 di contributi) nel 2022 per poi arrivare a quota 104 nel 2023 è stata rispedita al mittente dai ministri leghisti. Un muro contro muro sullo “scalone” che ha portato a rimandare la decisione nel prossimo Cdm. Il nodo resta il superamento di quota 100, la misura bandiera della Lega approvata dal governo gialloverde in scadenza a fine anno e che deve essere sostituita da un’altra misura per evitare che venga applicata la legge Fornero (l’uscita dal lavoro a 67 anni). “Sulle pensioni ci sono diverse ipotesi in ballo, ma nessuna decisione su quota 100 è stata presa. Nei prossimi giorni si decideranno modalità e tempi delle modifiche del sistema pensionistico”, ha commentato ieri sera il ministro Giancarlo Giorgetti al termine del Cdm.

L’ipotesi di introdurre Quota 102 dal prossimo anno per due anni con un’età minima di 64 anni e almeno 38 anni di contributi (chi è nato nel 1958) potrebbe riguardare circa 50mila lavoratori. Poi, nel 2024, la quota tra età e contributi per andare in pensione potrebbe salire, secondo la misura del governo, a 104 (65 anno e almeno 39 anni di contributi). Quota 102 dovrebbe comunque avere un impatto limitato rispetto a Quota 100 che si è rivelata un flop nei numeri. I dati al 31 agosto parlano di 433 mila domande presentate e 341 mila accolte con una spesa di 18,8 miliardi. Ben 107 mila dipendenti pubblici, 166 mila privati e poco meno di 68 mila autonomi. A frenare le adesioni è stata anche la pandemia, che ha costretto medici e infermieri a restare in servizio. Il requisito dei 38 anni di contributi ha poi premiato la parte più agiata del mondo del lavoro, penalizzando le donne con carriere discontinue e i redditi più bassi.

Non ci sono, quindi, conferme per la proroga di Opzione donna che dal 2004 a oggi ha permesso alla lavoratrici con 58 anni di età e 35 di contributi di andare in pensione anticipata di 8 anni con una penalizzazione anche fino al 40%. Secondo l’Inps, nel biennio 2019-2020 sono state autorizzate 35.615 domande per opzione donna per una spesa complessiva dal 2016 al 2020 di 166 milioni di euro.

I sindacati chiedono, invece, la possibilità per tutti di uscire, con l’assegno maturato, a 62 anni di età o con 41 di contributi. Una misura che per il presidente Inps Pasquale Tridico costerebbe 4,3 miliardi nel 2022 e 9 miliardi a fine decennio. Insoddisfacente comunque, secondo Cgil, Cisl e Uil, l’ipotesi di quota 102 nel 2022 e Quota 104 nel 2023: “Se le anticipazioni fossero confermate e se non vi fossero ulteriori proposte che vedano una reale flessibilità in uscita, oltre a dare risposte a giovani, donne, lavori gravosi, ci sarà una nostra ferma contrarietà”, spiega Roberto Ghiselli, segretario Cgil con delega alla previdenza. Stessa opinione di Domenico Proietti della Uil: “Le ipotesi non corrispondono nel modo più assoluto all’esigenza di introdurre una flessibilità più diffusa di accesso alla pensione intorno a 62 anni”. Non convince soprattutto Quota 104, poiché – traducendosi nell’anticipo a 66 anni – si avvicinerebbe molto agli attuali 67 previsti per la pensione di vecchiaia.

L’altro dubbio riguarda l’estensione dell’Ape social. A settembre la commissione per i lavori gravosi ha stilato una graduatoria di mestieri da inserire nella platea; il governo sta calcolando quanto costerebbe ammettere anche i nuovi all’anticipo. Sullo sfondo resta la proposta di Tridico, che consisterebbe nel permettere di anticipare la pensione prendendo l’assegno contributivo fino ai 67 anni, quando scatterebbe il retributivo (costo iniziale inferiore a 500 milioni). Secondo l’ex presidente Inps Tito Boeri, “ciò che si dovrebbe cercare di fare è anticipare l’entrata in vigore del sistema contributivo”.

Intanto il braccio di ferro sulle pensioni continua.

Patto di Stabilità: da ieri l’Ue prova a cambiarlo (ma non troppo)

La linea l’aveva già tracciata Klaus Regling, il capo tedesco del famigerato Mes, in un’intervista uscita venerdì su Der Spiegel: “Lei non crede che il Patto di Stabilità perderà ogni credibilità se le regole sul debito saranno rilassate troppo? Si può perdere credibilità anche rimanendo attaccati a regole che sono diventate economicamente un non senso”. In sostanza, la parte del Patto che imporrebbe ai Paesi Ue di ridurre di un ventesimo l’anno la quota di debito pubblico eccedente il 60% del Pil sarà archiviata, per il resto si proverà a inserire nelle regole Ue una golden rule per evitare che il ritorno ai vincoli di bilancio renda impossibili gli investimenti green.

Senza esagerare però: “Io non guardo con grande entusiasmo all’idea di una modifica del Patto di Stabilità”, ha avvertito Angela Merkel in vista dell’avvio, ieri, della discussione su una riforma che tutti ritengono necessaria. Politicamente parlando ora la palla è della Commissione, che ha prodotto un documento di 14 pagine per descrivere l’impatto del Covid sulle economie del continente e sulla cui base aprirà una discussione pubblica che dovrebbe portare, entro marzo 2022, a una proposta ufficiale ai governi Ue. Il perimetro del possibile, come detto, è già tracciato. Questo è il vicepresidente (in quota falchi) Valdis Dombrovskis: “Il quadro regolatorio ha funzionato bene, in particolare la soglia del 3% per il deficit-Pil”, ma ora “è essenziale ridurre il debito pubblico e farlo in modo intelligente, graduale, sostenibile e favorevole alla crescita”, senza ridurre gli investimenti. Come farlo “è uno dei temi della discussione”, ma “a questo stadio non avanziamo proposte concrete: chiaramente però la golden rule è una delle opzioni, lo stesso European Fiscal Board ne ha proposto una versione”.