L’opposizione ungherese, multipartitica e disomogenea, ha trovato nel sindaco Marki-Zay un leader capace di guidarla alle prossime urne del 2022. Economista, convinto conservatore e fervente cattolico sfiderà Viktor Orbán e il suo partito Fidesz nella primavera del 2022. Peter Marki-Zay ha 49 anni, sette figli e nessun partito alle spalle. Questa indipendenza politica, unita al suo carisma, è servita a farlo eleggere, durante le primarie, a capo dell’alleanza dei sei partiti d’opposizione ungheresi. Essenziale è stato l’appoggio dell’ecologista Gergely Karacsony, sindaco di Budapest, che si è ritirato dal ballottaggio per favorire Zay a discapito della candidata democratica Klara Dobrev, vicepresidente del Parlamento europeo dal 2017 e moglie dell’ex premier ungherese Ferenc Gyurcsany. Orbán, che per la prima volta dovrà combattere contro un fronte unito di oppositori, lo ha già attaccato: “È un carrierista di sinistra e non farà che aumentare le tasse”. L’ascesa di Zay è iniziata nel 2018, quando è diventato sindaco di Hodmezovasarhely, una città nel sud del Paese che non aveva mai fatto mancare il suo sostegno a Fidesz. Il conservatore che adesso promette di lottare per “un’Ungheria pulita e onesta”, di eliminare “quei bulli che molestano l’intera classe”, ovvero Orbán e i suoi uomini, giura che cancellerà la corruzione su cui si basa il potere della squadra del premier. Piace all’elettorato giovane quanto a quello adulto, all’ala sinistra della coalizione quanto a quella che si trova sul fronte opposto. Il compito dell’economista, che ha lavorato in Canada e Usa, prima di tornare in patria non sarà facile: dovrà coagulare le istanze di un’unione composta da liberali e socialisti, movimenti ecologisti e di sinistra, e perfino Jobbik, partito della destra radicale di Budapest. Adesso la coalizione si aspetta che strappi a Orbán, al potere dal 2010, non una cittadina sola, ma l’intera nazione.
A processo il “diplomatico” che tutela i segreti di Maduro
La reazione di Nicolas Maduro è stata immediata. Dopo la notizia dell’estradizione di Alex Saab negli Usa, il governo venezuelano ha risposto con una doppia mossa. La prima: stop al dialogo con l’opposizione guidata dal leader filo-americano Juan Guaidó, con cui il regime di Caracas avrebbe dovuto incontrarsi ieri in Messico per sbloccare una crisi che, tra sanzioni economiche e violenze, ha già causato centinaia di morti. La seconda: trasferimento in carcere di sei dipendenti di un’azienda petrolifera statunitense, la Citgo. Una risposta che dà l’idea dell’importanza di Saab.
Dopo 14 mesi, sabato il governo di Capo Verde ha dato il via libera all’estradizione negli Usa dell’uomo sospettato di conoscere i segreti finanziari più imbarazzanti della famiglia di Maduro. A nulla, se non a guadagnare tempo, è servita la scelta di Caracas di nominarlo ambasciatore presso l’Unione Africana durante il periodo trascorso a Capo Verde.
Colombiano di nascita, 50 anni a dicembre, Saab era stato arrestato nel giugno del 2020 durante uno scalo del suo jet privato nell’arcipelago africano. Secondo il governo di Caracas, gli Usa sono responsabili del sequestro di un diplomatico. “È una delle più ignobili e volgari ingiustizie commesse negli ultimi decenni”, ha commentato Maduro. Niente di tutto questo, secondo Washington: Saab è solo un riciclatore del regime di Caracas. Il 25 luglio 2019 la Corte distrettuale del sud della Florida lo ha rinviato a giudizio, assieme al suo socio Alvaro Pulido, (anche lui colombiano), per i reati di associazione a delinquere, corruzione di pubblico ufficiale, truffa, furto, appropriazione indebita di fondi pubblici e, appunto, riciclaggio. Il processo è iniziato ieri a Miami e Saab rischia fino a 20 anni di carcere. I magistrati americani gli contestano di aver ripulito almeno 350 milioni di dollari: denaro spostato via bonifico dal Venezuela agli Usa, e poi usato per acquisti di vario genere in Europa, Africa e Asia. Il tutto grazie a una serie di prestanome, tra cui alcuni cittadini italiani come la ex modella romana Camilla Fabri, sua moglie, e Lorenzo Antonelli. Sarebbero loro due, insieme al fratello Luis Saab, le teste di legno usate in Italia dal presunto riciclatore di Maduro. Lo racconta il decreto d’urgenza con cui la Procura di Roma due anni fa ha messo sotto sequestro preventivo i beni italiani considerati appartenenti a Saab: 1,7 milioni di euro parcheggiati in banca, cui si aggiunge una casa in via Condotti, a Roma, acquistata da Camilla Fabri per 4,9 milioni di euro.
Per questi motivi Saab è indagato in Italia per trasferimento fraudolento di valori, mentre i suoi presunti complici sono accusati di riciclaggio. Ma non ci sono solo le inchieste giudiziarie in corso in Italia e negli Usa. Si legge infatti nel decreto di sequestro firmato dalla Procura di Roma che Alex Saab è indagato anche in Inghilterra, Bulgaria, Colombia ed Ecuador “per riciclaggio, cospirazione, appropriazione indebita, importazioni ed esportazioni fittizie, truffa aggravata, corruzione internazionale e traffico illegale di oro”. Ora tutti aspettano di vedere se Saab collaborerà con le autorità americane. Lui, per ora, ha fatto capire di non averne alcuna intenzione. Domenica, a Caracas, durante una manifestazione in suo favore, Camilla Fabri ha letto ad alta voce una lettera del marito: “Affronterò il mio processo con totale dignità. Voglio essere chiaro: non devo collaborare con gli Stati Uniti. Non ho commesso alcun crimine”. La partita è solo iniziata.
Lo stregone “di Stato” licenziato dopo 20 anni
C’era una volta in Nuova Zelanda un mago stipendiato con i soldi pubblici, ma nessuno aveva da obiettare. E ora che l’unico mago al mondo nominato dallo Stato non è più a libro paga dopo ben 23 anni, molti neozelandesi hanno affidato ai social la loro contrarietà per il suo licenziamento. In fondo si trattava di un mago onesto, anche se un po’ sessista: percepiva 16mila dollari all’anno, uno stipendio medio basso per il mercato del lavoro locale e per essere chiamato dal presidente del Consiglio a fare le sue danze della pioggia e magie. Nato in Inghilterra, Ian Brackenbury Channell, 88 anni, si è trasferito in Nuova Zelanda nel 1976. Ha iniziato subito a esibirsi negli spazi pubblici della città di Christchurch vestendo il classico mantello e cappello nero a punta, senza dimenticare di farsi crescere una lunga barba. Dopo qualche tempo però il sindaco aveva tentato di fermarlo facendo arrabbiare molti genitori, i cui figli andavano matti per le magie con cui Channell li intratteneva, e i commercianti che lo ritenevano un “attira turisti”, interni e stranieri. Il comune allora fece retromarcia e lo incaricò di “promuovere la città attraverso atti di magia e altri servizi propri dei maghi” garantendogli uno stipendio. Nel 1982, la New Zealand Art Gallery Directors Association ha affermato che il “mago era diventato un’opera d’arte vivente”, ma nel 1990 il suo successo ha oltrepassato di gran lunga i confini della città. Il primo ministro laburista dell’epoca, Mike Moore, gli chiese infatti di prendere in considerazione l’idea di diventare il Mago ufficiale oltre che del Paese, dell’Antartide e delle aree off shore. “Sono preoccupato che le tue magie non siano a disposizione dell’intera nazione”, aveva scritto Moore su carta intestata della Presidenza del Consiglio in una lettera all’indirizzo di Channell. Accolto il suggerimento senza indugio, da allora Channell ha fatto i propri riti e ballato anche in Australia durante i periodi di siccità. Un altro importante riconoscimento lo ha ottenuto nel 2009, quando è stato insignito della Queen’s Service Medal durante le celebrazioni per il compleanno della Regina Elisabetta. Una sorta di nemesi, visto che il mago aveva fatto arrabbiare le femministe neozelandesi per alcune battute sulle donne durante una trasmissione televisiva molto seguita. In quell’occasione il mago aveva detto che gli piaceva prenderle in giro, sostenendo che “usano l’astuzia per attrarre uomini di spessore”.
Clima, Londra a rischio flop. Cop26, sponsor in rivolta
COp26, la conferenza internazionale, ha due funzioni. La prima, fondamentale per il destino del mondo, è convincere oltre 200 Paesi a prendere impegni concreti e condivisi per raggiungere rapidamente l’obiettivo non rimandabile della decarbonizzazione delle loro economie, fino a raggiungere zero emissioni entro il 2050: e già su questo la conferenza parte azzoppata dalla scarsa collaborazione, fra gli altri, dei colossi inquinanti India e Cina. La seconda funzione è quella di fare da palcoscenico al Regno Unito, che organizza Cop26 insieme all’Italia, ma molto più dell’Italia gli affida il compito di affermare il proprio ruolo di ‘climate leader’ globale, post e malgrado la Brexit.
E anche qui non si parte al meglio: secondo una esclusiva del Guardian, le multinazionali miliardarie che sponsorizzano l’evento hanno scritto due lettere formali al governo britannico lamentandosi di gravi carenze organizzative. Parliamo di colossi della comunicazione come Sky, della tecnologia come Microsoft, dell’energia come Hitachi, National Grid, Scottish Power e SSE, di GlaxoSmithKline, NatWest e di giganti del retail come Reckitt, Sainsbury’s e Unilever. Business ad alto livello di emissioni, che quindi tentano di rifarsi una verginità cercando una vetrina globale per le loro politiche eco-sostenibili. Le lettere non sono state rese pubbliche, ma secondo la ricostruzione del Guardian, che ha potuto vederle, gli sponsor accusano i funzionari pubblici che organizzano la conferenza di ‘inesperienza”, “errori di gestione”, cattiva comunicazione, improvvisazione, lentezza nelle decisioni e addirittura della rottura dei rapporti a poche settimane dall’inaugurazione. La prima protesta, partita da Sky e co-firmata dagli altri, sarebbe stata inviata già a maggio. Deve essere rimasta inascoltata, se è stata seguita da una seconda nelle ultime settimane.
Lamentele, si intuisce, relative soprattutto alla Green zone, la parte aperta gratuitamente al pubblico e che ospita eventi e spazi espositivi, cioè quella ambita dagli sponsor per le attività di marketing e posizionamento che giustificano il loro investimento. Area gestita esclusivamente dal governo britannico, in cui, va chiarito, la co-presidenza italiana non ha alcun ruolo. Agli sponsor, la Cop26 era stata infatti presentata da Londra, scrive il Guardian citando email e comunicazioni fra società private e funzionari pubblici, come una ‘straordinaria opportunità’ che avrebbe portato ‘vantaggi unici”, sia per le occasioni di promozione del brand che per la ventilata partecipazione di ministri agli eventi organizzati dalle multinazionali come parte del programma ufficiale a latere dei negoziati.
E invece, si lamentano gli investitori, spesso i ministri non si sono fatti vedere nemmeno agli eventi preparatori, come previsto dagli accordi, e ci sarebbero ritardi anche nella pianificazione degli spazi espositivi. I responsabili marketing di quei colossi si trovano a trattare con funzionari pubblici ‘giovanissimi” che, contesta una fonte citata nell’articolo, “sono quasi tutti molto inesperti, applicano un approccio gerarchico e non hanno idea di come gestire i rapporti con i privati”. Insomma, non hanno ricevuto il briefing: per esempio non intervengono se nell’area blu, quella gestita dalle Nazioni Unite, trovano spazio anche multinazionali rivali degli sponsor, che trovano visibilità senza pagare. Intanto la conferenza riapre la spaccatura interna a Downing Street. Da una parte il partito della spesa per politiche ambientaliste, con il primo ministro Boris Johnson (spinto dalla moglie e consigliera politica Carrie Symonds, molto sensibile ai rischi del cambiamento climatico), il ministro del Commercio Kwasi Kwarteng, il presidente di Cop Alok Sharma e il potente Michael Gove, responsabile per l’edilizia e per il levelling-up, cioè la redistribuzione delle risorse, che dovrebbe segnare il recupero delle regioni disagiate del Paese e che conta proprio su nuovi posti di lavoro legati alla sostenibilità.
Dall’altra l’astro nascente del partito, il quarantenne ex banchiere e oggi ministro delle Finanze Rishi Sunak che, dopo avere dato la paternità a una massiccia iniezione di spesa pubblica a sostegno dell’economia massacrata dalla pandemia, ora sembra tornato contrario all’interventismo statale.
Morto Powell, l’uomo delle prove false
Chi sarà il primo presidente nero degli Stati Uniti? Se l’aveste chiesto, negli anni 90, e ancora fino al 2001, a un qualsiasi afro-americano, vi avrebbe probabilmente risposto Colin Powell. La sua era stata una carriera senza passi falsi: il primo nero capo di Stato Maggiore delle forze armate Usa all’epoca della Guerra del Golfo – presidente Bush sr –, dopo essere stato il primo consigliere per la Sicurezza nazionale nero col presidente Reagan; e, nel 2001, era divenuto il primo Segretario di Stato nero con Bush jr.
Repubblicano moderato, Colin Powell, che godeva della stima e del rispetto di molti democratici, è morto ieri di Covid, all’età di 84 anni, divenendo, così, il cittadino statunitense più illustre vittima del contagio. Pienamente vaccinato, ma affetto da un tumore e con difese immunitarie molto basse, prima di spirare ha ringraziato per le cure il personale del Walter Reed National Medical Center.
Powell era da tempo in pensione ed era fuori da giochi da quando apparve chiaro che si era lasciato coinvolgere – non è mai emerso in che misura consapevolmente – nei giochi di George W. Bush e dei suoi “neo-cons”, dopo l’11 settembre 2001, l’attacco all’Afghanistan, l’ondata di patriottismo che obnubilò gli Stati Uniti.
Il Segretario di Stato rispettato ovunque divenne il volto della campagna per convincere il mondo che l’Iraq aveva armi di distruzione di massa, che invece non c’erano, e per giustificare l’invasione del Paese e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, che non c’entrava nulla con l’attacco all’America dell’11 settembre.
La mattina del 5 febbraio 2003, Powell presentò all’Onu le prove – false – della minaccia irachena: dirà poi d’avere creduto, in buona fede, ai rapporti dell’intelligence, cui avrebbe però chiesto qualcosa di più convincente di una fialetta contenente polvere bianca e di foto di camion militari.
La misura del fallimento della missione fu immediata e fragorosa: le sue parole furono ascoltate, ma non furono credute, e caddero nel gelo di una riunione allargata del Consiglio di Sicurezza. Invece, il veemente discorso anti-invasione del ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin suscitò un applauso travolgente.
Da quel giorno, la credibilità di Powell non si risollevò più: alla fine del primo mandato di Bush jr, lasciò l’Amministrazione, sostituito al Dipartimento di Stato da Condoleezza Rice, la prima donna nera in quel ruolo; nel 2008, sostenne alle Presidenziali Barack Obama, che realizzò il sogno da lui reso possibile; e, nel 2016, contrastò l’ascesa di Trump. Ma non recuperò più il rispetto e la stima di cui prima godeva nell’opinione pubblica degli Stati Uniti.
“Abbiamo perso uno straordinario marito, padre, nonno e un grande americano”, scrive la famiglia sui social. Dal suo eremo texano, Bush nota: “L’America perde un grande servitore dello Stato”. Il presidente Joe Biden, che nel 2003 non si oppose all’invasione dell’Iraq, gli rende omaggio: rappresentava “gli ideali più alti della diplomazia e delle forze armate statunitensi”. E l’attuale capo del Pentagono, un generale nero, Lloyd Austin, dice: “Il mondo ha perso uno dei leader più grandi”.
Nonostante fosse figura controversa, non c’è traccia di polemica nei commenti postumi a questo “guerriero riluttante” che combatté e perse una battaglia sbagliata.
Usa e Cina: il Pass e la tolleranza zero frenano la ripresa
“Everything is getting more expensive”, tutto sta diventando più costoso, è il titolo di un’analisi del New York Times di qualche giorno fa su cosa sta accadendo negli Stati Uniti. Indiziato principale per molti analisti (non per il quotidiano di Manhattan che anzi lo esalta): l’estensione dell’obbligo vaccinale o di Green pass sui luoghi di lavoro, infatti negli Stati Uniti il presidente Joe Biden ha introdotto l’obbligo vaccinale per i dipendenti pubblici federali e per tutti gli appaltatori che lavorano con il pubblico. I privati che lavorano in aziende con più di 100 addetti, in caso di mancata vaccinazione, dovranno mostrare un tampone negativo a settimana.
La banca d’affari Goldman Sachs ha rivisto al ribasso le previsioni sulla crescita statunitense per il 2021 e per il 2022, scontando una ripresa dei consumi attesa in rallentamento a causa di diversi di fattori, fra cui un calo del supporto fiscale pubblico: la banca d’affari si aspetta un tasso di crescita del 5,6%, contro una precedente stima al 5,7%, mentre per il 2022 il Pil è previsto in aumento del 4%, contro il precedente 4,4%. Questo fattore, insieme ad altri come la caduta rovinosa in Afghanistan, secondo un sondaggio pubblicato da Business Insider avrebbe fatto crollare il consenso del presidente al 37%, emorragia di voti a cui il Partito democratico guarda con grande preoccupazione a un anno dalle elezioni di metà mandato. In Europa, sulla stessa strada, pareva avviato Emmanuel Macron in Francia, però sempre più timido sull’ipotesi di un’estensione del Green pass all’italiana, per non aumentare l’impopolarità in vista delle elezioni presidenziali del prossimo aprile. Infatti in Francia dal 30 agosto scorso il Green pass è richiesto ai lavoratori nei settori del cinema, ristoranti, grandi centri commerciali, musei, biblioteche, impianti sportivi, festival, fiere, trasporti a lungo raggio e c’è l’obbligo vaccinale per il personale sanitario. Tutto qui. Mentre non ha certo problemi elettorali il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, che ha assunto l’immagine del demiurgo al di sopra degli interessi dei partiti, tanto da poter imporre il Green pass a tutti i lavoratori con il conseguente caos, per ora di piazza e di organizzazione sanitaria, vedi le file per i tamponi nelle farmacie, e magari in futuro anche con ripercussioni economiche come pare stia già avvenendo, appunto, negli Stati Uniti.
Intanto, dall’altra parte del mondo, le cose vanno molto male anche per l’altra superpotenza, quella da cui la pandemia di coronavirus si è scatenata: la Cina. Infatti, Pechino incassa una brutta battuta d’arresto nel terzo trimestre, peggiore delle attese: il Pil è cresciuto di appena il 4,9% annuo e lo 0,2% congiunturale, nel mezzo delle turbolenze immobiliari legate al caso Evergrande, della crisi energetica che attanaglia il Paese, della tolleranza zero verso il Covid-19 e della stretta che il presidente Xi Jinping ha voluto su vari settori dinamici, dall’hi-tech al tutoraggio scolastico, con una crociata anti-monopolio.
Il modello cinese mostra il fiato corto mentre il Paese si prepara alla transizione verso “la prosperità comune” lanciata da Xi come piattaforma per il prossimo congresso del Partito comunista dell’autunno 2022 in una tempesta perfetta. Il Pil 2021, dopo il boom del 16,3% e del 7,9% di primo e secondo trimestre di rimbalzo al blocco pandemico del 2020, si è attestato al 9,8% nel calcolo ai nove mesi con l’outlook grigio per l’ultimo scorcio dell’anno. Xi pare propenso a spostare l’attenzione della nazione sui rapporti con gli Usa di Joe Biden, sulla ribelle Taiwan che “prima o poi inevitabilmente tornerà alla Cina” e sui contenziosi territoriali marittimi e terrestri.
Mail box
Tutte queste lamentele sull’obbligo di certificato
Non riesco a capire perché, secondo Travaglio, dovrebbe essere così illegittima e/o liberticida la normativa che impone l’obbligo di Green pass ai lavoratori. Domandano con retorica quelli contrari al certificato: perché non imporre allora l’obbligo del vaccino? A mio avviso sempre di obblighi si tratta, e tuttavia l’obbligo del Green pass è sicuramente meno invasivo, perché lascia ancora degli spazi di scelta al cittadino, che tuttavia dovrà assumersi la responsabilità di scegliere se presentarsi con il certificato oppure se restare a casa sospeso dalle sue mansioni. Non ci vedo onestamente nulla di incostituzionale; si tratta di consentire alla nostra comunità di uscire al più presto, ma in modo sicuro, dalla pandemia, e nel frattempo di rilanciare l’economia. Quali reconditi interessi e/o manìe di controllo sul popolo dei lavoratori potrebbero mai nascondersi dietro questa normativa, che vuole essere solo uno strumento di protezione sanitaria ma anche sì, è vero, uno strumento politico di ripresa dell’economia? Questo è il mio modestissimo parere, perché mi sembra che la posizione di Travaglio ricalchi un po’ la tendenza (che non gli appartiene) di certi intellettuali di sinistra (come Cacciari) che in certe situazioni partoriscono delle prese di posizione in distonia con il senso pratico della storia, che pure essi dovrebbero rappresentare, solo in ragione di elucubrazioni mentali che sfociano nel dietrologismo.
Roberto Dellacasa
Caro Roberto, se lo Stato non ti obbliga a vaccinarti, stabilisce che non vaccinarti è un tuo diritto. Quindi non può discriminarti (per giunta sul diritto fondante di questa Repubblica: il lavoro) perché eserciti un diritto riconosciuto dallo Stato. Senza il Green pass per lavorare siamo giunti alle soglie dell’85% di adulti vaccinati. Introdurre ora quell’obbligo unico nel mondo libero è – ha ragione Cacciari – una forzatura inutile e pure dannosa per l’economia e per l’ordine pubblico.
M. Trav.
Una marea di lavoratori si è messa in “malattia”
Venerdì migliaia di dipendenti pubblici si “sono messi in malattia”, espressione colorita e ipocrita per dire che non sono andati a lavorare fingendo di essere malati. È un cancro da estirpare: occorre approvare pene severissime (anche penali) per chi si prende ferie dandosi malato, e pene ancor più severe (fino alla radiazione dall’albo) per i medici che, acquiescenti, firmano certificati che sanno benissimo essere falsi, perché li rilasciano al telefono. Un mio amico, indefesso lavoratore del Comune, mi ha detto: “Non voglio vaccinarmi e non voglio perdere lo stipendio, per fortuna ho ancora trenta giorni di malattia da prendere”. Capito? Malattia come le ferie, un diritto acquisito! Fuori dagli uffici i ladri di stipendio per far posto a giovani alla disperata ricerca di un lavoro (e non di un “posto di lavoro”).
Renzo Fissore
Caro Renzo, condivido. E stavolta, a questi “signori”, il governo ha pure fornito un ottimo alibi per lavarsi la coscienza.
M. Trav.
Io, ex senatore Pd, sono indignato e preoccupato
Sono un ex senatore ed ex deputato del centrosinistra (2006-2018). Non affermo tutto ciò per esibir vuotamente mostrine (tra l’altro non sarebbe molto di moda), ma per sottolineare una personale storia politica che mi ha portato ad avere un ruolo istituzionale di cui mi sono sempre sentito fiero e onorato. Non voglio entrare nel merito del dibattito no-vax o pro-vax, ma sottolineare la pericolosa deriva antidemocratica e illiberale in cui sta scivolando il Paese. Tralascio la mia personale avversione per un governo che, in nome di un’emergenza, ha raccolto intorno a un banchiere (abilissimo, potente e qualificato, di questo non vi è dubbio), forze politiche antitetiche in un minestrone rancido e inqualificabile dal punto di vista di una qualsiasi democrazia. Di fronte alla pandemia è evidente che un Paese maturo avrebbe di certo dovuto fare quadrato e trovare soluzioni possibilmente comuni, ma ognuno dalla sua parte del campo, viste le enormi differenze presenti nell’ambito di questa stessa vasta maggioranza. Non è andata così. L’impressione è che si sia presa “la palla al balzo” per appiattire il nostro sistema democratico a vantaggio di interessi globali piuttosto evidenti. Nello specifico, l’adozione del Green pass anche per i lavoratori, unici al mondo ad adottare un restrittivo provvedimento del genere a parte qualche sparuto regime (ma si vede che siamo i più bravi), è assurdo per la sua palese contraddittorietà. Si concede formalmente la facoltà di non vaccinarsi, ma chi ne usufruisce viene penalizzato in barba al dettame costituzionale. Il segretario del mio ex partito (oramai supinamente risucchiato dal pensiero draghiano) dichiara che i non vaccinati sono addirittura paragonabili agli evasori fiscali, i sindacati non difendono milioni di lavoratori pesantemente penalizzati, la stragrande maggioranza dei media canta a squarciagola la sessa canzone restringendo palesemente lo spazio a chi tenta di suonare liberamente altra musica. E poi ci si domanda perché la gente diserta le urne (ma a chi ha il pallino in mano va bene così). Sono indignato, oltre che piuttosto preoccupato. Non condivido tutto quanto sostiene Il Fatto, ma ne apprezzo moltissimo la libertà di informazione. Uno dei pochissimi salvagenti in questo avvilente e conformistico piattume.
Paolo Rossi
Pochi hanno tanto e moltissimi sempre meno: che fare?
Gentile redazione, vorrei complimentarmi con Silvia Truzzi per il bellissimo articolo sulla lacerazione sociale dell’Italia. Vorrei aggiungere anche la lacerazione economica (salari bassi) di ampie categorie sociali. La generazione dei nostri genitori (ultra ottantenni) fa da stato sociale (baby sitter, paga affitti dei figli…) a uno Stato che di fatto si è girato dall’altra parte. Prevedo, ma mi auguro di essere smentito, che nei prossimi cinque-dieci anni (con la dipartita dei nostri genitori) ci sarà una “Messicanizzazione” dell’Italia. Pochi hanno molto e moltissimi avranno poco. I disordini sociali sono dietro la porta.
Salvatore Lima
Caro Salvatore, a proposito del pezzo che invocava il recupero dei principi di solidarietà sociale confesso che sono rimasta piuttosto perplessa dalla valanga di commenti ricevuti sui social network. Molti erano insulti: non che sia una novità, ma non si può fare a meno di notare che la solidarietà sociale non va per la maggiore, almeno sui social. Tornando al punto centrale della sua riflessione, temo che lei abbia ragione: lo Stato sociale è stato progressivamente smantellato negli ultimi trent’anni per mano dei governi di ogni colore. Il lavoro, diritto fondamentale e fondativo, è diventato una merce (oltretutto sempre più svalutata) e le disuguaglianze aumentano a dismisura. Il capolavoro del giornale unico è riuscire a fomentare costantemente la guerra tra i penultimi: il popolo è più incazzato con il furbetto del Reddito di cittadinanza, che con le politiche economiche che lo impoveriscono e lo affamano. Durerà in eterno? Non credo. L’aumento del conflitto sociale (non della violenza, sono due cose diverse) è augurabile: finché staremo tutti zitti e buoni il paradigma non cambierà. Le nuove generazioni sembrano molto interessate al tema dell’ambiente (e hanno ragione) e ai diritti civili (e hanno ragione). Forse però quando si accorgeranno che di una società in cui diritti come salute, lavoro e istruzione non sono rimaste che le briciole (e che il salvadanaio dei nonni è vuoto), si pentiranno di essersi preoccupati soprattutto del pronome con cui farsi chiamare.
Silvia Truzzi
Chanel, Bovary e le belve braccate negli Stati Uniti
Stupida. Adamo, esasperato, chiese a Dio perché avesse fatto Eva così bella. “Perché tu possa amarla”, rispose Dio. “Ma perché l’hai fatta così stupida?”. E Dio rispose: “Perché lei possa amare te” (Cuba Gooding Jr., Analisi di un delitto).
Avvenire. “Che c’è che non va?”. “L’avvenire” (Barbra Streisand e Ryan O’Neal, Ma papà ti manda sola?).
Chanel. Niente come uno Chanel ti fa sentire rispettabile (Antonia San Juan, Tutto su mia madre).
Dio. Sono come Dio, però mi vesto meglio (Anthony LaPaglia, The bank).
Abitudini. Io le brutte abitudini le prendo subito (Alberto Sordi, La più bella serata della mia vita).
Tradizione. La tradizione è l’illusione della perpetuità (Woody Allen, Harry a pezzi).
Arcaici. Madonna, quanto siete arcaici quando fate i moderni! (Sandrine Bonnaire al suocero Marcello Mastroianni, Verso sera).
Cotta. Sono cotta di te da quando ci siamo conosciuti. Non l’hai capito da come ti ignoravo? (Christina Ricci a Jason Biggs, Anything Else).
Sottotipo. Enrichetta, noi abbiamo molte cose in comune. Siamo entrambi del medesimo sottotipo, vertebrati, la stessa classe, mammiferi, lo stesso ordine, primati, la stessa famiglia, ominidi, lo stesso genere, homo, la stessa specie, sapiens, e la stessa varietà e classe intellettuale… La sola differenza fra noi è che io sono un uomo e tu sei una donna e questa non dovrebbe essere una difficoltà, se stiamo ragionevolmente attenti. (Walther Matthau chiede Elaine May in moglie, È ricca, la sposo e l’ammazzo).
Corna. Il bovarismo è così connaturato nell’animo femminile che una donna ci prova gusto a mettere le corna all’amante andando a letto con il marito (Tony Musante, Anonimo veneziano).
Francese. Mi piace essere l’altra donna: è così francese (Bette Midler, a letto con l’ex marito Dennis Farina che sta tradendo con lei la seconda moglie, Questo pazzo sentimento).
Americano. Cos’è per te un americano? “È un ebreo cacciato dalla Russia, è un protestante irlandese cacciato dai cattolici, è un gangster siciliano sfuggito ai poliziotti, un regista tedesco espulso dai nazisti. Non c’è niente di più bello di un Paese pieno di esclusi, di perseguitati, di belve braccate. Il capitalismo è un’invenzione di queste belve braccate. Per trasformare una giungla in patria non potevano inventare altro che un sistema di avventurieri” (Marthe Keller e Charles Denner, Tutta una vita).
America. L’America non esiste. Io lo so, ci ho vissuto (Pierre Arditi, Mio zio d’America).
Whisky. Un goccettino di whisky con una schizzatina di Frascati: lo bevo corretto (Totò, Il coraggio).
Vedova. Gli sceriffi non hanno moglie: hanno solo una vedova (Jayne Mansfield, La bionda e lo sceriffo).
Romanziere. La prima regola di un grande romanziere è copiare (Alessio Boni, La ragazza nella nebbia).
Bellezza. “Il buon Dio non era stato generoso con Sarah sul reparto bellezza. Di faccia sembrava più maschio che femmina”. “Com’è morta?”. “Un giorno si è vista allo specchio” (June Squibb e Will Forte, Nebraska).
Banche. Ci puoi scommettere: le banche ti prestano tre ombrelli quando c’è il sole, ma mica quando piove (Yves Montand, Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre).
Gatti. A me i gatti neri mi guardano in cagnesco (Erminio Macario, Totò contro i quattro).
Notizie tratte da Roberto Casalini, “Suonala ancora, Sam”, Bompiani, 640 pagine, 19 euro
Pareri discordi sulla terza dose
Non bisogna stupirsi se i pareri sull’opportunità di somministrare una terza dose di vaccino siano discordi, non solo in Italia ma a livello internazionale. Anche questa volta, le indicazioni sono pervenute prima che fossero prodotti lavori scientifici concreti e validati. L’apripista è stato Israele; poi sono arrivati gli altri Paesi tra cui, manco a dirlo, l’Italia. La scena internazionale, al momento, è la seguente. Gli esperti Usa della Food and Drug Administration (Fda) raccomandano il booster (richiamo) solo per gli over 65 e i fragili. Posizione avvalorata da uno studio condotto dal Center for Diseases Control (Centro per il controllo della malattie) di Atlanta, che ha evidenziato un significativo calo dell’efficacia della vaccinazione Pfizer-BioNTech contro i ricoveri. Secondo questo studio, Moderna è il vaccino più efficace contro i ricoveri, assicurando, dopo 120 giorni dalla completa immunizzazione, la sua efficacia al 92% ovvero virtualmente invariata rispetto al 93% iniziale, contro il 77% di Pfizer. Per Johnson&Johnson l’efficacia cala al 68% dopo soli 28 giorni. Fda non ritiene opportuna la terza dose per altre fasce di popolazione. In Europa, invece, Ema dà il via libera solo per i soggetti immunodepressi e afferma che rispetto alla popolazione, in generale, le dosi di richiamo “possono essere prese in considerazione con il vaccino Cominarty, almeno sei mesi dopo la seconda vaccinazione, negli over 18. A livello nazionale, gli organismi di Sanità possono emettere raccomandazioni ufficiali sull’uso delle dosi di richiamo, tenendo conto dei dati di efficacia emergenti e dei dati di sicurezza limitati”. Traduzione forse estremamente semplicistica: fate come volete, la responsabilità resta vostra! Questo mentre in Italia si sta già vaccinando, a partire dalle fasce prioritarie, annunciando che la terza dose sarà estesa all’intera popolazione. Ma non basta. Ecco arrivare il parere dell’Aifa che si pronuncia in modo diverso. In merito alla possibilità di una dose booster, il Comitato tecnico-scientifico (Cts) dice che “sebbene le evidenze disponibili al momento siano coerenti nell’indicare l’effetto booster della terza dose, la durata della protezione dopo il completamento del ciclo vaccinale e il rischio di infezione e sviluppo di malattia grave appaiono meno definiti”. Il Cts non ritiene quindi che ci siano sufficienti evidenze per raccomandare in via prioritaria la somministrazione di una terza dose di vaccino nella popolazione generale. C’è un nesso logico in tutto ciò? Solo il pericolo che gli scettici diventino più scettici.