A Benevento esulta Mastella: rieccolo, “contro la massoneria”

Se il centrosinistra non fa cappotto ai ballottaggi nelle città capoluogo è colpa (o merito) di Clemente Mastella, riconfermato sindaco di Benevento “contro tutto e tutti, come Mario contro Silla”, dice l’ex ministro di Berlusconi e Prodi, che ce l’ha con il segretario del Pd Enrico Letta: “Mi dispiace che sia venuto qui a condire tutto questo, a mancarmi di rispetto dimenticando che le mie liste sono state determinanti per la vittoria del centrosinistra alle Amministrative di Caserta e Napoli (e tace sul suo sostegno a De Luca alle Regionali l’anno scorso, ndr), a essere l’allenatore di una squadra tutta contro di me e contro il popolo di Benevento, un’arca di Noè in cui si sono ritrovati destra ed estrema sinistra”. Si riferisce alla coalizione di Luigi Diego Perifano, sostenuto dal Pd, Centro democratico, Europa Verde e civiche e che in vista del ballottaggio aveva incassato anche il sostegno del M5S, il grande assente di questa tornata elettorale, nessuna lista per decisione agostana di Giuseppe Conte.

Per la verità anche in casa Mastella si sono accomodate forze politiche in teoria lontanissime: nelle sue dieci liste comparivano quelli di ‘Essere democratici’, ovvero i dem eretici locali, i deluchiani di Sannio Libera e gli azzurri di Forza Benevento. Lo zibaldone si rifletterà in aula: tra i 20 consiglieri di maggioranza ci sarà l’attuale capogruppo Pd. Ora Mastella invita Renzi e Calenda a costruire il centro “senza il quale non si vince”.

Le continue allusioni di Mastella in campagna elettorale ai trascorsi massoni di Perifano (ora in sonno) e “a una loggia che la gente ha sconfitto”, consentono di scrivere che la massoneria è stata la grande perdente di queste elezioni comunali. Bocciato Perifano, bocciato il massone candidato da Mastella, l’assessore uscente Alfredo Martignetti. Perifano commenta così il risultato: “È prevalsa la voglia di continuità”.

Salvini (con Giorgetti) sconfitto pure a Varese

“La partita di Varese sarà una finale di Champions”. Così si era espresso Matteo Salvini lo scorso venerdì, in occasione della chiusura della campagna elettorale di Matteo Bianchi, il deputato del Carroccio candidato dal centrodestra a sindaco del capoluogo insubre, conosciuto anche come “La Betlemme della Lega”, che proprio qui ha visto nascere molti dei suoi leader del passato e del presente, da Umberto Bossi e Roberto Maroni a Giancarlo Giorgetti e Attilio Fontana, con quest’ultimo che è stato sindaco della città per dieci anni prima di diventare presidente della Lombardia.

Continuando a utilizzare il paragone calcistico, Salvini oggi dovrebbe parlare di finale persa. Il “suo” Bianchi è stato infatti sconfitto al ballottaggio dal candidato del centrosinistra nonché sindaco uscente Davide Galimberti, appoggiato anche (unico caso nel nord Italia a livello di capoluoghi) dal M5S, che ha prevalso con il 53,2%, mentre il candidato leghista si è fermato al 46,8 con uno scarto di duemila voti, il doppio rispetto al primo turno. Una vittoria anche per il segretario del Pd Enrico Letta: come già avvenuto a Bologna e Napoli (e nelle Suppletive di Siena che hanno visto l’ex premier protagonista in prima persona) e a differenza che a Milano, Torino e Roma, il centrosinistra si afferma con una coalizione larga, che va dai centristi di Italia Viva fino ai 5s, nel solco di quell’Ulivo 2.0 che il leader dem ha in mente in vista delle prossime elezioni politiche, una coalizione progressista di ampio respiro da contrapporre alle destre di Meloni e Salvini.

E proprio il leader della Lega è il grande sconfitto della contesa varesina. Il “capitano” ben conscio del suo valore simbolico puntava molto a vincere a Varese, riprendendo il controllo della città dopo la sconfitta clamorosa (figlia di divisioni interne al centrodestra) del 2016 che aveva messo fine a 23 anni di amministrazioni leghiste. A dimostrazione dell’importanza della sfida, Salvini si è recato in città per ben cinque volte al fine di assicurarsi la riconquista, con uno sprint negli ultimi giorni di campagna elettorale prima del secondo turno, presentandosi per due giorni di fila, il giovedì per una passeggiata elettorale e il giorno dopo per l’evento di chiusura. Ma il tour de force non ha dato i risultati sperati, e si è concluso con una sconfitta piuttosto netta, che sommata a quelle nelle altre città principali è la cifra di queste elezioni amministrative disastrose per il centrodestra. Una débâcle, quella di Varese, che Salvini può però condividere con il suo rivale interno Giorgetti: la candidatura di Matteo Bianchi, imprenditore ed ex giocatore di hockey, è stata fortemente voluta dal numero due della Lega e ministro dello Sviluppo economico che, dopo il forfait di Roberto Maroni (che ha dovuto rinunciare alla candidatura per via di alcuni problemi di salute) era riuscito a unire le due anime del partito, quella identitaria del segretario e quella pragmatica e a vocazione nordista del suo vice. Ma non è bastato, e ora in via Bellerio è tempo di leccarsi le ferite.

Berlusconi risorge e mette il cappello: “Dipiazza è mio”

Ce l’ha fatta d’un soffio il “bottegaio”. Il botegher, come dicono da queste parti, Roberto Dipiazza ha sconfitto il profesor Francesco Russo candidato del centrosinistra. Il sindaco uscente ha chiuso con un 51,3% contro il 48,7% dello sfidante, che ha recuperato una quindicina di punti rispetto al primo turno, quando Di Piazza aveva raggiunto il 46,9% e il suo sfidante si era fermato al 31,6%. Non è bastato l’8% della lista di sinistra di Riccardo Laterza e nemmeno le altre per consentire il miracolo del professore universitario con un passato da senatore Pd. Così tocca al riconfermato Dipiazza tenere alto l’onore del centrodestra in mezzo alla disfatta nazionale della coalizione.

Sono lui, all’estremo nord est, e Roberto Occhiuto, nel profondo sud della Calabria, gli unici successi di rilievo, entrambi targati Forza Italia. Ed è lo stesso Berlusconi tra i primi a chiamare il sindaco triestino. “Ero sicuro che ce l’avresti fatta…”, le parole dell’ex cavaliere. “Mi hanno chiamato anche Salvini e Meloni. Tutti a dirmi che sono l’eroe del centrodestra”, confida il sindaco. Ma tra i berluscones la soddisfazione è doppia. “Chi ci dava per morti si dovrà ricredere. Abbiamo dimostrato di essere competitivi. E la vittoria di Dipiazza, insieme a quella di Occhiuto, dimostra che si vince con candidati preparati e moderati”, dicono nel partito berlusconiano. “Il suo buongoverno degli ultimi 5 anni è stato premiato. I candidati di Forza Italia sono vincenti”, twitta Antonio Tajani. Ma a esultare è tutta l’ala draghiana del partito, da Gelmini a Carfagna, da Brunetta e Giacomoni.

Questa, insieme a Torino, era la città più in bilico. Con la differenza che Trieste negli ultimi giorni è diventata il centro d’Italia per la protesta dei portuali sul Green Pass, che ieri ha visto addirittura una manifestazione funestata dagli scontri e sgomberata con idranti e manganelli, mentre nel pomeriggio il leader Stefano Puzzer arringava ancora la folla in piazza Unità d’Italia dopo l’incontro col prefetto, proprio mentre si stavano chiudendo le urne del ballottaggio.

Lo studio dei flussi dirà poi se la protesta abbia influito in qualche modo sul voto, sulla vittoria del sindaco uscente o sul recupero dello sfidante. O magari sull’astensione, visto che i votanti sono stati solo il 42%. “Qui siamo abituati alla bora, non agli idranti. Trieste è una città tranquilla. Ma quel vento ci rende resistenti a tutto”, sussurra il sindaco, durante i festeggiamenti col suo staff. Il tutto sotto l’occhio vigile del governatore leghista Massimiliano Fedriga, che qui a far campagna elettorale non si è quasi mai visto, un po’ per il suo ruolo istituzionale e un po’ per lasciar spazio ai leader, che sono invece passati tutti: Salvini, Meloni, Tajani…

Per Dipiazza si tratta addirittura del quarto mandato. Cinque anni fa aveva sconfitto il sindaco uscente di centrosinistra Roberto Cosolini (52,6% contro 44,4%), ma primo cittadino era già stato dal 2006 al 2011, quando poi dovette lasciare perché la legge non consente tre mandati di fila. Berlusconiano doc, con in tasca la terza media, inizia come garzone di bottega per poi diventare patron di una catena di supermercati. Insomma, un “bottegaio” che si è fatto da solo, dal sapore vagamente guazzalochiano, pensando a colui (Giorgio Guazzaloca) che, nel 1999, dai suoi negozi di macelleria espugnò addirittura Bologna “la rossa”. Qui non c’era nulla da espugnare, visto che il sindaco era lui, ma la campagna elettorale è stata dura. “Sei il candidato del salotto buono, le periferie per te non esistono, sei ormai storia vecchia”, gli attacchi di Russo. “Se vinci tu, con tutte le liste che hai dietro, passerete cinque anni a litigare”, la risposta. Ieri, però, c’è stato del bon ton. “Ci siamo sentiti, mi ha fatto i complimenti”, ha detto Dipiazza. “Un’emozione così forte per la mia città non l’avevo mai provata. Ora la prima preoccupazione è che queste proteste finiscano. L’importante è che non ci siano incidenti…”, ha aggiunto. Ecco, ieri mattina non è andata proprio così.

La Lega perde a casa Durigon. Rivince Coletta, ma è “zoppo”

Se possibile stavolta la sorpresa è persino maggiore rispetto a cinque anni fa: Damiano Coletta, civico appoggiato da Pd e 5 Stelle, è stato confermato sindaco di Latina col 55% dei voti pari a 30mila preferenze, venti punti e 15mila voti in meno rispetto al 2016, ma in una situazione assai più complicata. È lo schiaffo definitivo in questa tornata elettorale alla destra egemonizzata da Lega e Fratelli d’Italia e, in particolare, anche all’ex sottosegretario Claudio Durigon, che nel Basso Lazio ha dato le carte nella coalizione (mettendo sotto schiaffo Claudio Fazzone, il controverso senatore di Forza Italia che nella zona più meridionale della provincia ha la sua base elettorale) e che proprio a Latina se ne uscì con la proposta acchiappa-nostalgici che gli è costata il posto (ri-intitolare il parco comunale “Falcone e Borsellino” ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce).

Vuole la leggenda che la Dc che si presentò alla Littoria/Latina liberata nel 1944 non fosse che la continuazione del Partito fascista con altri mezzi. Durante la Prima Repubblica la città voluta da Mussolini al centro delle ex paludi pontine si è tenuta in quel primo solco: una Dc conservatrice saldamente al potere conviveva con un Msi molto forte. Dal 1993, per così dire, le cortesie per gli ospiti sono finite e Latina ha eletto per due volte l’ex repubblichino Ajmone Finestra, la prima volta proprio con la lista Msi-Dn, e poi sempre sindaci di (centro) destra.

Nel 2016 il primo miracolo: una città piegata dalla crisi, dagli scandali, da un’inchiesta che proprio in quei mesi aveva rivelato i rapporti tra un pezzo di politica locale e i clan mafiosi assai potenti nella zona, aveva scelto un candidato sostenuto da tre liste civiche – Damiano Coletta appunto – dichiaratamente di sinistra. Al ballottaggio, a cui arrivò appaiato a Nicola Calandrini, candidato di un pezzo della destra (FdI e Noi con Salvini), stravinse col 75% e 45mila voti. È appena il caso di ricordare che fu proprio l’amministrazione Coletta a intitolare nel 2017 il parco comunale che negli anni 40 era stato dedicato ad Arnaldo Mussolini ai magistrati antimafia Falcone e Borsellino: l’occhiolino di Durigon ai non pochi nostalgici della seconda città della regione per abitanti (120mila) è stato, di fatto, anche l’occhiolino alla potente criminalità che inquina tutto il Basso Lazio.

Alla fine perde proprio l’ex sottosegretario e perdono male Salvini e Meloni, che giovedì s’erano presentati insieme in città (con Antonio Tajani, si parva licet) per chiudere la campagna di Vincenzo Zaccheo, nome forte in città, già sindaco per due volte tra 2002 e 2010, quando si dimise dopo che Striscia la notizia pubblicò un audio tra lui e l’allora governatrice Renata Polverini in cui pareva raccomandare le sue figlie per un’assunzione (ma una parte del file risultò manipolata) e attaccava il nemico interno Fazzone.

Ieri, all’apertura dei seggi, è accaduto quel che sembrava impossibile: Coletta va in vantaggio e ci resta fino alla fine. Ora sarà il sindaco di Latina per altri cinque anni o meglio dovrebbe esserlo, perché non avrà la maggioranza in consiglio comunale e di parecchio: 11 consiglieri alla sua coalizione civico-giallo-rosa, 18 al centrodestra, 1 alla Fiamma tricolore e un altro civico. Questo, se da un lato rende difficile pensare che Coletta riesca a governare, dall’altro spiega l’enormità di quanto successo: Zaccheo si è presentato al ballottaggio forte di 30.433 consensi, pari al 48,3% dei voti; le liste che lo sostenevano erano andate ancora meglio arrivando il 53,1% (31.652 voti). Confermando i voti del primo turno avrebbe vinto anche al secondo, ma Zaccheo non ne ha messi insieme neanche 25mila, mentre Coletta passava da 22.469 a 30.293. Qualcosa è successo nell’Agro pontino e non solo nel capoluogo: nella vicina Cisterna di Latina (35mila abitanti circa) al primo turno i due aspiranti sindaci di destra sommati erano al 57,5%, ieri è stato eletto il candidato Pd-5 Stelle col 55%. A Formia, infine, in cui risiedono quasi 40mila persone, lo scontro in famiglia al ballottaggio è stato vinto per 38 voti dal candidato di Fazzone contro quello di Durigon. Giornataccia per la Lega “nazionale”.

Il carosello “trionfale” di Letta: “Gli elettori si sono fusi nell’Ulivo”

Il boato nel comitato di Roberto Gualtieri, ai primi exit poll. L’aggettivo “trionfale” usato da Enrico Letta per definire la “vittoria” del Pd. Ma anche l’abbraccio tra Letta e Gualtieri al Nazareno, le bandiere in piazza Santi Apostoli, luogo “simbolico” per il richiamo all’Ulivo dove si svolge la festa del neo sindaco di Roma. E poi, la triade sul palco che dice qualcosa sulla tolda di comando del Pd (oltre a Letta e Gualtieri, Nicola Zingaretti), alla quale si aggiunge in apertura Goffredo Bettini, il demiurgo, il teorico dell’amalgama col M5S.

Le immagini della giornata sono quelle di un partito sollevato, quasi incredulo nel festeggiare una vittoria, per quanto ridimensionata da un astensionismo record, che è la prima dopo il 41% di Matteo Renzi alle Europee. Al Nazareno ci sono le capogruppo Simona Malpezzi e Debora Serracchiani, il responsabile Enti Locali, Francesco Boccia, il vicesegretario, Peppe Provenzano. Anche i ministri, Andrea Orlando e Dario Franceschini, per quanto un po’ defilati, mentre manca Lorenzo Guerini, esponente della minoranza del partito. Ed è Renzi a decretare nella sua e-news che “è finito il tempo dei Cinque Stelle”.

Per Letta, che oggi torna in Parlamento da vincitore, non saranno comunque tempi facili. “I nostri elettorati si sono fusi, sono più avanti di noi”, commenta, rivendicando la linea da lui scelta. Su Renzi glissa. Ma di certo ora mettere insieme un Ulivo 2.0 che va dal centro (non solo l’ex segretario, ma pure Carlo Calenda) fino al M5S non sarà facile. Tra chi nel Pd spingerà per mettere fuori il Movimento per arrivare alle divisioni nei 5Stelle su una linea vicina ai dem voluta da Giuseppe Conte. Come non sarà così facile portare avanti la linea del sostegno a Mario Draghi. La destra perdente potrebbe riorganizzarsi. “Con questo risultato così travolgente avremmo l’interesse ad andare al voto, perché il Pd in Parlamento è sottorappresentato. Ma io invece dico che questo voto rafforza il governo Draghi”, chiarisce il segretario. Ma in realtà le elezioni non sono più un tabù, così come l’idea di portare Draghi al Colle. Si guarda alla tenuta della Lega al Nazareno. E il segretario non ha alcuna intenzione di smettere di usare Salvini come bersaglio. Oggi e domani al Senato e alla Camera si votano le mozioni per lo scioglimento di Forza Nuova. Il Pd deporrà le armi e si rassegnerà a una mozione unitaria, in cui si parla magari genericamente di tutte le “formazioni eversive” o andrà alla conta? “Siamo per una mozione unitaria, ma a partire dallo scioglimento di Forza Nuova”, dice. Che significa andare allo scontro.

Ma domani è un altro giorno. In piazza Santi Apostoli, Gualtieri è assediato dalle telecamere mentre parte spontanea “Bella ciao”. Rispetto all’inno scelto per la sua campagna, “I nostri anni” di Tommaso Paradiso, un’eredità più impegnativa. E anche più connotata politicamente. A proposito di progetti di coalizioni larghe e sostegno a governi di unità nazionale.

A Torino la destra non vince neanche con un “moderato”

A Torino il centrosinistra torinese cancella i cinque anni di giunta monocolore del M5S guidata da Chiara Appendino che, nel 2016, sconfisse Piero Fassino. Il docente del Politecnico Stefano Lo Russo, 46 anni, già assessore di Fassino e poi capogruppo per il Pd, è il nuovo sindaco con il 59,2%. Si è fermato invece al 40,8 Paolo Damilano, 56 anni, candidato “civico” del centrodestra. Erano i due contendenti di un voto che è stato segnato da un’astensione montante, il vero primo “partito” di Torino: due settimane fa, infatti, aveva votato solo il 48,6%, ieri il dato è sceso addirittura al 42,1, nuovo minimo storico.

La tendenza per il centrosinistra si era già manifestata il 4 ottobre quando Lo Russo aveva scavalcato Damilano, favorito nei sondaggi: il 43%, nelle urne reali, contro il 39,8. Un esito complessivo che indica nel candidato di centrodestra il protagonista negativo assoluto delle urne: imprenditore delle acque minerali, della ristorazione e del vino, autodefinitosi “un moderato liberale”, era sceso in campo sin dal 2020, riuscendo poi a imporsi come “civico” per Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia.

E proprio quella sua natura “civica”, una novità per la sua coalizione nella città della Mole, appare oggi l’handicap più grave rispetto alla possibilità per Damilano di interpretare davvero i sentimenti degli elettori di centrodestra. Con la sua moderazione, infatti, è forse riuscito a recuperare un po’ di consensi nella borghesia subalpina, ma non è stato invece in grado di intercettare sino in fiondo il radicalismo dei seguaci di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Qualcosa che, sia ieri che nel primo turno, è stato evidenziato dalla difficoltà di convincere, con l’unica eccezione del quartiere Barriera di Milano, soprattutto le periferie ex operaie dove, nel 2016, si era materializzato il successo di Appendino. Realtà nelle quali la protesta e il disagio sociale hanno scelto il non voto. Una situazione che ha pesato poi anche sulla fiducia dei vertici di Fratelli d’Italia e della Lega verso un candidato che, 15 giorni fa, aveva prosciugato una parte dei loro consensi con la propria lista, Torino Bellissima, arrivata prima nella coalizione con oltre l’11%.

Ragionamento opposto, invece, per Lo Russo, scelto solo all’inizio dell’estate con delle primarie poco partecipate e con una connotazione di netta chiusura alla proposta di un’alleanza con il M5S più volte avanzata da Appendino e poi da Giuseppe Conte e per alcune settimane accarezzata anche da Enrico Letta. Il neo sindaco è riuscito da una parte a mantenere la consolidata supremazia del Pd nei quartieri del centro e dall’altra a coalizzare nella contesa anche le anime del Pd all’inizio meno favorevoli alla sua investitura.

Fuori dai giochi invece i Cinquestelle, lasciati orfani dalla decisione di Appendino di non ricandidarsi dopo la sentenza per i morti di piazza San Carlo in occasione della finale di Champions tra Juventus e Real Madrid del 2017 e, in particolare, dopo la condanna per un falso in bilancio denunciato proprio da Lo Russo. I flussi elettorali diranno nelle prossime ore come hanno votato al secondo turno i sostenitori del M5S (la candidata Valentina Sganga si era fermata a poco più del 9 per cento): andando per la maggior parte, è probabile, a ingrossare l’astensione e non virando invece i propri consensi verso Damilano. Come, peraltro, il disimpegno finale ed esplicito di Appendino sembrava suggerire.

Il sindaco Lo Russo, nelle sue prime dichiarazioni, ha detto di “voler essere inclusivo e di voler fare mie le istanze di tutti, anche di chi non mi ha votato”. Un riferimento diretto, ma anche un po’ azzardato, a quel 58 per cento di torinesi, la vera maggioranza della città, che hanno disertato le urne. Rassegnato invece Damilano che, però, nel suo breve commento, sembra aver voluto inserire qualche punta polemica verso i due partiti più importanti della coalizione: “Questo è il risultato di una Torino nella quale il centro fatica a trovare rappresentanti nei partiti e non vuole estremismi, ma solo dialogo, concretezza e progetti”.

Roma, votano solo 4 su 10: Gualtieri surclassa Michetti

Pronostici rispettati e rimonta servita: Roberto Gualtieri batte nettamente Enrico Michetti e riconsegna Roma al Pd, dopo 5 anni di governo del M5S con Virginia Raggi. Il risultato è perentorio: hanno scelto Gualtieri il 60,2% degli elettori “superstiti”, nel giorno in cui l’affluenza crolla definitivamente. La percentuale dell’astensionismo è simmetrica a quella raccolta dal nuovo sindaco: 6 romani su 10 sono rimasti a casa e hanno disertato il ballottaggio, l’affluenza si ferma a un malinconico 40,68%, il dato più basso di sempre.

Il voto per pochi intimi non rovina comunque la festa di Gualtieri e del Pd, che scelgono la piazza “ulivista” di Santi Apostoli per un piccolo bagno di folla, a risultato acquisito. Sul palco, insieme al sindaco, c’è lo stato maggiore del partito capitolino: il segretario Enrico Letta, Nicola Zingaretti, il responsabile romano (e neo deputato) Andrea Casu, Goffredo Bettini. C’è anche Monica Lucarelli, una presenza simbolica: è la capolista della lista civica “Gualtieri sindaco”, che con il 5,4% del primo turno si è ritagliata un peso significativo nella coalizione a sostegno del sindaco. Lucarelli è in pole position per il ruolo di vicesindaca, una poltrona che in ogni caso sarà ritagliata per una figura femminile (si fanno anche i nomi di Marianna Madia e Beatrice Lorenzin). Nella stessa civica ambisce a un ruolo di assessore Alessandro Onorato, che della lista “Gualtieri sindaco” è stato l’organizzatore: l’imprenditore, ex candidato di Alfio Marchini, ha garantito con profitto il voto di una modesta ma decisiva percentuale di elettorato conservatore. Ora batte cassa. Favoriti nel toto-assessori anche i dem Sabrina Alfonsi (record-woman del primo turno con 7mila preferenze) ed Eugenio Patanè (per la delega ai Trasporti o ai Rifiuti), mentre in settori come Bilancio e Urbanistica Gualtieri dovrebbe puntare su figure tecniche di sua fiducia. Nonostante la buona performance alle primarie, probabilmente resterà fuori dalla giunta l’urbanista Giovanni Caudo, già assessore con Ignazio Marino. Non sarebbe gradito a un “grande elettore” come il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, con cui Gualtieri invece sembra intenzionato a mantenere rapporti cordiali. Gli assessori saranno comunque individuati tutti all’interno del perimetro della coalizione (cioè Pd e civiche) senza concessioni ad Azione e Cinque Stelle.

Dal palco di Santi Apostoli il neosindaco ringrazia tutti: chi l’ha votato e chi no; collaboratori e avversari. La piazza risponde con freddezza quando viene citato Michetti e con fischi inequivocabili quando invece viene citata Raggi, applausi invece per Carlo Calenda. L’umore della piazza si sovrappone in modo piuttosto fedele all’analisi del voto. Gualtieri ha quasi raddoppiato i suoi consensi, passando dai 300mila voti del primo turno ai 565.000 mila del secondo, mentre Michetti è rimasto quasi inchiodato ai numeri di due settimane fa (da 334.548 a 374.577 voti). Il neosindaco ha pescato a piene mani nel bacino di Calenda (220mila voti al primo turno) e in modo molto più residuale in quello di Raggi (212mila), come testimoniano i risultati trionfali di Gualtieri nella “ztl” del I e II municipio (67 e 65%), le due aree dove il leader di Azione aveva ottenuto le percentuali più alte. Il centrosinistra peraltro vince tutti i ballottaggi per le presidenze dei 15 municipi tranne che nel sesto, quello delle “torri” dell’estrema periferia est, l’unico in cui la candidata era un’esponente grillina, Francesca Filipponi. È l’ultima beffa nel giorno del sipario della gestione Raggi. L’ex sindaca – che è andata a votare ieri mattina alle 11 – ha mandato un messaggio di auguri al suo successore, garantendogli “leale e costruttivo sostegno nelle battaglie che avranno a cuore Roma”.

Anche la destra si lecca le ferite. La grande sconfitta di Roma è Giorgia Meloni, responsabile della scelta di un candidato francamente impresentabile come Michetti. Sul quale ieri ha pronunciato una sofferta e parziale autocritica: “Abbiamo scelto profili meno noti, alle prossime Amministrative meglio profili politici”.

Salvini & Meloni scappano. L’unico che gongola è Silvio

Sono scappati dai propri candidati, lasciati soli come dei reietti figli di nessuno. Matteo Salvini si è nascosto in Calabria per risolvere, nel giorno dei ballottaggi, le prime beghe della nuova giunta Occhiuto e Giancarlo Giorgetti è addirittura volato negli Stati Uniti. Giorgia Meloni al comitato di Enrico Michetti, il suo candidato, non si è proprio presentata e ha preferito barricarsi nel quartiere generale di via della Scrofa. Silvio Berlusconi invece da Arcore segue tutto da lontano e gongola per le vittorie dei suoi candidati a Trieste e in Calabria pronto a scendere a Roma nelle prossime ore. Ma soprattutto i leader del centrodestra analizzano la sconfitta accusandosi tra loro. Una resa dei conti che scatterà già questa settimana quando i leader si incontreranno su richiesta di Meloni che ormai si erge a capo della coalizione anche se già azzoppata. Perché alle 18.30, quando si presenta di fronte ai cronisti, è lei che scura in volto ammette la sconfitta e lancia i fendenti più pesanti ai propri alleati: “Il problema è che su molti temi abbiamo tre posizioni diverse – attacca Meloni – per questo la gente non ci capisce: abbiamo un problema di identità e serve maggior coordinamento”. Rispondono fonti leghiste: “Vuole che lasciamo il governo? E poi che succede?”. Salvini per tutto il giorno fa spallucce (“abbiamo più sindaci di 15 giorni fa”) e poi reagisce con una “campagna di ascolto con il Paese reale”. Tradotto: i congressi locali e il rinnovo dei segretari cittadini entro Natale. Una partita che potrebbe dare il via al congresso nazionale in primavera chiesto dai suoi avversari interni. I veleni sono incrociati: “Salvini non sa federare” commentano i meloniani. “Ma Michetti era suo e abbiamo visto com’è andata” rispondono da via Bellerio. E sarebbero alleati.

I numeri parlano chiaro: il centrodestra perde ovunque, tranne a Trieste. Senza sfumature. Oltre a Roma e Torino, pesano soprattutto le sconfitte brucianti in due feudi leghisti come Varese (dove correva il giorgettiano Matteo Bianchi) e Latina, terra di Claudio Durigon, dove Vincenzo Zaccheo subisce il ribaltone di Damiano Coletta. Oltre a Savona, Isernia e Cosenza governate dal centrodestra e da oggi in mano a sindaci del Pd. Anche nel Veneto di Luca Zaia il Carroccio perde in tre ballottaggi su tre e a Conegliano, città natale del governatore, la spunta il candidato di Forza Italia Fabio Chies contro il leghista Pietro Garbellotto. La sentenza dei leghisti vien da sola: “Una disfatta” Che porta diritto al redde rationem.

La più abbattuta è Meloni. Quella di ieri è stata la sua prima vera battuta d’arresto dopo una luna di miele che, dall’opposizione, ha portato Fratelli d’Italia al 20%. Dopo aver accusato la sinistra e i giornalisti per una campagna elettorale “indegna” e “piena di fango” e ammesso che la mobilitazione antifascista ha aiutato il centrosinistra, Meloni parla da leader della coalizione. Invita gli alleati a un chiarimento a Roma questa settimana, fa sapere che per le prossime amminsitrative servono “candidati politici e non civici” e poi attacca gli alleati che stanno al governo: “Sul Green pass abbiamo posizioni diverse e la gente non capisce”. E poi allude, guardando a FI: “Noi non abbiamo un piano B oltre al centrodestra”. Salvini invece non riesce ad ammettere la sconfitta: “Gli elettori hanno riconfermato i sindaci uscenti”. Poi inizia a parlar d’altro lanciando fendenti sul ministro Luciana Lamorgese, sul Reddito di cittadinanza e sul pass. Il Carroccio è dilaniato. I governisti chiedono a Salvini una linea più “draghiana”, i duri e puri, come Claudio Borghi, sostengono: “Abbiamo pagato il governo col Pd”. Come dire: andiamocene. Il segretario ora non sa cosa fare. L’unico che esulta è Berlusconi, che può contare su due vittorie su due con Occhiuto in Calabria e Dipiazza a Trieste. Da Arcore la linea è chiara: “Vince la nostra linea moderata, europeista e draghiana – ha detto ai fedelissimi – senza di noi il centrodestra non va da nessuna parte”. Per questo nelle prossime ore arriverà a Roma, provando a raccogliere i cocci di una famiglia allo sbando.

Dalle urne sindaci dimezzati. Disfatta della destra: perde 8-1

Sotto il cielo grigio dell’astensione ha stravinto il Pd. Nell’Italia dove ha votato meno di un elettore su due, con un’affluenza record al 43,9 per cento che segna un tracollo rispetto al dato del primo turno (52,6 per cento), i dem si sono imposti sul centrodestra nel secondo turno delle Comunali con un margine di 20 punti a Roma, dove il successo largo era nell’aria, ma anche nella Torino dove non era affatto scontato. Due città che nel 2016 videro il trionfo dei 5Stelle, e dove cinque anni dopo il M5S ha guardato il ballottaggio da spettatore.

Il suo leader Giuseppe Conte sta zitto per ore, in un lunedì difficile. Poi in serata, anche sulla spinta dei mal di pancia interni, parla con un post in cui non cita il Pd e non esulta: “Il vero protagonista di questa tornata di ballottaggi è in modo drammatico l’astensionismo, a Roma, Torino e Trieste il Movimento sarà all’opposizione”. È gelido con gli alleati, Conte. Quei dem che festeggiano la vittoria del centrosinistra a geometrie molto variabili – con il M5S spesso ma non sempre in coalizione – che sommando le già conquistate Milano, Bologna e Napoli ai due capoluoghi presi ieri può celebrare il 5 a 0 sul centrodestra, che ha puntato ovunque su candidati civici e ovunque ha sbagliato nomi e campagna. Ma il conto finale per le destre sconfina nella disfatta, visto che il Pd è riuscito a riconfermare il proprio sindaco a Varese, la culla della Lega, dove Matteo Salvini era stato quattro volte in campagna elettorale. Ma i dem si sono anche ripresi Savona, con il candidato del centrodestra e del governatore Toti fermo al 37 per cento. Perfino nella Latina che anni fa volevano ribattezzare Littoria, la città del fu sottosegretario leghista Claudio Durigon, ha rivinto Damiano Coletta, civico appoggiato dal centrosinistra. Una sorpresa, visto che Vincenzo Zaccheo (Fratelli d’Italia) aveva sfiorato la vittoria al primo turno. E per Giorgia Meloni è una delusione che si aggiunge a quella per la netta sconfitta a Roma del suo candidato, Enrico Michetti (“Ma nei sondaggi restiamo il primo partito” rivendica). Infine ci sono Cosenza, dove il centrosinistra vince con un socialista e Isernia, dove si è imposto un candidato sostenuto da Pd e 5telle. Cosa resta al centrodestra? La Trieste dei portuali in rivolta, dove il sindaco uscente, il forzista Roberto Dipiazza, prevale di un soffio sul dem Francesco Russo. E c’è la riconferma nella sua Benevento dell’eterno Clemente Mastella, che ha battuto il candidato del centrosinistra. Briciole, davanti a un quadro che permette al segretario dem Enrico Letta di celebrare “una vittoria trionfale, oltre ogni aspettativa”.

Tale da spingere Salvini a spostare l’attenzione su altro, cioè ad attaccare la ministra dell’Interno Lamorgese “che usa i guanti con i neo-fascisti e invece adopera lacrimogeni e idranti contro operai e studenti a Trieste”. E comunque poi ci sono sempre i numeri dell’astensione, cifre da democrazia quasi dimezzata. Un rigetto esploso nelle grandi periferie urbane. Cioè nella Roma dove ha votato il 40,6 per cento, a fronte del 48 e qualcosa del primo turno, e nella Torino dove alle urne è andato il 42,1, il minimo storico. Il dem Roberto Gualtieri, per dire, ha vinto nella Capitale grazie al 24 per cento degli aventi diritto.

Non è un caso che il candidato torinese del centrodestra, Paolo Damilano, lo abbia ammesso: “Sulle periferie siamo arrivati tardi”. In quei quartieri che nel 2016 furono il motore delle vittorie delle grilline Virginia Raggi e Chiara Appendino il centrodestra non ha saputo portare la gente alle urne. Invece nei centri medio-piccoli l’affluenza è stata nettamente migliore, come testimoniano il 59,9 di votanti a Benevento, il 57,5 a Isernia e il 52,1 a Latina.

Di certo l’astensione è un avviso anche per il Pd, che deve fare i conti anche con la totale assenza di sindache. Letta promette una classe dirigente “anche femminile”. Ma nelle Comunali 2021 il rosa non c’è.

 

I PARERI

Flop Il leghista ha sopravvalutato i no vax e si è sgonfiato come renzi

Ormai sappiamo che è difficile che l’elettorato cambi rapidamente posizione ideologica, motivo per cui le elezioni si vincono soprattutto a seconda di quale gruppo si astiene maggiormente. Se guardiamo a quel che è successo fuori dall’Italia – per esempio in Norvegia e in Germania – verrebbe da dire che la pandemia abbia portato più sostegno alla sinistra, anche solo per l’avvertita esigenza di un forte intervento dello Stato nell’economia. Gli elettori di destra in questo momento sono scontenti e spiazzati, complici alcune scelte dei partiti. Credo che la Lega, per esempio, abbia sopravvalutato il peso elettorale dei gruppi No Vax e No Green Pass, in realtà molto limitato. Poi, certo, influisce la scelta di candidati deboli, così come la mutata percezione di Salvini, che sembra ripercorrere la parabola di Renzi: a un certo punto era indicato come l’unico in grado di far vincere la propria coalizione, ma quando si è scoperto che non era così allora è arrivato il crollo.

Donatella della Porta

 

Disaffezione il governo dei tecnici ormai ha messo all’angolo i partiti

Quella della scarsa affluenza è una tendenza generale in Europa. In questo caso però c’è il fatto che la politica, negli ultimi mesi, è stata messa ai margini dal nuovo governo, che ha tolto rilievo alle dinamiche dei partiti e alla loro competizione. E così i cittadini sono portati a pensare che ci sono i tecnici, così bravi ed efficienti da badare a tutti i problemi senza che ci si debba più accapigliare. La disaffezione nei confronti della politica credo sia indirettamente legata a questo passaggio, con i partiti messi all’angolo del dibattito. Senza dimenticare l’elemento delle periferie, in effetti dimenticate e dunque con un’affluenza molto bassa. Ma vorrei ricordare l’eccezione di Bologna, dove invece le periferie sono andate a votare: merito di un totale rinnovamento generazionale, di un’alleanza larga con una forte componente di sinistra e dunque di un esperimento molto interessante che ha saputo muovere gli elettori.

Piero Ignazi

 

Periferie FdI è urbano e borghese, non può sfondare tra gli “ultimi”

Il calo dell’affluenza negli ultimi anni è continuo e dunque non deve stupire, anche se ora siamo a un livello davvero preoccupante. L’elemento che forse meglio spiega lo scalino tra centro e periferie è la mancanza di un attore politico in grado di intercettare il consenso di queste ultime. Fino al 2018 lo ha fatto molto bene il M5S, poi, per un breve periodo, ci è riuscita la Lega. Ma questa volta FdI, che doveva essere il megafono della protesta anche solo perché unico all’opposizione, non è riuscito a coinvolgere quella parte di elettorato, che è rimasto a casa. Sono persone che magari torneranno a votare, ma che non hanno considerato credibile alcun partito. D’altra parte FdI è sempre stato un partito urbano e borghese, ha sempre avuto una forte connotazione identitaria che forse gli preclude di sfondare fino in fondo in periferia.

Marco Valbruzzi

Vittoria per abbandono

La prima notizia è che vincono i candidati sindaci del Pd coi voti degli elettori giallorosa. La seconda è che perdono i candidati sindaci del centrodestra coi voti di FdI, Lega e FI. La terza è che l’astensione (targata soprattutto M5S e Lega) tocca il record del 60% e i sindaci che vincono col 60% dei voti rappresentano il 25% degli elettori. Ma la vera notizia è che né i vincitori (un Letta giustamente euforico, ma stranamente confuso) né i vinti hanno capito cos’è accaduto alle Comunali e potrebbe accadere alle Politiche. Anche perché tutti, aiutati dai sedicenti esperti, confondono le une con le altre.

1. Alle Comunali si vota su due turni e conta il candidato sindaco, alle Politiche si vota su un turno unico e conta il leader nazionale candidato premier. Se gli elettori avessero trovato sulla scheda la Meloni al posto di Michetti-chi? non ci sarebbe stata partita. Lo stesso vale per il leader più popolare, cioè Conte, che ha dalla sua due buone esperienze da premier: il suo nome in lista avrebbe effetti ben diversi da quelli di una Sganga e pure di una Raggi dopo cinque anni di massacro.

2. Alle Politiche, per poca che sia, voterà molta più gente di ieri: Letta è sicuro di essere più appetibile per chi non ha votato di una Meloni e di un Conte (magari col recupero dei movimentisti alla Di Battista e un minor appiattimento su Draghi)? Il Pd, ultimo partito d’establishment, deve sperare che le urne restino riservate alle élite delle Ztl (a Torino Lorusso ha preso meno voti di Fassino cinque anni fa nel ballottaggio rovinosamente perduto contro l’Appendino). Ma, se una parte degli attuali non votanti riprendono a votare, cambia tutto: ieri l’ultimo sondaggio di Mentana, dopo due settimane di revival “fascismo-antifascismo”, dà FdI e Lega in crescita e i 5S a meno di 3 punti dal Pd.

3. L’alibi dei “candidati sbagliati” regge fino a un certo punto. Certo, Michetti era comico, infatti ha gonfiato le vele a Calenda, vero candidato della destra finanziaria e palazzinara. Ma Damilano era un buon nome e ha pagato i quattro veri handicap che tarpano le ali delle destre: la guerra civile tra Meloni, Salvini e i resti di FI; l’impresentabilità delle classi dirigenti, che regalano al nemico i “mostri” perfetti (da Morisi a Durigon ai baroni neri alle altre fascisterie); il flirt con i No Vax (il Green pass è tutt’altra cosa) che la gente normale non segue; il dissanguamento della Lega a trazione Giorgetti ammucchiata al centrosinistra nel governo Draghi.

4. Qualcuno prima o poi ci spiegherà com’è possibile che la polizia di Stato carichi con idranti e manganelli i pacifici manifestanti al porto di Trieste e scorti gli squadristi fascisti verso la sede della Cgil perché non sbaglino strada. Ma questo con le elezioni non c’entra. Forse.