“Morti di fama” Lo spettacolo delle celebrità dietro le quinte (tra il fascino e il gran ribrezzo)

C’è un ristorante a Roma, un dopo teatro, frequentato esclusivamente da persone famose. Giornalisti, attori, personaggetti inutili e soubrette, in un viavai chiassoso tra tavoli e toilette. Ovunque un chiacchiericcio di “hai visto chi c’è”, “cara mancavi solo te”, “ti vedo in splendida forma”.

Osservo questo ecosistema da un angolo della sala e oscillo tra l’attrazione e il ribrezzo. Non solo per le persone, in un mostrarsi continuo, ma soprattutto per il colpo d’occhio generale. Ci si bacia, ci si abbraccia e ci si spulcia, con gesti di appartenenza, come in una colonia di scimmie. Gli artisti si guardano, si spiano, si studiano nella speranza di cogliere negli altri gli echi di qualche fiasco. Lo spettacolo continua anche a spettacolo finito o telecamere spente, come se l’inquadratura si allargasse fino al ristorante per riprendere la vita, ma nei suoi dettagli un po’ scadenti o scaduti. Qui si cerca lavoro, una scrittura! Mi fa pensare al film “Polvere di Stelle” quando Alberto Sordi e Monica Vitti attraversano Galleria Colonna, ritrovo di artisti del varietà e dell’avanspettacolo, che per necessità cercano di farsi notare.

Qualche volto meno spocchioso però si vede, si aggira discreto, forse sono quelli che il successo l’hanno avuto per poco tempo e poi irrimediabilmente lo hanno perso, e vagabondano poco notati nel ristorante. Ma sono comunque in pace con se stessi. E io? Io corro in palestra a sudare danzando e attaccandomi ai miei sogni. Non so quello che succederà, ma voglio concentrarmi solo su quello che succede in questo momento. Succede che sto bene, che mi sento serena in sintonia con il mio piccolo mondo, e le mie braccia si alzano e arrivano in alto dove arriva la mia immaginazione. Qui e ora, perché questo presente è perfetto! Quel ristorante forse lo frequenterò in futuro, ma è il posto più illusorio che ci sia.

 

Sir Elton e la musica da lockdown “Il mio disco con le star”

Sir Elton John, la sua è una vita immersa nella musica altrui. Sin da quando lavorava in un negozio di dischi.

Beh, cominciai comprando i 78 giri, questo dimostra quanto io sia vecchio. Il mio primo 78 era di Doris Day, The Deadwood Stage. C’era sempre musica in casa dai miei. E non ho mai perso l’abitudine di acquistare qualche cd o vinili, ovunque io sia. Entro in un negozio e mi sento come quando ero bambino. Riprendo nuove copie di album che già possiedo. Non resisto a Cupid & Psyche degli Scritti Politti, lo vedo e apro il portafogli. E ogni venerdì tiro giù la lista delle nuove uscite e me le procuro.

Facendo grande attenzione ai giovani talenti.

Su Spotify spuntano trentamila nuovi pezzi a settimana. Roba fantastica, c’è un mucchio di musica sensazionale di ogni tipo, a voler fare i cercatori d’oro. Prendete Morgen, una sedicenne americana. Alla sua età io mi mettevo ancora le dita nel naso. Ho passato due suoi pezzi al programma radiofonico che conduco da sei anni su Apple, Rocket Hour.

Dove trasmise anche una Billie Eilish ancora alle prime armi.

Se mi entusiasma il lavoro di una ragazzina già così talentosa, le telefono e la intervisto in onda. Un po’ di tempo dopo Billie mi ha detto di ricordarsi di quella chiamata. Un giorno forse faremo qualcosa insieme, ma è ancora presto. Sta crescendo alla grande, quel piccolo fiore diventa un albero robusto.

Intanto lei, Elton, ha coinvolto molte superstar nel suo album in uscita il 22 ottobre, The Lockdown Sessions. Il singolo con Dua Lipa, “Cold Heart”, che impasta nell’ultradance “Rocket Man” e “Sacrifice”, sta sbancando le classifiche.

Dua mi chiese di parlare su Instagram della scena disco anni 70 dello Studio 54, ci siamo conosciuti così. Poi abbiamo duettato per la Elton John AIDS Foundation, siamo usciti a cena e diventati amici. Il mio manager le ha detto: senti questo remix e sparatelo al massimo volume a bordo piscina. Nel caso, chiamaci. Lei lo ha fatto: ‘Ok, voglio cantarci dentro io Rocket Man’”.

Sedici pezzi nell’album, con nomi come Brandi Carlile, Charlie Puth, Eddie Vedder dei Pearl Jam, Gorillaz, Lil Nas X, Miley Cyrus in una cover di “Nothing Else Matters” dei Metallica, Nicki Minaj, Rina Sawayama, SG Lewis, Stevie Nicks dei Fleetwood Mac, Stevie Wonder, Surfaces, Years & Years, Young Thug, lo scomparso mito del country Glenn Campbell. Un disco collettivo, con lei, Sir Elton, che si presta a fare il session man di lusso.

Non volevo pubblicare un album di Elton John, soprattutto durante il lockdown. Non avevo alcun progetto per fare musica, in realtà. Avevo una pila alta così di magnifici testi di Bernie Taupin, ma non avevo la testa per concentrarmi su me stesso. La reclusione in casa mi aveva sorpreso alla fine del segmento Australia-Asia del mio Farewell tour, prima di un rinvio a tempo indeterminato.

La tournée riprenderà nel prossimo anno, una volta che avrà riacquistato la forma dopo un’operazione all’anca. Per la prima e unica volta sbarcherà anche a San Siro, il 4 giugno. Poi a Los Angeles i concerti finali della sua storia live.

Nello stop forzato degli scorsi mesi ho dovuto impiegare il tempo in qualche modo, come tutti. Mi sono buttato a guardare la serie su Chernobyl e poi con i miei figli organizzavamo tornei di “Snakes and Ladders”: vincevano sempre loro. Non avevo niente altro da fare tutto il giorno. Finché qualcuno mi ha insegnato a comunicare via Zoom, e ho ripreso a contattare gli amici, imparando a duettare a distanza. Questo The Lockdown Sessions è nato dopo un primo contatto al ristorante con Charlie Puth: non lo avevo mai incontrato prima malgrado vivesse a tre porte da me a LA. Poi tutti gli altri. E con il sostegno di un produttore da Grammy, Andrew Watt. Qui e là mi limitavo a suonare il piano. Volevo tornare a fare il session man.

Lo era stato spesso nella sua carriera.

Ho avuto la fortuna di registrare con Bob Dylan, John Lennon, George Harrison, Leon Russell. Ho cantato con Leonard Cohen, Aretha Franklin, Ray Charles, Stevie Wonder. Non male come elenco, no?

Wonder l’ha ritrovato in questo album.

Sì, ma sono ancor più concentrato e motivato a duettare con le giovani stelle. Ho conosciuto tutti i grandi, abbiamo condiviso meraviglie. Ma ora tanti altri stanno conquistando la scena, riconciliandomi con la sensazione familiare di quando avevo la loro età. Questo disco ha trovato me, non viceversa. Ero privo d’ispirazione, ma le nuove star mi hanno restituito vita ed entusiasmo. E una fiducia mai così piena nel futuro della musica.

“Sotto il mio volto coperto può esserci ogni gay russo”

Da qualche parte, in Russia, sventola una bandiera rossa dell’Unione sovietica in versione arcobaleno Lgbt. L’ha cucita un artista che nasconde la sua faccia e l’unico nome con cui vuole essere conosciuto è quello con cui firma le sue opere, finite sui patinati americani semplicemente con “Pasha”, comunissimo diminutivo di Pavel. “Pasha sono io, ma può essere un amico, un collega, un parente, un vicino di casa: è il nome di un’immagine collettiva. Sotto il mio volto coperto può esserci ogni omosessuale russo”, dice l’artista. Flag, che anche in russo vuol dire bandiera, “è il titolo dell’opera: un lavoro ironico, come tutti gli altri. Ho tentato di immaginare l’esistenza della comunità Lgbt in Urss. Se gli omosessuali avessero avuto la possibilità di esistere, forse avrebbero avuto un uniforme del partito, organizzato riunioni e manifestazioni. Quel drappo è un pezzo di un intero mondo inventato, la sintesi di un’utopia storica”.

Lei è cresciuto in una società – quella dell’Urss –, dove essere gay era un crimine.

La mia infanzia sovietica è trascorsa in uno specifico “vuoto”. In quegli anni non solo non si poteva essere gay, ma le informazioni stesse sull’esistenza di persone Lgbt erano inesistenti. Sapevo di essere diverso dalla maggior parte dei miei coetanei, ma non sapevo davvero cosa fossi. Che l’omosessualità fosse un crimine, l’ho capito solo dopo che questa legge è stata abrogata. Mi spiego meglio: ho capito di essere omosessuale solo dopo il crollo dell’Urss, grazie alle informazioni che cominciavano a circolare sia in tv, che nei giornali. Sono stato in grado di definire me stesso solo allora, ma non c’è stata paura o orrore a realizzarlo, anzi. Finalmente sapevo di non essere il solo.

Ieri c’era l’ottemperanza al credo dell’Urss. Oggi le cose non sembrano molto cambiate: c’è la Russia patriarcale di Putin, dove vige una legge che vieta la cosiddetta “propaganda omosessuale”.

I gay delle generazioni precedenti alla mia vivevano in condizioni molto più difficili. In ogni caso, non solo i queer, ma moltissimi cittadini, in quegli anni sovietici, hanno vissuto tragedie oggi non più immaginabili. Sottolineo un dettaglio: oggi un ragazzino russo può trovare informazioni su internet, parlare con altri ragazzi gay sui social, sia in questo Paese che in altre parti del mondo. Tutto questo accade nonostante la politica negativa da parte dei grandi media e dello Stato contro di noi. Oggi, nella Federazione russa, le autorità fanno finta che non esistiamo: le persone Lgbt non vengono sostenute, i nostri diritti vengono violati. Mi ferisce più di ogni altra cosa quando i media ci deridono: alla maggior parte dei russi, che guarda solo la tv, viene fornita un’immagine terribile, spaventosa e disgustosa degli omosessuali. Se la narrativa statale cambiasse, lo farebbe anche l’approccio della popolazione.

Nelle sue opere presente e passato spesso si sovrappongono e si contaminano. La sua infanzia e i frantumi che ha lasciato sembrano la matrice di tutti i suoi lavori, tra cui c’è anche un quaderno di scuola, di quelli che usano i bambini in tutte le aule russe per imparare a scrivere. Sui fogli si ripetono sempre le stesse parole: quelle con cui si umiliano i non eterosessuali.

“Pedik” che vuol dire frocio. E “azzurro”, colore con cui, in gergo, ci si riferisce agli omosessuali russi. Quelle parole sono state scritte su fogli dove i bambini, all’asilo, di solito imparano a scrivere termini innocui, come sole, luna, macchina. Quelle parole offensive, che gli altri mi hanno rivolto tra i banchi prima ancora che io capissi di essere gay, mi sono rimbalzate in circolo in testa per molti anni.

Dopo le parole, di solito arriva la violenza. Lei è stato perseguitato per essere gay?

Quello che è successo nella mia infanzia, si può evincere chiaramente nei miei lavori. A scuola ero vittima dei bulli. Sono stato costretto a chiudermi in me stesso e nascondere ogni aspetto di me, da tutti e ovunque, per molto tempo. La fine della scuola ha rappresentato la fine degli abusi.

Con il suo linguaggio semplice ed immediato tratteggia anche figure delle favole: sembrano i disegni di un bambino, invece sono quelli di un adulto che soffre. L’ostraniene, lo straniamento, avviene quando si vedono i suoi ritratti a volto coperto accanto ai pupazzi.

Sono figure apparse nella mia infanzia parallelamente all’inizio delle molestie. Nel mio mondo immaginario sopravvivevano ad insulti, aggressioni, violenze.

La sua vera faccia è quella coperta dalla stoffa con cui la nasconde in foto. Chi è lei quando, a volto scoperto, è un insospettabile russo qualunque?

Un uomo fortunato. Vivo in una grande città, ad amici e colleghi non nascondo la mia omosessualità, che devo però tenere segreta quasi ovunque, e a tutti, per i casi di aggressione ai rappresentanti Lgbt di cui abbiamo letto tutti. Credo che in tutta la Russia, prima o poi, gradualmente, aumenterà quella tolleranza che oggi si percepisce flebile a Mosca e Pietroburgo. Nelle piccole città e nei villaggi russi, essere apertamente gay, rimane quasi impossibile, ma su quanto sia difficile o non difficile esserlo, ognuno risponderà in modo diverso. Non sono solo nelle gallerie d’arte: i gay russi oggi sono anche in mondi che crediamo totalmente opposti, come l’esercito. E la storia insegna che niente può rimanere nascosto per sempre.

“La mostra chiude i battenti” La direttrice saluta e se ne va

Fateci caso, i posti di responsabilità nel governo del patrimonio culturale sono tutti assegnati a figure allineatissime al potere costituito. Ortodosse, poco o per nulla innovative: meglio se grigie e ossequiose. Nessuno spazio per eretici talentuosi, creativi, visionari, sperimentatori: alla faccia della funzione rigenerativa della cultura. Se poi si tratta di donne, ciò che ci si aspetta è una totale sottomissione all’ordine stabilito dal dominio maschile. Figuriamoci se poteva reggere la brillante, intellettualmente insubordinata, responsabile di un museo ecclesiastico: e infatti Domenica Primerano, direttrice del Museo Diocesano Tridentino, si è da poco clamorosamente dimessa. La sua colpa? Aver pensato e realizzato la mostra italiana più importante degli ultimi anni, almeno sul piano intellettuale e politico. E poi aver proposto di renderla in qualche modo stabile e permanente.

La mostra è quella, del 2019, su L’invenzione del colpevole. Il ‘caso’ di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia. Vi si ricostruiva la storia terribile di Simonino: un martire inventato nel 1475 da un principe vescovo corrotto e in cerca di soldi e successo. La morte accidentale di un bambino divenne allora l’occasione per montare un processo atroce contro la comunità ebraica. Il capo di accusa era quello classico della persecuzione degli ebrei: Simonino sarebbe stato dissanguato nell’impasto del pane da consumare per la Pasqua, in una parodia cannibalesca dell’eucarestia cristiana. Tutto falso, ma la tortura strappò confessioni a spiriti prostrati e corpi massacrati, e, nonostante l’opposizione di illuminati prelati della curia romana, gli ebrei innocenti furono uccisi, e il bambino innalzato sugli altari.

Era la fine della presenza ebraica a Trento, una ferita che iniziò a rimarginarsi solo quando le ricerche di un prete e storico trentino (era il 1965) convinsero la Chiesa ad abolire il culto del bambino e a riabilitare gli ebrei innocenti. Ma ancora oggi nel discorso pubblico, e sulla rete, Simonino è un santo vero, gli ebrei assassini di bambini.

La mostra smontava questa storia attraverso la potenza delle opere d’arte, dei libri, dei riti pubblici dedicati a un santo inventato e a un massacro perpetrato in nome della fede cattolica. E lo faceva in un momento in cui l’invenzione del colpevole (nero, immigrato, rom, omosessuale, povero: comunque diverso, come gli ebrei) è ancora il pane quotidiano delle più votate forze politiche italiane. Non sembri un collegamento forzato: più di una volta la Difesa della razza (la rivista fascista, pubblicata tra 1938 e 1943, di cui era efferato caporedattore Giorgio Almirante: tuttora riconosciuto come padre politico dal partito di Giorgia Meloni) mise in copertina le immagini e la storia di Simonino, vittima dei perfidi giudei che allora fascisti e nazisti avviavano ai forni crematori.

La mostra di Domenica Primerano ha avuto uno straordinario successo (comprese le scritte antisemite che ne hanno imbrattato i manifesti: segni sicuri di efficacia), vincendo tra l’altro il Grand Prix per l’educazione dell’European heritage award, il più prestigioso premio europeo per il patrimonio culturale. Di qui l’idea – necessaria – di musealizzarne permanentemente una parte nella cappella che, nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, aveva ospitato per secoli le reliquie e i riti di questo culto “sacrilego” – sacrilego perché falso. Un’idea fortissima anche sul piano strettamente religioso: perché “i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (Giovanni 4, 23).

Ma un’incredibile alleanza di fatto tra destra catto-fascista, alcune personalità della comunità ebraica trentina (smentite però dalla presidente delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, che si è rifiutata di firmare le lettere contro il progetto) preoccupate di una riaccensione del culto, e storici convinti che la storia non si possa spiegare al popolo ha indotto l’arcivescovo di Trento Lauro Tisi (che pure aveva coraggiosamente sostenuto la mostra) ad archiviare il progetto, togliendo di fatto la sua fiducia alla direttrice Primerano. E così questa studiosa, questa intellettuale indomita e tutta intera alla quale dobbiamo così tanto, ha preso la bicicletta ed è partita per un viaggio lungo la Loira.

Chi l’ha costretta ad andarsene si è assunto una grave responsabilità morale. Perché raccontare proprio in quel luogo il tradimento abominevole che lì fu compiuto sarebbe stato importantissimo: così come lo è stato musealizzare Auschwitz. E perché si sarebbe trattato di uno dei rarissimi tentativi di far parlare a tutti il patrimonio culturale: con rigore storico, ma anche con tensione morale e con spirito costituzionale.

Abbiamo tremendamente bisogno di direttrici e direttori come Mimma Primerano: perché è solo con persone così che davvero “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura” (art. 9 Cost.).

“Meloni&Salvini nel tunnel: la pandemia uccide le destre”

“Vediamo le cose buone che ci ha fatto scoprire la pandemia”.

Parola al super ottimista Erri De Luca.

Parto dalla semplice analisi dell’esistente. Enumero i fatti: abbiamo scoperto lo smart working, e non è cosa da poco. Abbiamo capito che si può vivere anche in campagna e finalmente svignarcela dalle trappole metropolitane. Numero tre: abbiamo riconosciuto la montagna come luogo da frequentare, andiamo in bici molto più che ieri, compriamo attrezzi e indumenti sportivi molto più che ieri. E, infine, leggiamo di più, acquistiamo più libri. Sa che significa?

Significa che la tv non basta.

Significa che la televisione finisce per disturbare. È una bellissima notizia. E adesso veniamo al fatto clou di questa condizione.

Qual è la grande novità?

Che la destra non sa gestire la pandemia e perciò sarà out nel prossimo futuro. Ovunque si sia trovata a gestire l’emergenza sanitaria ha prodotto caos. Da Trump in poi gli esecutivi di destra o quelli semplicemente autoritari hanno sistematicamente fallito. Perciò io sono persuaso che Salvini e Meloni siano dentro il loro personalissimo tunnel.

Meloni parla di una strategia della tensione allo scopo di far fuori il suo partito.

Ecco perché dico che proprio non c’è futuro di governo per lei. Una strategia della tensione dovrebbe essere ordita da menti raffinate, da talenti politici, da cervelli grandi così. Ma il personale politico è fatto di mezze cartucce. Al pari delle mezze cartucce di questurini che non hanno saputo fermare una banda di sciamannati la settimana scorsa a Roma.

Il giorno della devastazione della Cgil.

Cento fascisti disperati liberi di fare casino. Bastava un vice questore minimamente competente. Non c’è da chiamare in causa l’urto della piazza, non c’è da illustrare la sociologia del ribellismo. Si tratta di incompetenza, purtroppo e semplicemente abbiamo dovuto contare i danni causati da incompetenti a cui era stato affidato l’ordine pubblico, poi trasformatosi in disordine.

Ma la pancia della società ribolle di una rabbia sorda, e dobbiamo fare i conti con gli umori, anche violenti della piazza.

Alt! Iniziamo dalla pancia. Ho un pregiudizio favorevole verso la pancia. Dopo il cervello è l’organo del corpo che custodisce il più alto numero di terminali nervosi. La pancia è intelligente, molto più di quel che si crede.

La pancia della società è intossicata dalle fake news.

Questo in parte è vero. E se ti nutri di cibo tossico anche la pancia ne risentirà. Una cosa a me sembra chiara: le mascherine ce le terremo con noi ancora per molto perché la pandemia non ci lascerà ed essere prudenti è una minima misura di profilassi.

Forse ci aspetta nel prossimo futuro quel che oggi sta patendo la Gran Bretagna: di nuovo tanti contagi, lì 45mila al giorno e ancora tanti morti.

Non lo so. Sono certo che la malattia non è finita e questo tempo ci lascia in eredità una quota di nuovi poveri, una sofferenza imprevista, un problema in più che aggiunge ingiustizia a quella che esisteva.

Perciò la rabbia.

Io le chiamo effervescenze sociali alle quali dobbiamo rispondere con la ragione e portare rispetto a questi fenomeni da non confondere con episodi di paranoia con quelle urla al complotto che hanno più vicinanza a disturbi del comportamento.

Non ci saranno guerre di piazza.

Finora non ne ho viste e penso che se non ci sono state è anche perché ci sono stati sostegni nuovi verso i sofferenti. E sono aiuti di cui la società nel futuro prossimo e in quello più lontano non potrà più fare a meno.

Destra all’assalto del Rdc. Patuanelli: “Non si discute”

Mettere in discussione il reddito di cittadinanza è “fuori dal tempo”, assicura il ministro dell’Agricoltura 5 Stelle Stefano Patuanelli. Il fatto che però domenica mattina un big del Movimento sia costretto alla trincea testimonia la pessima aria che si respira attorno a una delle misure simbolo del M5S, sotto il costante attacco dell’opposizione – dove passa per “metadone di Stato” col copyright di Giorgia Meloni – e pure di pezzi del governissimo.

Ieri, per non perdere l’abitudine, Lega, Forza Italia e Coraggio Italia hanno di nuovo chiesto al presidente del Consiglio Mario Draghi di superare il sussidio, di cui sono allo studio alcune revisioni legate soprattutto alle politiche attive per il lavoro e alla revisione dei criteri di accesso. Ad esporsi per conto dei berlusconiani è Maurizio Gasparri, minaccioso all’idea di nuovi finanziamenti per il reddito: “È bene essere chiari subito. Nessuno immagini di aggiungere altri 800 milioni nel 2022 allo sperpero del reddito di cittadinanza. Draghi avvisato mezzo salvato. Non si possono più dare soldi a un sacco di gente in cambio di nulla. Sarebbe un’autentica follia. Il reddito di cittadinanza così com’è va abolito”. E per quanto antico sia l’odio forzista nei confronti del sussidio voluto dai 5 Stelle, raramente si era visto un esponente di primo piano del partito mettere in discussione la propria fedeltà alla linea del governo, al momento non certo orientato allo smembramento del reddito.

Dalla Lega ecco invece il senatore Maurizio Campari, che si lancia in un ardito parallelo tra i lavoratori sottoposti a obbligo di Green Pass – altra misura parecchio contestata dai “duri e puri” del Carroccio – e i precettori dell’assegno: “La misura del reddito di cittadinanza non aiuta la ripresa, anzi, la mette in pericolo. E tra le tante assurdità, si palesa una vera e propria discrepanza sociale: i lavoratori sono obbligati a Green Pass mentre i precettori del reddito che rifiutano il lavoro non sono soggetti ad alcun obbligo”. La sintesi dei totiani di Coraggio Italia è affidata alla deputata Daniela Ruffino: “Il reddito di cittadinanza ha dimostrato in questi anni di aver fallito clamorosamente tutti i suoi obiettivi. I 200 milioni (il finanziamento appena inserito nel decreto fisco-lavoro, ndr) per il reddito di cittadinanza non potevano essere spesi per il sostegno alle aziende?”.

La risposta ai dubbi totiani arriva, in via indiretta, proprio dal ministro del Movimento 5 Stelle Patuanelli, intervenuto a margine del Vinitaly: “Il ruolo che ha avuto il reddito di cittadinanza in questa fase storica del Paese è evidente. Abbiamo rifinanziato la misura per il 2021 proprio perché sempre più persone hanno bisogno, a causa anche della pandemia, di un sostegno”. Motivo per cui “mettere in discussione questo strumento è fuori dal tempo, inspiegabile e immotivato”. Anche se a farlo sono i Migliori.

Draghi trova posto a D’Alia, l’ex Dc fedelissimo di Casini

Rieccolo, anche se non se n’era mai andato: un dc del resto, come i diamanti, è per sempre. L’ex ministro Gianpiero D’Alia è stato nominato dal governo di Mario Draghi consigliere della Corte dei Conti, visto che è quasi in scadenza la sua poltrona al Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria. Incarico, quest’ultimo, acciuffato nel 2018 grazie al voto dei suoi ex colleghi della Camera dove aveva, diciamo così, deciso di non ricandidarsi. Sì, perché nel frattempo era accaduto un gran bisticcio tra i centristi, causa ufficiale il referendum costituzionale che a Renzi è costata una batosta e per i centristi l’harakiri: da una parte Lorenzo Cesa contrario alla riforma, dall’altra Pierferdinando Casini favorevolissimo al progetto del Rottamatore così come pure D’Alia. Che aveva tuonato senza pietà contro i suoi ex sodali: “L’Udc è morta”. Risultato: Cesa lo aveva deferito ai probiviri con la minaccia di espellerlo dal partito di cui era stato segretario nazionale. Un bisticcio micidiale a cui D’Alia aveva risposto facendo le valigie per mettersi in proprio insieme all’inossidabile Casini in un nuovo Movimento, i Centristi per l’Europa, che almeno in Sicilia aveva lasciato in braghe di tela l’Udc: in un colpo avevano cambiato casacca 8 deputati del gruppo e due assessori regionali, tutti al seguito della nuova avventura.

Insieme a D’Alia e a Casini che, a dispetto dei magri risultati del nuovo partito, era comunque riuscito a staccare l’ennesima elezione in Parlamento anche se solo grazie al Pd renziano. E il suo gemello diverso D’Alia? Nel 2017 era già pronto a candidarsi alla presidenza della Regione Sicilia con la benedizione del solito Casini, che aveva fatto appello alla reunion di tutti i moderati che però non c’era stata. E neppure il sostegno del Pd che forse non aveva gradito l’approccio. “Quando avranno finito di giocare al gioco dell’incularella e vorranno parlare di politica, noi siamo qui. Ma facciano presto”, aveva flautato D’Alia. Poi, di fronte alla sua candidatura che non era lievitata, si era fatto da parte, ritirandosi dalla politica attiva, che però non si era dimenticata di lui. Infatti era saltato fuori comunque uno strapuntino: l’elezione nell’organo di autogoverno di giustizia tributaria, dove però non è riuscito a diventare Presidente, strapazzato ai voti da Antonio Leone che si era guadagnato la poltrona sempre grazie agli ex colleghi deputati che ancora prima lo avevano eletto membro laico del Csm. Ma D’Alia non si è perso d’animo e anzi s’è pure rimesso in forma: ora che ha riconquistato la linea grazie alla dieta e al padel, è pronto al nuovo incarico alla Corte dei Conti come consigliere nominato in quota governativa, a quando pare, sempre grazie allo zampino del quirinabile Pierferdinando Casini che avrebbe sponsorizzato il suo nominativo con il premier Mario Draghi. E questi non ha fatto fatica ad accontentarlo. Anche perché D’Alia è una garanzia: dopo una lunga carriera politica nella natia Messina, è stato eletto per la prima volta alla Camera dei deputati nel 2001 e ha collezionato a Montecitorio tre legislature in tutto, più una da senatore, nell’Anno del Signore 2008. Ma è stato anche sottosegretario all’Interno nel governo Berlusconi 3 e poi ministro della Pubblica amministrazione e la Semplificazione del governo Letta. Una collezione di incarichi vari che ancora prosegue, mentre immutata resta la fede centrista: quella che lo ha portato a scalare i vertici dell’Udc, che poi ha abbandonato per l’Area popolare di Angelino Alfano, salvo poi la fondazione dei Centristi per l’Europa e un momentaneo invaghimento per Mario Monti e la sua Scelta Civica. Ma ha avuto anche altri innamoramenti, come per esempio quello per il Ponte sullo Stretto di Messina, salvo poi, quando Berlusconi decise che doveva farsi a tutti i costi, opporsi ferocemente all’opera: non tanto perché convertito improvvisamente alle ragioni dell’ambientalismo. Ma solo, dissero i soliti maligni, dopo aver comprato una mega villa con vista sullo Stretto.

Israele. Consegne, cibo e medicine li porta il drone

Tra lo stupore dei bagnanti nel fine settimana dei droni hanno consegnato sushi, birra e gelato ai rappresentanti di stampa e tv in attesa sulla spiaggia di Hatzuk – a nord di Tel Aviv – come parte di un’iniziativa guidata dal governo per creare una rete nazionale di droni per consegne in tutto Israele. La “National Drone Initiative” è entrata nella terza delle otto fasi previste nel programma pilota, con una dimostrazione di 10 giorni per testare i voli dei droni sopra le aree urbane di Tel Aviv, Jaffa, Ramat Sharon, Herzliya e Hadera, dove la seconda fase del progetto è stato avviato a fine giugno.

In questa nuova fase, i droni hanno effettuato circa 300 voli al giorno sopra aree aperte per diversi compiti come testare i sistemi autonomi, analisi del comportamento in aria, trasportare cibo in un determinato punto e persino consegnare sangue donato dalla banca del sangue Magen David Adom nell’area di Tel Aviv allo Sheba Medical Center.L’obiettivo è mettere a punto la tecnologia e le procedure dei droni e, in definitiva, aiutare a ridurre la congestione stradale e migliorare la qualità dell’aria creando una rete di corridoi aerei per le consegne di medicinali, esami medici e attrezzature, abbigliamento, cibo e merce in genere. Il programma è nato lo scorso anno come collaborazione tra il Centro israeliano per la quarta rivoluzione industriale (C4IR) presso l’Autorità per l’innovazione, l’Autorità per l’aviazione civile (ICAA) e la Smart Transportation Authority, il Ministero dei Trasporti attraverso società private israeliane e straniere. Al momento, i droni hanno un raggio di 5 km con un carico di circa 2,5 kg. In futuro potranno trasportare merci più pesanti e percorrere distanze maggiori.

Secondo l’Israel Innovation Authority il prossimo anno i droni saranno in grado di effettuare missioni con un raggio di 100 km. I voli sono attualmente gestiti da otto compagnie che lavorano a stretto contatto con la polizia israeliana, i servizi antincendio e di soccorso e il comando dell’esercito dell’IDF Home Front Command.

 

Il dopo Macron: la Francia prepara la sua svolta a destra

A sei mesi dalle elezioni presidenziali, l’ex premier di Emmanuel Macron, Édouard Philippe, che ha assicurato la sua lealtà al presidente allo scrutinio di aprile, ha lanciato un nuovo movimento politico, “Horizons”: “Si tratta di un partito, non di un club”, ha subito ammonito Philippe sulle pagine del Journal du Dimanche, il 10 ottobre scorso. “Un partito deve pensare, formare, lavorare. E quando sarà il momento – ha aggiunto –, presentare dei candidati alle elezioni”. L’ex premier si è unito alla coorte di leader politici che, in Francia, stanno preparando “le jour d’après” (“il giorno dopo”). L’espressione viene da un ministro vicino a Macron, che osserva da qualche tempo una certa agitazione all’interno della maggioranza e dei suoi alleati, alla ricerca di nuovi equilibri politici, mentre il capo dello Stato non ha ancora ufficializzato la sua candidatura.

Queste manovre, nella prospettiva delle legislative del 2022, riguardano La République en marche, i centristi del MoDem e il piccolo movimento social-riformista Agir et Territoire de Progrès (TdP). Ma la stessa agitazione si constata anche all’interno della destra conservatrice Les Républicains (LR). Naturalmente, tutti ripetono che la rielezione del presidente “non è affatto assodata”, come ha detto lo stesso Philippe. Ma la maggior parte dei macronisti di fatto non perde di vista i sondaggi, che assicurano a Macron l’accesso al ballottaggio del 24 aprile. In molti pensano anche che la “zemmourizzazione” del dibattito politico, che ruota cioè tutto intorno a Eric Zemmour, volto dell’estrema destra anti-immigrazione e anti-Islam, possa giocare a favore di un “voto utile” al primo turno. Tutti insomma scommettono sulla rielezione del presidente. In questo contesto, “Il minimo comun denominatore di tutte queste forze politiche, è la rielezione di Emmanuel Macron – conferma un consigliere dell’esecutivo –. Per il resto, fanno tutti a gara a chi avrà il gruppo più influente nel 2022. È la loro ossessione”. Alcuni macronisti sono infastiditi dalle ambizioni presidenziali di Philippe, altri ironizzano sulle “manovre di François Bayrou per far sì che il MoDem resti un alleato indispensabile”. Altri ancora si fanno beffa della presunta “ala sinistra” della maggioranza, il TdP, oggi presieduto dall’ex socialista Olivier Dussopt. Tutte queste manovre confermano soprattutto la fragilità del partito LaREM, creato nel 2016 per fare una OPA sulle elezioni, ma che da allora non è mai riuscito a strutturarsi. In tanti, anche nell’entourage di Macron, criticano la formazione politica e la “battaglia” già in corso tra i ministri per pesare nella campagna e dopo le elezioni. Jean-Michel Blanquer, Clément Beaune, Marlène Schiappa, Élisabeth Borne… “Il comitato strategico conta già 85 persone – scherza un consigliere dell’esecutivo –, ma il presidente vuole che pochissimi ministri partecipino attivamente alla campagna”. “Alcuni di loro cercano una circoscrizione elettorale, altri puntano direttamente al posto di primo ministro”, aggiunge un altro consigliere. Dietro le ambizioni degli uni e degli altri, emerge una questione politica più interessante: “Se il presidente venisse rieletto, sarà quasi impossibile costituire una maggioranza a giugno. Il paesaggio politico è troppo frammentato, sia a livello nazionale che locale. Dobbiamo quindi pensare sin d’ora a una coalizione”. Ma è solo dopo il ballottaggio che verrà ridefinito il baricentro del macronismo, crede di sapere chi, all’interno della maggioranza, pensa ancora che questo non sia definitivamente ancorato a destra.

Per i nuovi macronisti, invece, non ci sono dubbi: “Vi è uno spostamento della Francia a destra. Abbiamo uno spazio da occupare e intendiamo essere una componente di peso in questa maggioranza”, ha osservato di recente Christian Estrosi, ex sindaco LR di Nizza, ormai sostegno ufficiale di Macron. Questo movimento a destra è accompagnato anche dalla volontà di dare una maggiore dimensione locale al macronismo. “Macron non ha radici territoriali – osserva un sindaco LR –. Ha bisogno di responsabili politici locali, ma dal momento che l’etichetta LaREM ha perso valore, serve qualcuno in grado di riunirli intorno a sé”. Édouard Philippe intende essere questa persona. Il 9 ottobre, i sindaci di diverse città hanno del resto fatto il viaggio a Le Havre in occasione del lancio del nuovo movimento “Horizons”. Anche il ministro dei territori d’Oltremare, Sébastien Lecornu, ha già ricevuto diversi responsabili locali, finora sostenuti da LR, per sondare le loro intenzioni alle legislative. “Per noi le elezioni del 2022 sono come uno scrutinio a quattro turni, i due delle presidenziali e i due delle legislative”, dice uno di loro. In questo contesto, riemerge un vecchio problema della destra: il divieto di cumulo dei mandati. Un principio instaurato sotto François Hollande e di nuovo discusso il 12 ottobre scorso in Senato, nell’ambito di una proposta di legge portata avanti dal senatore centrista Hervé Marseille. Anche alcune figure della maggioranza cominciano a aderirvi, come il presidente dell’Assemblea, Richard Ferrand, pronto a aprire un dibattito sul tema durante la campagna. Édouard Philippe ha già annunciato che non si sarebbe candidato alle legislative per restare sindaco di Le Havre. Qui comincia la spinosa battaglia delle investiture, anche se chi è vicino al capo dello Stato continua a ripetere che la distribuzione dei posti si farà solo a elezioni passate. Nel gruppo LaREM all’Assemblea, riassume uno dei deputati, “si sta cominciando a dare di matto”, divertendosi nel vedere i suoi colleghi “agitarsi” già da settembre. “Il presidente crede nella sua buona stella – osserva un ministro – e pensa che, se sarà rieletto, le cose si sistemeranno”. Da parte sua, il deputato LaREM Roland Lescure, che è anche portavoce del partito, insistendo sul fatto che non vuole “dare l’impressione di scavalcare le elezioni presidenziali“, ritiene a sua volta che “l’eventuale rielezione di Macron susciterà più bramosia che compassione”, anche se le legislative rischiano di non sollevare “probabilmente lo stesso entusiasmo del 2017”. Per quanto riguarda Les Républicains, l’imbarazzo è altrettanto grande. Tra i leader del partito della rue de Vaugirard, consapevoli dell’importanza strategica e finanziaria delle elezioni legislative, è un continuo cogitare sulla strategia da adottare per lo scrutinio di giugno.

Alla testa del gruppo parlamentare LR dal 2010 al 2019, prima di assumere la presidenza del partito, Christian Jacob ha visto crollare il numero dei suoi membri un mandato dopo l’altro (308 sotto Sarkozy, 199 sotto Hollande, 103 sotto Macron). Un’erosione che fa pensare che le future elezioni “saranno una carneficina” per il partito, secondo le parole di un presidente di federazione LR. In un istinto di sopravvivenza, il partito della destra conservatrice all’opposizione preferirebbe quindi stringere un’alleanza con la destra al potere. Lo stesso Nicolas Sarkozy, secondo diversi responsabili che hanno potuto parlare di recente con l’ex presidente, avrebbe consigliato ai suoi di “sostenere senza eccessi” Macron per i prossimi cinque anni. Ciò permetterebbe a LR di ottenere un centinaio di circoscrizioni elettorali in cambio di concessioni politiche in un futuro esecutivo. Tutte queste manovre strategiche, in vista delle elezioni legislative, rivelano la fragilità politica della destra e deviano i discorsi dall’essenziale. “Preferirei che si lavorasse un po’ più sul programma, piuttosto che concentrarsi sulle alleanze strategiche”, osserva un deputato LaREM che, a sei mesi dalle elezioni presidenziali, non conosce ancora il progetto su cui si baserà la campagna. E se è pronto a schierarsi dietro a Macron, dipenderà dall’orientamento della sua campagna: “Bisognerà chiarire diversi punti – spiega –. Se si tratta di continuare a seguire la linea della sicurezza dettata dal ministro dell’Interno Darmanin, sulla scia del metodo Sarkozy, allora non intendo impegnarmi di nuovo nella campagna”.

(Traduzione di Luana De Micco)

Archivi e musei Percettori del Rdc usati “gratis” per tappare i buchi dell’amministrazione pubblica

C’è il comune di Imola che l’8 ottobre con una delibera ha “arruolato” i percettori di Reddito di Cittadinanza per lavorare in biblioteche e musei cittadini. C’è il Comune di Agliana che ne cerca per la portineria, le biblioteche e la manutenzione del verde. E poi Montaldo di Mondovì, o ancora Giardini Naxos, solo per restare a comunicazioni e comunicati datati ottobre 2021. Ma la lista di comuni che stanno impiegando percettori di RdC in scuole, biblioteche, musei, verde pubblico, sociale, è sterminata, da Nord a Sud della penisola, da Treviso a Caltagirone. E non solo i comuni. La Regione Abruzzo da mesi li impiega nelle biblioteche e per tenere aperti i musei statali. E poi i percettori di RdC sono impiegati anche negli Archivi di Stato, a Camerino, a Matera, per permettere a queste strutture di rimanere aperte, con il beneplacito della Direzione Generale romana preposta.

I PUC, “progetti utili alla collettività”, nati, sulla spinta delle riforme e della rimodulazione del Reddito di Cittadinanza per tenere lontani dal tanto temuto “divano” ai beneficiari del sussidio, sono diventati legge con un decreto l’8 gennaio 2020: 8 ore settimanali di impegno a servizio del Comune. Le attività dovrebbero, secondo il decreto istitutivo, “intendersi evidentemente complementari, a supporto e integrazione rispetto a quelle ordinariamente svolte dai Comuni e dagli Enti pubblici coinvolti”. Ma è ormai chiaro, bando pubblico dopo bando pubblico, che stiano già diventando altro: un ennesimo modo per fornire manodopera gratuita (il sussidio è somministrato a livello centrale) alle amministrazioni pubbliche bisognose di personale e risorse. Manodopera che non può sottrarsi, per il timore di perdere l’essenziale sussidio. Ancora una volta, come è stato per altre misure “tappabuchi” simili, come volontariato e servizio civile – usati da tempo come serbatoio di manodopera più o meno specializzata che finisce a integrare quella della P.A. -, sono i settori della cultura, del sociale e dell’ambiente a fare da territorio di sperimentazione: settori caratterizzati da professionalità poco note al grande pubblico, ma anche da una bassa regolamentazione delle stesse, che porta a sfruttamento diffuso, salari medi sotto i 7 euro orari, e sistemico ricorso al lavoro gratuito come sostitutivo di quello retribuito.

Da mesi una parte della politica e dei ceti industriali rappresentati da Confindustria chiedono di usare il RdC per fornire alle imprese private lavoratori pagati dalle casse pubbliche. “Diamo i soldi alle imprese per assumere le persone che oggi percepiscono il reddito di cittadinanza. Un’impresa che oggi può permettersi di pagare ad esempio 10 dipendenti potrà averne 15, perché aiutata dai soldi destinati al sussidio” diceva il governatore ligure Toti nell’agosto del 2021. Ma gli enti pubblici stessi paiono dare l’esempio, andando a mettere in conflitto sussidio e lavoro retribuito: quante assunzioni necessarie potrebbero saltare, in settori ad alta disoccupazione, grazie all’impiego integrativo dei percettori di reddito? Una domanda che è il caso si pongano l’attuale ministro Andrea Orlando, ma anche quel Luigi di Maio che quella misura l’ha promossa: senza però dichiarare che avrebbe potuto finire per sostituire bibliotecari, custodi o educatori.