Pro – Monopoli troppo garantiti
Non si privatizza nulla: si evitano solo le rendite
Mimmo Lucano non ha messo in gara i servizi di raccolta. È grave? Si, perché con le migliori intenzioni li ha affidati a soggetti che poi gli sarebbero stati grati, e non ha verificato se poteva spendere meno soldi pubblici. Questa in Italia è prassi frequente, di solito mascherata, e con fini meno condivisibili. La definizione di cosa sia esattamente un servizio pubblico e cosa no è complessa, e ha anche forti contenuti politici.
Mettere in gara un servizio pubblico significa chiedere se qualcuno lo può fornire per meno soldi, per un tempo limitato (varia di solito da 5 a 10 anni, poi la gara si rifà). La socialità del servizio non dipende da chi lo fornisce, ma dalla sua qualità e dalle tariffe per gli utenti. A soldi pubblici dati, meno costa alle casse pubbliche più servizi si potranno avere, e/o si pagheranno minori tariffe. Tariffe e qualità sono specificate nei bandi di gara, quindi la socialità verso gli utenti è garantita. Ma anche quella verso i dipendenti, protetti in Italia da rigide clausole di subentro che garantiscono stipendi e occupazione
La gara incentiva anche il progresso tecnico: l’impresa più innovativa tendenzialmente vincerà (come accade nel mercato). Si minimizza anche il “voto di scambio” con gli addetti, l’assunzione clientelare di dirigenti e l’impiego di fornitori inefficienti ma politicamente “vicini” (anche dirigenti e fornitori detestano le gare: è meglio un monopolista politicamente garantito che una proprietà che mira all’efficienza, motivo per cui ha vinto la gara). L’idea che gare periodiche comportino diminuzione della socialità è una fake news diffusa, come quella che le gare comportino la privatizzazione: un sacco di gare, dove si fanno, sono state vinte da imprese pubbliche. Una non fake news è che possono arrivare imprese straniere, magari tecnologicamente avanzate. Prima gli italiani? Questo livello di pensiero è caro soprattutto a Salvini e Meloni. In questa avversione alle gare sono però in compagnia dei 5S (adesso un po’ meno), e più ipocritamente di buona parte del Pd, che si nasconde sotto vari cavilli. Sia Sala a Milano che Raggi a Roma hanno evitato di intaccare i serbatoi di voti nel trasporto pubblico locale.
Qualche controindicazione reale? Una è la corruzione: un privato può corrompere l’amministrazione che fa la gara. Due controdeduzioni. La prima è che una amministrazione corrompibile gestirà comunque male i servizi senza gara: di esempi di gestioni pubbliche catastrofiche ce ne è un’infinità. La seconda è che i poliziotti diventano due: oltre la guardia di finanza, ci sono i concorrenti che perdono, attentissimi a controllare e a far causa (fin troppo, in realtà spesso a scopo di puro disturbo; qui occorrerebbe migliorare la normativa). Ma mettiamo che il vincitore non rispetti il bando sulla qualità del servizio. Gli utenti colpiti protestano, e addio consenso politico. La gara è periodica, e il vincitore perde la reputazione per la gara successiva e pure le altre. La reputazione di una impresa in concorrenza ha un valore decisivo per la sua stessa sopravvivenza.
Ma andiamo nel concreto. Il caso più noto di alleanza tra politici e privati monopolisti è quello degli stabilimenti balneari, non messi in gara nonostante le rendite che garantiscono ai proprietari (diversi dai gestori), contro l’interesse pubblico e la normativa europea nota come Bolkenstein. La gestione pubblica italiana delle forniture idriche ha generato manutenzione arretrata per decine di miliardi. L’Alitalia servizio pubblico non è, ma come tale è stata trattata, con i risultati noti. In Inghilterra le gare per i servizi di elettricità provocarono una levata di scudi perché i francesi ne vinsero diverse con imprese sussidiate, offrendo basse tariffe: ma si scoprì che se i contribuenti francesi volevano favorire gli inglesi si accomodassero. I trasporti locali europei hanno visto risultati eccellenti dall’essere in gara da tempo, e questo ha anche costretto le imprese pubbliche a diventare più efficienti (celebre il caso dei servizi regionali ferroviari tedeschi, in cui, a parità di qualità, le regioni hanno risparmiato il 20% dei costi, da noi le gare sono state proibite nel 2009 e i pendolari ne sanno qualcosa).
I trucchi per evitare o vanificare le gare sono svariatissimi. Quello più clamoroso riguarda il trasporto locale: la normativa italiana consente ai giudici (gli enti locali) di essere anche concorrenti, con le loro imprese. Il 98% delle gare sono state fatte per finta, cioè vinte dalle imprese che c’erano già.
Non è sempre vero che le gare funzionano? Può essere, ma trattandosi di gare periodiche, perché non provare? Si può sempre tornare indietro.
Marco Ponti
Contro – Torniamo indietro
Scelte contrarie alla Carta e peraltro hanno già fallito
Si riparla di concorrenza. Inevitabilmente, si ritorna a 30 anni fa, quando, invocando maggiore concorrenza, è stato avviato un processo di privatizzazioni che ha cambiato il volto dell’economia italiana. Nel 1991, 12 delle 20 più grandi società erano in mano pubblica. Le banche pubbliche assorbivano il 70% dei depositi. Nel 1992, sotto la pressione degli interessi su un debito pubblico più piccolo di quello di oggi (il 98% del Pil contro il 155% del 2020), gli enti pubblici sono stati trasformati in Spa con il Tesoro azionista unico. Nel 1993, uno scambio epistolare tra il ministro degli Esteri Andreatta e il commissario Ue alla Concorrenza Van Miert, impegnò il governo a ridurre entro il 1996 la quota nelle partecipate ben sotto il 100%.
Il processo che Margareth Thatcher aveva lanciato all’inizio degli anni ’80 con il nome di “de-nazionalizzazioni” ha coinvolto servizi finanziari, reti energetiche e dei trasporti, tlc, servizi pubblici locali: è stato l’aspetto più visibile del trentennio “neoliberale”. Sotto la vigilanza della Concorrenza Ue e di authority nazionali che avrebbero dovuto regolare i prezzi ed evitare abusi, si sono portati avanti “liberalizzazioni” che non hanno risparmiato servizi di interesse generale, ricorrendo, per i monopoli naturali, all’attribuzione di concessioni esclusive a privati.
Nel suo pregevole L’ordine giuridico del mercato (1998) Natalino Irti, giurista tutt’altro che contrario alle privatizzazioni, avvertiva come l’esposizione alla concorrenza stridesse con disposizioni della Costituzione quali l’art. 43 perché “la risposta costituzionale alle situazioni di monopolio privato non sta nel rispristinare la concorrenza, ma nel sostituire soggetti pubblici a soggetti privati”.
Le privatizzazioni hanno generato pochissimi investimenti, poca concorrenza e molti danni. Nel ‘97, Telecom era la principale azienda di telefonia mobile europea, progettava il cablaggio del Paese tramite il “Piano Socrate” e stava per assorbire il concorrente Vodafone. Dopo la privatizzazione, smise di investire sulle nuove tecnologie a rapida connessione, subì un ridimensionamento di mercato, vide deteriorarsi il conto economico. La cronaca recente racconta le gesta dei Benetton e soci che, dopo aver acquistato Autostrade dall’Iri, hanno accumulato 11 miliardi di utili, grazie a continui aumenti delle tariffe e risparmiando sugli investimenti in sicurezza. Con un settore bancario totalmente privatizzato dopo la vendita delle banche Iri, quelle attive in Italia sono passate da 1.037 nel 1993 a 485 nel 2019. Questa “razionalizzazione” ha fatto perdere decine di migliaia di posti di lavoro senza migliorare né la capacità di finanziamento né la solidità degli istituti, se è vero che si sono susseguiti i fallimenti, ultimo quello del Montepaschi, oggi nazionalizzato e prossimamente ceduto a Unicredit con super dote pubblica. Enel è oggi la maggiore azienda italiana, altamente internazionalizzata. Eppure nel 1993, quando era pubblica, era già in attivo: in appena 30 anni dalla sua creazione, nel 1962, aveva triplicato l’energia prodotta per dipendente, erogando elettricità ai prezzi più bassi in Europa. Dieci anni dopo la vendita della prima tranche, nel 1999, il prezzo medio dell’elettricità in Italia era del 35% più alto della media europea. Solo l’esistenza di un mercato tutelato dell’energia ha impedito un salasso maggiore: nel 2019 i clienti nel mercato libero hanno pagato in media circa 27 euro/MWh in più della maggior tutela.
Nel 2010 la Corte dei Conti avvertiva come le public utilities privatizzate, da Autostrade a Enel, fossero caratterizzate da scarsi investimenti, mentre le “tariffe a carico di ampie categorie di utenti siano notevolmente più elevate di quelle richieste negli altri paesi”. Nel settore idrico, nonostante il successo del referendum su “l’acqua pubblica” del 2011, le utilities private e partecipate nell’ultimo decennio hanno aumentato le tariffe del 90% a fronte di un aumento del costo della vita del 15%, e ridotto gli investimenti. Accollandosi i danni delle privatizzazioni, lo Stato sta correndo ai ripari. Ha preso il controllo di Autostrade, Ilva e Alitalia. Ma Cdp e Tesoro agiscono senza strategia e con logica privatistica: entrano per salvare capitalisti in bancarotta o per incassare dividendi. Privatizzazioni, liberalizzazioni e concessioni possono aiutare attività senza natura monopolistica o sistemica, come le concessioni balneari o minerarie, ma non è più possibile consentire il dominio di logiche di profitto in servizi di interesse generale: trasporto pubblico, servizi idrici, reti ad alta velocità. Andrebbero semmai re-internalizzati, un processo consentito dalle normative Ue e già in corso in Europa, dalla Gran Bretagna alla Germania. Il trentennio neoliberale va lasciato alle spalle e la medicina della concorrenza va applicata con rigore e solo dove produce benefici.
Giuliano Garavini