Lo Stato continua a lavorare per ridurre la fedeltà fiscale

Ingiunzioni di pagamento e cartelle esattoriali stanno tornando nelle buche delle lettere degli italiani dopo il lungo periodo di sospensione deciso durante la pandemia. E con esse tornano a riversarsi anche tutte le storture logiche, le inefficienze e le iniquità che si porta dietro il sistema fiscale italiano. La prima, amara lezione che arriva aprendo un bustone verde in arrivo dall’Agenzia delle Entrate, è che chi non paga le tasse è il soggetto più coccolato da governi, parlamenti e Amministrazione finanziaria. L’ennesima conferma, viene dal trattamento, molto diverso tra loro, che è stato riservato ai destinatari delle varie tipologie di comunicazioni e sollecitazioni di pagamento dell’Erario. Quelle cioè che vengono recapitate in gran numero ma con esiti incerti, visto il gigantesco magazzino di cartelle “in sofferenza” che cresce ogni anno di più e l’ammontare dell’evasione fiscale, che anche la nota di aggiornamento al Def 2021 conferma in tendenziale salita.

Il comune cittadino rimasto incastrato in questa macchina infernale avrà pensato, leggendo i giornali, che l’Agenzia delle Entrate – Riscossione avesse sospeso nel periodo della pandemia, con il decreto “Cura Italia” del 17 marzo 2020, l’invio delle cartelle esattoriali e anche tutti i versamenti dovuti all’Erario. La disposizione, più volte reiterata anche in questi giorni, veniva dal governo e dal Parlamento, giustamente preoccupati di non appesantire i bilanci di cittadini e imprese in una fase in cui l’economia ha subito una brusca frenata. Lo stop alla riscossione del legislatore si è affiancato ai generosi “ristori” riconosciuti a imprese praticamente di ogni dimensione e condizione contabile, a partite Iva e professionisti. Si calcola che il risparmio complessivo accumulato dagli italiani in questo periodo di crollo dei consumi sia pari ai trasferimenti erogati dallo Stato a sostegno dell’economia. Secondo i numeri della Banca d’Italia, nel 2020, le famiglie hanno messo da parte 120 miliardi al netto di debiti e mutui vari. Una cifra molto più alta dei 47,7 miliardi risparmiati nel 2019, ma molto vicina all’ammontare di sostegni e ristori.

Anche la misura della sospensione dei versamenti è stata ben accetta da moltissimi ma, come vedremo, non valeva per tutti. I vari decreti che si sono succeduti da marzo 2020 in avanti prevedono infatti, come scrive l’Agenzia delle Entrate, “la sospensione dei termini di versamento per tutte le entrate tributarie e non tributarie derivanti da cartelle di pagamento, dagli avvisi di accertamento e degli avvisi di addebito in scadenza nel periodo, compresi quelli relativi ai piani di rateizzazione in corso”, ma si intende solo quelli riferiti agli atti esecutivi già affidati all’Agente della Riscossione. Analoga misura è stata presa per gli avvisi di pagamento dell’Inps.

Mancano all’elenco del Cura Italia “gli atti di accertamento con adesione, conciliazione, rettifica e liquidazione e di recupero dei crediti d’imposta”, in pratica quelli per i quali i contribuenti avevano preferito arrivare a un patteggiamento con il fisco pagando subito o a rate in cambio di una riduzione delle sanzioni. Qualcosa si è fatto. Questi ultimi sono stati oggetto di una specifica, breve interruzione dei pagamenti, applicata agli atti i cui termini di versamento scadevano nel periodo compreso tra il 9 marzo e il 31 maggio 2020. Proroga ultima 16 settembre 2020. Ma per il resto i destinatari di questi provvedimenti hanno continuato a pagare per tutto il periodo della pandemia, pena l’applicazione di tutte le pesanti sanzioni per eventuali mancati o ritardati pagamenti. Se si salta una delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della successiva, si perde il beneficio delle rateizzazioni e gli importi vengono richiesti per intero, insieme alla sanzione aggiuntiva prevista, pari al 45% del residuo d’imposta dovuto. L’interruzione dei versamenti delle cartelle invece continua tuttora a essere prorogata.

La morale che può trarre il contribuente in mora con il fisco è la seguente: non conviene accordarsi con l’Agenzia delle Entrate ma aspettare l’iscrizione a ruolo con l’affidamento alla Riscossione e rimandare sine die in questo modo il pagamento. Nel frattempo, dopo anni di iter burocratico, qualcosa può succedere. Intanto una cartella si può pagare in automatico in 72 e anche 120 rate e l’agente della Riscossione ben difficilmente è messo in condizione dalla normativa attuale di trovare un bene da aggredire. Ma soprattutto è probabile che arrivi, con la regolarità svizzera mai mancata nelle ultime legislatura, una benevola carezza del fisco: che sia una sospensione dei pagamenti delle cartelle, una rottamazione, un annullamento o di un saldo e stralcio. Con buona pace della “tax compliance”.

PopVicenza: la guerra incrociata in tribunale e il conto per lo Stato

L’ultima vittima della guerra legale intorno al crac della Popolare di Vicenza, crollata il 25 giugno 2017 sotto perdite per 4 miliardi accumulate dal 2014, è la Fondazione Roi. L’ente culturale vicentino, che aveva azioni Bpvi per 29 milioni, chiedeva 23 milioni di danni ai suoi ex amministratori. Il 12 ottobre, però, il tribunale ha detto no. Tra i nomi chiamati in causa dalla Fondazione svettava il suo ex presidente Gianni Zonin, per 19 anni presidente e per 32 consigliere della banca. È una goccia nel mare del disastro della Vicenza, che mandò in fumo azioni per 5,86 miliardi in mano a 117mila azionisti e 7 bond subordinati per 1,13 miliardi in tasca a migliaia di risparmiatori. Quel collasso, dal quale finora hanno guadagnato solo gli avvocati, rischia di costare allo Stato garanzie sino a 17 miliardi.

Il 19 marzo scorso l’83enne Zonin è stato condannato in primo grado dal tribunale di Vicenza a 6 anni e 6 mesi per aggiotaggio, ostacolo alla vigilanza e falso in prospetto. Condannati a 6 anni e 3 mesi anche l’ex vicedirettore generale Emanuele Giustini e a 6 anni ciascuno gli ex dirigenti Paolo Marin e Andrea Piazzetta. Gli imputati, ai quali sono stati confiscati 963 milioni, hanno già fatto ricorso. A Vicenza è successo di tutto. L’acquisizione annunciata e mai realizzata di Banca Etruria nel 2014, con grandi fluttuazioni delle azioni Bpel che consentirono a pochi investitori ingenti guadagni. Conflitti di interesse dei vertici e degli azionisti “forti”. Segnalazioni di gravi irregolarità a Banca d’Italia e Procura cadute nel nulla, come quella inviata nel 2000 dall’allora dg di Bpvi Giuseppe Grassano o quella di Adusbef del 18 marzo 2008 o le due inviate a ottobre 2012 e aprile 2013 dal sindacato Unisin a Bankitalia e Consob sulle “operazioni baciate”, l’erogazione di mutui e finanziamenti con annessa sottoscrizione di azioni. Gli intrecci tra la banca e i servizi segreti. Le “porte girevoli” con l’assunzione in banca di alcuni ex controllori.

Il falò vicentino dimostra che la Vigilanza di Banca d’Italia, che dal 2001 al 2017 – regnanti Fazio, Draghi e Visco – visitò dieci volte Bpvi, sa essere fortissima coi deboli e inerme con i veri potenti come Zonin. Un’ispezione del 2001 che portò a sanzioni risibili, pur accertando conflitti d’interesse e anomalie nella gestione. I controllori erano di casa in Bpvi: ci tornarono da ottobre 2007 a marzo 2008 (irrogando sanzioni a marzo 2009), da aprile ad agosto 2009, da novembre 2010 a marzo 2011, da maggio a ottobre 2012, a marzo 2014 quando la Bce valutò la qualità degli attivi. Andavano e venivano, ma non cambiava nulla. Fu solo l’ispezione Bce del settembre 2015 ad accertare che, su 1,3 miliardi raccolti con gli aumenti di capitale del 2013 e 2014, 974 milioni erano stati finanziati con le “baciate”. Dopo anni di archiviazioni, per una curiosa coincidenza, il 22 settembre 2015 la Procura di Vicenza si decise a indagare Zonin e l’ex dg Samuele Sorato. Intanto la banca cercava altri 1,5 miliardi di capitale. Bontà sua, Zonin si dimise il 23 novembre, a due mesi dagli avvisi di garanzia e il giorno dopo la “risoluzione” di Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. Secondo alcuni, il padre padrone uscì di scena perché nessuno avrebbe sottoscritto azioni della Vicenza con lui ancora al vertice. Secondo altri, perché resistere era ormai vano: il 16 novembre l’Italia aveva recepito la direttiva Brrd sulle crisi bancarie che consentiva alla Bce di rimuovere amministratori e dirigenti in caso di gravi irregolarità.

Solo il 26 febbraio 2016 la Consob – che per anni aveva approvato senza fiatare i prospetti di azioni e obbligazioni – costrinse la banca ad ammettere di aver riprofilato “opportunisticamente” il 65% dei clienti per fargli sottoscrivere l’aumento di capitale del 2013 e addirittura il 79% per l’aumento del 2014. Il 12 settembre 2016 l’Antitrust multò la Popolare per 4,5 milioni perché i clienti “furono costretti a diventare soci per ottenere mutui agevolati in modo da finanziare gli aumenti 2013 e 2014”. E decine di grandi azionisti erano già riusciti a vendere alla banca le proprie azioni non quotate e illiquide, ancora al massimi di 62,5 euro l’una, scavalcando migliaia di piccoli risparmiatori.

Intanto sul fronte civile infuria il tutti contro tutti. Il 13 dicembre 2016 la maggioranza assoluta dei soci di PopVicenza ha approvato l’azione di responsabilità contro Zonin e gli ex vertici. Ma solo il 10 gennaio 2019 il Tribunale fallimentare ha decretato l’insolvenza di Bpvi per 3,5 miliardi. Da aprile 2017 i liquidatori chiedono un miliardo di danni a Zonin e ad altri 31 amministratori, ma l’ex presidente il 6 dicembre 2016 aveva anticipato la mossa citando a sua volta la banca e gli ex dirigenti Sorato e Giustini.

L’avvocato Mario Azzarita, che con lo studio legale Sat di Padova tutela una trentina di azionisti per un danno di circa 40 milioni, ha ottenuto una serie di sentenze di primo grado che definiscono nulle le “operazioni baciate” dal 2012 in poi, ma i liquidatori hanno proposto appello. Sempre Sat, per conto di una decina di clienti che avevano investito circa 60 milioni nella banca, ha fatto causa per omessa vigilanza contro Bankitalia e Consob. Banca Italia chiedeva che a giudicare fosse il Tar del Lazio, ma il 5 marzo 2020 le sezioni unite della Cassazione hanno invece stabilito che i tribunali competenti in sede civile sono quelli territoriali del Veneto. La vertenza è in corso. Il 17 aprile 2020 lo studio Gatti Pavesi Bianchi, per conto dei liquidatori della banca, ha ottenuto dal Tribunale di Vicenza due sentenze che revocano donazioni immobiliari e vendite di partecipazioni societarie di Zonin a favore dei suoi familiari. Anche in questo caso c’è un ricorso.

Ci vorranno anni prima che arrivino sentenze definitive. Ma i liquidatori della banca non possono aspettare: all’inizio del mese hanno messo all’asta, per un valore base di 13,2 milioni, le 527 quote del capitale di Bankitalia possedute dalla Popolare. Tra i tanti conflitti d’interessi della Vicenza, almeno questo sarà presto sciolto.

(2 – Fine)

DDL Concorrenza Pro&Contro

Pro – Monopoli troppo garantiti

Non si privatizza nulla: si evitano solo le rendite

Mimmo Lucano non ha messo in gara i servizi di raccolta. È grave? Si, perché con le migliori intenzioni li ha affidati a soggetti che poi gli sarebbero stati grati, e non ha verificato se poteva spendere meno soldi pubblici. Questa in Italia è prassi frequente, di solito mascherata, e con fini meno condivisibili. La definizione di cosa sia esattamente un servizio pubblico e cosa no è complessa, e ha anche forti contenuti politici.

Mettere in gara un servizio pubblico significa chiedere se qualcuno lo può fornire per meno soldi, per un tempo limitato (varia di solito da 5 a 10 anni, poi la gara si rifà). La socialità del servizio non dipende da chi lo fornisce, ma dalla sua qualità e dalle tariffe per gli utenti. A soldi pubblici dati, meno costa alle casse pubbliche più servizi si potranno avere, e/o si pagheranno minori tariffe. Tariffe e qualità sono specificate nei bandi di gara, quindi la socialità verso gli utenti è garantita. Ma anche quella verso i dipendenti, protetti in Italia da rigide clausole di subentro che garantiscono stipendi e occupazione

La gara incentiva anche il progresso tecnico: l’impresa più innovativa tendenzialmente vincerà (come accade nel mercato). Si minimizza anche il “voto di scambio” con gli addetti, l’assunzione clientelare di dirigenti e l’impiego di fornitori inefficienti ma politicamente “vicini” (anche dirigenti e fornitori detestano le gare: è meglio un monopolista politicamente garantito che una proprietà che mira all’efficienza, motivo per cui ha vinto la gara). L’idea che gare periodiche comportino diminuzione della socialità è una fake news diffusa, come quella che le gare comportino la privatizzazione: un sacco di gare, dove si fanno, sono state vinte da imprese pubbliche. Una non fake news è che possono arrivare imprese straniere, magari tecnologicamente avanzate. Prima gli italiani? Questo livello di pensiero è caro soprattutto a Salvini e Meloni. In questa avversione alle gare sono però in compagnia dei 5S (adesso un po’ meno), e più ipocritamente di buona parte del Pd, che si nasconde sotto vari cavilli. Sia Sala a Milano che Raggi a Roma hanno evitato di intaccare i serbatoi di voti nel trasporto pubblico locale.

Qualche controindicazione reale? Una è la corruzione: un privato può corrompere l’amministrazione che fa la gara. Due controdeduzioni. La prima è che una amministrazione corrompibile gestirà comunque male i servizi senza gara: di esempi di gestioni pubbliche catastrofiche ce ne è un’infinità. La seconda è che i poliziotti diventano due: oltre la guardia di finanza, ci sono i concorrenti che perdono, attentissimi a controllare e a far causa (fin troppo, in realtà spesso a scopo di puro disturbo; qui occorrerebbe migliorare la normativa). Ma mettiamo che il vincitore non rispetti il bando sulla qualità del servizio. Gli utenti colpiti protestano, e addio consenso politico. La gara è periodica, e il vincitore perde la reputazione per la gara successiva e pure le altre. La reputazione di una impresa in concorrenza ha un valore decisivo per la sua stessa sopravvivenza.

Ma andiamo nel concreto. Il caso più noto di alleanza tra politici e privati monopolisti è quello degli stabilimenti balneari, non messi in gara nonostante le rendite che garantiscono ai proprietari (diversi dai gestori), contro l’interesse pubblico e la normativa europea nota come Bolkenstein. La gestione pubblica italiana delle forniture idriche ha generato manutenzione arretrata per decine di miliardi. L’Alitalia servizio pubblico non è, ma come tale è stata trattata, con i risultati noti. In Inghilterra le gare per i servizi di elettricità provocarono una levata di scudi perché i francesi ne vinsero diverse con imprese sussidiate, offrendo basse tariffe: ma si scoprì che se i contribuenti francesi volevano favorire gli inglesi si accomodassero. I trasporti locali europei hanno visto risultati eccellenti dall’essere in gara da tempo, e questo ha anche costretto le imprese pubbliche a diventare più efficienti (celebre il caso dei servizi regionali ferroviari tedeschi, in cui, a parità di qualità, le regioni hanno risparmiato il 20% dei costi, da noi le gare sono state proibite nel 2009 e i pendolari ne sanno qualcosa).

I trucchi per evitare o vanificare le gare sono svariatissimi. Quello più clamoroso riguarda il trasporto locale: la normativa italiana consente ai giudici (gli enti locali) di essere anche concorrenti, con le loro imprese. Il 98% delle gare sono state fatte per finta, cioè vinte dalle imprese che c’erano già.

Non è sempre vero che le gare funzionano? Può essere, ma trattandosi di gare periodiche, perché non provare? Si può sempre tornare indietro.

Marco Ponti

 

Contro – Torniamo indietro

Scelte contrarie alla Carta e peraltro hanno già fallito

Si riparla di concorrenza. Inevitabilmente, si ritorna a 30 anni fa, quando, invocando maggiore concorrenza, è stato avviato un processo di privatizzazioni che ha cambiato il volto dell’economia italiana. Nel 1991, 12 delle 20 più grandi società erano in mano pubblica. Le banche pubbliche assorbivano il 70% dei depositi. Nel 1992, sotto la pressione degli interessi su un debito pubblico più piccolo di quello di oggi (il 98% del Pil contro il 155% del 2020), gli enti pubblici sono stati trasformati in Spa con il Tesoro azionista unico. Nel 1993, uno scambio epistolare tra il ministro degli Esteri Andreatta e il commissario Ue alla Concorrenza Van Miert, impegnò il governo a ridurre entro il 1996 la quota nelle partecipate ben sotto il 100%.
Il processo che Margareth Thatcher aveva lanciato all’inizio degli anni ’80 con il nome di “de-nazionalizzazioni” ha coinvolto servizi finanziari, reti energetiche e dei trasporti, tlc, servizi pubblici locali: è stato l’aspetto più visibile del trentennio “neoliberale”. Sotto la vigilanza della Concorrenza Ue e di authority nazionali che avrebbero dovuto regolare i prezzi ed evitare abusi, si sono portati avanti “liberalizzazioni” che non hanno risparmiato servizi di interesse generale, ricorrendo, per i monopoli naturali, all’attribuzione di concessioni esclusive a privati.
Nel suo pregevole L’ordine giuridico del mercato (1998) Natalino Irti, giurista tutt’altro che contrario alle privatizzazioni, avvertiva come l’esposizione alla concorrenza stridesse con disposizioni della Costituzione quali l’art. 43 perché “la risposta costituzionale alle situazioni di monopolio privato non sta nel rispristinare la concorrenza, ma nel sostituire soggetti pubblici a soggetti privati”.
Le privatizzazioni hanno generato pochissimi investimenti, poca concorrenza e molti danni. Nel ‘97, Telecom era la principale azienda di telefonia mobile europea, progettava il cablaggio del Paese tramite il “Piano Socrate” e stava per assorbire il concorrente Vodafone. Dopo la privatizzazione, smise di investire sulle nuove tecnologie a rapida connessione, subì un ridimensionamento di mercato, vide deteriorarsi il conto economico. La cronaca recente racconta le gesta dei Benetton e soci che, dopo aver acquistato Autostrade dall’Iri, hanno accumulato 11 miliardi di utili, grazie a continui aumenti delle tariffe e risparmiando sugli investimenti in sicurezza. Con un settore bancario totalmente privatizzato dopo la vendita delle banche Iri, quelle attive in Italia sono passate da 1.037 nel 1993 a 485 nel 2019. Questa “razionalizzazione” ha fatto perdere decine di migliaia di posti di lavoro senza migliorare né la capacità di finanziamento né la solidità degli istituti, se è vero che si sono susseguiti i fallimenti, ultimo quello del Montepaschi, oggi nazionalizzato e prossimamente ceduto a Unicredit con super dote pubblica. Enel è oggi la maggiore azienda italiana, altamente internazionalizzata. Eppure nel 1993, quando era pubblica, era già in attivo: in appena 30 anni dalla sua creazione, nel 1962, aveva triplicato l’energia prodotta per dipendente, erogando elettricità ai prezzi più bassi in Europa. Dieci anni dopo la vendita della prima tranche, nel 1999, il prezzo medio dell’elettricità in Italia era del 35% più alto della media europea. Solo l’esistenza di un mercato tutelato dell’energia ha impedito un salasso maggiore: nel 2019 i clienti nel mercato libero hanno pagato in media circa 27 euro/MWh in più della maggior tutela.
Nel 2010 la Corte dei Conti avvertiva come le public utilities privatizzate, da Autostrade a Enel, fossero caratterizzate da scarsi investimenti, mentre le “tariffe a carico di ampie categorie di utenti siano notevolmente più elevate di quelle richieste negli altri paesi”. Nel settore idrico, nonostante il successo del referendum su “l’acqua pubblica” del 2011, le utilities private e partecipate nell’ultimo decennio hanno aumentato le tariffe del 90% a fronte di un aumento del costo della vita del 15%, e ridotto gli investimenti. Accollandosi i danni delle privatizzazioni, lo Stato sta correndo ai ripari. Ha preso il controllo di Autostrade, Ilva e Alitalia. Ma Cdp e Tesoro agiscono senza strategia e con logica privatistica: entrano per salvare capitalisti in bancarotta o per incassare dividendi. Privatizzazioni, liberalizzazioni e concessioni possono aiutare attività senza natura monopolistica o sistemica, come le concessioni balneari o minerarie, ma non è più possibile consentire il dominio di logiche di profitto in servizi di interesse generale: trasporto pubblico, servizi idrici, reti ad alta velocità. Andrebbero semmai re-internalizzati, un processo consentito dalle normative Ue e già in corso in Europa, dalla Gran Bretagna alla Germania. Il trentennio neoliberale va lasciato alle spalle e la medicina della concorrenza va applicata con rigore e solo dove produce benefici.

Giuliano Garavini

DDl Concorrenza

Entro ottobre, come promesso da Mario Draghi di recente, arriverà il ddl Concorrenza, che il Pnrr prometteva entro luglio (per la precisione ne promette uno l’anno almeno fino al 2024). L’obiettivo è aprire i mercati, tutti e obbligatoriamente, in omaggio a un’ideologia che andava per la maggiore negli anni Novanta. Tra i vari settori nel mirino dell’esecutivo, uno dei più sensibili per la maggioranza parlamentare e i movimenti sociali è quello dei servizi pubblici locali, una congerie di attività che vale – all’ultima rilevazione della Corte dei Conti su dati del 2018 (si tratta di una delibera di agosto) – poco più di 11 miliardi di euro l’anno, l’86% dei quali viene assegnato attraverso affidamenti diretti a società pubbliche o partecipate dal pubblico (se guardiamo al numero delle concessioni, e non al loro valore, la percentuale sale al 93%).

Smontare il legame tra Comuni e società pubbliche è uno sforzo che va avanti ininterrotto dalla seconda metà dagli anni Novanta, anche per la spinta dell’Unione europea, ma – come dimostrano i numeri qui sopra – senza grandi successi nonostante diversi interventi legislativi. Anzi in molti casi, complici i risultati delle gestioni private, negli ultimi anni si è assistito a un ritorno alle gestioni in house. Pur essendo consentite dal diritto nazionale e da quello comunitario, comunque, governo e Ue vogliono ridurle ed ecco il prossimo ddl Concorrenza.

In attesa dei testi, sappiamo quel che dice al proposito il Piano di ripresa e resilienza approvato in primavera dopo un’interlocuzione con la Commissione europea: Draghi ha promesso “specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, anche attraverso opportune analisi econometriche sulla necessità di ricorrere all’affidamento diretto. Di fatto i Comuni saranno per questa via esposti a ricorsi preventivi, e assai più incisivi, sulla loro scelta e i singoli amministratori anche ai relativi rischi economici: un modo per scoraggiarli alla partenza. È appena il caso di ricordare che il M5S è da sempre favorevole alla gestione pubblica e – quanto agli altri partiti, soprattutto Pd e Lega – che i sindaci non gradiscono un intervento così invasivo.

Jewish Lives Matter. L’odio infinito per i giudei e la fiamma nazionalista del candidato Michetti

Quest’ultimo libro di Fiamma Nirenstein, breve e carico di dati, fatti, notizie, energia, si intitola Jewish Lives Matter (Editore Giuntina). Prende lo spunto dal movimento nero americano, che si è prontamente formato e opposto agli attacchi del suprematismo bianco quando Trump era, nello stesso tempo, presidente degli USA e ispiratore dei suprematisti.

Usare quel titolo è stata un’idea efficace dell’autrice per mettere subito in chiaro che nulla è finito, e che la grande campagna antisemita che ha lasciato il mondo pieno di spaventose cicatrici, si è spostata nel sistematico antagonismo contro Israele, sempre visto come prima causa di ogni male in quell’area del mondo. Nirenstein a momenti potrebbe sembrare come la portatrice di una appassionata difesa dello Stato di Ben Gurion, dunque allo stesso tempo nobile e discutibile.

Ma giorni fa Il Manifesto ha pubblicato questa riflessione del candidato sindaco di Roma, Michetti, della destra italiana (Fratelli d’Italia): “Se si dedica tanto tempo al ricordo della Shoah, perché non alle Foibe?” (19 febbraio 2020). E si era dato come risposta che non è il confronto fra il dolore, l’orrore, le dimensioni, la durata,la motivazione del delitto Shoah a fare la differenza fra i due eventi, ma la potenza economica degli ebrei e la forza delle loro lobby, capaci di imporre ciò che vogliono al mondo. C’è stata reazione politica e morale, in Italia, e una goffa, infantile ritrattazione, tipo “l’ho detto ma non volevo dirlo”. Ma l’evento, così recente e così efficace nella vita pubblica italiana, dimostra che lo slancio e la passione di Fiamma Nirenstein nell’affrontare ancora e ancora la ragione della esistenza dello Stato di Israele e della sua difesa, non sono solo passione per una convinzione culturale e una visione della storia ai nostri giorni.

Qui siamo di fronte all’impegno di ripetere con chiarezza che esiste un post-antisemitismo che, allo stesso tempo, ripete e ricicla i cliché di un passato lontano e di un passato recente; ma è anche attivo nel posizionare pietre di inciampo a rovescio. Lo scopo è intercettare e respingere l’idea di un ebraismo fraterno per tentare (vedi gli eventi in Polonia) di tenere ben visibile (e attiva e malefica) una frontiera di nazionalismi, patriottismi e cristianesimo.

Per molto tempo varie sinistre, compresa un segmento italiano, hanno funzionato da consolato palestinese, per la parte combattente e di guerra di quel popolo. Poi la destra ha visto il mercato (passare per difensori degli ebrei) senza mai respingere e sconfessare i regimi ispiratori delle leggi razziste. Il libro di Fiamma Nirenstein, intelligentemente ispirato al nome del movimento anti sovranista, è arrivato come il flash di un bengala nel buio di discussioni confuse. E fa chiarezza.

 

Jewish Lives Matter – Fiamma Nirenstein, Pagine: 126, Prezzo: 9,50, Editore: Giuntina

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Green pass, la polemica che oscura il Recovery

Più che del Green pass, io mi preoccuperei del fatto che nel nostro Paese non c’è più rappresentanza politica: qualunque partito io voti, non cambia niente. Ad esempio, per quanto riguarda la scuola si continua a portare avanti un progetto di smantellamento che va avanti da molto tempo, nonostante il voto del 2018 avesse in sé una richiesta forte di un cambio di direzione. Non è normale: significa che i cittadini non possono più contribuire a decisioni che vengono prese sempre altrove, sopra le loro teste. Nessuno oggi parla più della fine che faranno il soldi del Recovery fund. Visto che, almeno in parte, sono debiti che graveranno sugli italiani, il modo in cui verranno spesi tutti questi soldi non dovrebbe essere definito attraverso un confronto politico e soprattutto attraverso un grande dibattito pubblico?

Luca Malgioglio

 

Tutta la verità su Alitalia e il falò dei soldi pubblici

L’Alitalia non esiste più (se non nel logo), adesso c’è Ita. Migliaia di esuberi, contratti rivisti al (forte) ribasso per chi è rimasto, diritti ridotti, metodo Fca nonostante il capitale sia pubblico. “È il mercato” che lo impone. Tutto bene? Non proprio. Soprattutto negli ultimi decenni l’ex compagnia di bandiera è stato un vero e proprio pozzo senza fondo che ha divorato miliardi e miliardi di soldi pubblici. Adesso che la storia è finita sarebbe il caso che qualcuno riavvolgesse il nastro e metta a giorno tutto quello che è successo. Ad esempio una commissione d’inchiesta, per capire dove sono finiti tutti quei soldi, chi li ha amministrati, chi li ha spesi, perché così tanti e perché per tutto quel tempo. Sarebbe importante, per l’opinione pubblica, conoscere le responsabilità di politici e manager per un tale salasso di denaro pubblico. Sarebbe bello (oltre che giusto) ma l’Italia ha la memoria corta e l’oblio copre precocemente ogni cosa. Del resto siamo il Paese di Pulcinella: “Chi ha dato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scurdammoce ’o passato…)”.

Mauro Chiostri

 

I trucchi di Enrico Letta per far scivolare Conte

L’asse Conte-Letta, è molto scivoloso, vischioso. Perché? Perché Enrico Letta ha una personalità politica “attempata” e un bagaglio pieno di vecchi trucchi, mentre Conte rappresenta il nuovo. L’ex Premier deve puntare molto sulla sua schiena dritta. Magari dovrà essere un po’ ipocrita, ma solo per non farsi prendere per fesso.

Roberto Calò

 

Il M5s esca dal governo, per gli elettori e la dignità

Credo che nell’ultimo periodo (prima che Conte diventasse il leader) il M5s fosse allo sbando: senza una guida forte, con Grillo che non ne azzeccava più una e Di Maio che lo seguiva a ruota. Tanti elettori si sono sentiti delusi dal governo con la Lega e molti altri dal governo con il Pd. E non si riesce a far capire loro che in quel periodo non c’erano alternative. Forse con il tempo, se il Conte 2 avesse portato a termine la legislatura alcuni avrebbero cambiato idea. Ma la mazzata, secondo me, è arrivata dal sostegno al governo Draghi. All’inizio la motivazione era che bisognava controllare come venivano spesi i soldi del Recovery e osteggiare certe “leggi schifezza”. lo, personalmente, mi ero convinta che la guerra si dovesse combattere dall’interno, e che se fossero stati all’opposizione non avrebbero potuto fare nulla. In realtà, a distanza di 7 mesi mi sembra che siano totalmente (o quasi) ignorati da tutti. Togliendo le modifiche alla “schiforma Cartabia”, suggerite e volute da Conte, si vede poco altro. Gli elettori non hanno perdonato questo sostegno perché non vedono risultati. Invece osservano i carburanti e le bollette che aumentano di prezzo; un governo che non collabora (malgrado sia presentato come un esecutivo di unità nazionale) e i 5 stelle seduti insieme a Berlusconi, Renzi e Salvini che li hanno pugnalati per bene. Gli elettori non perdonano. Per rimediare, secondo me, la miglior soluzione è uscire da questo governo (riguadagnerebbero un po’ di dignità). So che questo renderebbe felice la Lega, Italia viva, giornalai e giornalisti di ogni specie, ma forse farebbe anche tornare alcuni ex (elettori, sostenitori, parlamentari di spessore che possono fare molto bene al movimento). Solo così il M5s potrebbe convincere gli elettori smarriti a tornare “a casa”. Per quel che riguarda l’alleanza con il Pd, dal mio punto di vista Conte deve lavorare bene e al massimo delle sue forze. Il Pd è un partito poco affidabile: Conte vuole trattare con Letta e Letta vuol far tornare Renzi. Spero che non ci sia posto per il senatore di Rignano e i suoi seguaci. Se Conte accettasse l’alleanza con Letta e con dentro anche Renzi, sarebbe la fine di un sogno, per noi, per l’Italia, per la legalità.

Loredana

 

Mr. Prada vuole un pezzo del Parco dell’Uccellina

Ho letto con dispiacere della messa in vendita per 18 miloni d’euro di una parte del Parco dell’Uccellina (di proprietà privata ma da sempre gestita come cosa pubblica). Sarebbe interessato all’acquisto il patron del gruppo Prada: quella porzione di paesaggio diventerebbe esclusiva. Il Mibac ha diritto di prelazione, spero intervenga Franceschini.

FG

Processo Regeni. Perché a prevalere sono gli interessi economici e politici

Sappiamo tutti che il processo per accertare i responsabili della tortura e uccisione di Giulio Regeni sarà solo una favola giudiziaria. Ce la racconteremo senza imputati per consolarci di un affronto che nessuno stato europeo avrebbe tollerato, mentre noi abbiamo incassato l’ostruzionismo oltraggioso egiziano, per interessi economici da tutelare. E’ duro ammetterlo, ma valgono più le commesse con il Cairo, che la vita di un connazionale. Ora il processo farsa inizia con uno scrupolo procedurale sulla certezza che gli imputati siano stati correttamente informati del procedimento a loro carico. Così, dopo tutto il clamore mediatico succeduto alla scoperta di questo assassinio, il richiamo (pro-forma) dell’ambasciatore, le missioni in Egitto dei nostri investigatori, la corte ha deciso di rinviare tutto al gup, perché non convinta che gli imputati sappiano cosa stia succedendo in aula. In questa commedia giudiziaria entra in scena anche la Stato, annunciato con tre colpi di bastone come parte civile, per evidenziare il danno alla Nazione del reato. Tutto sfarzoso, tutto fasullo. Perché una cosa è certa: i responsabili non li avremo mai in cella, le aziende italiane continueranno i loro affari con gli egiziani (soprattutto nel settore armamenti), ma la messinscena processuale sarà impeccabile.

Massimo Marnetto

Non è mai facile conservare, in vicende dai forti condizionamenti internazionali, come quelle dell’assassinio conclamato di Giulio Regeni da parte di corpi di polizia dello Stato egiziano, tutto ciò che un processo penale dovrebbe sempre prevedere. La ricerca della verità giudiziaria, innanzitutto (anche se in questo caso serve ricostruire circostanze, non certo provare ciò che è già ben chiaro quanto al fatto e alle responsabilità), ma nel contempo tutte le possibili garanzie per gli imputati. Chi ha ragione? Il pm che afferma che in Egitto è tutto ben noto ad autorità e indagati? O il tribunale che chiede al gup un accertamento sulle notifiche effettive agli imputati? Posso sbagliarmi, ma credo che il processo agli assassini di Regeni prima o poi si farà. Temo invece che nessuno avrà il coraggio di adottare misure politiche e diplomatiche contro un governo violento e antidemocratico come quello egiziano. E meno che mai misure economiche: i nostri interessi, a cominciare dall’Eni, prevalgono su tutto

Ettore Boffano

Meloni&salvini “sparano” su Lamorgese, Draghi tace (ma il bersaglio è lui)

Una monade al viminale. Una cosa è certa. Oggi come non mai, ma già in tutti questi ultimi mesi, c’è da ringraziare il Cielo di non essere nei panni del ministro Lamorgese. L’ex prefetto di Venezia prima e Milano poi, già capo di Gabinetto al Viminale ai tempi di Alfano ministro degli Interni, è arrivata a 65 anni di età e 40 di professione senza particolari clamori o polemiche. Fino al 5 Settembre 2019, giorno in cui è diventata ministro degli Interni nel Governo Conte II succedendo a Matteo Salvini, il suo operato da prefetto era, anzi, piuttosto apprezzato. È stato da quel momento che tutto ha cominciato a cambiare. La nuova titolare del Viminale è prevedibilmente diventata in men che non si dica il bersaglio preferito del vecchio inquilino, come la volta in cui le attribuì la responsabilità morale dell’attentato alla cattedrale di Nizza, in cui un tunisino arrivato a Lampedusa aveva ucciso tre persone (“L’Italia è il Paese dove sbarca la qualunque gli dai un biglietto da crociera e vanno ovunque. Ministro Lamorgese, se ha coscienza si dimetta”). Ma il paradosso è che la situazione dell’ex prefetto è sensibilmente peggiorata quando il governo Conte II è caduto e lei è rimasta al suo posto nel nuovo governo di unità nazionale. A differenza di quel che si sarebbe scommesso, la coesistenza nello stesso esecutivo non l’ha messa in salvo dagli attacchi costanti del segretario della Lega, ma ne ha invece raddoppiato la frequenza. Subito dopo Roberto Speranza, Lamorgese è diventata per la Lega il simbolo della continuità con il governo Conte e l’emblema di una politica di gestione vicina al centrosinistra e quindi fallimentare, sia nell’ambito della sicurezza che in quello delle politiche migratorie. Le cose sono andate peggiorando mano a mano che l’esiguità dei controlli e la difficoltà di far rispettare le regole (vedi alla voce “rave di Viterbo”) sono diventate l’altra faccia di un green pass le cui maglie si facevano sempre più stringenti. Così da un certo momento in poi la titolare del Viminale è diventata il simbolo di tutte le contraddizioni insite al certificato verde, e ha cominciato a catalizzare su di sé gli attacchi della destra di governo e di quella d’opposizione. Che la ministra non abbia brillato in concretezza e rapidità in diverse occasioni è apparso piuttosto evidente, ma che l’acrimonia delle critiche a lei riservate avesse un destinatario ben più importante lo è apparso altrettanto. Che Salvini e Meloni parlassero a nuora perché suocera a Chigi intendesse risulta piuttosto palese, a meno che non si voglia credere che il premier dei premier, proprio sul dossier Interni, notoriamente dicastero generatore di polemiche, abbia abdicato in favore della plenipotenziaria Lamorgese. Per questo, quando oggi la leader di Fratelli d’Italia accusa la ministra (“sapeva e non ha fatto nulla. Se fino a ieri pensavano la sua fosse sostanziale incapacità oggi la tesi è più grave: quello che è accaduto è stato volutamente permesso e questo ci riporta agli anni già bui. È stato calcolo, siamo tornati alla strategia della tensione”), una volta per tutte sarebbe il caso che il presidente Draghi ci dicesse se il Viminale è occupato da una monade che, in totale autonomia e in barba alla strategia inclusiva del governo, fa il bello e il cattivo tempo. Onestamente appare piuttosto improbabile.

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La “Malafemmena” di Totò censurata in prima serata ogni limite ha una pazienza

Totò, Maria e la malafemmena. Ad “Amici” in una sfida di ballo sulle note di “Malafemmena” di Totò per due volte la parola, che dà il titolo alla canzone è stata “omessa”. Sul Mattino un bellissimo pezzo di Marco Ciriello riflette: “Totò è doppio, come è doppio o talvolta triplo e persino quadruplo il suo linguaggio, dobbiamo a lui l’allargamento della lingua italiana, l’uso molteplice delle parole, i giochi di prestigio tra suoni e significati, e dobbiamo a lui una delle canzoni più belle ed eseguite della musica italiana. Che ha i sentimenti di un tango, risentimento e vendetta – nasce da un presunto tradimento della moglie, Diana Bandini Lucchesi Rogliani, che si risposa prima del previsto, consumata dai tradimenti di Totò, un paradosso – e si conclude con una nuova dichiarazione d’amore che si rimette nelle mani di Dio per la pena da scontare, ma a nessuno mai e venuto in mente di farne la colonna sonora per un femminicidio. Né si trovano donne che eventualmente si sono sentite offese dalla canzone. Intanto succede che ‘Malafemmena’ scompaia”. Mica solo “l’anema è ’ntussecata”, il politicamente corretto ha liquefatto i cervelli: malafemmena, mala tempora.

Meno libri, meno liberi. Il rapporto che l’Associazione italiana editori ha presentato al salone di Torino ci fa preoccupare. Dice che diminuisce la percentuale degli italiani che leggono, oggi al 56% (persone tra i 15 e i 75 anni che hanno letto almeno un libro anche solo in parte, compresi manuali, ebook e audiolibri) ma chi legge lo fa più di prima. La non lettura è sempre più correlata al livello socio-economico, culturale e geografico e interessa le fasce più deboli (basso titolo di studio, scarse abilità tecnologiche). Al Nord, i lettori in tre anni passano dal 63% (2019) al 59% (2021), valori simili al Centro ma al Sud si passa dal 41% del 2019 al 35% del 2021. I lettori con basso titolo di studio oggi sono il 36%, in calo di 14 punti percentuali in due anni, mentre i lettori con la laurea sono l’84%, in calo di 7 punti. Tra i lettori, la maggioranza assoluta ha letto da uno a tre libri (il 55%), il 23% ha letto da 6 a 4 libri e il 9% più di 12 libri. I lettori forti (più di 12 libri), leggono mediamente 17 libri l’anno, 3 in più di quanti non ne leggessero nel 2020.

Non classificati

Premio maschio. Göran Hansson, segretario generale dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze, ha dichiarato che la selezione dei candidati al Premio Nobel non prenderà in considerazione né l’etnia né il sesso degli studiosi ma valuterà esclusivamente le competenze e i risultati dimostrati nel proprio ambito di attività. Facciamo due conti. Dal 1901, anno dell’istituzione, sono state solo 59 (circa il 6.2 per cento del totale) le donne vincitrici. La prima è stata Marie Curie (che lo ha addirittura ricevuto per ben due volte, nel 1903 per la fisica e nel 1911 per la chimica), l’ultima, la giornalista investigativa filippina Maria Ressa che ha condiviso il Nobel per la Pace con il collega russo Dmitry Muratov (unica donna a fianco di 12 uomini premiati). Siamo certi delle migliori intenzioni degli accademici, ma ci sovviene un interrogativo statistico: vista la sempre maggiore presenza femminile nelle professioni, siamo sicuri che vada tutto bene?

Superomo. Ottant’anni fa compariva il primo fumetto di Superman. Da allora il supereroe, volto eroico di Clark Kent, ha salvato il mondo mille volte, è morto e risorto, ha battuto decine di cattivi, e ha sempre e solo amato una donna sola, Lois Lane. Con cui ha avuto un figlio, il giovane Jon, che è appunto il nuovo Superman, innamorato di un uomo nell’ultimo fumetto. Dicono gli autori che il nuovo Superman è contemporaneo e “riflette l’esperienza di molti dei suoi fan. Oggi più persone possono ritrovare se stessi nel più potente dei supereroi”. Se James Bond non fosse morto, sicuramente avrebbe avuto la stessa evoluzione. E comunque c’è il figlio e sappiamo già come andrà a finire…

 

Da Meroni a Benetti. La marcia dei diritti. Quando il calciatore era una “cosa” del club

Lo dice anche il proverbio, il troppo stroppia. Ed è vero, Donnarumma che lascia il Milan per accasarsi al Psg, indotto in ciò da un procuratore senza scrupoli, senza far incassare al club che l’ha cresciuto e reso ricco e famoso un solo euro, in spregio a riconoscenza e sentimento, imitato magari domani dai vari Vlahovic, Belotti e via dicendo, ha fatto e fa ancora discutere. È giusto che ciò accada? Di certo, Donnarumma & c. hanno esercitato (o eserciteranno) un loro preciso diritto. Che può piacere o non piacere: ma ai nostalgici dei tempi che furono, quando il calciatore era una “cosa” di proprietà del club, è forse il caso di rammentare alcuni fatti. Dell’ultimo mezzo secolo. Che hanno allontanato il calcio dal Medioevo. Un fatto, un nome.

Campana. È l’avvocato-calciatore (ex Vicenza e Bologna) che il 3 luglio 1968 fa nascere, divenendone presidente, il Sindacato Calciatori in Italia. E che nel giro di un anno vince la sua prima e dimenticata battaglia: l’abolizione della norma in base alla quale i club avevano la facoltà di tagliare il 40% dello stipendio del giocatore che non totalizzava un minimo di 20 presenze su 30 in serie A e di 24 su 38 in serie B. Per la cronaca: i calciatori che non raggiungevano il requisito richiesto erano il 90%. E nessuno ai tempi batteva ciglio.

Meroni. Il 15 ottobre 1967 il fuoriclasse granata muore a Torino investito sulle strisce pedonali da un’auto. Quattro anni dopo, nel febbraio del ’71, la Corte di Cassazione, esaminando il ricorso del Torino che chiede un risarcimento, dà ragione al club riconoscendo per la prima volta il calciatore come figura di “lavoratore subordinato”. Un fatto epocale che spalanca alla categoria la porta di diritti fino ad allora totalmente negati.

Strada. Di nome fa Aldo, è il centravanti del Monza che nel 1970 retrocede in serie C, è reduce da tre fratture al piede: il Monza lo cede al Cesena per 20 milioni ma lui, che a Monza ha appena avviato un’attività lavorativa, rifiuta il trasferimento – che secondo l’art. 27 del regolamento deve invece accettare – disposto anche a smettere. Il Monza non ci sta, vuole da lui i 20 milioni della mancata cessione e chiede alla Figc il permesso di adire le vie legali. In realtà l’art. 27, che stabilisce il vincolo a vita dei calciatori, va contro la Costituzione italiana. La Figc ha paura. Undici anni dopo (1981) con la legge 91 il Parlamento riconoscerà al calciatore il diritto di scegliere o rifiutare il club con cui giocare.

Landoni. È un centrocampista del Palermo e nel 1970 viene multato di un milione per essersi rifiutato di salutare l’allenatore Di Bella, con cui era in contrasto, dopo l’esonero del tecnico deciso dalla società. Poiché la bizzarra sanzione segue la decurtazione di metà stipendio inflitta a Vaiani del Catania dal presidente (squalificato) Angelo Massimino, il Sindacato scende sul piede di guerra e chiede l’istituzione di una Commissione paritetica che regoli i rapporti club-calciatori. Il 28 aprile del 1971 la Commissione vede finalmente la luce: multe e sanzioni selvagge diventano da quel momento solo un lontano ricordo.

Benetti. Gioca da un anno nel Milan e al via della stagione ’70-’71, sorprendendo tutti, si rifiuta di posare per le foto delle figurine Panini. Un gesto inatteso ma che porrà le basi perché all’Aic venga riconosciuta, dieci anni dopo, le gestione economica di ogni iniziativa diretta alla realizzazione di figurine, assicurando da quel giorno al sindacato la più totale indipendenza economica.