“Sicurezza sul lavoro: bene il decreto, ma così è solo un mezzo passo”

“Il nuovo decreto sulla sicurezza sul lavoro va nella giusta direzione, ma alcune cose vanno corrette e altre mancano del tutto. Speriamo le Camere intervengano nella conversione”. Alessandro Genovesi è il segretario Fillea Cgil, il sindacato degli edili. Il settore delle costruzioni conta il maggior numero di morti sul lavoro: 149 nel 2020 su 1.145 denunce arrivate all’Inail. Il provvedimento approvato ieri dal Consiglio dei ministri rende più facili le sanzioni per le aziende non in regola, ma lascia nodi irrisolti e su certi aspetti rischia persino di compiere passi indietro: “Per questo confermiamo la manifestazione a Roma del 13 novembre”.

Segretario, intanto ci spieghi che cosa cambierà in concreto?

Prima era possibile il blocco dell’attività con il 20% di lavoratori in nero, ora basta il 10%. E ancora: prima la sospensione per motivi di salute e sicurezza era possibile con “gravi e reiterate violazioni”, mentre ora basta una violazione e scatta il blocco. E poi non sarà più il singolo ispettore a stabilire cosa è “grave”, c’è un elenco allegato. Va citato anche il permesso all’Ispettorato di svolgere ruolo di coordinamento degli altri organi ispettivi e questo crea la banca dati unica e l’interoperabilità delle banche dati, così da evitare i controlli a doppione.

Se però l’impresa ha un solo lavoratore, e quello è irregolare, la sospensione non scatta…

Questo è un problema che avevamo segnalato, perché crea una contraddizione: se in un cantiere hai dieci aziende ognuna con un solo addetto, anche se questi sono tutti in nero non ci sarà mai il blocco.

E gli altri passaggi da correggere?

Uno per fortuna è stato già corretto. Nella prima bozza si diceva che all’azienda sospesa “può” essere fatto divieto di contrattare con la Pubblica amministrazione. È importante che, in coerenza con le posizioni del sindacato, il “può” sia diventato “deve”. Tuttavia, mentre la vecchia scrittura prevedeva, oltre al divieto di contrattare con la PA, anche quello di partecipare a gare pubbliche, ora quest’ultima voce è sparita. Bisogna ricordare che l’Anas, le ferrovie e gli aeroporti non sono pubbliche amministrazioni ma fanno gare pubbliche, quindi nel loro caso non si applicherebbero le nuove norme. Potrebbe essere un refuso, ma è giusto segnalarlo. C’è anche un altro passaggio da correggere.

Quale?

Riguarda l’amianto. Prima, al netto delle gravi e reiterate violazioni, tra i motivi per cui potevi bloccare l’attività c’era il mancato avvertimento di Asl e lavoratori sul rischio amianto, ora questa voce non c’è più. Non vorremmo che sul tema dell’amianto ci sia un passo indietro. Nell’edilizia migliaia di lavoratori impegnati nelle ristrutturazioni dei palazzi costruiti negli anni 60, 70 e 80 hanno a che fare con l’amianto. Stimiamo quasi 3 milioni di immobili con presenza di amianto non denunciata.

Che cosa invece manca del tutto?

Due punti. Il primo è la famosa patente a punti. Manca un sistema che a monte dica che l’impresa che ha investito in sicurezza e non ha avuto infortuni parta avvantaggiata nelle gare rispetto a chi ha avuto problemi. La banca dati unica può essere la precondizione, ma se serve solo per pianificare le ispezioni è mezzo passo avanti: deve servire anche per collegare la carriera di impresa alla sua storia di incidenti per selezionare l’impresa seria. Insisto su questo punto perché il 70% di tutte le risorse del Pnrr verranno date tramite appalto pubblico.

E il secondo?

Manca l’introduzione dell’aggravante di omicidio sul lavoro. Oggi anche quando c’è un morto sul lavoro acclarato, per esempio senza caschetto, è omicidio colposo, reato che ha meno di 5 anni. Noi chiediamo sul modello dell’omicidio stradale. Aumentando l’aggravante, non solo il datore si fa qualche mese di galera, ma si produce in automatico il sequestro preventivo dei beni, che oggi non c’è. È importante perché nei processi quasi sempre si costituiscono parti civili le famiglie, che non potranno riavere la persona cara ma “almeno”, messo tra mille virgolette, con il patrimonio sotto sequestro possono essere risarcite.

Morandi, il ministero in aula contro se stesso ma non contro Aspi

Il colpo di scena si materializza alla fine del primo giorno dell’udienza preliminare del maxi-processo sulla strage del Ponte Morandi. Una giornata campale, con decine di parti coinvolte, centinaia di candidati tra le possibili parti civili, questioni giuridiche complesse ancora da sciogliere, come la ricusazione del gup proposta da Giovanni Castellucci e altri ex manager di Aspi, che rischiano di allungare i tempi. La notizia del giorno è però un’altra. Il Mims (ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili) e la Presidenza del Consiglio chiedono i danni a tutti gli imputati tranne uno: Autostrade per l’Italia.

Nello stesso giorno vengono anche ufficializzati i piani di investimento miliardari della società che chiudono il contenzioso aperto con il ministero in vista dell’accordo con Cassa depositi e prestiti. Ed è a questo punto che il quadro complessivo dell’accordo si ricompone. Cdp valuta Autostrade per l’Italia 9 miliardi, 8 vanno ad Atlantia, dicui il 30% è in mano alla famiglia Benetton. A questo punto, per quale motivo il governo dovrebbe chiedere i danni a se stesso?

Spiegata così sembrerebbe (quasi) lineare, una spietata logica di realpolitik. Ma è un esito tutt’altro che scontato e soprattutto dichiarato. Come dimostra un comunicato del Ministero a dir poco criptico: “Il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili e Autostrade per l’Italia (Aspi) ieri hanno sottoscritto un accordo con cui, a seguito del crollo del Ponte Morandi, si definisce la procedura avviata dal ministero nell’agosto 2018 per grave inadempimento agli obblighi di manutenzione e custodia della rete autostradale da parte del concessionario Aspi. E oggi, nell’udienza preliminare nell’ambito del procedimento penale instaurato presso il tribunale di Genova per il crollo del Ponte Morandi, la Presidenza del Consiglio e il Mims si sono costituiti parte civile nei confronti degli imputati”.

In realtà non di tutti. Di 60 su 61. Il ministero chiede i danni solo a una delle due società coinvolte, Spea Engineering, azienda controllata da Aspi che aveva il compito di effettuare i monitoraggi delle opere, che a questo punto si candida a diventare una bad company. E li chiede pure ai suoi ex dirigenti, sotto inchiesta per i mancati controlli. Il provveditore Roberto Ferrazza, difeso finora dall’avvocatura dello stato, ha avuto notizia della dismissione del mandato giovedì notte, poche ore prima dell’inizio dell’udienza. Il Comune di Genova e la Regione Liguria si costituiscono parte civile, con una formula che anticipa però l’uscita anticipata dal processo: con un risarcimento si ritireranno.

I parenti delle vittime, a cui inizialmente era sfuggito che nella richiesta danni mancava proprio Autostrade, hanno reagito con rabbia: “Forse l’entusiasmo per un’inaspettata notizia ci ha oscurato la realtà – commenta Egle Possetti, presidente del comitato ricordo delle vittime – forse non interpretare la calma delle controparti, non ci ha fatto accendere i riflettori per osservare con la necessaria lucidità. La Presidenza del Consiglio e il Mims si sono costituiti parte civile al processo per il disastro del Ponte Morandi, ma contrariamente alle prime sensazioni in aula, non è coinvolta nell’iniziativa Aspi, che allo stato attuale non risulta interessata. Questo è inquietante. In queste ore è stato anche firmato un accordo parallelo fra ministero e Aspi, (coincidenza originale che avvenga oggi) che porterebbe investimenti e ricadute sul territorio ligure, positivi se non ci fosse lo spettro all’orizzonte della firma definitiva dell’accordo fra Cdp e Aspi per la cessione della concessionaria. Temiamo che questa parziale costituzione al processo sia il triste preludio di quello che potrebbe avvenire, noi continuiamo a ribadire che questo accordo, se firmato, getterebbe al macero la memoria delle 43 vittime, lo Stato negherebbe la sua funzione di equità, costringerebbe a un esborso miliardario e ci farebbe sentire ancora una volta dimenticati. Non permettiamo tutti insieme che passi questa vergogna, non premiamo chi non lo merita”.

Scontro sul Reddito, salta il blitz Lega-Iv: +200 mln

Da così a così in meno di otto ore: tanto è durata, ieri, l’alta intensità dello scontro del leader della Lega, Matteo Salvini, sul rifinanziamento del Reddito di cittadinanza. Alle 8.55 del mattino, riferendosi alla discussione che ci sarebbe stata in Consiglio dei ministri da lì a poco aveva ostentato intransigenza dura e pura: “Rifinanziare il Reddito di cittadinanza? No, va dato a chi non può lavorare, va ridiscusso da cima a fondo”. Alle 16, nonostante l’asse con Italia Viva, ha dovuto abbassare i toni e borbottare che “è cosa su cui dovremmo intervenire l’anno prossimo”.

In mezzo c’è stato il Consiglio dei ministri per approvare il decreto fiscale che conteneva proprio il rifinanziamento del reddito e una telefonata tra il premier Mario Draghi e Salvini, in cui quest’ultimo ha ribadito la posizione della Lega. I ministri dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti (Lega), della Funzione Pubblica Renato Brunetta (FI) e per le Pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti (Iv) hanno infatti chiesto di modificare la bozza con i 200 milioni aggiuntivi per garantirne le copertura fino a fine anno, il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli (M5s) e quello del Lavoro Andrea Orlando (Pd), ma anche Draghi lo hanno invece confermato. Sarà la manovra, ha detto il premier, la sede per discuterne (già da lunedì) lavorando sulle politiche attive.

Come in ogni retroscena che si rispetti ecco i ‘momenti di alta tensione’: “Senza il Reddito di cittadinanza – ha detto il responsabile delle Politiche agricole – la tensione sociale sarebbe esplosa, non sarebbe stata gestibile”. Orlando avrebbe sottolineato la necessità di non smantellare la misura, concordando sulla necessità di potenziare le politiche attive sul lavoro. Giorgetti avrebbe sostenuto che i 200 milioni erano un uso “beffardo” del lavoro altrui visto che arrivano per 90 milioni dalle risorse del reddito di emergenza, per 30 dell’accesso anticipato al pensionamento per lavori pesanti, per 40 da quello dei lavoratori precoci e per altri 30 dai congedi parentali. Al ministro dell’Economia Franco è toccato spiegare che si trattava di fondi eccedenti rispetto al bisogno.

Per il resto, il decreto introduce per lo più proroghe sulla riscossione ma non solo: prolunga fino a fine anno l’equiparazione della quarantena per Covid alla malattia, prevede la possibilità dei congedi parentali in caso di figli in quarantena o sospensione della didattica e prolunga la cassa integrazione Covid fino a 13 settimane. Infine, contiene misure di sostegno al reddito per i lavoratori di Alitalia in amministrazione straordinaria.

Michetti non vola, Meloni “cacciata” dal Ghetto ebraico

Avrebbe voluto volare sopra la città come un imperatore. Per ammirarla e soprattutto sognarla. Ma anche il meteo gli è andato contro. È stato il vento, troppo forte, ad impedire a Enrico Michetti di salire su una mongolfiera. Voleva una chiusura in grande stile ma ha dovuto ripiegare su una depressa, quanto piccola, piazza Campo de’ Fiori dove i volti dei dirigenti e degli elettori del centrodestra sono terrei, ormai convinti di andare dritti verso la sconfitta contro Roberto Gualtieri. Il vento ha fatto andare su tutte le furie il tribuno radiofonico: “Ma non è possibile, tutte a me succedono” è stato lo sfogo di Michetti coi suoi. Proprio nel giorno di una nuova gaffe: ieri è uscito un audio di un discorso del 2017 di Michetti a Radio Radio in cui attaccava Papa Francesco sui migranti e diceva che in Vaticano vogliono “una grande ammucchiata” sull’accoglienza. Parole che stonano con il Michetti democristiano che si paragona ad Alcide De Gasperi.

Che l’ultimo giorno di campagna elettorale del centrodestra fosse partito col piede sbagliato lo si era capito fin dalla mattina quando in Fratelli d’Italia è andato in scena un mezzo psicodramma. Giovedì sera Giorgia Meloni, per spazzare via le ombre dei rapporti tra neofascismo e il suo partito, aveva annunciato per ieri un sopralluogo con una delegazione dei parlamentari di FdI alla Sinagoga per ricordare il rastrellamento nazista del 16 ottobre 1943. Ma poi di mattina è arrivato il dietrofront: niente sit-in e niente corona di fiori al Ghetto. Motivo: la presenza di Meloni e dei parlamentari di FdI non era gradita alla comunità ebraica. “Inopportuna” a due giorni dalle elezioni e soprattutto alla luce delle ultime inchieste – come quella di Fanpage – sui rapporti tra il mondo neo-fascista e FdI ma anche delle dichiarazioni antisemite di Michetti contro la “lobby” ebraica del 2020 ripescate nelle ultime ore. E così è stata la presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello a chiamare al telefono Meloni e farle sapere che la sua presenza al Ghetto non era gradita. Avrebbe spaccato la comunità ebraica. A ora di pranzo poi Michetti è stato oggetto di minacce: il suo comitato elettorale è stato imbrattato con scritte in rosso (“fascista” e “ricordati di piazzale Loreto”) e una stella a cinque punte. La solidarietà è arrivata da tutti i leader di partito.

Che l’atmosfera sia pesante nel centrodestra si capisce anche dalle campagne separate dei leader. Matteo Salvini, capita l’antifona e prevedendo un pesante flop, ha deciso di girare al largo di Roma negli ultimi giorni. È stato al Nord e nelle città dove al ballottaggio ci sono i candidati leghisti, da Treviglio a Varese fino a Torino dove la partita è più aperta. Però ieri ha messo le mani avanti: “La notizia è se vinciamo”. E poi da Torino, con il candidato Paolo Damilano accanto, si è detto già soddisfatto per essere arrivati al ballottaggio. Sicché la campagna elettorale si chiude con poco entusiasmo. A Campo de’ Fiori la piazza è mezza vuota. Vittorio Sgarbi se la prende con chi impone vaccini e green pass. Silvio Berlusconi, pregato di intervenire, manda un saluto da Arcore e ripete, come una macchina rotta, di “andare a votare”. E Salvini, da Varese, si esercita in un improbabile romanesco: “Daje!”. Vengono scongelati anche Simonetta Matone e Guido Bertolaso (anche lui con videomessaggio). Meloni sale sul palco e il suo è quasi un discorso della sconfitta: per tutto l’intervento grida al complotto e alla “bravura della sinistra, più cattiva, in campagna elettorale”. Da piazza del Popolo Gualtieri, con Zingaretti e Bettini, parla di “vento positivo”. Il comizio del centrodestra lo chiude Michetti. Alza i toni, titilla i voti della Raggi e paragona queste elezioni a quelle del 1948 tra Dc e Pci. In caso di vittoria ha già organizzato un giro per la città con un pullman scoperto come quello della Nazionale dopo gli Europei. Ma potrebbe rimanere nel deposito.

“Conte e m5s sono decisivi per battere la destra”

Ci tiene a fare un appello agli elettori del M5S a favore di Roberto Gualtieri a Roma, Goffredo Bettini, il teorico dell’amalgama tra Pd e Movimento, il più vicino tra i dem a Giuseppe Conte, nonché storicamente legato a Nicola Zingaretti. Mentre rilancia le ragioni dell’alleanza giallorosa. E non esclude il sostegno a Mario Draghi al Colle, né il voto anticipato.

Partiamo dall’attualità: il governo ha sbagliato sul Green pass? Sarebbe stato meglio l’obbligo vaccinale? O dovrebbe concedere i tamponi gratuiti? Non si rischia la rivolta sociale?

No. Il Green pass ha permesso di rimettere in moto in sicurezza le attività del Paese, precedentemente paralizzato dalla paura e dall’incertezza. L’obbligo vaccinale non è un tabù. Meglio, tuttavia, ragionare, convincere, spiegare per arrivare a una vaccinazione della popolazione pressoché totale. Non mi pare giusto bruciare risorse per tamponi gratuiti difficili da eseguire. Infine, va detto che la protesta sociale si concentra sui no vax, come occasione simbolica, ma ha ben altre ragioni di disagio più generale che vanno comprese e affrontate.

Il Pd deve continuare a insistere sullo scioglimento di Forza Nuova anche a rischio di spaccare la maggioranza?

Sì. Ci sono evidenze oggettive che si tratta di una formazione neofascista. Non grottescamente nostalgica; piuttosto capace di agire nell’oggi con fini di scasso della democrazia. Fratelli d’Italia rispetto a questo si è dimostrato un partito reticente, ambiguo e incapace di fare i conti con la propria storia. Quando è messa alle strette la Meloni non riesce a pronunciare discorsi definitivi. Si arrampica sugli specchi. Butta la palla in tribuna. Dimostra in questo modo di non essere affidabile come guida di un paese democratico come l’Italia. Tuttavia non dobbiamo mai confondere una forza che ha il 20% del consenso degli italiani con piccole avanguardie sovversive di destra. Con Fratelli d’Italia va ingaggiata una serrata battaglia politica e ideale. Al Paese servirebbe una destra repubblicana e normale. Non sovranista e illiberale.

Oggi a San Giovanni ci sarà tutta la dirigenza dei dem. Non rischia di essere una manifestazione “di piazza e di governo”? O di lotta e di governo, come si diceva una volta?

Piazza e governo sono la stessa cosa quando occorre respingere una offensiva neofascista. A San Giovanni spero ci siano tutti i democratici, di qualsiasi colore politico. Per dire no alla violenza e contemporaneamente per pretendere le riforme necessarie affinché la violenza non trovi udienza in una parte del popolo disperato.

Enrico Letta sta portando avanti il suo progetto di Ulivo 2.0. È davvero possibile che vada da Renzi e Calenda a M5S? In caso di veti incrociati, chi dovrebbe buttare dalla torre?

Letta, e io con lui, lavoriamo per un campo largo di alternativa al sovranismo. Da anni utilizzo questa definizione, che prevede una apertura a tutti. Naturalmente a condizione che ognuno partecipi con le sue idee e la sua storia, mettendo da parte veti verso gli altri e pregiudizi ideologici. È difficile, ma non impossibile.

Le difficoltà del M5S non sono un problema per il Pd?

I sondaggi valgono quel che valgono. Ma i 5 Stelle nel voto politico nazionale paiono tenere bene. Conte ha appena aperto una nuova fase. Punta alla sua autonomia e vuole mantenere una salda unità con il Pd. Sperare che fallisca mi pare stolto. L’Italia necessita una maggiore rappresentanza delle forze politiche. Altrimenti si ingrossa il fondo oscuro del non voto, del conflitto non espresso democraticamente, della rabbia che cova e poi esplode in modo distruttivo.

Si aspettava un endorsement più netto da parte di Conte per i candidati sindaci dem ai ballottaggi? Si è limitato a dire che voterà per Gualtieri, su Torino non si è espresso.

No. Conte ha detto parole importanti e che pesano. Se fosse andato oltre sarebbe apparso artificioso. Detto questo, valorizzando l’annuncio di Conte, mi sento di rivolgere un appello a tutti gli elettori del suo Movimento. Governiamo insieme alla Regione Lazio. Gualtieri è stato un grande ministro dell’Economia del governo giallorosso. A Roma, a partire dal sottoscritto, il gruppo dirigente nazionale del Pd ha combattuto per affermare un rapporto fecondo tra la sinistra e i pentastellati. Insomma, ci sono tutte le premesse per una convergenza sul candidato democratico. Nettamente il migliore. Ho apprezzato anche le dichiarazioni di Calenda e Renzi. Sono fiducioso sul risultato.

Il candidato premier sarà Letta?

Previsioni sono impossibili. Detto questo, Letta ha dimostrato in questi mesi tutto il suo valore.

Cosa pensa del partito dei sindaci evocato da Decaro?

Espressa così non mi pare un’idea feconda. Non può esistere un partito dei sindaci. Ogni sindaco ha orientamenti, profili, caratteristiche diverse. Se invece si tratta di una “provocazione” per sollecitare un attenzione vera sulla classe dirigente del territorio, sono d’accordissimo.

Il Pd farà un assalto alla segreteria di Letta, nonostante i buoni risultati delle Amministrative?

Credo di no. Letta è solidissimo.

Spera ancora nella maggioranza Ursula, anche se il premier per primo non sarebbe disponibile?

Un governo politico con Draghi a capo mi pare difficile in questa legislatura. Non corrisponderebbe alla missione che lo stesso Draghi ha accettato di svolgere.

Pare che l’ipotesi Draghi al Quirinale non sia più un tabù neanche per i dem. Lei che dice? E sul voto anticipato?

Vedremo come si svilupperà la situazione politica. L’importante è che la Repubblica non si privi, al di là dei suoi possibili ruoli, di una personalità che si è dimostrata così decisiva. Il Pd è disposto a sostenere lealmente Draghi fino al 2023, con le sue idee molto ben rappresentate nell’esecutivo da Orlando, Franceschini e Guerini. Ma la Lega scalpita e la Meloni soffia sul fuoco. Dobbiamo prepararci a tutte le eventualità, con fermezza strategica, ma con grande prontezza tattica.

I fiori senza le botte: il popolo No Vax mette l’abito buono

Il movimento No Green pass si rifà il trucco, abiura le violenze di Forza Nuova e sostituisce le cariche di polizia con i fiori donati agli agenti. La manifestazione del Circo Massimo fila via senza scontri, ma di fronte al palco si riunisce solo un migliaio di persone (anche se gli organizzatori ne annunciano 10 volte tante). Siamo ben lontani dalla folla di sabato scorso in piazza del Popolo, una goccia nel mare del Circo Massimo.

Con Roberto Fiore e Giuliano Castellino in carcere, a organizzare la piazza stavolta c’è l’avvocato penalista Edoardo Polacco, promotore delle “Sentinelle della Costituzione”, uno dei punti di riferimento dell’eterogenea galassia antivaccinista. È lui che fa distribuire le rose “per la pacificazione” con i poliziotti che presidiano la piazza. Gli agenti, tra sorrisi ironici, accettano il regalo. Il senso è chiaro: il movimento si vuole mostrare non violento, anche se la folla si accende soprattutto per gli insulti ai giornalisti, ai sindacati (“Traditori”) e ai politici (“Ladri”, “assassini”). Le sentinelle di Polacco lanciano anche un immaginifico “sciopero generale del lavoro e dei consumi” fino al 20 ottobre.

Sul palco c’è anche Pasquale Bacco, il medico no-vax più amato dal mondo negazionista (ma ha avuto sponde anche in Lega e Fratelli d’Italia). A margine della manifestazione, mostra i messaggi ricevuti da Castellino, che lo incitava a raggiungerlo per gli scontri davanti alla Cgil. Bacco ora prende le distanze: “Sapevamo tutti dove si andava a parare con gente come Fiore e Castellino, ci siamo fatti strumentalizzare da due criminali”. Com’è possibile che uno come Castellino abbia ancora l’agibilità politica per “prendersi” una manifestazione? “Non si muove da solo. Sa sempre da chi andare a chiedere – sostiene Bacco – in 10 minuti ottiene ogni autorizzazione, è chiaro che ha contatti con apparati dello Stato”. Vicino al palco ci sono anche i camerati fuoriusciti da Forza Nuova proprio in polemica con la gestione Fiore-Casellino, come Giustino D’Uva: “L’azione alla Cgil – dice – ha contribuito a criminalizzare un intero movimento. Il sospetto forte è che Castellino serva proprio a quelli che dice di combattere”. I fascisti ci sono anche stavolta – sono presenti simpatizzanti di CasaPound e pure Simone Carabella, che fu aggredito proprio da Castellino nella manifestazione di giugno – ma è una partecipazione discreta e marginale.

Sul palco invece si alternano le schegge più o meno radicali del mondo no-vax. Tra i più folcloristici – e meno in linea con lo spirito “moderato” della manifestazione – si fa notare l’ex maresciallo dell’aeronautica Roberto Nuzzo: “Conosco bene gli uomini in divisa e quelli che sabato hanno toccato mamme e bambini sono criminali! Non dimentico il poliziotto che ha detto di caricare, ti caricheremo noi!”. Intervengono anche i “politici” Sara Cunial e Davide Barillari, ex 5Stelle e idoli negazionisti, barricati da ieri mattina in un ufficio della Regione Lazio per un’occupazione simbolica (conclusa in serata): “Esprimiamo solidarietà ai lavoratori a cui negano il più importante dei diritti. Non ci faremo piegare”. In chiusura è ancora Polacco a riportare la disciplina: “È stata una manifestazione fantastica. Abbiamo preso l’impegno con la polizia per defluire in modo ordinato. Dimostriamo a tutti chi siamo”.

“Le prime dosi in aumento”. L’ultima bufala di Figliuolo

Alla fine, ieri, nel giorno in cui è scattato l’obbligo del Green pass per tutti i lavoratori pubblici e privati, è arrivato il comunicato ufficiale del commissario all’emergenza, Francesco Paolo Figliuolo. Le persone che hanno completato il ciclo vaccinale sono “43,64 milioni, pari a circa l’81% della platea”, vale a dire della popolazione costituita dagli over 12 (se si prende come riferimento il totale la percentuale scende al 73,2%). Soprattutto, è “positivo il trend registrato nel corso degli ultimi giorni per quanto riguarda le prime somministrazioni: ieri (14 ottobre, ndr) sono state registrate 73.296 inoculazioni, con un incremento di oltre il 34% rispetto all’inizio della settimana”.

Il comunicato aiuta a fare un po’ di chiarezza sulle indiscrezioni trapelate dal governo, che erano state rilanciate il giorno precedente dall’Ansa (e a Otto e mezzo dal solerte Beppe Severgnini): “Con l’obbligo del Green pass le prime dosi di vaccino sono cresciute del 46% rispetto al trend atteso in assenza di obbligo”. Tutto frutto di una “stima” basata “sui dati aggiornati in possesso della struttura commissariale”, con rilevazioni fatte tra il 16 settembre e il 13 ottobre. In pratica, “senza il Green pass le prime dosi attese erano 1.208.272”; con l’introduzione dell’obbligo si “sono invece registrate 1.768.226 prime somministrazioni”.

Vero è che dall’11 ottobre a ieri è aumentato il numero delle persone che hanno scelto, infine, di vaccinarsi. Ed è vero, come precisa Figliuolo, che l’Italia per numero di somministrazioni e vaccinati totali, è al di sopra della media Ue, che sfiora il 64% (anche se è indietro rispetto alla Spagna, che in rapporto alla popolazione totale ha raggiunto il 79,14). Ma è altrettanto vero che lo zoccolo duro dei no vax, indipendentemente dall’entrata in vigore del decreto con il quale il governo ha esteso l’obbligo del pass a tutti i luoghi di lavoro, è ancora lì, visto che il 14,1% della popolazione (dato aggiornato a due giorni fa) non ha ancora fatto nemmeno una dose.

E in effetti, più che a una corsa alle vaccinazioni, per evitare di rimanere senza retribuzione, si assiste a una rincorsa ai tamponi, che consentono di ottenere il certificato verde con una validità di 48 ore, se è un antigenico rapido, di 72 se è molecolare.

Del resto sono gli stessi dati del governo a contraddire, almeno in parte, la versione sulla spinta impressa alla campagna vaccinale dal nuovo obbligo. Anzi: proprio giovedì, il giorno precedente all’entrata in vigore del decreto, degli oltre 860 mila certificati emessi nel corso della giornata ben 632.802 sono stati rilasciati dopo l’esecuzione di un tampone e solo 223.165 in seguito alla vaccinazione (altri 4.127 sono stati emessi a favore di persone guarite dal Covid). Quasi il triplo: un boom. Il che significa che chi finora non ha voluto vaccinarsi o è ancora titubante o è un irriducibile e ha deciso proprio di non fare dietrofront.

Per Gianni Rezza, direttore generale Prevenzione del ministero della Salute, “l’aumento sensibile delle prime dosi” che c’è stato in questi ultimi giorni, “fa pensare che l’effetto Green pass sulle vaccinazioni anti-Covid c’è stato. Tanta gente non è contraria, i no vax ideologici convinti sono pochi. C’è una fascia del 10-15% della popolazione che va persuasa, con cui parlare e da ascoltare”. È un fatto però che dal 21 settembre a oggi i certificati verdi rilasciati dopo il tampone sono sempre stati in decisamente maggior numero rispetto a quelli emessi dopo il vaccino. Solo con alcune eccezioni, il 26 settembre e il 3, il 5 e il 10 ottobre. E se si prende in considerazione tutto l’ultimo mese si nota che i certificati ottenuti con il tampone sono stati il 58,5%, contro il 40,3 del vaccino e l’1,2% rilasciato a seguito di guarigione.

Oggi le percentuali delle prime dosi (o dosi uniche, nel caso del siero Johnson&Johnson), in base al report del generale Figliuolo, in rapporto alle fasce di età sono ampiamente sopra l’80% per tutte le persone di età compresa tra i 20 e gli over 80 (per questi ultimi la percentuale arriva al 95,08). Solo la fascia di età tra i 12 e i 19 anni si ferma al 70,47%.

“Troppe forzature: sbaglia chi banalizza il dissenso”

“C’era davvero bisogno che il governo esasperasse così tanto la situazione?”. Se lo chiede Massimo Cacciari, filosofo e già sindaco di Venezia, osservando le proteste dei lavoratori contro l’obbligo di Green pass. Proteste che peraltro, avverte il professore, i media hanno colpevolmente banalizzato per giorni, riducendole a mere rivendicazioni neofasciste sottovalutandone i contenuti.

Professor Cacciari, che idea si è fatto dell’obbligo di Green pass? Rischiamo peraltro di rinunciare a milioni di lavoratori.

La decisione è una forzatura tremenda, visto anche l’articolo 1 della Costituzione. Ma deriva dalla colossale ipocrisia di non aver imposto l’obbligo vaccinale, per il semplice motivo che con ogni probabilità la Corte Costituzionale lo avrebbe rimandato indietro.

Ieri le proteste sono state meno del previsto, ma più che fascisti manifestavano semplici lavoratori. Abbiamo banalizzato troppo quel dissenso?

In ogni manifestazione ci possono essere dei provocatori che tra l’altro sortiscono l’effetto opposto a quello desiderato. Chi ha assaltato la sede della Cgil è uno sciagurato, ma insistere solo sulla presenza dei fascisti serviva a far perdere di vista la sostanza della manifestazione.

Le immagini dei fascisti in piazza però erano impressionanti.

Ma certo, però poi succede quello che accadeva negli anni 70, anche se allora in maniera molto più tragica: quando i terroristi hanno iniziato a sparare, chi più poteva alzare la voce e protestare per questa o quella riforma? E anche oggi non si vuole capire che certe critiche non derivano né dal fascismo né dalla contrarietà ai vaccini o al Green pass in quanto tale, ma dalla totale inconsapevolezza con cui si impongono le cose.

In che senso?

Il generale Figliuolo ci assicura che la vaccinazione va alla grande e che ci avviciniamo al 90 per cento di vaccinati. Bene: se lo stato sanitario non è così drammatico, valeva la pena di esasperare così tanto la situazione con questa forzatura nei confronti dei lavoratori? Anche perché dal governo continua a mancare chiarezza: nessuno ci ha spiegato sulla base di quali numeri si rafforzano le restrizioni.

Forse è semplice prudenza in vista dell’autunno?

L’Italia, e cito un indice elaborato dall’Università di Oxford, è stata tra i Paesi che hanno imposto più restrizioni, con danni enormi dal punto di vista sociale, psicologico eccetera, soprattutto tra i più giovani. Vedo che questa tendenza prosegue e noi continuiamo a essere trascinati dalla corrente, senza che nessuno ci dica quali sono i parametri sulla base dei quali le restrizioni potranno finire. Tutto questo mi angoscia.

Protesta senza vinti né vincitori: i portuali depongono le armi

Al calar del tramonto c’è aria di addio alle armi sul molo 4 di Trieste. Ci sono ancora un migliaio di persone, musica e birre, l’aria è rilassata. Di quel blocco “a oltranza” del porto e dell’utopia di un piccolo sindacato di dockers tiene in scacco il governo, rimane una moltitudine in via di scioglimento e ora che arriva la sera, ognuno torna da dove era venuto. Tutti possono dire di aver vinto: i portuali ribelli del Clpt, alla guida di una manifestazione di 5mila manifestanti No Green Pass hanno impedito l’ingresso da uno dei varchi e acquistato visibilità nazionale. Ma anche l’Autorità portuale, che sente odore di ritorno alla normalità. In definitiva a un chilometro di distanza, al varco 1, i camion sono entrati e usciti silenziosamente. Duecento lavoratori hanno timbrato il cartellino. Lo scalo, pur con qualche rallentamento, ha continuato a funzionare. E, molto probabilmente, tornerà a pieno regime entro lunedì. Tutti possono dire di aver vinto, e ognuno, in cuor suo, tirare anche un sospiro di sollievo.

Chi non fa sconti al governo è Luigi Merlo, presidente delle autorità portuali italiane: “Io non condivido le posizioni dei portuali di Trieste, ma è stata creata la tempesta perfetta. L’applicazione del Green Pass obbligatorio, senza organizzazione di realtà complesse come i porti, aveva forti criticità. Se ci avessero ascoltati prima non saremmo arrivati a questo”.

A metà pomeriggioCgil, Cisl, Uil e Ugl diffondono un comunicato: “Crediamo che il lavoro vada ripreso quanto prima. Dopo aver ottenuto la gratuità dei tamponi per coloro che ne hanno la necessità nel porto di Trieste, pensiamo che un ulteriore fermo non venga più compreso dalla maggioranza dei lavoratori, e al contempo cercheremo di ottenere analoga misura in tutti i settori lavorativi”. Poco prima si era pronunciata anche l’Associazione dei portuali italiani: “I vaccini sono preziosi. I dissidenti di Trieste non ci rappresentano”. Il frontman dei portuali del Clpt, Stefano Puzzer, applauditissimo dalla piazza, ribadisce: “La protesta va avanti fino a quando non tolgono il Green pass”. Parole che, lette in controluce, portano di fatto nella stessa direzione: un conto è una protesta, un altro un blocco “a oltranza”. Un fantasma che il presidente dell’Autorità portuale di Trieste Zeno D’Agostino aveva visto materializzarsi seriamente lunedì, quando alla testa di un corteo cittadino No Green Pass di circa 15mila persone, si era materializzato un nucleo di un migliaio di portuali. Abbastanza per mettere in pratica la minaccia di fermare le banchine.

Non si può capire l’inizio di questa storia senza provare a decifrare la particolarità di Trieste, città di 200mila abitanti che alle elezioni comunali ha votato al 4,6% (4mila voti) la lista delle tre V (Vogliamo la verità sui vaccini). La forza lavoro vaccinata è al 65%, in porto il 40% non ha il Green pass. Percentuali di No Vax in media doppie rispetto alla media nazionale. Con questi numeri servirebbero 100mila tamponi alla settimana, numeri difficili da sostenere. La saldatura con i portuali, categoria forte, ha creato un mix esplosivo: “Oggi sarà carnevale, poi si ritorna a lavorare”, aveva profetizzato un sindacalista confederale. E in effetti la previsione non era troppo lontana dal reale.

In piazza è scesa una maionese politica, da gruppi neofascisti ai centri sociali e a gruppi trotskisti, scettici della scienza, arrabbiati a titolo personale, lavoratori di varie realtà triestine, gruppi No vax di altre città italiane. Ed è chiaro che è difficile intestarsi il ruolo di voce di un simile movimento: “Tra noi ci sono anche vaccinati, il punto non è se vaccinarsi o meno – dice Francesca, ricercatrice e coordinatrice del Comitato No Green Pass Trieste – la nostra battaglia è contro questa gestione della pandemie e contro le discriminazioni sui luoghi di lavoro”. Diego Pacor, elettricista di 61 anni, ha un passato in Lotta Continua: “Oggi sono qui perché non mi fido di questo vaccino, anche se non sono contro in generale. In questa piazza troverete di tutto, da Forza Nuova ai terrapiattisti”. In effetti è vero. A buttarsi davanti alle telecamere non di rado sono i soggetti più bizzarri. Cosa sarà di tutto questo, da domani, è una domanda che si fanno un po’ tutti.

Green pass, pochi blocchi e disagi. Boom di test e richieste di malattia

Il primo giorno del Green pass obbligatorio è scivolato via tra manifestazioni anche corpose senza danni, qualche incidente con i lavoratori a cui è stato impedito di entrare in uffici e fabbriche, cinque autisti del trasporto pubblico allontanati a Napoli perché trovati senza certificato verde, blocchi molto parziali in alcuni porti (come Ancona), un limitato numero di corse dei bus soppresse a Trento (210), a Como (il 6%) e in altre città. A Roma e altrove si sono formate lunghe code davanti alle farmacie per i tamponi: se dovessero chiederli tutti i lavoratori non vaccinati, il sistema collasserebbe.

Cortei e sit-in tutta Italia e a Bologna Gian Marco Capitani, uno di quelli che vedono il nazismo dietro il pass, si è distinto per gli insulti a Liliana Segre, senatrice a vita ed ex deportata, accusata di tradire sé stessa approvando le scelte del governo : “Ricopre un seggio che non dovrebbe avere perché porta vergogna alla sua storia, dovrebbe sparire da dove è”. Ma insomma, il Paese non si è fermato. Poi si vedrà. Perché in particolare nelle grandi aziende, specie quelle che non pagano i tamponi ai dipendenti non vaccinati, il problema rischia di emergere nel tempo, man mano che si dovranno fare i turni senza ricorrere ai tamponi ogni 48 ore, alle ferie (chi le ha) e alle malattie (chi può).

Ecco, le malattie. Più delle vaccinazioni, con il Green pass sono aumentati i lavoratori assenti con certificato medico. Alle 12, secondo i dati Inps, nel pubblico e nel privato erano 47.393, in lieve aumento rispetto a due settimane fa (+5,5%) e assai di più (23,3%) rispetto a venerdì scorso. E poi i tamponi: se la sorveglianza sanitaria è sempre andata un po’ a rilento, con il pass si fanno quelli che non abbiamo mai fatto. Anche in ambienti economici e di governo si prevede mano leggera sui controlli. Ieri, tra molecolari e antigenici, sono stati 506.043, il 55% in più rispetto a giovedì (324.614) e ben l’86% in più su venerdì 8 ottobre (271.566). E intanto il Viminale si è mosso per evitare il rischio di paralisi, domani, ai ballottaggi delle Comunali: presidenti e scrutatori esentati dall’obbligo del pass.

Non c’è stato, almeno ieri, il disastro nell’autotrasporto paventato da alcune organizzazioni di categoria. Se ci ritroveremo con gli scaffali vuoti nei supermercati lo vedremo. La Confederazione nazionale dell’artigianato (Cna) ha rilevato problemi solo in Alto Adige, dove gli autisti non vaccinati sono tra il 5 e il 15%. Ha suscitato irritazione la circolare del ministero della Salute che consente agli autisti stranieri, per lo più dell’Est europeo, di condurre i mezzi sul territorio italiano ma senza scendere, nemmeno per scaricare. Gli italiani senza pass, invece, non possono nemmeno guidare. E poiché le tensioni sul dumping realizzato con gli autisti dell’Est risalgono a molto prima della pandemia, non potevano che acuirsi. Dalla Salute fanno sapere che si sta discutendo nell’Unione europea di un lasciapassare per chi si è vaccinato con il russo Sputnik e il cinese Sinovac.

L’altro versante caldo è nei comparti sicurezza e difesa, che contano tra il 10 e il 20% di non vaccinati concentrati in alcuni settori come i reparti mobili (ex celere) della polizia. Ieri manifestazioni insolite: dai vigili del fuoco a Imperia ai militari dell’Aeronautica del sindacato Siam, che hanno fatto un sit-in contro il “Green pass a pagamento”, cioè per i tamponi gratuiti, davanti alla base di Sigonella (Catania), nota ai più per la crisi Italia-Usa del 1985 dopo il sequestro della nave Achille Lauro. I sindacati di polizia premono perché il Viminale allenti un po’ le misure o paghi i tamponi. Non va meglio nei carabinieri. Il Comando generale ha stabilito che senza pass i militari, oltre alla sospensione dal lavoro, perderanno l’alloggio in caserma. Durissima la presa di posizione del sindacato Sim carabinieri, che dichiara 6.000 iscritti e paventa “una sorta di conflittualità all’interno della stessa Arma”, evoca le “vendette operate nell’immediato dopoguerra” e quasi toglie il fiato ricordando che “la schiavitù era legale, l’olocausto era legale e la segregazione era legale”. Lo scrive chi fronteggia, nelle piazze, i nemici del pass.