Vabbè, sarà un caso

Nasce un governo presieduto da un ex banchiere mai votato né indicato da nessuno. E vabbè, sarà un caso. Tutti i partiti, sotto il ricatto quirinalesco “o appoggiate questo governo o vi sciolgo e andiamo a votare”, gli votano la fiducia, tranne uno. E vabbè sarà un caso. Il governo ha pure tutti i media dalla sua parte, come nessun altro dopo il Duce. E vabbè, sarà un caso. Agli eletti dal popolo vanno ministeri marginali, mentre i miliardi del Pnrr li gestiscono quattro fedelissimi del premier mai eletti, più un generale in alta uniforme per i vaccini. E vabbè, sarà un caso. I Consigli dei ministri sono pure formalità: i ministri timbrano norme scritte altrove e presentate mezz’ora prima, illeggibili per chiunque non abbia frequentato corsi di lettura veloce. E vabbè, sarà un caso. Malgrado la maggioranza bulgara, il governo passa da un decreto all’altro e il Parlamento s’inchina, anche perché chi osa presentare emendamenti se li vede mozzare dalla fiducia. E vabbè, sarà un caso. Ogni desiderio di Confindustria è legge: Pnrr più gradito ai padroni, sblocco dei licenziamenti, via il salario minimo e il cashback, controriforma della giustizia con improcedibilità per chi se la può permettere, via le sanzioni alle aziende che delocalizzano, transizione anti-ecologica, Ponte sullo Stretto: l’unico Green consentito è il Pass (unico al mondo) per lavorare. E vabbè, sarà un caso.

Al raduno di Confindustria il premier è accolto con standing ovation e il presidente Bonomi saluta in Lui l’“uomo della necessità come De Gasperi”, auspicando che “rimanga a lungo”. E vabbè, sarà un caso. La stampa confindustriale (praticamente tutta) ripete che Egli “deve restare fino al 2023 e anche dopo”, a prescindere da chi vincerà le elezioni. E vabbè, sarà un caso. Siccome scade il capo dello Stato, il mantra è che Lui è l’unico candidato possibile; ma non esistendo altro premier all’infuori di Lui e non essendo (ancora) le due cariche cumulabili, Mattarella deve tenergli in caldo la poltrona per un paio d’anni. E vabbè, sarà un caso. Il presidente dei vescovi, cardinal Bassetti, come già Pio XI con Mussolini, sostiene che “la Provvidenza lo ha collocato nel posto in cui si trova”. E vabbè, sarà un caso. Appena un leader osa fargli ombra, come Conte, Salvini o Meloni, viene subito massaggiato da giornali&tv. E vabbè, sarà un caso. Quando Lui attacca i diritti al lavoro e allo sciopero col Green pass, la polizia scorta amorevolmente una banda di fascisti ansiosi di assaltare la Cgil, così è più facile dare del fascio a chiunque contesti il governo ed erigere monumenti equestri al Premier Partigiano. E vabbè, sarà un caso. Ma, tra un caso e l’altro, siamo proprio sicuri che i fascisti siano solo quelli di Forza Nuova?

Ora incentivi strutturali per aiutare la transizione

Secondo una ricerca della multinazionale di consulenza strategica Kearney, c’è una grossa distanza tra la domanda di auto elettriche in Italia e quella in Europa. Lo scorso anno da noi le vendite hanno pesato per il 4% sul totale, contro una media del 10% nell’Unione europea. Un gap che si riscontra anche nel parco circolante elettrico, pari allo 0,25% nel nostro Paese e all’1,07% in Europa. I concessionari faticano a spingere i veicoli a batteria e anche la rete di ricarica paga dazio: 22 colonnine ogni 100 mila abitanti contro le 64 europee. Se si aggiunge che le risorse assegnate dal Pnrr alla Transizione ecologica (il 37% in Italia e il 45% nella Ue) solo per l’1,4% verranno dedicate alle infrastrutture di supporto alla mobilità elettrica nel Bel Paese, rispetto al 13,6% europeo, appare chiaro come si debba spingere parecchio sull’acceleratore. La grande questione è quella degli incentivi, senza i quali la neonata mobilità elettrica non riuscirebbe a reggersi sulle sue ruote. Ne sono stati elargiti a profusione in Italia, anche se il sistema a singhiozzo utilizzato finora ha minato le certezze sia dei costruttori che dei consumatori. La soluzione potrebbe essere quella di renderli una misura strutturale, sottraendola alla spada di Damocle del rifinanziamento periodico. Il Mise è al lavoro su un’eventualità del genere, che sarebbe un segnale convincente di stabilità e programmazione. Oltre che un puntello indispensabile per le auto a elettroni, al netto delle valutazioni sull’opportunità delle scelte.

Ma per gli italiani non è tempo di acquisti

Sono pochi gli italiani pronti a cambiare la propria auto, divisi tra la confusione sugli incentivi, quella sulle alimentazioni elettrificate e ancora l’incertezza economica che riduce i budget per l’acquisto.

Secondo l’ultimo studio condotto dalla società di consulenza Areté, infatti, solo il 12% degli intervistati dichiara di voler acquistare una nuova auto nei prossimi mesi, quasi la metà dice di non poterci pensare prima di un anno e il 39% crede di poterlo fare sì, ma entro il prossimo anno.

Nelle intenzioni di acquisto, invece, raggiungono il 50% le auto ibride e il 20% quelle elettriche. Il sondaggio “Cambiare l’auto oggi, che confusione” riporta che 7 italiani su 10 oggi continuano a utilizzare il proprio veicolo per spostarsi in città, contro l’8% che preferisce camminare o usare i mezzi pubblici e il 6% che invece, per i propri spostamenti, si affida alla bici; solo il 3% ricorre allo sharing, che sia di auto, bici oppure monopattini.

Sugli incentivi statali, poi, ancora grande confusione: 4 intervistati su 10 non hanno compreso come poter accedere ai finanziamenti, il 6% non ne sapeva addirittura l’esistenza.

Ma soprattutto, la metà del campione è sfiduciata sulla loro efficacia, convinta che questi non saranno sufficienti a sostenere una ripresa delle vendite di auto a basse emissioni.

Chiedendo quali fattori spingerebbero maggiormente all’acquisto di una nuova auto, il 71% risponde senza dubbio il prezzo accessibile, mentre il 20% ritiene che una maggiore chiarezza sulla differenza tra le alimentazioni elettriche ed elettrificate aiuterebbe a ragionare su un acquisto più consapevole.

Comunque, 7 su 10 rispondono di pensare all’acquisto del nuovo e non dell’usato che, grazie anche agli incentivi, consentirebbe il passaggio alle alimentazioni alternative (30%) e ad avere una tecnologia di bordo più aggiornata (23%). Tra quanti si ritengono intenzionati all’acquisto delle ibride, il 30% riporta la scelta a una questione ambientale mentre il 60% a un vantaggio nel costo di manutenzione e gestione.

Ecco il piano Macron: 30 miliardi di euro per la mobilità green

“France 2030” è un piano da 30 miliardi di euro ideato per invertire la tendenza al declino industriale francese, che dura da anni. Lo ha presentato il presidente Macron, specificando che 4 miliardi saranno dedicati all’automotive per supportare i veicoli elettrificati e iniziative connesse. Previsti pure investimenti nel settore delle energie rinnovabili, dei semiconduttori e della robotica. Ma il target è anche costruire piccoli reattori, diventare leader dell’idrogeno verde – prodotto con le rinnovabili – e decarbonizzare l’industria. “Abbiamo bisogno che il Paese produca di più”, ha detto Macron giorni fa in un discorso all’Eliseo, ribadendo che il governo transalpino continuerà a sostenere la transizione dell’industria automobilistica all’elettrificazione e ha fissato un obiettivo di produzione nazionale di 2 milioni di veicoli 100% elettrici e ibridi entro il 2030.

Al fine di tutelare gli interessi francesi e avere una flotta di veicoli puliti, per Parigi è importante produrre auto a basse emissioni in patria: ecco perché tra le recenti iniziative dei costruttori d’oltralpe, Renault ha creato un polo di produzione di automobili elettriche nel Nord del Paese e Stellantis ha in essere una joint venture per le celle batteria con Total, per costruire una gigafactory locale. La Francia spenderà anche 6 miliardi di euro per sostenere la produzione e l’innovazione nel campo dell’elettronica.

“France 2030” è l’ennesimo tentativo di pompare denaro pubblico in un sperato rinascimento industriale, impresa già tentata dall’ex presidente Sarkozy. Macron ha affermato che il suo piano si assumerà maggiori rischi e non si affiderà solo a società industriali consolidate: la metà del denaro andrà alle piccole imprese che si assumeranno l’impegno di essere green. Se i progetti falliscono, i fondi verranno riassegnati. Nonostante i vari sforzi dei governi avvicendatisi, nell’ultimo ventennio la quota dell’industria nell’economia francese è diminuita quasi senza interruzioni, mentre non si registra un surplus commerciale delle merci dal 2002.

France 2030 arriva solo un anno dopo il programma “France Relaunch”, piano di rilancio economico da 100 miliardi di euro, pensato per incoraggiare l’economia, la competitività (abbassando le tasse) e la coesione sociale e locale (salute, lavoro per i giovani, ecc.). Secondo le aspettative del governo, alla fine di quest’anno ci sarà circa un terzo di quel capitale da spendere: ne beneficeranno le industrie, che saranno supportate nella transizione energetica; mentre 11 miliardi di euro saranno investiti nei trasporti, attraverso lo sviluppo di nuove linee ferroviarie, trasporto pubblico a energia verde e incentivi all’acquisto di veicoli ecologici.

Bowie, è tornato l’alieno. “Toy”, il disco perduto 10 anni fa

“A volte si rilassava sul divano per riascoltare un nastro. C’era una finestra nella stanza, un giorno un raggio di luce gli inondò la fronte. Fu una rivelazione: ‘Wow, ecco Ziggy Stardust!’”.

L’alieno cui Bowie aveva dato vita tanti anni prima, caro Mark Plati.

Avevo conosciuto David quando era venuto ai Looking Glass Studios a Manhattan, insieme al chitarrista Reeves Gabrels. Cercavano un posto dove incidere cose nuove: quella era la struttura di Philip Glass, che aveva rielaborato il suo album Low. Avevo un ingaggio lì da ingegnere del suono.

Cominciaste a lavorare insieme sui dischi tra la fine del 900 e il nuovo millennio. Lei, Plati, come produttore e membro della band live di Bowie.

I dischi con cui David si riappropriò della sua libertà. Hours…, Heathen, Earthling. La spinta incessante ad andare oltre la comfort zone. Mi diceva: “Devi inoltrarti nell’acqua finché non provi paura”. Sfidò il proprio passato a Glanstonbury, nel giugno 2000.

Il leggendario ritorno a Glastonbury, quasi trenta anni dopo il debutto a quel Festival. Offrì una memorabile scaletta di classici. Lei era sul palco, Plati.

Chi se lo scorda? Ero lì, con la chitarra, nel mezzo di un triangolo con tre mostri come David, Earl Slick, il pianista Mike Garson. Bowie non sapeva se quello fosse il momento giusto per riprendersi la scena, c’era stato poco tempo per preparare lo show. Ma la potenza compressa si sciolse nell’energia assoluta sua e della band.

E due giorni dopo…

Andammo al Bbc Radio Theather Show, e fu un’altra storia. Eravamo rilassati e felici, dimenticammo il mondo fuori dalla sala. Poi tornammo a New York e David mi disse: “Dovremmo registrare un album come se fosse un live, buona la prima. Lo faremo, vero?”, aggiunse. Gli risposi: “Scommetto che lo dici a tutte le ragazze, conosco voi star”.

Invece…

Invece il suo piano era di ritrovarci in studio per dar vita a un mucchio di canzoni dimenticate degli esordi nei 60. Pezzi da rivisitare con un suono omogeneo e una sola potente band.

Come era nata l’idea?

La prima volta che avevo suonato dal vivo con lui era stata nell’autunno del 1999 per la tv Vh1, Storytellers, un format con racconti significativi e aneddoti tra le canzoni. David volle eseguirne una, I Can’t Help Thinking About Myself, che proveniva da metà anni 60, un tipico rock cazzuto e senza fronzoli, ma che faceva già intuire il suo potenziale di compositore. Da quella notte pensò di rispolverare con noi quella formidabile roba lasciata in soffitta.

Una lista di gemme perdute che vedrà la luce nell’album Toy, il “disco perduto”. Qualcuno l’aveva piratato su internet dieci anni fa, ma Toy sarà pubblicato a fine novembre nel cofanetto David Bowie 5 – Brilliant Adventure (1992- 2001) e poi a gennaio in versione deluxe.

Toy propone brani decisivi ma poco noti, o inediti, di quel decennio cruciale per David. Tutti riarrangiati e registrati di nuovo vent’anni fa. Doveva uscire a caldo, ma la casa discografica tentennò: c’era stato un flop di Mariah Carey che invitava alla prudenza, e Toy restò nei magazzini.

Lui ci restò male?

Ruppe con la Emi/Virgin, ma se era deluso non lo diede a vedere. Si concentrava costantemente sulla mossa successiva, curioso come un bambino.

Lei, Mark, ha lavorato con tanti big. Dai Fleetwood Mac ai Talking Heads, dai Bee Gees a Janet Jackson. Chi aveva quel tipo di spiazzante energia?

Prince. Non dormiva mai. Quando collaborai con lui a Graffiti Bridge, nel 1990, era impegnato sulla colonna sonora, sul film, sulle prove per il tour. Nessuno riusciva a stargli dietro, neppure io che ero molto giovane. Bruciava inquietudine e genialità a ogni istante. Aggiungerei Robert Smith dei Cure.

Chissà quanti ne avrà visti di miti, Mark, al fianco di Bowie.

Una sera David chiacchierava con Mick Jagger nei camerini, un’altra con Paul McCartney o Pete Townshend degli Who. Ma c’era poco da origliare. Sembravano persone normali, non rubavi scoop. Erano conversazioni tipo: “Come hai costruito quel ritornello?”.

Nel ’97 eravate al Madison Square Garden per il live del cinquantesimo compleanno di David.

Quella sera ci fu l’unico storico duetto dal vivo tra Bowie e Lou Reed. Suonarono Queen Bitch e I’m waiting for my man. Ma ero troppo preso a lavorare, non mi gustai l’evento.

Avrà saputo rifarsi…

Un anno prima ero a Berlino per mixare un album, David era in cartellone in un festival tedesco. Presi un treno e arrivai nel backstage. Restai a bocca aperta vedendo Iggy Pop. Peccato non fosse il tempo degli smartphone.

Bowie è morto nel 2016, poche ore dopo l’uscita del suo ultimo album Blackstar. Una coincidenza che parve quasi orchestrata…

Non lo vedevo da tempo. Quando uscì la notizia chiamai l’ufficio sperando fosse una bufala. Aveva tenuta nascosta a quasi tutti la sua malattia. Sembra davvero la perfetta uscita di scena di un maestro dell’arte come lui. Un alieno tornato nei suoi mondi.

Goria, Tabacci e Andreotti: i papà dc del Draghi politico

È il crepuscolo del 1982, alla vigilia dell’Avvento natalizio, e Giovanni Marcora dovrebbe fare il presidente del Consiglio. A Palazzo Chigi si è chiusa una fase storica, quella dei due governi di Giovanni Spadolini, leader del Partito repubblicano italiano e primo esponente non democristiano alla guida dell’esecutivo. Il timone della nave di Palazzo torna alla Balena Bianca (la legislatura si sarebbe chiusa pochi mesi dopo, nel giugno del 1983) e così il prescelto è Marcora, già ministro e soprattutto il fondatore della “Base”, un gruppo politico culla della corrente della sinistra dc. Quella di Ciriaco De Mita, Virginio Rognoni, Mino Martinazzoli e Nicola Mancino più altri poi approdati alla Terza Repubblica, come Bruno Tabacci e Clemente Mastella.

Marcora però è gravemente malato (muore nel successivo febbraio) e rinuncia alla designazione. La Dc ripiega su Amintore Fanfani, cavallo di razza al suo quinto governo, e la sinistra basista fa debuttare nell’esecutivo uno dei suoi “giovani” più promettenti: l’astigiano Giovanni Goria, economista di talento appena trentanovenne.

Goria eredita il Tesoro da Beniamino “Nino” Andreatta, altro peso massimo del “progressismo” dc. (…) Goria insedia Tabacci come capo della segreteria tecnica. Alcuni mesi dopo, nella primavera del 1983, si ritrova però senza due consulenti scelti a suo tempo da Andreatta: Fabrizio Galimberti, che diventa corrispondente da Londra del Sole 24 Ore e Vincenzo Visco, che si dà alla politica candidandosi come indipendente nelle file del Partito comunista.

Goria cerca dunque dei sostituti. Racconta a Fq Millennium Tabacci, oggi sottosegretario proprio nel governo Draghi: “Goria chiamò Innocenzo Cipolletta, a me chiese di trovare l’altro. Dopo alcuni tentativi, Romano Prodi mi parlò di un giovane brillante, che rientrava in Italia alla fine di un ciclo di perfezionamento al Mit con il professor Franco Modigliani, che due anni dopo avrebbe preso il Nobel per l’Economia. Era Mario Draghi. L’ho incontrato due o tre volte, poi ho proposto la sua nomina”.

Draghi ha 36 anni e divide la stanza con Cipolletta, futuro direttore generale di Confindustria e futuro presidente delle Ferrovie dello Stato. “Quell’esperienza”, ha raccontato Cipolletta in un’intervista, “dette a Draghi la possibilità di passare dall’accademia, da cui proveniva, all’amministrazione che avrebbe poi caratterizzato tutta la sua carriera, dalla Banca mondiale alla direzione generale del Tesoro, dalla presidenza della Banca d’Italia a quella della Banca centrale europea. Credo sia stato un passaggio certamente molto utile per la sua formazione”. Ma non basta. Perché la “nascita” di SuperMario nelle istituzioni, sotto l’egida della sinistra democristiana, ha anche un altro padre, oltre a Tabacci e Prodi. (…). E, cioè, il già citato Andreatta. Anche lui dà ottime referenze a Goria sull’accademico formatosi negli States. Del resto l’ex ministro che diede vita all’Arel (l’Agenzia di Ricerche e Legislazione che ha avuto come segretario generale anche Enrico Letta) è stato ufficialmente riconosciuto come mentore dallo stesso Draghi, privilegio che l’attuale premier riserva a pochissimi eletti. È accaduto a metà settembre del 2020 a Bologna, alla cerimonia di intitolazione ad Andreatta dell’aula magna della Business School. Ha rivelato Draghi: “La generosità di Andreatta ha toccato anche la mia carriera. Senza conoscermi personalmente, come era nel suo stile, prima mi segnalò per l’Università della Calabria, e poi indicò a Federico Caffè l’esistenza di una posizione di Politica economica alla facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Fu il mio primo incarico di ritorno dal Mit”.

Dunque: Goria, Andreatta, Prodi e Tabacci. La sinistra della Balena Bianca. Nonostante, ricorda un altro testimone di allora, “Draghi avesse simpatie repubblicane”. Insomma, un trasversalismo pragmatico che fa di Draghi un sapiente economista che sa come destreggiarsi tra i marosi del potere e della politique politicienne.

Una dote, questa, che influirà sulla sua nomina a direttore generale del Tesoro nel 1991, in un’altra èra politica, quella del sesto governo Andreotti. Fino al 1990, Draghi è stato direttore esecutivo della Banca Mondiale, a Washington, spedito lì da Goria, ancora al Tesoro, durante il primo esecutivo di Bettino Craxi, e in quel momento è consulente di Bankitalia. Tra i ministri del Divo Giulio ci sono Carli al Tesoro, Paolo Cirino Pomicino al Bilancio e Rino Formica alle Finanze. Carlo Azeglio Ciampi è invece il governatore della Banca d’Italia. Un politico di alto rango di quell’epoca rivela che la spinta decisiva per Draghi al vertice del Tesoro arrivò da Giuliano Amato, vicesegretario craxiano del Garofano.

Nel 1991 a sondare i partiti per conto di Andreotti è il fido ministro Carli. Il sì dei socialisti ha la sponda del Pri e l’ultimo ad allinearsi è il ministro del Bilancio Cirino Pomicino, che ha rassicurazioni dal suo consulente al ministero Lucio Scandizzo.

Nel frattempo l’Andreotti sesto diventa settimo e Draghi, una volta al mese, partecipa alle riunioni coi ministri economici e il governatore Ciampi. Di quei tempi, come ha ricordato Pomicino nei suoi libri, Draghi si è sempre vantato in privato, spiegando come l’Andreotti settimo avesse avviato una risoluta operazione di risanamento dei conti. Un’azione che nei fatti si rivelerà inutile.

Beirut, guerriglia contro l’inchiesta

Tornano rabbia, fuoco e morti nelle strade di Beirut: l’indagine sull’esplosione al porto potrebbe cambiare gli equilibri politici del paese.

Granate, proiettili e carri armati lungo i viali della Capitale. A fronteggiare i manifestanti è stato schierato l’esercito. Sei i morti, 30 sono rimasti feriti nelle ultime proteste libanesi: ieri sera ci sono stati anche nove arresti. Questa volta a esplodere a Beirut non sono state le 2.750 tonnellate di ammonio di nitrato che distrussero il porto il 4 agosto 2020, ma la rabbia dei sostenitori dei due principali raggruppamenti paramilitari sciiti del Paese: Hezbollah e Amal, il cui leader, Nabil Berri, è anche presidente del Parlamento. La guerriglia scoppiata intorno al palazzo di giustizia, a sud della città – proprio lungo l’ex linea del fronte della guerra civile combattuta fino al 1990 fra zone sciite e cristiane –, è divampata per la decisione presa dalla Corte di Cassazione che ha rigettato la richiesta di ricusazione di Tarek Bitar, il giudice che cerca di fare luce su una delle esplosioni più massive della storia. Il suo predecessore, Fadi Sawan, a febbraio scorso è stato estromesso per la stessa accusa mossa anche ora dall’élite politica: “Politicizzazione delle indagini”. A rimanere stretto per primo nella morsa della giustizia è stato proprio il braccio destro di Berri, Ali Hassan Khalil, raggiunto da un mandato d’arresto come Hassane Diab, ex capo del governo che ha rassegnato le dimissioni dopo l’esplosione, ma è rimasto in carica fino a settembre scorso, e altri tre ex ministri tacciati di negligenza. Bitar, minacciato dai membri di Hezbollah e Amal, già diventato icona della lotta contro la classe politica corrotta, è comunque l’unica speranza che rimane ai parenti delle 215 vittime dell’esplosione.

Tra lo spettro di una nuova guerra civile e lo stallo politico minacciato dalle forze sciite, rimangono immobili il presidente Michel Aoun e il premier Najib Mikati, che ha chiesto scusa ai suoi cittadini: “Mi vergogno della tragica situazione a cui siamo arrivati”. Almeno 67 milioni di dollari sono in arrivo da Washington per l’esercito libanese: gli ufficiali avvertono che d’ora in poi colpiranno chiunque continui a girare armato per strada. Sull’origine dell’ultimo caos di Beirut l’ong Human Rights Watch ha già emesso il suo verdetto: “Hezbollah ha detto ai cittadini: scegliete tra la stabilità senza giustizia, o la giustizia senza stabilità”.

Di chi era il materiale esplosivo? Chi ha lasciato che nell’incuria la città saltasse in aria? Perché questa verità si vuole tenere ancora nascosta? Dall’indagine che potrebbe dare risposta a questi interrogativi sembra adesso dipendere la tenuta dell’intero Stato libanese.

Erdogan chiude il confine: non vuole profughi afghani

Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ha fatto della narrazione sulla “Turchia terra d’accoglienza” uno strumento di propaganda, mostra che essa varia dal Paese di origine dei profughi. I siriani gli servivano per prendere soldi dalla Ue, quelli afghani invece non gli servono a nulla, anzi ostacolano il tentativo di Ankara, assieme all’alleato Qatar, di fare da ponte tra il neo regime talebano e l’Occidente. Non è dunque vantaggioso per il Sultano, in questo momento, far varcare il confine a migliaia di disperati arrivati via Iran dopo aver percorso 1.500 chilometri a piedi o su mezzi di fortuna forniti dai trafficanti per cifre esorbitanti. Una volta arrivati sul suolo turco, attraversando fiumi e laghi per non trovarsi di fronte al muro costruito da Ankara – che lo sta allungando –, quanti in fuga dai talebani, spesso si trovano davanti a plotoni di poliziotti che li respingono con violenza inaudita.

Tra le scarpate nei dintorni di Van, città della Turchia orientale al confine con l’Iran, sono in tanti a cercare un anfratto dove nascondersi. Molti sono addirittura al terzo tentativo, dopo essere stati respinti a suon di botte, calci in testa, finte esecuzioni e violenze psicologiche di ogni genere. Il 22enne Sangeen, che ha combattuto i talebani per cinque anni come soldato nell’esercito nazionale afghano, è uno di questi. L’ex soldato ha spiegato all’inviato del Guardian che è stato torturato prima di essere ricacciato in Iran. Ora è riuscito a rientrare attraverso un varco a est di Van, schivando decine di veicoli militari turchi. Ha inoltre dichiarato di aver visto cadaveri disseminati lungo il confine e che le forze di frontiera turche gli hanno rotto il telefono in testa, bruciato i vestiti e dato ripetutamente dei calci in faccia.

Un altro rifugiato ha mostrato la sua mano frantumata con l’elmetto di metallo di un soldato turco, altri hanno parlato di percosse e distruzione dei pochi averi che erano riusciti a portare con sé. Mahmut Kaçan, un avvocato turco residente a Van, specializzato in casi di asilo e rifugiati, sottolinea che i respingimenti violano la convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite del 1951 e, nonostante questo, stanno avvenendo sistematicamente. “Quello che stanno facendo le autorità turche è del tutto illegale”, ribadisce. Kaçan ha aggiunto che la Direzione provinciale per la gestione delle migrazioni (Pdmm) a Van non accetta più nuove domande di asilo, inclusa quella di una sua assistita, un’infermiera afghana arrivata con il passaporto dopo essere stata costretta a fuggire dai talebani.

Gli sforzi del governo turco per tenere fuori i rifugiati dall’Afghanistan sono aumentati ad agosto, quando è iniziata la costruzione di un muro di cemento di 295 chilometri nella provincia di Van.

Il ministro della Difesa, Hulusi Akar, ha affermato che il confine orientale è stato rinforzato con telecamere termiche per la visione notturna e con più truppe: tra loro 750 ufficiali delle squadre speciali. Metin Çorabatir, presidente del Centro di ricerca su asilo e migrazione (Igam) con sede a Istanbul, ha affermato che il rifiuto di consentire a molti rifugiati afgani di entrare legalmente in Turchia li sta costringendo a viaggi mortali. Cita il tragico episodio di 60 rifugiati afghani annegati attraversando il lago. Una recente dichiarazione dell’Unhcr afferma che l’ong sta “monitorando da vicino la situazione” e di aver recentemente emesso un avviso di non respingimento in l’Afghanistan, chiedendo il divieto di rimpatri forzati, compresi quelli nei confronti dei profughi a cui è stata respinta la richiesta di asilo.

Ritratto di Macron “Capo del nulla”

A sei mesi dalle Presidenziali, il libro temuto dall’Eliseo è uscito: Le Traître et le Néant (Fayard), dove il “traditore” è Emmanuel Macron, e il “nulla” è il macronismo. Per quanto i due autori, Gérard Davet e Fabrice Lhomme, giornalisti di Le Monde, sostengano che non si tratti di un libro contro Macron, ma di un’inchiesta documentata, il ritratto che emerge del presidente, costruito con l’aiuto di oltre cento testimonianze, è a dir poco critico, se non feroce: un uomo freddo, calcolatore, cinico, pieno di sé ed essenzialmente isolato, che si sbarazza di chi vuole quando vuole e prende le decisioni da solo o consultando la moglie Brigitte.

“Dopo anni di inchiesta, sono questi i due aspetti principali a essere emersi” – hanno detto i due autori a Bfm Tv, spiegando il titolo del libro. “Innanzitutto – hanno proseguito una serie di tradimenti che hanno permesso a Macron di accedere al potere. Quanto al nulla del partito, La République en marche, ci è parso quasi un’evidenza, dal momento che neanche i suoi sostenitori sanno come definirsi”. Davet e Lhomme non sono nuovi a questo tipo di inchiesta: avevano già pubblicato un primo volume su Nicolas Sarkozy (Sarko m’a tuer,“Sarko mi ha ucciso”, 2011) e un secondo su François Hollande (Un président ne devrait pas dire ça, “Un presidente non dovrebbe dirlo”, 2016). Nel caso di Hollande, che si era confidato ai due per mesi, il libro fu talmente disastroso per la sua immagine, che l’ex presidente, già ai minimi della popolarità, decise di non ricandidarsi. Il nuovo volume non dovrebbe ostacolare Macron, al quale tutti i sondaggi garantiscono al momento l’accesso al ballottaggio del 24 aprile. Ma, stando alla radio RMC, l’Eliseo era comunque nel “panico” sin da settembre e avrebbe tentato “con ogni mezzo” di procurarsi il volume. Secondo gli autori, “delle istruzioni sono state date all’Eliseo e agli uffici del primo ministro per impedirci di incontrare i più stretti collaboratori del presidente”.

In 600 pagine, i due giornalisti illustrano come Macron ha costruito la sua ascesa, mattone dopo mattone. Uno dei loro principali testimoni non è altri che Hollande, mentore politico di Macron (lo aveva voluto giovanissimo come consigliere all’Eliseo, affidandogli poi il ministero dell’Economia) e primo dei traditi: l’ex pupillo che gli aveva promesso lealtà, fondò invece il suo movimento, En marche! e lasciò il governo per volare da solo verso l’Eliseo. “Macron non è niente ed è tutto al tempo stesso. È un trasformista”, osserva Hollande. E poi: “Non ha amici, è un avventuriero, non ha legami con nessuno se non con se stesso”.

Un giorno, racconta Hollande, accolse i Macron all’Eliseo, ma il suo cane Philae rubò gli occhiali di Brigitte e li fece a pezzi. Qualche giorno dopo, gli arrivò la fattura. Un altro amico tradito è François Bayrou, leader del MoDem, l’indispensabile alleato centrista, al quale Macron aveva promesso 144 circoscrizioni elettorali in caso di vittoria nel 2017: ne ottenne solo 16. Il giorno dell’investitura di Macron, Bayrou rischiò di prendere a botte Richard Ferrand, all’epoca segretario di En Marche!. Il deputato di destra Olivier Marleix solleva invece sospetti sui finanziamenti della campagna del 2017 e parla di “patto di corruzione”. Quando Macron era responsabile dell’Economia, spiegano Davet e Lhomme, “c’è stato un record di fusioni-acquisizioni in Francia”, con cessioni all’estero di aziende francesi, fiori all’occhiello come Alstom, venduta alla statunitense General Electric: “Alcuni intermediari che hanno tratto enormi benefici da queste transazioni – spiegano – sono diventati i donatori della campagna di Macron. Il problema etico esiste e forse è anche giuridico”.

La giustizia sta indagando. Macron, che voleva cambiare la Francia, lascia invece molti delusi dietro di sé. Il suo partito nato come un “laboratorio di idee” è una scatola vuota che accumula sconfitte elettorali. “Non è stato fatto niente per sviluppare una matrice ideologica – dice la deputata LaRem Aurore Bergé –. In realtà non esiste nessun partito ed è per questo che nel 2020 ho deciso di lasciarne la direzione”. Marlène Schiappa, attuale ministra responsabile della Cittadinanza, non si fa illusioni sul futuro del macronismo: “Non c’è nessuno dietro. Il giorno che il presidente deciderà di prendere la valigia e andarsene, non ci sarà nessuno per fare il presidente al posto suo”.

Anche l’ex commissario Ue, Pierre Moscovici, oggi presidente della Corte dei Conti, ha parole che non lasciano spazio a fraintendimenti: “I francesi non lo amano e lui non li conosce. Non è un buon dirigente. Non abbiamo mai avuto un governo così debole sotto la Quinta Repubblica”.

Mail Box

 

L’idea che tanti italiani hanno della legalità

Il fatto che Travaglio sia costretto, ormai quotidianamente, a intervenire per rispondere alle accuse di insensibilità nella valutazione delle vicende dell’ex sindaco Mimmo Lucano, che ha interpretato molto “creativamente” il suo ruolo di primo cittadino di Riace, la dice lunga sull’idea che la maggior parte degli italiani si sono fatti sul significato di legalità. Il rispetto della quale non è ovviamente banale, ma fondamentale per la tenuta del sistema, ma che purtroppo fa acqua da tutte le parti, poiché è forte nei cittadini il senso di individualità e di egoismo, per cui è lecito fare ciò che si ritiene giusto dal proprio punto di vista, come ben dimostrano gli attuali disordini di piazza conseguenti alla disobbedienza civile. Anche quelli con la svastica sono vittime del sistema delle leggi?

Girolamo Gentili

 

Conte e Draghi, due stili e due mandanti diversi

Posto che ambedue non sono stati eletti bensì nominati, la differenza più evidente, più plastica, che c’è tra Conte e Draghi risiede nel modo di comunicare le decisioni prese: sul come e soprattutto sulla scelta dei destinatari. Conte, specialmente nel secondo mandato e ancor di più dopo il Covid, sceglieva di rivolgersi direttamente alla gente, rischiando anche critiche e prese in giro sul “congiunto”; Draghi invece non comunica in maniera diretta mai nulla. Annuncia e basta, senza quasi mai spiegare. Non è solo mera questione di stile. Evidentemente il primo sentiva, pur non essendone stato il mandatario diretto, il Paese come mandante; Draghi no. Ma siccome ciascuno in politica ha sempre i suoi mandanti, la domanda inquietante è: a chi sta spiegando Draghi il senso delle decisioni che prende?

Giuseppe Raspanti

 

Aggiornare il “Fascismo eterno” di Umberto Eco

I fatti di Roma si sono incaricati di svelare a un’opinione pubblica finalmente sgomenta un sottostante disegno eversivo, sebbene ancora manifestamente bislacco e inadeguato. Stavolta è stato davvero impossibile equivocare: i più hanno percepito la pretestuosità dei temi “negazionisti” complessivamente intesi, e sono inorriditi alla vista degli energumeni che li hanno impugnati come un enorme randello. Un’arma rozza, che non ammette repliche, non a caso simbolo di intolleranza, scatenata contro il buon senso. Il 12 ottobre ho letto sul Fatto un breve commento di Daniela Ranieri al riguardo, “Squadrismo, ora la matrice è chiara: Colpa della sinistra”, secondo cui matrice si deve alla solita stampa nostrana, mai abbastanza derisa da chi sa bene dove sia il problema e cosa sarebbe opportuno fare, prima o poi, per provare a risolverlo. Ma era solo un’annotazione a margine, sia pure puntuale del fenomeno, inteso nel suo complesso, che forse è arrivato il momento di esaminare a fondo, in tutte le implicazioni, non solo storiche, che lo caratterizzano e lo definiscono. Il tema del “Fascismo eterno” di cui ha scritto Umberto Eco andrebbe a mio avviso nuovamente trattato alla luce dei tantissimi indizi, più o meno contemporanei, della sua sopravvivenza, a prescindere e a partire dall’esperienza traumatica del “fascismo reale”. Penso al disprezzo per la povertà, la fragilità, lo svantaggio e la malattia. Al compiacimento quasi generalizzato per gli arricchimenti illegali o anche solo immorali, annoso oggetto di sdoganamenti sistematici, a dispetto della legalità, delle inchieste e delle sentenze. Ma penso anche al macroscopico degrado della cultura di massa, al semianalfabetismo tollerato, addirittura incoraggiato, laddove possa tradursi in diffuso annebbiamento delle coscienze e fraintendimento macroscopico dei propri problemi e necessità. E come sottovalutare la proposizione, come modelli d’eccellenza, di figure autoreferenziali e bercianti di improbabili intellettuali, o musicisti da piano bar spacciati per geniali compositori contemporanei, con conseguente inutile sdegno di quanto ancora resta della vera eccellenza italiana, nella cultura e nell’arte in generale. E sono solo esempi, tra i tantissimi possibili. Mi chiedo quando finalmente riusciremo a venir fuori da tutto questo: sarà dura. Mi basterebbe comunque che si provasse a chiudere la famosa stalla, prima che i buoi scappino. Ciò nell’interesse di tutti: di destra, sinistra, centro, di sopra e di sotto. Per la stampa libera, forse sarebbe il caso di iniziare a divulgare il più possibile la corretta nozione di “fascismo”, così come delineata da Eco nel suo illuminante saggio, che si impegna a spiegare “perché la parola fascismo divenne una sineddoche, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi”, come tale tuttora utilizzata in tutto il mondo, senza riferimenti alla storia d’Italia .

Patrizia Cozzolino

 

Elogio a Massimo Fini, firma anticonformista

Noto con piacere che la firma di Massimo Fini è ultimamente sempre più presente sul Fatto Quotidiano. Fini è una delle ultime penne contro il conformismo dilagante del giornalismo italiano sulle orme del maestro Montanelli e dell’indimenticabile Prezzolini che diceva, nel lontano 1952: “La libertà di stampa è desiderata da molti che farebbero meglio a non stampare nulla”. Osservando la politica, il giornalismo, i talk show televisivi, che dire? Mi assale un sentimento… di sconforto, nell’osservare che prevale sempre il solito “particulare” longanesiano. Per citare Dostoevskij: quale libertà ci può essere se l’obbedienza la si compra?

Italo Baldo