Bollettini postali. In piena estate è arrivato l’aumento di 30 centesimi

 

“Non è il momento di prendere, è il momento di dare”. Così aveva promesso il premier Draghi. Detto, fatto: ieri mi reco alle Poste per pagare una bolletta con i soldi già contati e l’impiegata mi dice: “Guardi che ha sbagliato. La tassa sul bollettino è aumentata di 30 centesimi!”. Prima era 1 euro e 50; ora 1 euro e 80, vale a dire un aumento del 20%. Forse c’è una maxi-inflazione del 20% che Poste Italiane deve recuperare per pareggiare? Poste Italiane non è partecipata dallo Stato? Da cittadino mi sento disarmato e penso che questo sia uno dei tanti fatti che spingono le persone all’astensionismo, visto che nessun partito muove un dito.

Enzo Rossetti

 

Gentile Rossetti, anche se le tariffe erano bloccate da tempo, come si sono giustificati i vertici delle Poste, non era certamente questo il momento di prevedere rincari. Ritocchi all’insù che saranno anche minimi per le famiglie, a meno che non si utilizzino in modo massiccio i pagamenti dei bollettini, ma che in questo particolare momento storico-economico potrebbero comunque mettere in difficoltà i cittadini più fragili. Del resto con il bollettino di conto corrente si possono pagare le bollette (acqua, luce, gas, telefono), le rate dei prestiti, il bollo dell’auto, l’Ici e tutti quei pagamenti vari tramite bollettini in bianco generici. La rimodulazione è avvenuta in piena estate, lunedì 10 agosto, e in pochi se ne sono accorti. Così, da due mesi, per pagare un bollettino di conto corrente postale allo sportello (incluso il bollettino Pa) bisogna versare 1,8 euro invece di 1,5. L’aumento di 30 centesimi interessa anche gli over 70 che invece di 70 centesimi, ora sborsano 1 euro. Discorso analogo per le multe. Per pagare un verbale allo sportello attraverso il servizio online “Sin” ora si spendono 2,29 euro, contro il precedente 1,99 euro. Anche in questo caso è aumentata la tariffa per gli over 70, passata da 1,19 euro a 1,49. Rincaro addirittura di 50 centesimi per l’avviso “Pago Pa” con codice (Fase Icpa): la commissione è schizzata da 1,50 a 2 euro. Poi, tanto, per gli utenti che si lamentano del rincaro, la risposta è che il pagamento del bollettino si può effettuare anche online con le spese di commissione a 1 euro. Con le evidenti difficoltà di un pensionato a utilizzare i servizi collegati a Internet.

Patrizia De Rubertis

Noi ecologisti contro un Green pass imposto senza discutere

Come pacifist* ed ecologist*, vorremmo contribuire al dibattito che infiamma e spacca la società. Siamo profondamente preoccupat* per la pericolosa polarizzazione e radicalizzazione del conflitto: da una parte i gruppi più violenti ed eversivi che cavalcano il malessere sociale, dall’altra il blocco di potere politico-industriale-mediatico che governa il Paese e che impone il suo programma liberista. Ovviamente condanniamo nel modo più fermo i neofascisti di ogni violenza, e tutti coloro che spalleggiano questi gruppi, chiedendoci perché siano stati lasciati agire impunemente dalle autorità. (…) Oggi più che mai, è importante coltivare un pensiero critico che metta la salute, il rispetto e la nonviolenza al centro del dibattito. (…) Anche a nostro parere lo strumento del Green pass (così come declinato in Italia), è pieno di contraddizioni e fallacie sul piano sanitario, finalizzato a un rigido e burocratico controllo sociale, umiliante e divisivo, oltre a contraddire i principi contenuti nella Risoluzione 2361 (2021) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

Perché quindi non si può discutere e criticare apertamente questa misura, che non è, come spesso si dice, “scientifica” ma meramente “politica”? (…)

Oltretutto queste imposizioni controproducenti e ingiuste, esasperano gli animi e rendono le persone insofferenti anche ai “limiti ambientali” che multinazionali e mafie calpestano quotidianamente in totale impunità.

 

Primi firmatari: Franco Arminio, Linda Maggiori, Michele Boato – https://peruncamminoecopax.blogspot.com/2021/10/per-un-cammino-radicalmente-ecologista.html

Il volto politico delle criptovalute

Dallo scorso anno si è manifestato un nuovo interesse per le criptovalute e non si è affievolito nel corso del 2021. Perché? Queste valute si sviluppano, sono meglio disciplinate dalle autorità pubbliche, spaventano ancora i responsabili politici che, per contromisura, attuano normative sempre più invadenti. Essi cercano anche di lanciare le proprie criptovalute, valute digitali delle Banche centrali.

(…) L’installazione delle criptovalute nel panorama culturale comporta uno spostamento antropologico, di cui vorremmo qui delineare i contorni. Se ci si libera della concezione restrittiva degli economisti che riducono la moneta alla sua triplice funzione (unità di conto, mezzo di scambio e riserva di valore), allora ci si accorge che la moneta svolge il ruolo di un pegno. Un pegno è un oggetto simbolico che memorizza un debito. L’euro che ho in mano o nel mio conto in banca è il segno di un impegno da parte di tutti coloro che un giorno dovranno forse corrispondermi la contropartita sotto forma di un servizio, di una merce o di un’altra valuta. Certo, questo non è un riconoscimento di debito verso una persona, un’azienda o un’amministrazione; inoltre, questo pegno non ha una scadenza determinata. Ciò non toglie che questo pegno sia per me la promessa ricevuta da una comunità che si impegna – è il caso di dirlo – a soddisfare, quando sarà il momento, i miei bisogni, nel modo in cui li avrò percepiti. Per questo gli antropologi parlano della moneta come di “debito di vita”.

In termini più rigorosi, la moneta è un credito a vista nei confronti di una comunità di pagamento. Credito, perché è il segno di un debito. A vista, poiché posso reclamare la contropartita in qualsiasi momento. Nei confronti di una comunità, in quanto posso rivolgermi a qualsiasi membro della comunità, fornitore di beni o di servizi, o speculatore. Di pagamento, perché, trasmettendo questo pegno, mi libero da un debito personale senza per questo estinguere il debito della comunità. Infatti, il pagamento in denaro è semplicemente la trasmissione di un pegno alla comunità, perché il fornitore che riceve il mio pagamento acquisisce un pegno, segno di un debito della comunità nei suoi confronti. D’altronde, egli accetta questo pegno in pagamento solo se è convinto che, quando sarà il momento, la comunità onorerà il suo debito. Debito di vita, dunque, perché la moneta mobilita i beni e le capacità della comunità, al servizio – e secondo le scelte personali – di ciascun membro.

L’antropologia soggiacente alla moneta, come riconoscimento del debito di una comunità verso ciascuno, si fonda quindi su un rapporto asimmetrico, su una dipendenza. Ma solo una concezione sbagliata della libertà potrebbe vedere in questa dipendenza dalla comunità di pagamento un’alienazione. Senza nemmeno andare a cercare in Spinoza la giustificazione della libertà come somma dei condizionamenti accettati, basta ricordare con tutta la tradizione cristiana la natura sociale e politica dell’essere umano.

La dimensione politica dell’essere umano sembra svanire nell’uso delle criptovalute, almeno di quelle che non hanno corso legale. I creatori delle criptovalute volevano sovvertire questa fondamentale struttura antropologica, calandosi nella corrente individualista radicale della modernità contemporanea. La crittografia elettronica da cui sono nate le criptovalute è stata in principio, a partire dagli anni Ottanta, il terreno dei cypherpunk (parola composta dai termini inglesi cipher “crittografia” e punk: letteralmente, gli “anarchici della crittografia”). Era il momento in cui il sistema Internet lasciava intravedere il pericolo di un controllo della vita privata da parte di un’amministrazione pubblica tentacolare, allo stesso modo dei regimi totalitari evocati dal noto romanzo di George Orwell 1984.

La tecnologia utilizzata dalle criptovalute, la blockchain, rimuovendo i cosiddetti “intermediari di fiducia” (banche o piattaforme di pagamento), spingeva così all’estremo la tendenza culturale del Do it yourself (“fai da te”). Attraverso la blockchain si svaluta l’istanza politica, sfuggendo alle norme decretate dal coordinatore centrale. L’individuo acquisisce così un margine di libertà. Un passo fondamentale è stato compiuto quando, alla fine degli anni Novanta, è stato scoperto il modo per sostituire l’intermediario di fiducia con un controllo multipolare distribuito sul web. Perché nei trasferimenti telematici la più grande minaccia alla segretezza è il furto di identità o, al contrario, la sua divulgazione, che risulta particolarmente agevole quando si accede al database centrale responsabile delle interconnessioni tra i partecipanti. Così è stato per i conti nascosti nei paradisi fiscali. Con la blockchain non c’è nessun database centrale, nessun intermediario che controlla l’identità dei partecipanti e la legalità dell’operazione. La riuscita del trasferimento è garantita senza intervento umano.

Attraverso l’uso delle criptovalute, la soggettività consentita dal pegno monetario è dunque spinta fino all’individualismo. Questa soggettività individualistica non è però priva di regole del gioco. L’autonomia individuale di cui si compiacciono gli appassionati dell’ideologia moderna resta condizionata. Su questo punto antropologico le criptovalute differiscono dalle valute legali. Come le fiches dei casinò o le monete locali, le circa 70 valute locali, ad esempio, che circolano in Francia valgono un euro. Allo stesso modo, le unità di conto nelle associazioni che praticano il baratto tra i loro membri – questi sistemi locali di scambio (Sel), come vengono chiamati – presuppongono, oltre alla conoscenza dei soggetti dello scambio e a una contabilità precisa, un certo consenso sul valore dei servizi scambiati. Invece, nel sistema delle criptovalute, l’identità degli aventi diritto rimane sconosciuta, fino a quando essi non vogliono convertire le loro criptovalute in valute legali, dollari, yen, euro. È qui che sta in agguato la Pubblica amministrazione.

Lo spirito anarchico che ha presieduto all’emergere delle criptovalute rimane, almeno in una parte dei loro utilizzatori. Ma ciò significa forse che dal sistema è assente qualsiasi tipo di regolamentazione? No. Non si può immaginare un’istituzione – lingua, moneta, mercato – senza un minimo di organizzazione vincolante; o, per usare la formula consacrata dalle scienze sociali, nessuna comunità – per quanto ectoplasmatica, come quella delle criptovalute – senza società. Anche un’associazione di pescatori con la lenza, dove ogni membro partecipa o si ritira a seconda del proprio umore mutevole, è retta da alcune regole, procedure o consuetudini che si impongono. Nessuna interazione individuale è possibile, per le criptovalute come per qualsiasi comunità, senza linee guida che inquadrino e limitino le iniziative di ciascuno.

 

Il naso di Montanelli

“Ci troverai parole che non hai pronunciato, ma che il mio fiutaccio, del quale incondizionatamente mi fido, mi dice che avresti potuto pronunziare”. Così Indro Montanelli a Emilio Cecchi, nella lettera in cui gli anticipa l’Incontro che sarà pubblicato sul Corriere della Sera, citata in Indro – Il 900 (Rizzoli), il volume in cui Marco Travaglio ricostruisce la traversata nel secolo, ostinatamente controcorrente, del più grande giornalista italiano. Le stagioni della nostra storia, i brani antologizzati e le immagini del volume sprigionano nostalgia non solo per l’uomo, ma anche per cosa è stato il giornalismo nel secolo scorso. Gli Incontri sono grande giornalismo e al tempo stesso un genere letterario, letture capaci di insinuare che la famosa realtà non è sempre così reale come lascia intendere: “Preferisco scrivere un ritratto vero con aneddoti falsi che un ritratto falso con aneddoti veri”.

Il vero va fiutato. E qui torniamo a ciò di cui Indro si fidava sopra ogni cosa, come il suo maestro Leo Longanesi.

A vent’anni dalla scomparsa, la figura di Montanelli più si allontana e più si ingigantisce, e quel che ci manca di più è proprio il naso. L’olfatto si sperde nell’interconnesso, insonorizzato mondo digitale, tra i ron ron dei processori, i clic, i tic e i like delle tastiere, negli ambienti sterili gestiti dai capi della comunicazione che mescolano vero e falso in provetta, dove le “bestie” mordono in silenzio, dove i sensi non sono meno artificiali dell’intelligenza. Ci sarà anche il fact checking, ci saranno anche i cacciatori di fake news, ma noi continuiamo a sentire la mancanza delle mucose e delle narici. Forse il sempre più nutrito partito del non voto si spiega anche così, con la nostalgia del fiutaccio montanelliano, specie quando si tratta di entrare nella cabina elettorale, e gli effluvi esplodono. Troppi miasmi, non si sa bene come e dove prodotti. All’improvviso ci ricordiamo di avere un naso, ma anche turarselo non basta più.

Caro Gualtieri, che fine ha fatto la Grande Bellezza?

Ballottaggio di Roma: Roberto Gualtieri ha presentato un programma ampio e coerente, di cui ha parlato anche con Vittorio Zincone per Tpi (numero 3, 1-7 ottobre) e con Wanda Marra per Il Fatto (10 ottobre). Fa parte integrante del progetto anche un’articolata proposta riguardante i tesori archeologici, artistici e architettonici di Roma (diciamo pure la “grande bellezza”), cosa che in precedenza non era mai successa, nemmeno con i sindaci più sensibili a questo tipo di dibattito. Preoccupa un po’ il fatto che Gualtieri di recente non sia più tornato su questo specifico tema, nemmeno nelle interviste appena ricordate: contiamo su nuove informazioni, ma intanto individuiamo gli obiettivi più stimolanti.

Per la verità anche Calenda aveva presentato un progetto: concentrare sul Campidoglio (dirottando altrove gli uffici) tutte le collezioni dei grandi musei romani, sia statali (Museo Nazionale Romano nelle sue molteplici sedi e articolazioni) sia comunali (Capitolini, Conservatori, Centrale di Montemartini, Museo di Roma a Palazzo Braschi, Museo della Civiltà Romana). Non considerava però le enormi dimensioni che si sarebbero rese necessarie.

Gualtieri propone invece il solo tipo di “unificazione” possibile per l’integrazione di musei e aree appartenenti a soggetti diversi: istituzione di un biglietto unico per i visitatori, coordinamento di gestione e fruizione dei musei e delle aree archeologiche di diversa competenza. Pensa poi a una nuova struttura, il Museo della città di Roma, non tanto per esporre capolavori (ampiamente presenti nel sistema già esistente), quanto per fornire orientamenti e apparati illustrativi ai visitatori di ogni livello. Un grande contributo sarebbe fornito dalle piante e ricostruzioni raccolte nell’Atlante di Roma antica, gigantesca impresa editoriale di Andrea Carandini e Paolo Carafa, che il candidato Pd esplicitamente cita.

La sede scelta sarebbe un grande edificio (sotto cui si trovano anche i resti di un notevole Mitreo) che si affaccia su via dei Cerchi vicino al Circo Massimo, noto agli addetti come “ex-pastificio Pantanella”. Si tratterebbe di un suggestivo ritorno all’antico, perché già quando quell’attività fu trasferita altrove (1929), si impiantarono qui due unità espositive: il Museo della città di Roma (il nome dunque non è nuovo), con materiali riguardanti la storia dello Stato della Chiesa e delle grandi famiglie nobili della città, e il Museo dell’Impero Romano, con modellini di complessi monumentali e calchi in gesso di sculture di Roma, dell’Italia e anche delle province romane d’Europa, d’Africa settentrionale e d’Oriente. Questa singolare raccolta si formò in varie fasi: la prima era stata la Mostra archeologica del 1911, cinquantenario dell’Unità d’Italia; un ulteriore impulso si ebbe con la Mostra Augustea della Romanità (1937-1938), celebrazione del bimillenario della nascita del primo imperatore. Un evento palesemente funzionale alla propaganda del regime, ma per la verità organizzato con rigore da uno stuolo di specialisti. Partecipò inizialmente anche il grande Doro Levi, che poi fu costretto a trasferirsi negli Usa a causa delle leggi razziali: nel dopoguerra sarebbe stato a lungo direttore della Scuola archeologica italiana di Atene.

Modellini e calchi si moltiplicarono: si impose all’attenzione il gigantesco plastico di Roma antica dell’architetto Italo Gismondi. Occorrevano nuovi spazi, e quindi la sede di via dei Cerchi nel 1939 fu chiusa: il programma di trasferimento fu però interrotto dalla Seconda guerra mondiale (che del resto impedì anche la realizzazione dell’Esposizione universale programmata per il 1942). Fu realizzato solo nel 1952: il Museo della città di Roma a Palazzo Braschi, il Museo dell’Impero (con la nuova denominazione di Museo della Civiltà Romana) all’Eur, in un grande edificio che avrebbe dovuto costituire, nell’Esposizione mancata, il padiglione della Fiat. “Fiore all’occhiello” che nella nuova sede si aggiunge al plastico di Gismondi è la grande riproduzione integrale dei rilievi della Colonna Traiana, che così fra l’altro si possono vedere, sia pure in gesso, ad altezza d’uomo, anziché (come avviene ovviamente nell’originale) a quote man mano crescenti. Ma questo grande patrimonio didattico, a lungo meta di innumerevoli scolaresche, è chiuso dal 2014 per problemi strutturali.

Se davvero Gualtieri fosse eletto, e si reperissero in via dei Cerchi gli ampi spazi necessari, e i materiali di Palazzo Braschi e soprattutto della sede all’Eur potessero farvi ritorno, il progetto di Gualtieri affronterà una suggestiva sfida: armonizzare ciò che è stato raccolto e organizzato nel secolo scorso e ciò che si ispira alla ricerca e alla didattica del Duemila.

 

Sala, è vero trionfo? La seconda vita di Beppe Bonaparte

Giuseppe Sala è passato in pochi mesi dall’essere il candidato riluttante che cercava vie di fuga da Palazzo Marino, alla fiera assunzione del ruolo di sindaco con pieni poteri, eletto al primo turno e senza più opposizione: si è posto da sé sul capo la corona di Beppe II, inaugurando la fase bonapartista della sua vita sua e di Milano. Fino a quando? Finché l’inquietudine e una buona occasione politica (o manageriale) non lo porteranno ad altri approdi.

Intanto, la prima riflessione necessaria è quella sulla qualità della sua vittoria. È un vero trionfo? A metterlo in dubbio è un personaggio che la sa lunga sulla politica milanese, quel Luigi Corbani che fu vicesindaco della città e che sul Migliorista.it (mica sul Fatto Quotidiano) si mostra molto preoccupato per l’astensionismo, “davanti al risultato elettorale di una città in cui metà dei suoi abitanti sono indifferenti, senza fiducia nella politica e nell’amministrazione comunale”. Vittoria al primo turno? “Era già successo con Albertini nel 2001 e con la Moratti nel 2006”. Ma Albertini “prese 499.020 voti, più di quanti hanno votato a Milano” alle ultime Amministrative (491.126), “e oltre 224 mila voti più di Sala”. Anche “Moratti ne prese quasi 80 mila più di Sala: 353.862”. E “Formentini nel 1993 prese al primo turno 346.537 voti, Pisapia sempre al primo turno ne prese 315.862, oltre 41 mila più di Sala”. Di fronte a un “centrodestra inesistente”, ragiona Corbani, Sala ha “pescato voti nel centrodestra, che sarebbe buona cosa in sé, se non fosse per l’ambiguità della sua amministrazione, disattenta al patrimonio pubblico e aperta in maniera esagerata agli immobiliaristi privati”. Insomma, l’unico vero “risultato storico”, conclude Corbani, è che “un milanese su due non è andato a votare” e che Sala “è stato eletto da un quarto dell’elettorato. Un sindaco avveduto dovrebbe tenerne conto, poiché non è vero, in politica, che l’assente ha sempre torto”.

La seconda riflessione da fare è che Sala è completamente senza opposizione. Gestirà in modalità bonapartista l’impiego dei milioni del Pnrr che pioveranno su Milano. Sui grandi affari e progetti urbanistici in corso, dagli scali ferroviari alle Olimpiadi, il centrodestra sarà d’accordo con lui o comunque ininfluente. È sparita invece l’opposizione vera, che poteva condizionare o almeno controllare e moderare le sue scelte. Non ci sono più a Palazzo Marino Basilio Rizzo e la sua lista Milano in Comune. Estinti i Cinquestelle. Annientata dal voto anche la sinistra interna allo schieramento di Sala, quella di Milano Unita. Fuori anche David Gentili, dem critico e ottimo presidente della Commissione comunale antimafia. Escluso dalla giunta un altro consigliere che ha fatto l’errore di farsi notare per le sue scelte critiche, Carlo Monguzzi, che dal Pd si era trasferito per le elezioni nelle liste dei Verdi, ma nonostante le preferenze raccolte (1.276) è stato bruciato come assessore all’Ambiente da Elena Grandi (donna, che però di preferenze ne ha raccolte solo 737).

Fuori dal cruciale assessorato all’Urbanistica anche Pierfrancesco Maran, punito con la delega a rischio fallimento sulle periferie, perché comunque autonomo ed estraneo al cerchio magico del sindaco. L’Urbanistica sarà gestita direttamente da Sala, attraverso Giancarlo Tancredi, dirigente del Comune e suo sottoposto fin dai tempi in cui il sindaco era city manager di Letizia Moratti. Premiati invece personaggi come Alessia Cappello, renziana di stretta osservanza, catapultata all’assessorato del Lavoro e Sviluppo economico. E allora: farà bene a Milano il bonapartismo di Sala alimentato da una corte di yesmen (e yeswomen)? Chi ha a cuore la salute democratica della città può cominciare a dubitarlo.

 

Salario minimo, Draghi non può più nascondersi

Si sta avvicinando il momento della verità sulle vere intenzioni del governo Draghi e sopratutto del suo capo nella materia sociale e del lavoro, perché molti sono gli appuntamenti finora rinviati e trascurati anche se – speriamo – non del tutto abbandonati.

Il primo, di straordinaria importanza e che sarebbe imposto tra l’altro dallo stesso dovere di ricezione delle direttive europee riguarda l’introduzione del salario minimo legale, è previsto dalla proposta di direttiva n. 682/2020 del 28.10.2020.

Crediamo sia giunta l’ora di dire con la massima chiarezza che non è lecito né dignitoso da parte dei politici e anche di alcune organizzazioni sindacali, nascondersi dietro l’alibi del “pericolo per la contrattazione collettiva” che l’introduzione del salario minimo legale comporterebbe.

L’argomento costitutivo dell’alibi è in sé semplice e facilmente divulgabile: se un livello salariale sotto il quale non si può scendere (es. 9 euro l’ora) è imposto dalla legge, allora le imprese non avranno più interesse a concludere contratti collettivi con le organizzazioni sindacali e la contrattazione collettiva finirà col deperire, con gravissimo danno per il mercato del lavoro, perché il salario minimo legale è un valore unico per tutti i lavoratori mentre i contratti collettivi stabiliscono opportunamente retribuzioni differenziate per qualifiche e professionalità.

Si tratta di pura ipocrisia o pessima informazione perché è perfettamente possibile invece attribuire per legge una efficacia generalizzata ai contratti collettivi e al loro ventaglio di paga per qualifiche e contemporaneamente fissare un salario minimo, che dovrà valere come “ruota di scorta” per le qualifiche più basse, nel caso che la contrattazione collettiva, in certi settori “poveri”, le abbia eccessivamente penalizzate o nel caso – in Italia solo teorico – che vi siano settori economici marginali, o al contrario estremamente innovativi, ancora non coperti da contrattazione collettiva.

Ciò che irrita e francamente dispiace nel sentire la riproposizione di quel vecchio alibi è che un progetto di legge adeguato il quale, appunto, da un lato, estende a tutti i valori fissati dalla contrattazione collettiva per le diverse qualifiche in ogni settore e, dall’altro, fissa (in 9 euro) il valore della “ruota di scorta” del salario minimo è già in Parlamento, presentato a suo tempo al Senato dall’ex ministro del Lavoro on. Catalfo (M5S) come progetto 658/2018.

Secondo questo progetto viene anzitutto completamente valorizzato l’art. 36 Cost. con la fissazione del principio per cui ogni lavoratore ha diritto a un trattamento retributivo “non inferiore” a quello previsto dal Ccnl in vigore per il settore e la zona nei quali egli lavora. A ciò si aggiunge poi, appunto, il salario minimo legale che costituisce un “pavimento” assoluto.

Va notato che il progetto Catalfo en passant realizza anche quella “legificazione” delle regole in tema di rappresentanza sindacale da molti anni giustamente invocata dal segretario Cgil, Maurizio Landini, perché il trattamento dovuto è appunto quello stabilito dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative ai sensi dell’accordo Confindustria-Oss del 10 gennaio 2014, con rigetto ed eliminazione pertanto dei c.d. “contratti pirata”.

Di chi è, dunque, la colpa se questo progetto non è ancora diventato legge?

E anzi riemergono vecchi alibi e bugie e non solo dalla destra, ma anche da esponenti importanti del Pd il quale, va ricordato, ha nella Commissione parlamentare lavoro una forte presenza, ma – “diversi esempi lo dimostrano” – scarsissima volontà di tutelare i lavoratori. Stiamo pensando al problema delle delocalizzazioni, degli appalti di mera manodopera, delle false cooperative, del precariato ormai senza limiti e della stessa riforma degli ammortizzatori sociali.

Qualcuno potrebbe dire che siamo in una fase politica in cui l’iniziativa legislativa è in mano non tanto al Parlamento quanto piuttosto al governo e segnatamente al capo del governo.

E allora pensiamo sarebbe opportuno dedicare almeno ai temi sopra ricordati le precisazioni e le messe in guardia per ognuno necessarie così come ora fatto per il salario minimo legale, perché da ognuno di quei fondamentali temi non si sfugga con questo o quel pretesto.

Diceva in un film Woody Allen con una battuta divenuta famosa “Vi tengo sotto giro” e in Guerra e Pace, il giovane principe al contadino tentato di dare una mano ai francesi antifeudali, “Ti vedo da parte a parte, fino a mezzo metro sotto terra”.

 

*Già ordinario di Diritto del lavoro – Università di Ancona

 

Il valzer della pasticca, le statue vendute a Hitler e il fattaccio Touring club

E ora, per la serie “La pasticca contro l’ipertensione cura l’ipertensione ma come effetto collaterale dà l’impotenza la pasticca contro l’impotenza cura l’impotenza ma come effetto collaterale dà la calvizie la pasticca contro la calvizie cura la calvizie ma come effetto collaterale dà l’ipertensione e si ricomincia le tre pasticche le fa la stessa multinazionale farmaceutica questo è genio”, la posta della settimana.

 

Caro Daniele, qual è la tua opinione sulla cancel culture e sul dibattito che ha scatenato? (Marco D’Amico, Parma)

 

Il web è pieno di ronde che vogliono bandire da Shinbone chi non la pensa come loro e premono sullo sceriffo perché si attivi in tal senso, invece di dargli una mano a catturare Liberty Valance e a condannare i disonesti allevatori di bestiame che lo proteggono. C’è chi vorrebbe rimuovere libri dalle biblioteche e statue dalle piazze se vengono da un passato razzista, o se i loro autori hanno militato, con parole o altri atti, contro i diritti delle minoranze, la parità di genere e il politicamente corretto. La polemica più recente è di una settimana fa e riguarda le sculture americane di Jean Paul Jennewein: sono alla Casa Bianca, al Campidoglio e al ministero della Giustizia. Anche una dozzina di monumenti ai caduti Usa sono di Jennewein. Si è scoperto che Jennewein, nato a Stoccarda nel 1890, ma naturalizzato americano (viveva a New York), era uno scultore famoso e apprezzato nel Terzo Reich: espose con entusiasmo alla Grande Mostra di Arte Germanica nel 1937, mentre in una sala poco distante l’arte moderna veniva dichiarata “arte degenerata”, e i suoi autori (fra cui Chagall, Feininger, Grosz, Kandinsky, Kirchner, Klee, Mondrian, Nolde, Van Gogh) venivano additati al ludibrio pubblico. Jennewein esibì le sue opere alla mostra di Monaco anche nel 1938 e 1939; ne vendette tre a Hitler; e foto dei suoi lavori furono pubblicate sulla rivista ufficiale del partito nazista, NS-Frauen-Warte (bit.ly/3BFOT68). La notizia pare non avrà conseguenze; ma è così illegittimo chiedere che quelle opere, ora imbarazzanti, vengano rimosse da quei luoghi prestigiosi e messe in un museo che le contestualizzi? I tempi cambiano: oggi nessuna raccolta di barzellette, negli Usa, contiene quelle razziste che il secolo scorso avevano l’onore di un capitolo dedicato. Fra chi si oppone alla “cancel culture” c’è chi usa questa etichetta dispregiativa per poter dire l’indicibile senza pagare dazio. Un anno fa, il mensile Harper’s pubblicò una lettera contro la cultura della cancellazione. Era firmata da intellettuali come Noam Chomsky, e artisti come Salman Rushdie e Margaret Atwood. Purtroppo, nel mucchio c’era anche J.K. Rowling, l’autrice di Harry Potter che era stata investita da un’ondata di biasimo web per via delle sue reiterate opinioni transfobiche. La Rowling ha il diritto di non essere criticata quando scrive cazzate, che diventano pericolose se veicolate da un account con 14 milioni di follower? Fra i firmatari della lettera di Harper’s c’erano pure David Frum, già speechwriter di George W. Bush, e Bari Weiss, una giornalista che sostiene di essere stata costretta a dimettersi dal New York Times perché conservatrice, e taccia spesso di antisemitismo chi non la pensa come lei. Possibile che siano ipocriti? Sì. È legittimo usare il web per organizzare linciaggi? No. Ma ben venga il dibattito. Una volta un amico mi disse che la nuova moglie di suo padre assomigliava a una prostituta di Hong Kong. “E che c’è di male?” dissi io. Una sera fu stuprata di gruppo da una sezione locale del Touring Club. All’inizio gridò aiuto. Questo un attimo prima di gridare che ne voleva ancora. È politicamente scorretto essere iscritti al Touring?

 

Manifestazione pro-Cgil giusta, giorno sbagliato

“Mai più fascismi”. Che tutta l’Italia repubblicana, e con la Costituzione nel cuore, si stringa intorno alla Cgil e al sindacato è la risposta più forte e più giusta all’assalto squadrista di sabato scorso. Però, tenere la manifestazione proprio domani, giorno di silenzio elettorale – vigilia dei ballottaggi anche e soprattutto a Roma – suscita delle perplessità che è giusto sottoporre al giudizio dei lettori. Convocata sull’onda dell’emozione e della rabbia, davanti alla devastazione della sede di Corso d’Italia, l’esigenza di non lasciare spazio e tempo ai nemici della democrazia era più che comprensibile. Ci chiediamo tuttavia se la coincidenza tra un evento di grande impatto ideale e l’accusa di volerlo strumentalizzare a fini politici sia stata valutata appieno. Cosa ha impedito allora di procrastinare l’appuntamento di qualche giorno onde evitare che la destra leghista e di Fratelli d’Italia, dalla lunga e qualche volta nera coda di paglia, potesse precostituirsi un alibi per non partecipare? Spostare la data non sarebbe stata l’occasione giusta per smascherare l’ambiguità di chi non rinuncia a pescare nel purtroppo ancora vasto serbatoio di voti fascisti? Ecco allora che Salvini, Meloni e Tajani (nella parte dell’ostaggio compiacente) non avrebbero avuto più scuse per non stare lì, a San Giovanni, insieme a tutte le forze che si riconoscono nella Carta nata dalla Resistenza. Perché il punto è proprio questo: la difficoltà, e forse anche l’impossibilità, per costoro di dichiararsi antifascisti. Se e quando questa espressione viene ritenuta uno strappo con le proprie radici e il proprio infausto passato. Un vero peccato consentire l’accusa di uso politico di una piazza a chi non si vergogna di fare uso politico delle peggiori piazze No vax e No pass. Ma, evidentemente, ci sono ragioni che ci sfuggono. Comunque, buona manifestazione.

Regeni, altro schiaffo. Il processo è sospeso, si torna al Gup: 007 egiziani accontentati

Colpo di scena nell’aula bunker di Rebibbia. Il processo sulla morte di Giulio Regeni torna al gup, il giudice per le indagini preliminari, che nel maggio scorso aveva disposto il rinvio a giudizio per i quattro 007 egiziani accusati dalla Procura di Roma di aver torturato e ucciso il ricercatore italiano. Anzi. La decisione è stata presa nella tarda serata di ieri dai giudici, al termine della prima udienza. Di fatto è sospeso, anche se, tecnicamente, il processo non si è bloccato. Ma serve una nuova decisione da parte del gup sul tema della corretta informazione degli imputati che – è la tesi degli avvocati difensori – potrebbero non essere a conoscenza delle accuse avanzate da Roma. Per questo verrà imposto agli inquirenti di effettuare nuove ricerche, comprese elezioni di domicilio, per far rendere effettiva la conoscenza agli imputati dell’esistenza del procedimento. “Bisogna essere certi che il processo non avvenga a loro insaputa”, è stato detto dal collegio giudicante.

Di certo, si tratta di una dura battuta d’arresto. Come specificato dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, che dal 2016 conduce le difficili indagini, l’Egitto non sempre ha dato esito positivo alle rogatorie italiane: su ben 64 richieste inoltrate, ben 39 non hanno avuto risposta. Da quando c’è stata la richiesta di rinvio a giudizio per il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif – tutti in forza alla National Security del Cairo – l’indagine è stata pubblicizzata anche dai media arabi in tutti i modi, rendendo visibili i nomi degli indagati.

Durante il suo intervento in aula, il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco aveva affermato che i quattro imputati “o non sanno che c’è il processo a loro carico qui in Italia oppure sperano che il processo si blocchi e vogliono dunque sottrarsi in questo modo. Queste sono le due opzioni: o non sanno, sono inconsapevoli o sono dei ‘finti inconsapevoli’. La questione dell’assenza degli imputati è già stata affrontata dal giudice dell’indagine preliminare che ha ritenuto come l’assenza non dovesse bloccare il processo. Siete chiamati a decidere su questo”. Colaiocco ha ricordato anche che “l’imputato ha diritto ad avere tutte le notifiche del processo ma anche il dovere di eleggere il proprio domicilio”. “Abbiamo fatto quanto umanamente possibile. Credo che le notifiche siano corrette e che l’Italia abbia fatto di tutto”, ha ripetuto il pubblico ministero.