Il fronte energia diventa sempre più caldo. Il gas naturale europeo torna sopra la soglia dei 100 euro a megawattora, il Brent (che funge da riferimento per i mercati europei) è salito dell’1,3% sopra gli 84 dollari al barile e al distributore i prezzi continuano a salire con la benzina a 1,728 euro e il diesel a 1,588 euro. In questo scenario, dove in tutta Europa si devono fare i conti anche delle bollette, a muoversi sono gli ad di diverse compagnie energetiche europee, tra cui Enel, Orsted, Vattenfall ed EDP, che hanno inviato una lettera indirizzata a Commissione Ue e Stati membri, lanciando un avvertimento contro le “misure politiche miopi” che rischiano di minare la fiducia del mercato e ostacolare la transizione verde. Lo riferisce il Financial Times. Nel mirino c’è la tassa sui “profitti eccessivi” introdotta dalla Spagna che prevede un prelievo sui fondi dalle utility che beneficiano dell’impatto del gas sul prezzo dell’elettricità senza supportare costi del gas corrispondenti. Un prelievo che secondo gli ad potrebbe costare alle società coinvolte più di 5,5 miliardi di euro.
Whirlpool-Napoli, oggi la decisione sui licenziamenti
Una riunione fiume per l’ultimo disperato tentativo di rinviare i 330 licenziamenti alla Whirlpool di Napoli e prendere tempo per far partire i progetti di reindustrializzazione. Ieri sera non si è registrato alcun avanzamento nella trattativa: al tavolo convocato al ministero dello Sviluppo economico, presieduto dalla viceministra Alessandra Todde, la multinazionale è rimasta ferma nel voler licenziare tutti nella giornata di oggi (data di chiusura della procedura). Questa mattina il tavolo si aggiorna con i ministri del Lavoro e del Mise, Orlando e Giorgetti. Circa 200 lavoratori, con Fiom, Fim e Uilm, hanno atteso l’esito della riunione tenendo un presidio in Via Veneto. La fuga della Whirlpool da Napoli, annunciata due anni e mezzo fa, non è più in discussione, ma all’azienda viene chiesto di usare altra Cig e posticipare i licenziamenti così da agevolare il piano del governo che vede coinvolte diverse aziende pronte a subentrare; l’intransigenza mostrata dai vertici Whirlpool rischia ora di ostacolarlo.
“La Fininvest ha finanziato Cosa Nostra”: per la Cassazione scriverlo è corretto
Avevano ragione gli autori del libro Colletti sporchi e torto la Fininvest. Nessuna diffamazione è stata commessa ai danni della società di Silvio Berlusconi. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione: dopo un processo durato sette anni e dopo sentenze d’assoluzione già in primo grado e in appello, la Suprema corte ha respinto anche il ricorso finale della Fininvest contro il magistrato Luca Tescaroli (in foto), il giornalista Ferruccio Pinotti e la loro casa editrice, la Rcs Libri, accusati di diffamazione.
Nel libro Colletti sporchi avevano “evocato il coinvolgimento di Fininvest nel riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa”. Avevano riferito le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Salvatore Cancemi, che riferiva di “versamenti periodici di somme a titolo di contributo effettuati a Cosa nostra da persone fisiche appartenenti al gruppo Fininvest”. Avevano sostenuto l’esistenza di “rapporti con i vertici della Fininvest” intrattenuti dal vertice dell’organizzazione mafiosa siciliana, contatti che “Totò Riina si era attivato per coltivare personalmente”. E avevano in definitiva affermato “la commistione della Fininvest con la mafia”.
Secondo quanto rivelato da Cancemi nel processo sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, “appartenenti al Gruppo Fininvest versavano periodicamente 200 milioni di lire a titolo di contributo a Cosa Nostra”. Infatti “Riina si era attivato, dagli anni 1990-91, per coltivare direttamente (…) i rapporti con i vertici della Fininvest tramite Craxi”. E “Riina, nel 1991, aveva riferito” a Cancemi “che Berlusconi e (…) Marcello Dell’Utri erano interessati ad acquistare la zona vecchia di Palermo e che lui stesso (Riina) si sarebbe occupato dell’affare, avendo i due personaggi ‘nelle mani’”.
La Cassazione ha ora effettuato la “verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie”, nonché “della congruità e logicità della motivazione”. Al termine di questo esame, ha respinto il ricorso della Fininvest e l’ha condannata a pagare le spese. Scrivere che la società di Berlusconi ha pagato Cosa nostra ed è stata in rapporti con la mafia si può.
“Senza l’incontro con Arcuri, l’accordo con Di Donna salta”
Un messaggio whatsappchiarisce meglio l’innesco del rapporto tra la struttura del Commissario all’emergenza Covid Domenico Arcuri e l’imprenditore Giovanni Buini. Questo 35enne umbro è l’uomo che si presenta davanti ai magistrati romani e di fatto mette nei guai il professore e avvocato Luca Di Donna e il suo collega Gianluca Esposito, indagati per associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze illecite con il collega Valerio De Luca, per altri fatti.
Nella sua versione dei fatti, che ha portato poi all’iscrizione sul registro di Esposito e De Luca, Buini si descrive come un imprenditore che voleva assistenza legale dai due avvocati e che – dopo due incontri con Esposito e Di Donna – interrompe il rapporto con i legali. Nella seconda riunione a Studio Alpa, Buini era stato ricevuto da Luca Di Donna in compagnia di un generale dei servizi segreti, Enrico Tedeschi, capo gabinetto dell’Aise (estraneo alle indagini). A quel punto Buini, d’accordo con il suo amico Mattia Fella, non ci vede chiaro e decide di revocare il mandato. Segue la chiusura del rapporto con la struttura del Commissario all’emergenza Covid.
Centrale in questa ricostruzione di Buini è il ruolo dell’amico che lo aveva consigliato di andare a parlare con l’avvocato Esposito, cioé l’imprenditore Mattia Fella. Un messaggio whatsapp spedito da Fella all’avvocato Esposito non sembra però molto coerente con la versione che vede nell’imprenditore umbro una sorta di agnellino che si smarrisce nella Roma tentatrice tra avvocati e 007. Lo scambio su whatsapp è del 7 maggio 2020, dopo la revoca del mandato da parte di Buini. L’avvocato Esposito scrive a Fella: “Caro Mattia mi dispiace molto quello che avete fatto. Non si agisce così. Peraltro senza farmi neanche una telefonata, a buon rendere”.
Fella risponde così: “Ti avrei chiamato oggi, qui sono le 6 e 30 del mattino (era all’estero, Ndr) non mi pare di aver fatto niente di strano mandando una revoca ad un mandato che non ha senso. Mi pare di essere stato estremamente chiaro. Quello che ti avevo chiesto è un appuntamento con Arcuri. Giovanni (Buini, Ndr) è venuto due volte da Perugia a Roma e non è accaduto niente di quello per cui ci eravamo parlati. Ti ho telefonato e ti ho detto che a questo punto avremmo trovato altra strada. Mi sembra logico e corretto mandare la revoca di un mandato che con tanta fretta vi siete fatti firmare senza peraltro rilasciare nemmeno una copia. Mi dispiace Gianluca sono io che ti dico che non si agisce così”.
Secondo i Carabinieri di Roma “la ricostruzione della vicenda da parte di Buini Giovanni (e di Fella Mattia) sia stata in qualche modo addomesticata, nel tentativo (del Buini) di segnalare la cosa all’autorità senza però compromettere la sua posizione e evitando di mettere in risalto le sue responsabilità penali, che, a parere di questa Polizia Giudiziaria, comunque sussistono”. I pm romani invece hanno ritenuto che Buini sia un testimone, dunque senza responsabilità penale. I Carabinieri aggiungono: “Si può affermare che il Buini è ricorso all’Esposito e gli ha assegnato la consulenza (come al Di Donna) al fine di ottenere un contatto con il capo della Struttura Commissariale”. Cioé per i Carabinieri lo scopo non era una consulenza legale qualunque ma ottenere il contatto con Arcuri (non indagato). Proseguono i carabinieri segnalando il timing dell’avvicinamento ai due legali finalizzato all’aggancio di Arcuri: “nel momento in cui (Buini, Ndr) stava cercando di ottenere l’attribuzione di una commessa dalla stessa Struttura Commissariale, che ha poi effettivamente ottenuto ma che, nello stesso momento in cui annullava la consulenza affidata ai due legali, gli è stata strappata”. Buini racconta che il 30 aprile 2020 quando Esposito gli presenta Di Donna “alla sua presenza e per farmi comprendere chi avevo di fronte mi fece leggere un articolo di stampa che cercò su internet in cui il Di Donna era dipinto come un ‘fedelissimo’ del capo del Governo Conte. (…)Esposito mi disse che lui e Di Donna, qualora ce ne fosse stato bisogno, avrebbero potuto agevolarmi o crearmi delle opportunità di lavoro con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sempre facendo riferimento alla vicinanza del Di Donna al Presidente del Consiglio”.
La cronologia in questa storia è importante. Domenico Arcuri effettivamente entra in contatto con Buini ma, come è ormai noto, ciò avviene grazie a Guido Bertolaso. L’ex capo della Protezione Civile conosce da anni l’imprenditore umbro e chiama Arcuri per dirgli che il suo amico diceva di potere offrire mascherine nel momento della massima difficoltà a reperire dispositivi di protezione.
Il 5 maggio intorno alle 19 Buini scrive una mail a Arcuri nella quale gli ricorda la presentazione di Bertolaso. Arcuri mette via mail Buini in contatto con gli uffici preposti. Poi però l’11 maggio 2020 il Commissario all’emergenza comunica che non avrebbe più preso le mascherine offerte da Buini. Nel mezzo ci sono i rapporti burrascosi con i due legali ma anche due ispezioni nell’azienda di Buini. La prima il 6 maggio del Nas e la seconda della Guardia di finanza il 7 maggio. Il problema degli inquirenti è capire se il Commissario abbia deciso di soprassedere all’acquisto dopo le ispezioni nella ditta di Buini o per altre ragioni.
Tra le carte depositate dai pm nell’inchiesta ci sono anche i fotogrammi della videosorveglianza dello studio legale di Largo Benedetto Cairoli a Roma. La sera del 28 settembre quando Maurizio Belpietro anticipa in tv la notizia dell’indagine su Di Donna pubblicata su Panorama in edicola sono le 21 e 10 del 27 settembre. Di Donna era in ufficio. L’avvocato rimase nel suo studio fino a tardi. Esce solo all’una e 51 minuti del 28. Gli investigatori annotano che una donna esce dal palazzo due volte quella notte. La prima volta a mezzanotte e 43 minuti “esce dal portone dell’edificio ove si trova lo studio e rientra un minuto dopo, come se avesse fatto un giro di perlustrazione. All’ora 1 e 18 minuti, la stessa donna, che si identifica verosimilmente nell’avvocato M.C.M. esce dal portone dell’edificio con uno scatolone in mano e rientra un minuto dopo, senza lo scatolone”.
L’avvocato M.C.M. è una persona molto vicina a Di Donna. Sentita dal Fatto precisa: “Non ero io. A quell’ora dormivo a casa mia altrove. Penso che gli investigatori, che mi indicano a ben vedere solo ‘verosimilmente’ in quel luogo, abbiano poi accertato che non c’ero”.
Il governo esulta, i “duri” però sono rimasti fermi
Era il 17 aprile quando Mario Draghi parlò di “rischio ragionato” a proposito delle riaperture programmate a partire dal 26 dello stesso mese. Sei mesi dopo, nonostante l’epidemia di variante Delta che ha reso l’estate 2021 certamente non “Covid free” come, seppur illusoriamente, apparve l’estate 2021, si può dire che quel ragionamento fu corretto. Possiamo dire lo stesso a proposito del “rischio ragionato” di introdurre l’obbligo del Green pass prima per i luoghi pubblici e poi nei luoghi di lavoro, con l’intento di dare una spallata decisiva alla campagna vaccinale, ma – contemporaneamente – col rischio (appunto) di esasperare gli animi del “no” incidendo sul diritto al lavoro e relativa retribuzione? La risposta non è semplice e nel mare magnum dei numeri è facile perdersi.
Il governo, alla vigilia dell’entrata dell’obbligo di certificato verde, sembra rispondere affermativamente, almeno secondo un’indiscrezione rilanciata ieri pomeriggio dall’Ansa: “Con l’obbligo di Green pass – si legge – le prime dosi di vaccino sono cresciute del 46%, rispetto al trend atteso in assenza di obbligo. La stima si basa sui dati aggiornati in possesso della struttura commissariale e calcola 559.954 prime dosi in più legate alla certificazione verde. Inoltre, la media dei tamponi giornalieri, da quando è stato introdotto l’obbligo, è tra i 250 mila e i 300 mila. Le rilevazioni sono relative al periodo tra il 16 settembre e il 13 ottobre: senza il Green pass – conclude l’Ansa – le prime dosi attese erano 1.208.272; con l’approvazione dell’obbligo si sono invece registrate 1.768.226 prime somministrazioni”. La struttura commissariale del generale Figliuolo, per il momento, non ha voluto fornire dettagli su queste “stime” che, proprio in quanto stime, sono difficili da valutare in assenza di altri elementi.
Dalla parte opposta del governo si colloca invece il report settimanale della Fondazione Gimbe, secondo cui “la spinta ‘gentile’ del Green pass non ha prodotto i risultati sperati”. L’analisi di Gimbe, come di consueto, si concentra sugli ultimi 7 giorni e segnala, rispetto alla settimana precedente, “un crollo nella somministrazione delle prime dosi, in calo del 23,2% e “incrementi modesti” nelle somministrazioni: “Il numero di vaccinati con almeno una dose – segnala il report – cresce dell’1,2% nelle fasce 20-29 e 30-39, dello 0,9% nelle fasce 12-19 e 40-49, dello 0,7% nella fascia 50-59, mentre negli over 60 l’incremento non supera lo 0,3%”.
La verità, probabilmente, è che il Green pass (come mostra il grafico in alto) ha avuto un certo effetto subito dopo l’estate, ma stenta, per usare un eufemismo, a convincere uno zoccolo duro di milioni di italiani che di vaccinarsi proprio non ne vogliono sapere. Per avere un’idea approssimativa le date da evidenziare sono quattro: 27 luglio (decreto che introduce l’obbligo di pass nei luoghi di ritrovo al chiuso), 6 agosto (entrata in vigore), 21 settembre (introduzione dell’obbligo sul luogo di lavoro) e 14 ottobre (ultimo giorno utile prima dell’entrata in vigore del decreto 21 settembre, oggi). Tra il 27 luglio e il 14 ottobre hanno completato il ciclo vaccinale quasi 13 milioni di italiani e la quota di popolazione vaccinata è passata dal 51,60 al 73,49% (l’80,7% comunicata dal governo è calcolato sulla popolazione over 12). Prendendo in considerazione le sole fasce over 40, quelle cioè che a fine luglio potevano aver già ricevuto anche la seconda dose (e fermandoci ai 70 anni, dal momento che a interessare è l’effetto “obbligo sul lavoro”) l’aumento c’è, ma non è certo vertiginoso: il 27 luglio i 40-49enni non vaccinati erano il 33,83%, oggi sono il 18,52; i 50-59enni erano il 23,68% e oggi sono il 14,24; i 60-69enni senza nemmeno una dose, infine, sono passati dal 16 al 10,81%.
Prendendo in considerazione il periodo 21 settembre-14 ottobre, invece, risultano aver completato la vaccinazione 2.370.950 persone (con la percentuale della popolazione immunizzata passata dal 69,5 al 73,49%), quasi esclusivamente nella fascia sotto i 50 anni. Secondo le “stime” della struttura commissariale, nel periodo 16 settembre-13 ottobre le prime dosi – come detto – sono state 1.768.226, contro le 1.208.272 “attese” (sulla base di criteri che, ripetiamo, è difficile valutare).
Fin qui solo alcuni dei freddi numeri che, a seconda della propria opinione sull’obbligatorietà del Green pass al lavoro, si possono più o meno facilmente tirare da una parte o dall’altra. Quel che è difficile negare è che i vaccini funzionano e senza, probabilmente, saremmo di nuovo chiusi in casa. L’estate della variante Delta è stata apparentemente peggiore dell’estate 2020, l’autunno sta invertendo i fattori: “Il picco della seconda marea – spiega Nino Caltabellotta, presidente di Gimbe – 805 mila positivi a metà novembre 2020, stavolta si è fermato a 99 mila casi a inizio settembre. La quarta ondata è un’ondina”.
Non si vive di solo pass al lavoro. L’Europa non segue il lodo Draghi
Nessun altro Paese d’Europa (e del mondo, fatta eccezione per l’Arabia Saudita) si è spinto come l’Italia a rendere obbligatorio il Green pass anche per i lavoratori del settore privato. Ma certificati e restrizioni per chi non ha voluto vaccinarsi non mancano
Germania
Tamponi gratis solo ai vaccinati
Qui oltre tre milioni di ultrasessantenni non sono vaccinati. E solo il 65% dei tedeschi è completamente immunizzato. Da mesi il governo tenta di aumentare la pressione e spingere più cittadini a completare il ciclo. L’ultima stretta, da inizio novembre, quando non verrà più corrisposta l’indennità di quarantena, ma solo per i non vaccinati. A oggi sia dipendenti sia autonomi vengono risarciti dallo Stato per i giorni passati in quarantena.
Non c’è, invece, un Green pass per i lavoratori a livello federale. Ogni Land decide in autonomia e i singoli datori di lavoro possono imporre livelli diversi di certificazione per accedere agli uffici. Fino a lunedì scorso ogni residente aveva diritto a un test rapido gratuito al giorno, adesso i non vaccinati lo pagano dai 10 ai 40 euro. Inoltre è in atto un rapido cambio dei requisiti per l’accesso a eventi sociali. La regola delle 3G (geimpft, genesen, getestet – vaccinato, guarito, testato) sta lasciando posto alle 2G, il test non è più considerato sufficiente. Le nuove disposizioni si applicano a ristoranti, cinema, palestre, teatri, ma il caso più emblematico è quello dei club berlinesi riaperti a inizio mese solo per i vaccinati. Lunedì, per gli studenti, sono iniziate le due settimane di vacanza autunnale. Molti sono andati all’estero, soprattutto in Spagna.
Le immagini dell’assalto alla Cgil a Roma sono state trasmesse e abbondantemente commentate dai media tedeschi. In Germania il movimento No Vax ha organizzato decine di manifestazioni, quasi sempre non autorizzate. Più volte ci sono stati scontri con la polizia e persino un tentativo, nell’estate del 2020, di assalto al Bundestag. Stefan Bauer, uno dei leader No Vax, è stato espulso dal partito neonazista AfD per le sue idee troppo estremiste.
Regno Unito
Niente certificato, siamo inglesi
La notizia dell’obbligo di Green pass in Italia è stata riportata dalla stampa britannica come la misura più severa in Europa. Un aut aut impensabile nel Regno Unito. Queste le indicazioni per i lavoratori in GB: viene ribadito che il vaccino non è obbligatorio e la valutazione del rischio di far rientrare i dipendenti in presenza viene delegata ai datori di lavoro, a cui si raccomanda di incoraggiare il personale a vaccinarsi ma nel rispetto di tutte le opinioni. L’unica eccezione è per i lavoratori delle case di cura: a meno di esenzione medica, dall’11 novembre dovranno provare di aver ricevuto due dosi di siero. Il governo sta valutando se estendere l’obbligo a tutto lo staff del sistema sanitario e alle professioni di cura, ma i tamponi restano per ora gratuiti. Il progetto di Green pass per locali, ristoranti o luoghi di svago al chiuso, annunciato per ottobre, è stato accantonato dopo l’insurrezione degli esercenti.
I dati sono tutti in aumento rispetto alla scorsa settimana: ieri positivi oltre 45 mila, +13%; decessi 157, +9%; ricoveri 719, +5.8%. Vaccinato con seconda dose il 78.7% della popolazione, compresi i 16-17enni e gli ultra dodicenni (solo se vulnerabili). Il governo monitora costantemente il rifiuto del vaccino, per ora molto minoritario anche se c’è qualche episodio di aggressività contro giornalisti o insegnanti.
Francia
Stato di emergenza fino al 31 luglio 2022
In Francia il pass sanitaire non riguarda tutti i lavoratori. È diventato obbligatorio, dal 30 agosto solo per chi lavora nelle strutture dove è richiesto anche al pubblico, quindi bar e ristoranti, musei e cinema, biblioteche e palestre, ospedali e trasporti a lunga percorrenza. Chi non è in regola, rischia la sospensione e il taglio dello stipendio. Il pass è in vigore fino al 15 novembre, ma probabilmente sarà prolungato, come previsto dal progetto di legge per estendere lo stato di emergenza fino al 31 luglio 2022.
Anche se la situazione sanitaria migliora, la Francia conta ancora oltre cinquemila contagi al giorno. Da oggi i tamponi, che sono stati sempre gratuiti, diventano a pagamento, ma solo per i non vaccinati e senza ricetta medica. Il costo è di 43 euro per i molecolari, mentre per gli antigenici si varia tra 22 e 30 euro. Più di 50 milioni di francesi hanno ricevuto almeno una dose di vaccino e un milione e mezzo di over 65 ha fatto anche la terza.
Spagna
L’isola felice degli “anti” ininfluenti
Con oltre l’80% della popolazione vaccinata, quasi il 90% se si considerano solo i maggiori di 12 anni, la Spagna si è lasciata alle spalle le misure restrittive contro la pandemia. Rimangono solo le mascherine. Bar, ristoranti, cinema, teatri, discoteche nessun esercizio commerciale chiede alcuna certificazione. Non c’è obbligo vaccinale, né Green pass. Il governo madrileno ha revocato lo stato di emergenza e ha lasciato libertà alle singole regioni di decidere tempi, riaperture e limitazioni. A Barcellona, per esempio, a fine agosto il numero di casi settimanali era dieci volte più alto rispetto all’Italia, oggi è tra i più bassi d’Europa e questo fine settimana tutti i locali saranno aperti a piena capienza e senza richiesta di certificazione all’ingresso.
I No Vax spagnoli, che rappresentano il 4% della popolazione, non hanno voce nel dibattito pubblico. I rappresentati di Vox, il partito di estrema destra, sono gli unici politici a rimanere ambigui sulla vaccinazione. I media spagnoli hanno parlato a settembre del Green pass italiano e francese. Molto interesse, ma a Madrid avevano già deciso che non sarebbe stata quella la strada. Le uniche limitazioni ancora in piedi sono quelle per i turisti: si entra nel Paese solo con vaccinazione completa o doppio test e quarantena.
Danimarca
Liberi tutti (dappertutto)
Da oltre un mese il governo ha ridotto le misure anti-Covid a poche limitazioni. Circa il 75% della popolazione è immunizzata. Non ci sono condizioni per l’accesso a locali pubblici, né tantomeno a luoghi di lavoro. I test sono gratuiti per tutti, anche per i turisti. Sul trasporto pubblico non è necessario indossare la mascherina e non è obbligatoria negli esercizi commerciali a meno che non sia specificatamente richiesta del negozio stesso.
Paesi Bassi
Obbligo per locali ed eventi al chiuso
Nei Paesi Bassi il rapido incremento dei casi fa aumentare il rischio che intere regioni passino da rischio giallo a rosso. Obbligatorie le maschere sui trasporti pubblici e il Green pass per l’accesso a locali o eventi al chiuso, già ridotti al 75% della capienza.
Belgio
Serve, ma solo nel settore pubblico
In Belgio, il Covid Safe Ticket entra in vigore oggi, ma solo a Bruxelles, dove il contagio è in diminuzione (il tasso di riproduzione del virus in città è di 0,92). Il nuovo dispositivo vale solo per il pubblico e non per i lavoratori: chi ha più di 16 anni deve mostrare il Cst per accedere a ristoranti e caffè, musei, palestre e ospedali. Sono previste sanzioni fino a 2.500 euro per i gestori dei locali non in regola. Il Cst non è in vigore nelle Fiandre, mentre sarà esteso in Vallonia dal 1° novembre.
Lupi: “Bernardo la smetta di chieder soldi”
A dieci giorni dalla chiusura delle urne, lo psicodramma interno al centrodestra milanese è tutt’altro che risolto. La disfatta contro Beppe Sala ha lasciato scorie e rancori, veleni che non abbandonano il fu candidato Luca Bernardo, sempre alle prese col fuoco amico: quello di chi gli rinfaccia di “pensare soltanto ai soldi” e quello di chi, come anticipava Repubblica ieri, vorrebbe spingerlo alle dimissioni da consigliere.
Un passo alla volta. La questione dei finanziamenti per la campagna elettorale è vecchia di qualche settimana, cioè da quando Bernardo minacciò la sua coalizione di ritirare la candidatura se non avesse ricevuto i soldi promessi. Negli ultimi giorni si è scoperto, per bocca dello stesso Bernardo, che alla fine soltanto Lega e Fratelli d’Italia avevano onorato l’impegno, mentre Forza Italia e i Popolari di Maurizio Lupi hanno speso denaro solo per le proprie iniziative.
Bernardo, dal canto suo, ha gioco facile nel punzecchiare i partiti morosi, ricordando le loro colpe in una campagna elettorale fallimentare. Ma quest’insistenza non piace affatto a Lupi, che sentito dal Fatto è categorico: “Noi abbiamo sempre detto a Bernardo che avremmo speso soldi solo per la nostra lista e i nostri candidati: lo abbiamo chiarito all’inizio, durante e alla fine della campagna. Il nostro aiuto, visto che siamo un piccolo partito, era quello portare più voti possibili, e mi pare che nel disastro generale il nostro 2 per cento non sia male”. Quando gli facciamo notare che i mancati finanziamenti sembrano essere una ferita aperta per il pediatra, i toni si fanno più accesi: “È la prima volta che vedo un aspirante sindaco che si candida a condizione che i partiti gli paghino la campagna elettorale”. E ancora: “È vero che Bernardo non è un politico, ma qualcosa deve imparare. La politica è passione e significa mettersi al servizio del cittadino, non è aspettare sempre che qualcuno ti paghi”.
C’è poi l’incognita sul futuro, anche se Bernardo sembra avere le idee chiare: come ha annunciato fin dal giorno delle elezioni, sua intenzione è restare cinque anni in Consiglio comunale sedendo nei banchi dell’opposizione. Tanto è vero che in questi giorni si sta attivando con alcuni funzionari del comune di Milano per ottenere gli uffici e organizzare uno staff, assicurando a tutti di voler mantenere la parola data. Un progetto che, secondo Repubblica, la coalizione di centrodestra vorrebbe stroncare sul nascere, favorendo le sue dimissioni entro l’anno in modo che non sia Bernardo il volto e la guida dell’opposizione a Sala. L’indiscrezione però, sibila una fonte milanese di centrodestra, risponderebbe più al desiderio di qualche consigliere vendicativo piuttosto che al volere dei vertici dei partiti. I quali, per il momento, smentiscono di aver chiesto alcunché al pediatra. Meglio procedere un guaio alla volta.
Lega, la rincorsa disperata per “riprendersi” Varese
Persa (e in malo modo) Milano al primo turno, in Lombardia il centrodestra (e soprattutto la Lega) punta tutto su Varese. Oggi Matteo Salvini tornerà – per la quarta volta dall’inizio della campagna elettorale – in questa città simbolo del Carroccio, da cui provengono figure apicali del partito di ieri e di oggi come Giorgetti, Fontana (che di Varese è stato sindaco dal 2006 al 2016), Bossi e Maroni. La strada per la conquista di Palazzo Estense però si preannuncia in salita: al ballottaggio il deputato della Lega Matteo Bianchi, appoggiato da tutto il centrodestra, dovrà vedersela con il sindaco uscente Davide Galimberti (centrosinistra); e nonostante i proclami di Matteo Salvini (che proprio sul palco di Varese il 18 settembre aveva detto “Se qui non vinciamo al primo turno mi incazzo”) è proprio Galimberti ad avere più chance di vittoria, avendola già sfiorata il 4 ottobre, quando è arrivato al 48%, contro il 44,9 di Bianchi.
Galimberti segue lo “schema Letta”, una coalizione che va dal Movimento 5 Stelle ai centristi di +Europa e Italia Viva, e costituisce un unicum nel Nord Italia: a Torino, Milano, Novara e Trieste infatti centrosinistra e M5S si sono presentati divisi. Una sua vittoria, quindi, confermerebbe che la strada tracciata dal segretario del Pd (che ha già dato i suoi frutti con le vittorie al primo turno a Napoli e Bologna, oltre che nelle Suppletive di Siena) è quella giusta, e getterebbe le basi per la costruzione del Nuovo Ulivo, con l’obiettivo di contendere la premiership a Meloni e Salvini nel 2023.
Per la Lega Varese rappresenta un’elezione cruciale, dato il momento tutt’altro che brillante che sta vivendo il partito, tra lo scandalo Morisi, le divisioni interne scaturite in seguito all’ingresso nel governo Draghi e il conseguente travaso dei consensi a favore di Fratelli d’Italia.
Non è un caso se Salvini ha dedicato al capoluogo insubre quattro tappe del suo tour elettorale. Il segretario sotto attacco, portando alla vittoria il suo candidato, strapperebbe un capoluogo al Pd e laverebbe l’onta del 2016, quando proprio Galimberti sconfisse al ballottaggio il candidato leghista Paolo Orrigoni (che aveva sfiorato la vittoria al primo turno) e mise fine a 23 anni dominio incontrastato leghista, che dal dopo Tangentopoli aveva sempre amministrato la città, prima con Raimondo Fassa, poi con Aldo Fumagalli e nell’ultimo decennio con il futuro presidente della regione Attilio Fontana. I dirigenti del Carroccio hanno sempre visto come un incidente di percorso quanto successo cinque anni fa (l’exploit della “Lega Civica” di Stefano Malerba sbarrò la strada all’affermazione di Orrigoni al primo turno) ed erano pronti a riprendere il controllo della città, candidando un pezzo da novanta come Roberto Maroni.
Ma i problemi di salute dell’ex ministro e presidente della Regione hanno costretto “Bobo” a dare forfait a inizio giugno. La Lega e tutto il centrodestra hanno così optato per la candidatura di Matteo Bianchi, giovane deputato del Carroccio e già sindaco di Morazzone, piccolo paese nei dintorni del capoluogo. Bianchi rappresenta (allo stesso modo di Fedriga in Friuli) quella “terza via” di leghisti che apprezzano la svolta nazionale del partito impressa da Salvini, senza però rinunciare a rappresentare il nucleo storico dell’elettorato della vecchia Lega Nord, composto da piccoli e medi imprenditori del nord Italia, che spingono per una maggiore autonomia delle regioni settentrionali. Il 18 settembre a sostenere Bianchi sul palco di Varese c’erano sia Salvini sia Giancarlo Giorgetti, un caso più unico che raro.
I risultati elettorali per ora non sembrano averlo granché premiato: il candidato del centrodestra si ritrova costretto a inseguire lo sfidante con più di tre punti di distacco, e la lista della Lega al primo turno ha raccolto poco il 14%, in calo di più di 2 punti rispetto al 2016 (quando Orrigoni si presentava con 7 liste a sostegno al posto delle 5 di Bianchi, e doveva fare i conti con la Lega civica di Malerba) e di oltre 10 punti rispetto al 2011, l’anno della rielezione di Fontana e nell’era d’oro della Lega Nord di Bossi, prima di essere travolta dagli scandali. Ribaltare l’esito delle elezioni sarà un compito arduo per Bianchi, per questo ieri Salvini ha iniziato a mettere le mani avanti: “Il voto qui a Varese vale solo per Varese. Non mi interessa usarlo per Roma”.
La candidata di Giorgia Meloni e quel link con Castellino e l’ultrà
In principio, Giorgia Meloni non ne ha riconosciuto la matrice. Sull’assalto alla Cgil inizialmente ha affermato: “Non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto. Il punto è che è violenza, è squadrismo e questa roba va combattuta sempre”. Due giorni dopo ha corretto il tiro. “Era Forza Nuova? Era matrice fascista, allora. A Milano invece era matrice anarchica”, ha detto la leader di Fratelli d’Italia, con tanto di solidarietà al segretario del sindacato dei lavoratori.
Eppure a Roma tra i candidati di Fratelli d’Italia c’è chi conserva un link, tramite una onlus del marito, con il mondo di Giuliano Castellino, leader romano di Forza Nuova finito in galera proprio per i fatti della Cgil. Si tratta di Valentina Torresi, candidata di FdI: 960 preferenze, seconda eletta nel XIV municipio (zona Monte Mario-Primavalle), come annuncia lei stessa su Facebook, dove non mancano i selfie con Giorgia Meloni.
La neoeletta è moglie di Paolo Arcivieri, nome noto a Roma, soprattutto nel mondo delle tifoserie: ex leader degli “Irriducibili”, storico gruppo ultras della Lazio. L’anno scorso, il 25 aprile, in pieno lockdown, all’AdnKronos in occasione del giorno della liberazione, Arcivieri dichiarava: “Siamo un popolo di pecoroni e questo lockdown ne è la prova lampante, ci hanno tolto la libertà dalla mattina alla sera e nessuno ha detto niente, nessuno ha fiatato. La gente si dovrebbe vergognare, altro che cantare Bella Ciao dai balconi”. Stadio e politica. E anche associazionismo. Arcivieri è presidente di “Nati per lottare”, una onlus fondata nel 2004 che si occupa dei temi della pedofilia e della violenza contro lo donne e porta avanti molte iniziative per i bambini. Tra i “main partner” della onlus c’è L’Italia mensile, “rivista, webradio e blog di liberazione nazionale”. Questa la descrizione sul sito: “Mensile indipendente e controcorrente. Il pensiero libero vi scorrerà nelle vene e vi disintossicherete da tutta la propaganda quotidiana del pensiero unico”. La rivista è edita della cooperativa editoriale Italia Futura che ha come scopo la promozione di iniziative editoriali. Consigliere del Cda di Italia Futura è proprio Giuliano Castellino, che tra le altre cose, sulla rivista pubblica parecchio. L’ultimo post solo sei giorni fa per il raduno “no Green pass” a Roma sfociato nelle violenze. Abbiamo chiesto a Paolo Arcivieri chiarimenti sui rapporti tra la onlus e la rivista di Castellino. Non abbiamo ottenuto risposta. Abbiamo contattato anche Valentina Torresi, che in realtà non ha voluto ascoltare le nostre domande. Quando però le abbiamo accennato al marito e alla onlus, ha solo aggiunto: “La onlus non ha nulla a che vedere con la mia attività politica e con il mio lavoro, in ogni modo non rilascio interviste”.
La Torresi deve avere però una passione per la Curva Nord. Sulla sua pagina Instagram non mancano le foto con tifosi storici della Lazio, come Alessandro Tonno e Yuri Alviti, anche lui ex leader degli “Irriducibili” (“anche #yuri sostiene noi”, scriveva il 1° settembre).
La neoeletta inoltre non è nuova alle candidature. Era già successo alle Comunali del 2016 quando era nella lista dell’aspirante sindaco Alfredo Iorio, appoggiato proprio da Forza Nuova. Cinque anni dopo, la Torresi ha scelto di correre con Giorgia Meloni. Questo profilo e questo passato potrebbero dunque innescare un’ulteriore polemica all’interno di FdI, come successo in altri casi (ovviamente con parecchie differenze rispetto alla Torresi). Basti pensare al neo consigliere di Trieste, Corrado Tremul (secondo più votato nella lista di FdI) e allo scatto con il braccio teso, o anche alle scene simili andate in onda nell’inchiesta sulla “lobby nera” di Fanpage e al caso di Massimo Robella, eletto al Consiglio della Circoscrizione 6 di Torino, che non ha mancato di ringraziare “i tanti camerati”. Infine la vicenda di Daniele Trabucco rivelata da Domani: nominato a giugno dalla ministra Gelmini tra gli esperti della strategia sulla montagna, secondo il quotidiano è il fondatore di un’associazione “finanziata dai neofascisti”.
La polizia e il “permesso” a Fn: “Così sono arrivati alla Cgil”
C’è un’annotazione della Digos, sventolata da alcuni dei legali dei neofascisti arrestati per l’assalto alla Cgil e l’assedio a Palazzo Chigi, in cui si legge che ai manifestanti “è stato permesso di effettuare un percorso dinamico verso i locali della Cgil, ciò al fine di ottenere un incontro con un rappresentante della suindicata sede sindacale, così come richiesto dal leader romano di Forza Nuova, Giuliano Castellino”. La firmano un vicequestore aggiunto, che si occupa dell’estrema destra, e tre della sua squadra. “Eravamo autorizzati, alla Cgil volevamo fare solo un sit-in”, hanno detto ieri al giudice alcuni degli arrestati, tra i quali i leader nazionale e romano di Forza Nuova, Roberto Fiore, e appunto, Castellino e l’ex Nar ora forzanovista Luigi Aronica detto Er Pantera. Resteranno in carcere per devastazione e saccheggio, reato che prevede fino a 15 anni di pena, insieme ad altri tre tra cui il capo dei ristoratori di “IoApro” Biagio Passaro. La giudice Annalisa Marzano ha accolto le richieste dei pm Gianfederica Dito e Alessandro Di Taranto. Altri 2 sono sono già in cella, 4 hanno misure più blande.
La polizia dice di aver “subito” il corteo, altro che “permesso”. “Avevamo detto di aspettare e sono partiti”, spiegano in questura. Le forze a disposizione erano poche, si attendevano tremila persone e ne sono arrivate 15-20 mila. L’obiettivo Cgil era stato dichiarato da Castellino dal palco e da Aronica ai funzionari. La trattativa c’è stata, come avviene quando migliaia di persone premono, specie in spazi larghi come piazzale Flaminio o piazzale Brasile, dove hanno poi tentato di fermarli. Per la giudice “avevano rappresentato l’intento di volersi recare presso la sede della Cgil, ma in modo piuttosto infido, dapprima facendo credere di essere disponibili a concordare gli spostamenti, per poi intraprendere la marcia comunque, senza attendere possibili soluzioni alternative”. Secondo la polizia non c’è stato il tempo di proteggere adeguatamente la sede Cgil, anche perché i funzionari non si aspettavano un assalto da persone per lo più a volto scoperto che, respinte una volta, sono tornate con “bastoni e cartelli stradali”. Su errori e sottovalutazioni interverrà martedì in Parlamento la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, anche grazie al contributo del prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto di Salvini al Viminale e del sottosegretario leghista Nicola Molteni, che ha la delega alla sicurezza.
I tre forzanovisti negano di aver fatto danni alla Cgil, ma rispondono di devastazione in concorso morale – come di istigazione a delinquere e altri reati – perché guidavano il corteo. Castellino ha anche “incitato a entrare” e detto alla polizia davanti alla Cgil: “Lasciatece passa’, dovemo entra’”. Stesse accuse per Fiore, già leader di Terza Posizione, condannato per banda armata e a lungo latitante a Londra tra ricchi affari e sospetti mai chiariti di legami con i Servizi britannici, entrato alla Cgil – dice – solo per far uscire tutti: “Non si sporca le mani”, scrive la giudice.