“Farò come di consueto il tampone, ma non intendo mostrarlo: il solo fatto che qualcuno pensi di ridurre tutto a una questione di baiocchi, vuol dire trattarci da piottari”. Il senatore Emanuele Dessi ha, si fa per dire, un diavolo per capello: ce l’ha col governo giù giù fino alla presidenza del Senato per la storia dell’obbligo di Green pass, che entra in vigore oggi anche per accedere ai Palazzi della politica, pena la perdita della diaria: “Imporlo per esercitare il mandato parlamentare è una ignominia. Se mi fermeranno agli ingressi chiederò immediatamente di essere convocato dalla presidente Casellati che si sta prendendo una responsabilità gravissima”. Gianluigi Paragone, altro senatore fuoriuscito dai 5Stelle, la mette giù più dura: “Il Senato per noi non è un luogo di lavoro: se i commessi proveranno a fermarmi dovranno preparare le forze dell’ordine”. E che faranno i leghisti che appena tre settimane fa si erano dati alla macchia pur di non votare il decreto con cui il governo ha esteso l’obbligo a tutti i lavoratori invitando il Parlamento e gli altri organi costituzionali ad adeguarsi? Un manipolo di deputati, da Claudio Durigon a Lorenzo Fontana, passando per Matteo Micheli che insieme ad Alberto Bagnai e Claudio Borghi avevano aderito a luglio alla manifestazione contro l’obbligo della certificazione verde. Borghi oggi giura che si atterrà alle nuove regole, anche se ha promesso di rivolgersi alla Corte Costituzionale. Come hanno annunciato anche i parlamentari di Alternativa C’è che solleveranno un conflitto di attribuzione per contestare l’adozione in Parlamento del Green pass e tutto l’impianto del decreto che impone l’obbligo nei luoghi di lavoro: oggi una delegazione del partito sarà a Trieste al fianco dei camalli che hanno rifiutato i tamponi gratis e sono pronti al blocco a oltranza del porto se il governo non ritirerà il provvedimento. “Noi di Alternativa c’è siamo come i portuali di Trieste, fulgido esempio di solidarietà di classe” spiega Mattia Crucioli, mentre la chat dei suoi ribolle in vista del ritorno a Roma: tra chi è pronto a fare casino all’ingresso di Camera e Senato, chi medita di rimanere a casa per protesta, chi pensa sia meglio mostrare il pass pur di partecipare all’informativa di Lamorgese della prossima settimana. “Non abbiamo ancora deciso, ma non è escluso che protesteremo fuori dal palazzo chiamando i cittadini al nostro fianco”. Ma poi a palazzo sono messi nel conto anche i colpi di teatro, di cui Vittorio Sgarbi è maestro: “Ha detto che ha il Green pass, ma non è detto che sia disponibile a mostrarlo” si lascia sfuggire un assistente parlamentare di Montecitorio dove si è preparati al peggio, come al Senato: i commessi verranno affiancati da ausiliari, ossia da personale non dipendente reclutato appositamente. La speranza da queste parti è che non ci siano incidenti e che nessun parlamentare provi a forzare gli ingressi. E soprattutto che vengano presto installati i totem per i controlli automatici.
I portuali “irredenti”: da Trieste sognano la guida dei No Pass
Il perimetro della storia, alla fine, è tutto in questa piccola sede Acli diventata epicentro di una crisi nazionale. Lo scontro fra un piccolo sindacato di portuali e il governo italiano, due interlocutori impensabili pochi giorni fa. Il nodo vero è la folla che spinge i camalli di Trieste: i No Pass più agguerriti d’Italia, che qui portano in piazza 15 mila persone su 200 mila abitanti, e un comitato di 1.500 lavoratori vari che si oppone al certificato verde, obbligatorio da oggi nei luoghi di lavoro.
Stefano Puzzer spiega il collegamento fra le due realtà in modo semplice: “Loro cercavano qualcuno che ci mettesse la faccia. Ecco, noi adesso siamo quella faccia”. Puzzer ha 45 anni, 25 li ha passati tra i moli. Ha conquistato una notorietà improvvisa come portavoce del Coordinamento dei lavoratori portuali di Trieste (Clpt), la scheggia impazzita che minaccia il sistema: “Il Green pass divide e discrimina i lavoratori, Draghi lo deve eliminare per tutti”. Il portuale che si rivolge al premier. Potrebbe sembrare una storia da anni Settanta. Ma è soprattutto ultra-contemporanea, perché il tema vero è la parcellizzazione delle lotte sindacali. La palla di neve è diventata la proverbiale valanga quando i capi della protesta hanno capito che di fronte avevano un gigante dai piedi d’argilla: applicare il Green pass negli scali marittimi è oggettivamente complicato; e bloccare il porto di Trieste significa mandare in fumo milioni di euro. Quando si è cominciato a realizzare che si andava a sbattere, troppo tardi, la controparte ha ceduto: tamponi gratuiti a spese delle aziende. E loro, i portuali ribelli, hanno rifiutato ciò che avevano chiesto, facendone questione di principio: “Blocchiamo il porto a oltranza, finché il pass non viene cancellato”. Quello strappo brucia ancora come carne viva. Si capisce dall’espressione ferita del presidente dell’Autorità portuale, Zeno D’Agostino, uno che con i lavoratori è abituato a dialogare. Ha lo sguardo cupo di chi sa che si è rotto qualcosa che non si ricomporrà: “Se il porto di Trieste si ferma per cinque giorni io non posso più fare questo lavoro. Non avremmo più credibilità. Allora preferirei i panni di un dimissionario piuttosto che quelli di Puzzer”.
D’Agostino lascia le dimissioni in sospeso, sperando che tutto evapori in un giorno come un brutto sogno: “Avremo una manifestazione cittadina in trasferta nel porto, non uno sciopero. Domani andrà così. Dopodomani, però, mi attendo un segnale, dall’altro porto, la maggioranza silenziosa. Nessuno si permetta di fare picchetti”. Il Clpt nasce nel 2014, dopo una rottura drammatica fra le sigle confederali e la base. “Siamo partiti in 4, oggi siamo 300”, dice Puzzer. Una minoranza che è maggioranza relativa in un porto di 1.000 dipendenti e 500 precari. Se vogliono, possono davvero bloccare i varchi. L’orientamento politico è insondabile. Ci sono esuli dalla Cgil, il nemico numero 1, simpatizzanti di estrema destra, qualche ultrà della Triestina e un segretario, Alessandro Volch, con un passato nella sinistra extraparlamentare. L’unico collante ideologico è tutto locale: un autonomismo indipendentista che vorrebbe il porto come una realtà extraterritoriale, esente da tasse. Questo significano le scritte sulle giacche, “Annex VIII Treaty of Peace”, l’allegato del trattato del ‘56 su cui poggiano le rivendicazioni.
“I nostri iscritti domani entreranno. E se non ci riusciranno, lo faranno sabato”. Michele Piga è il segretario locale della Cgil, con Puzzer si conoscono fin da bambini, anche se oggi sono uno di qua e l’altro di là: “Io spero che questa vicenda non gli sfugga di mano. A Trieste il 65% della forza lavoro triestina è vaccinato. Non ci sono tamponi per tutti. Le istituzioni hanno fatto finta di niente, questo è il problema vero”. Le sue parole, tradotte, riassumono ciò che sperano un po’ tutti, anche il Prefetto, che ieri ha definito lo sciopero “illegale”: che si concluda tutto oggi, senza che nessuno si faccia male. In senso fisico, ma anche metaforico: potrebbero essere ugualmente devastanti le immagini di portuali “crumiri”, insultati dai No Vax. E se davvero la situazione degenerasse, qui la faccia la rischia anche chi l’ha messa.
Green pass, è tutto in extremis: norme e contentino sui tamponi
Sembra un ritorno ai momenti più caotici della pandemia. Ma non è il Conte-2, è il governo Draghi. A 24 ore dall’obbligo del Green pass nei luoghi di lavoro, succede di tutto: Dpcm modificati all’ultimo, nuove linee guida , “Faq” – le domande e risposte sul sito del governo – aggiornate di continuo come fossero una fonte normativa e, infine, anche una timida apertura a calmierare ancora il prezzo dei tamponi. Ieri è stata la giornata degli interventi in extremis, a riprova delle difficoltà crescenti. Oggi sarà un salto nel buio, ammettono i ministri in camera caritatis, ma non ci saranno proroghe.
Draghi ha ricevuto a Palazzo Chigi i leader di Cgil, Cisl e Uil. Landini e compagnia gli hanno chiesto di ridurre i costi dei tamponi, anche per le aziende che li mettono a disposizione, come sta avvenendo un po’ in tutta Italia (dall’Ilva al distretto metalmeccanico bolognese). È l’ultima disperata trincea, anche se i dati mostrano che il sistema non regge all’esplosione della domanda di test (+57% nell’ultimo mese). Il premier ha promesso che se ne parlerà oggi nel Consiglio dei ministri convocato per discutere cose non da poco come il Documento programmatico di bilancio, le norme sulla sicurezza sul lavoro e quelle sulle cartelle fiscali. Un aumento della deduzione fiscale per le aziende che comprano i tamponi (oggi al 30%) è l’ipotesi a cui si lavora, difficile invece intervenire sul prezzo applicato dalle farmacie. “A ora non c’è nulla di concreto”, ammetteva ieri sera un ministro all’uscita dalla cabina di regia, dove il tema non è stato trattato.
La pressione politica, ammesso che Draghi ne sia sensibile, è forte. Matteo Salvini continua a chiedere di rendere gratuiti i tamponi. Linea opposta a quella del segretario del Pd Enrico Letta (“Sarebbe come un condono per gli evasori”), che apre solo a una riduzione dei costi (stessa linea del ministro del Lavoro, Andrea Orlando). Non è però solo la Lega a mostrare malessere. Ieri Giuseppe Conte è tornato a chiedere di rendere i test gratuiti per chi ha redditi molto bassi e soprattutto una verifica sull’efficacia delle misure nel giro di “qualche settimana” per superarle, almeno nelle zone dove la copertura vaccinale toccherà il 90%, soglia che qualcuno nel governo sembra accarezzare come obiettivo finale (oggi sulle prime dosi si è vicini all’85% di vaccinati over 12). “Alle difficoltà del lavoro dobbiamo prestare attenzione – ha detto l’ex premier – Non è ignorandole che si offre una soluzione politica”. Ieri una circolare del Dipartimento per la sicurezza avvisava i prefetti del rischio di proteste e blocchi su strade, ferrovie, porti e all’ingresso delle fabbriche. Nel frattempo il caos è soprattutto sulle norme. Solo ieri è stato pubblicato il Dpcm con le “linee guida” firmato da Draghi martedì: le aziende hanno potuto scoprire che era saltato il limite delle 48 ore per poter chiedere in anticipo ai dipendenti se hanno il Pass. Va perfino peggio nell’autotrasporto, il settore più a rischio dove si toccano punte di oltre il 30% di lavoratori senza vaccino. I ministeri di Salute e Trasporti hanno pubblicato una circolare che esenta dall’obbligo del Pass gli autisti stranieri che entrano in Italia a patto che le operazioni di carico e scarico vengano svolte da altro personale. Un pasticcio che ha scatenato la rivolta di tutte le associazioni di categoria, che parlano di “inaccettabile e arbitraria discriminazione” e promettono proteste. Stessa linea dei sindacati. Altra stranezza le linee guida: servono a sciogliere i dubbi applicativi, ma sono state di nuovo aggiornate.
Lunedì scadranno i termini per presentare gli emendamenti sul decreto che ha introdotto l’obbligo del Green pass. “Il provvedimento così com’è non lo votiamo”, minacciano dalla Lega. Ci stanno lavorando i senatori Stefano Borghesi e Alberto Bagnai, che presenteranno una cinquantina di richieste di modifica: si va dalla soppressione dell’obbligo al lavoro a quella per alcune categorie come i poliziotti e gli autotrasportatori passando per la richiesta di allungare la validità dei tamponi gratuiti a 72 ore. Tra questi ci sarà anche la richiesta di rivedere il Green pass quando sarà raggiunta una soglia alta di vaccinati. Ipotesi cui Draghi ha già chiuso.
Segnali acustici
Quando un giornalista che non sa nulla intervista un pregiudicato per mafia che sa tutto, il risultato sono “I diari di Marcello”, nel senso di Dell’Utri, usciti ieri sul Foglio: una tetra parodia de Le mie prigioni di Silvio Pellico, peraltro identica alle interviste che Dell’Utri rilasciava quando era solo indagato e tutti dicevano che sarebbe stato assolto. Invece s’è beccato 7 anni definitivi. Ma questa, per l’intervistatore Salvatore Merlo e per l’intervistato, è la prova che è innocente, in base al teorema del garantismo all’italiana: se ti assolvono era un complotto, se ti condannano è un complotto. Quindi vai con la banalizzazione, l’aneddoto, la battutina, la strizzata d’occhio. Silvio inventava “spiritosaggini su Mangano, il famoso stalliere di Arcore”. La più bella è proprio quella dello “stalliere”: Dell’Utri è rimasto l’unico a chiamare così il mafioso che nel ’74 mise in casa a B. dopo il patto di mutuo soccorso con i boss Bontate, Teresi, Di Carlo e Cinà. Lui però sostiene che fu tutto un equivoco: “Che ne sapevamo noi?”, “Non sembrava un mafioso vero”, al massimo finto. Sì, è vero, quando gli portò Mangano e Cinà, B. commentò: “Uhm, accidenti che facce”. Poi pensò che “la faccia di Mangano poteva tenere lontani i malintenzionati”. Tipico dei malintenzionati regolarsi in base alle facce e degli statisti farsi proteggere non dai carabinieri, ma dai mafiosi di faccia o di fatto: la via omeopatica alla sicurezza. Ci sarebbero pure le intercettazioni anni 80, quando in Fininvest scoppiavano le bombe e Silvio&Marcello pensavano subito a Mangano: “Un botto… fatto con affetto… un segnale acustico… un altro farebbe una lettera, lui mette una bomba”. Meglio sorvolare.
L’intervistato che percula l’intervistatore e l’intervistatore felice di farsi perculare parlano di Ingroia. Dell’Utri: “Un babbasunazzo”. Merlo: “Un mezzo citrullo”. Dunque a farlo condannare a 7 anni è stato l’altro mezzo: fosse stato tutto intero, gli avrebbero dato l’ergastolo. Non manca “quella gran minchiata della Trattativa”: infatti la Corte d’appello ha condannato Bagarella e prescritto Brusca per aver trattato con Dell’Utri e assolto Dell’Utri per aver trattato con Bagarella e Brusca (ma Merlo non lo dice perché non lo sa e Dell’Utri perché lo sa). Poi un simpatico avvertimento a Cairo: “Voleva prendere il mio posto a capo di Publitalia… irriconoscente”. Una laude a Draghi (“Mi ha convinto, simpatia epidermica”). E un bel quadretto familiare con vista Quirinale: “Alla festa di compleanno di Berlusconi ad Arcore, l’ho potuto riabbracciare: c’erano Confalonieri, Galliani, i figli di Silvio, i nipoti, tutta la famiglia”. Uhm, accidenti che facce. Mancava solo Mangano, prematuramente scomparso. Per stavolta, niente botti.
L’importante è finire: la quinta e ultima stagione di “Gomorra” resuscita i morti e cita il “Padrino”
“Sta a Riga. Ti ha lasciato col rimorso di averlo ucciso”. Così parlò Don Aniello (Nello Mascia), e Genny Savastano (Salvatore Esposito), con poca gratitudine, ne farà tesoro. All’inizio del secondo episodio è sua la mano sulla nuca di Ciro Di Marzio (Marco D’Amore), che ricambia senza entusiasmo, gli occhi rossi, lo sguardo no future: è Gomorra, è la quinta e finale stagione, e dopo quest’abbraccio spezzato lo showdown non tarderà.
Targata Sky Original, prodotta da Cattleya in collaborazione con Beta Film, arriva il 19 novembre su Sky e in streaming su Now: i primi due capitoli sono stati presentati ieri, quale evento di chiusura fuori concorso, al prestigioso festival CanneSeries. Sceneggiatura degli head writer Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, che firmano anche il soggetto di serie con Roberto Saviano, regia di D’Amore (sei episodi) e Claudio Cupellini (quattro), location fra Napoli, Riga e Roma, è chiamata, anzi, condannata a chiudere in bellezza: venduta in centonovanta territori, inserita dal New York Times al quinto posto fra le produzioni non americane più importanti degli anni Dieci, ha ridefinito gusto e sostanza della serialità italiana (e internazionale), domiciliando Genny e l’Immortale nell’immaginario collettivo.
L’importante ora è finire, e già ci stanno le macerie: Napoli cade sotto i colpi dei Levante e di Patrizia, Genny seduce ’O Maestrale (Domenico Borrelli), il boss di Ponticelli che gli promette in dote Secondigliano, e abbandona gli amati Azzurra (Ivana Lotito) e Pietrino a un destino migliore, finché la notizia che Ciro è vivo e in Lettonia non lo rimette definitivamente al centro del campo di battaglia.
Tra esecuzioni mirate, agguati col lanciarazzi e alleanze a geometrie (assai) variabili, la scrittura nel primo episodio mira alto, fin troppo, mimando il celeberrimo montaggio alternato del battesimo e dell’esecuzione dei rivali della famiglia Corleone nel Padrino (1972) di Francis Ford Coppola: un peccato di hybris che finisce giustamente al camposanto, a voi scegliere tra il Verano e Porta di Roma.
Nulla sarà più come prima, insomma, e l’indovina chi annovera vecchi, quali l’ex re di Forcella Enzo Sangue Blu (Arturo Muselli), e nuovi volti, da Donna Luciana (Tania Garribba), la ladymacbethiana moglie del Maestrale, al Munaciello (Carmine Paternoster), uno dei capi-piazza di Secondigliano.
Non c’è fretta, comunque, nessun parossismo, piuttosto ineluttabilità e bocce, anzi, lapidi ferme: i fratelli coltelli Genny e Ciro a tavola non toccano né vino né cibo, il primo scomoda per il secondo l’arcipelago di Aleksandr Solženicyn, sebbene l’Immortale rifarebbe “tutto quello che ho fatto, compreso dare la mia vita per te” e lo abbia “lasciato solo per proteggerti”.
Parole come pietre, pietre come proiettili, e una fuga che non sarà per la vittoria, ma per la sopravvivenza: “Dimenticate i Sopranos, ecco i Savastanos”, scrisse il tedesco Der Spiegel. E non aveva ancora fatto i conti con gli Immortalos.
Mike Nelson, lì dove architettura e natura trovano nuova armonia
C’è un’opera di Claudio Parmiggiani che si intitola Il bosco guarda e ascolta. Sono alberi di bosco che nella corteccia lasciano intravedere, nei loro rivoli, un occhio che ci guarda, ai quali l’artista ha aggiunto un piccolo orecchio alla base del tronco.
Alberi antropomorfi, che dialogano con noi, antica tradizione che troviamo già nell’apologo delle piante del libro dei Giudici, nella Bibbia.
È andato oltre Mike Nelson, celebrato artista inglese – nel 2011 il padiglione britannico della Biennale di Venezia è stato firmato da lui – inaugurando una mostra a Parma, dentro le sale del Palazzo dell’Agricoltore, curata da Didi Bozzini. Un palazzo storico del 1939, che fu sede della corporazione per le attività agricole del regime fascista – che nel 2023 diventerà, come è stato definito, un “hotel rigenerativo”, ossia luogo di incontro tra persone e cultura, ma con un nuovo concetto di socializzazione (sarà bello scoprirlo…) – che è diventato un’unica opera d’arte alta ben cinque piani.
Nelson ha inserito lungo le sale del palazzo, con le finestre aperte che dialogano con il centro storico di Parma, l’intero fianco di una collina, ripulendola di tutti quei materiali che rendono difficile la pratica dell’agricoltura quali rocce, tronchi d’albero, rami e radici. E con questi materiali l’artista ha fatto un tributo al palazzo, alle sue origini e al mondo dell’agricoltura, “invadendolo” con gli elementi sopra indicati: un dialogo commovente tra questi residui naturali – ostracizzati a causa dello loro ostruzione alle coltivazioni – e il palazzo di rigore nazionalista.
Ne è uscita un’opera unica che è natura e cultura insieme, che va oltre la Land-art, oltre l’Arte povera, oltre l’antropomorfismo di cui all’inizio, per approdare in una “terra desolata” che forse anche Thomas Eliot avrebbe sentito poeticamente sua. Tra geometrie e scorci si intravedono anche gli intenti di Mario Sironi, col suo razionalismo, le sue linee rigide, evocative di un mondo che non c’è più.
Fasci di legna e accumuli intrecciati (composti senza l’utilizzo di un solo chiodo) diventano come gendarmi di un’epoca e di un luogo abbandonato ma testimone di una pratica antica e moderna: l’agricoltura. L’uomo che attraverso il suo lavoro addomestica al terra e la rende fonte di sostentamento. Lungo le sale, la salita dei cinque piani – quasi la scalata di una montagna magica – il silenzio fa da padrone, l’unico rumore che ci accompagna è il battere delle nostre scarpe. E non in tutte le stanze ci sono queste opere, serve scoprirle, avere la curiosità del viandante, che di atrio in atrio “scova” una sentinella, un gendarme della natura, che come uno di noi – ecco perché il bosco guarda e ascolta – ci sta dicendo qualcosa.
Forse quest’opera strabiliante ci sussurra che stiamo andando oltre, che la natura, da matrigna quale era all’inizio dei tempi, ora avrebbe bisogno di tregua. Ma le parole sono superflue, qui parlano i cinque piani del palazzo, dove la curatela intelligente e coraggiosa di Didi Bozzini ha sposato perfettamente gli intenti di Mike Nelson. Che vanno oltre la poetica del suo tempo. In una terra di nessuno, ma che in fondo è di tutti: è la terra della poesia perduta.
“Cambiare il mondo? Non molto”. “Gli uomini sono malvagi”
Anticipiamo stralci dell’“Intervista a Stalin” dello scrittore H. G. Wells nel 1934, da oggi in libreria con Ibis.
Le sono molto grato, signor Stalin, per aver accettato di vedermi. Di recente sono andato negli Stati Uniti dove ho conversato a lungo con il presidente Roosevelt, cercando di capire quali siano le idee che lo guidano. Ora sono qui a chiederle che cosa stia facendo lei per cambiare il mondo…
Non molto…
Da uomo comune, osservo quello che succede intorno a me.
Personalità pubbliche come lei non sono “uomini comuni”. Certo, solo la storia può mostrare quanto sia stato importante questo o quell’uomo pubblico, in ogni caso lei non osserva il mondo con gli occhi di un “uomo comune”.
Non ostento modestia. Quello che voglio dire è che cerco di vedere non come un politico, un esponente di un partito o un amministratore responsabile. La visita negli Stati Uniti mi ha fatto molto riflettere. Il vecchio mondo finanziario sta crollando, la vita economica del Paese sta riorganizzandosi su nuove linee. Lenin ha detto: “Dobbiamo imparare a fare affari, prendere lezione dai capitalisti”. Oggi i capitalisti devono prendere lezione da voi, devono cogliere lo spirito del socialismo. Mi sembra che quanto avviene negli Stati Uniti sia una profonda riorganizzazione, la creazione di un’economia pianificata cioè socialista. Lei e Roosevelt vi muovete da punti di vista diversi. Ma non c’è, tra Washington e Mosca, una relazione, un’affinità di idee?
Gli Stati Uniti perseguono un obiettivo diverso da quello che abbiamo noi, qui nell’Urss. Quello degli americani deriva dalle difficoltà economiche, dalla crisi economica. Gli americani vogliono uscire dalla crisi affidandosi alle attività del capitalismo privato, senza modificare la propria base economica. Cercano di ridurre al minimo i danni, le perdite provocate dal sistema economico esistente. Invece qui, come lei sa, al posto della vecchia base economica distrutta, ne è stata creata una nuova.
L’effetto delle idee del “New Deal” di Roosevelt è fortissimo e, secondo me, si tratta di idee socialiste. A me pare che, invece di sottolineare l’antagonismo tra i due mondi, noi dovremmo, nelle circostanze attuali, sforzarci di stabilire un linguaggio comune tra tutte le forze costruttive.
Non intendo affatto sminuire le notevoli qualità morali di Roosevelt, la sua iniziativa, il suo coraggio e la sua determinazione… Ma non appena Roosevelt, o qualsiasi altro leader del mondo borghese contemporaneo, procedesse per intraprendere qualcosa di molto serio contro le fondamenta del capitalismo, subirebbe una pesante sconfitta. Le banche, le industrie, le grandi imprese, le grandi aziende agricole non sono nelle mani di Roosevelt. Sono tutte di proprietà privata… Per questo io temo che, nonostante tutta la sua energia e le sue capacità, Roosevelt non raggiungerà l’obiettivo di cui lei parla, ammesso che sia davvero anche il suo obiettivo.
Il socialismo e l’individualismo non sono antitetici come il bianco e il nero. In mezzo ci sono varie fasi intermedie.
Non esiste e non dovrebbe esistere nessun contrasto inconciliabile tra l’individuo e il collettivo, tra gli interessi della singola persona e quelli della collettività. Non dovrebbe esserci questo contrasto perché il collettivismo, il socialismo, non nega ma coniuga gli interessi individuali e quelli del collettivo. Anzi, solo la società socialista può salvaguardare saldamente quelli individuali… Ma possiamo negare la contraddizione tra le classi, tra la classe proprietaria, la classe capitalista, e la classe lavoratrice, i proletari? Da un lato abbiamo la classe proprietaria, dall’altro la classe dei poveri e degli sfruttati.
Non concordo con questa semplicistica suddivisione dell’umanità tra ricchi e poveri… Ci sono categorie di capitalisti molto diverse: quelli che pensano solo al profitto, pensano ad arricchirsi, e quelli disposti a fare sacrifici. Certo che Ford è egoista. Ma non organizza con impegno quella produzione razionalizzata dalla quale avete imparato tanto?… A me pare di essere più di sinistra di lei, signor Stalin: io credo che il vecchio sistema sia prossimo alla fine più di quanto lei non ritenga.
Quando parlo dei capitalisti che mirano solo al profitto, ad arricchirsi, non voglio dire che queste siano persone non valide, incapaci di fare altro. Molti di loro possiedono indubbiamente capacità organizzative che non mi sogno affatto di negare. Noi sovietici abbiamo imparato tanto dai capitalisti. Lei ha citato Ford. Certo, è un capace organizzatore della produzione. Ma lei sa che atteggiamento ha verso la classe lavoratrice? Lo sa quanti operai ha sbattuto sulla strada? Il capitalista è inchiodato al profitto e nessuna forza può staccarlo da lì… Lei, signor Wells, evidentemente parte dall’assunto che tutti gli uomini sono buoni. Io, invece, non dimentico che ci sono tanti uomini malvagi. Io non credo nella bontà della borghesia.
Borghesi, fascisti, maschi: i massacratori del Circeo
Invece che dalla finzione cinematografica de La scuola cattolica, dove si narra quel che accadde a Rosaria Lopez e a Donatella Colasanti, le due ragazzine sequestrate in quell’inferno chiamato da allora “il massacro del Circeo”, Roma, anno 1975, gli astuti funzionari della censura devono essere rimasti sconvolti dalla vita vera, neofiti del millennio, e dunque preoccupati di occultarla agli occhi dei minori di anni 18. Considerandosi, in questa perpetua pandemia di violenza reale e virtuale, che dilaga negli infiniti mondi che ci circondano (mille morti ammazzati al giorno per ogni schermo disponibile), il commovente vaccino al virus.
Hanno scelto bene. Perché basta soffiare sulle ceneri del massacro del Circeo che le fiamme di nuovo si propagano. Accadde in un’Italia che ancora ci riguarda, quella del sottomondo degli uomini che odiano le donne. Ma che quella volta agirono con una crudeltà e una noncuranza speciali. Tormentandole come carne del loro intrattenimento per un giorno, una notte, un altro giorno, picchiando e violentando, per poi dimenticarsele dentro al portabagagli e andare a cena. Solo che una delle due vittime, Donatella, stesa sul cadavere di Rosaria, a quelle sevizie era sopravvissuta, fingendosi morta. Molte ore dopo un metronotte si accorse dei suoi lamenti. La estrassero viva dall’abisso. Anche se nessuno mai l’avrebbe salvata dall’incubo che la imprigionò per sempre.
Tramandare i nomi dei tre colpevoli evoca il sangue e la rabbia, ieri come oggi, Angelo Izzo, 20 anni, Gianni Guido, 19, Andrea Ghira 22, rampolli d’alta borghesia, persuasi della loro onnipotenza. Tutti e tre con le camerette arredate da bandiere naziste, busti di Mussolini, croci uncinate. Tutti e tre cultori della razza bianca, quella che comanda.
Si sono conosciuti al San Leone Magno, scuola di preti per ricchi, dove apprendono il vangelo capovolto. Si frequentano nelle sezioni del Movimento sociale. Poi sugli asfalti dell’ultradestra che incendia e assalta. Hanno condiviso scontri con la polizia, furti nelle case, rapine. Trafficano pistole e qualche partita di eroina, proprio come i neofascisti oggi. Si vantano di maneggiare ragazzine a loro piacimento. E quando finiscono nei guai con la Questura, arrivano gli avvocati e i genitori a dire: ragazzate di bravi ragazzi. “Eravamo guerrieri – dirà Angelo Izzo – quindi stupravamo, rapinavamo, rubavamo. Era anche il modo di legarci tra noi al punto che ci chiamavano fratellini”. E ancora: “Passavamo intere giornate a rifarci il guardaroba, a farci scarpe e camicie su misura. E poi macchine sportive, moto giapponesi, Rolex d’oro, locali alla moda, cocaina”.
Di tutt’altra pasta sono fatte le due vittime, Rosaria Lopez, 19 anni, Donatella Colasanti, 17 anni, pescate dal cattivo destino, tutte e due di ingenuità persino disarmante, che leggono fotoromanzi e sognano in rosa. Sono cresciute in due famiglie proletarie, abitano alla Montagnola, che è borgata fatta di palazzoni grigi e strade che diventano prati. Hanno vite dritte, noiose e semplici. Rosaria fa la barista, Donatella è studentessa. Tutte e due vorrebbero fare le attrici. Aspettano che qualche sogno si realizzi. Che qualche luce si accenda.
L’incontro che le spegnerà tutte lo fanno un sabato pomeriggio di fine settembre. Fuori da un cinema: chiacchiere, risate, l’invito per rivedersi il lunedì dopo. Magari per andare al mare.
Dirà Izzo: “Avevamo già programmato tutto. Volevamo festeggiare la scarcerazione di Andrea Ghira, inguaiato da una rapina, la villa era sua, era vuota, e cercavamo due ragazze adatte. La nostra intenzione era di spassarcela”.
Dirà Donatella: “All’inizio sembravano simpatici. Accettammo di salire in macchina”. Due ore di strada, fino al Circeo. La villa è in cima al promontorio, isolata in mezzo al bosco che è nero come una premonizione. “Nella prima mezzora non ci furono minacce, né violenza. La trasformazione arrivò all’improvviso e cominciò l’incubo”.
Accade in giardino, quando Izzo e Guido cambiano faccia, dicono a Rosaria e Donatella che ora devono farli divertire, devono spogliarsi. E lo dicono con una pistola in mano. Dirà Donatella: “Noi piangevamo, ci tenevamo abbracciate”. Le spogliano, le chiudono in bagno, le prendono a turno. Le piegano a forza di botte. Così per l’intero pomeriggio e notte e la mattina dopo, quando arriva Andrea Ghira, il proprietario della villa: viene anche lui a godersi l’inferno che i due fratellini hanno tenuto acceso per lui.
A metà del secondo pomeriggio inizia l’ultimo tempo del massacro: devono cancellare le vittime, ucciderle. Portano Rosaria in un altro bagno, riempiono la vasca, la affogano. Poi tocca a Donatella: “Angelo e Gianni mi legarono con una cinta di cuoio al collo e mi trascinarono per la casa. Gianni mi mise un piede sul petto e tirava, imprecava, diceva: ma questa non muore mai?”.
È in quella fessura d’ombra che Donatella trova la sua via di salvezza: fingersi morta mentre la avvolgono in una coperta e la caricano nel portabagagli della 127, proprio sopra al corpo di Rosaria. Sente Guido che dice: “Mio padre ci tiene i cani quando va a caccia”. Per un tempo infinito ascolta il motore che ronza, l’asfalto che corre, i lividi che pulsano. Resta immobile quando l’auto si ferma. Si aspetta il peggio. Invece gli aguzzini scendono, parlano tra loro. Si allontanano.
I carabinieri impiegheranno un minuto a identificare i colpevoli. L’auto è di Gianni Guido e Donatella racconterà il resto. I giornali titolano: “Il cuore di tenebra della borghesia”; “I figli di papà con la pistola”; “Ricchi e senza pietà”. Italo Calvino scrive che gli assassini “hanno agito con la sicurezza di farla franca” per diritto di ceto sociale, il loro è “un delitto di classe”. Pasolini gli replica controcorrente: “I ricchi e i poveri sono contagiati dalla medesima brutalità”. A entrambi sfugge l’essenziale, che invece i collettivi femministi – presenti per la prima volta al processo – rivendicano da allora a oggi: il sangue versato pretende che la violenza non sia per sempre il destino delle donne. Per mano di ricchi o poveri. Ci vogliono leggi, educazione, sentimento. E “l’omologazione culturale determinata dal consumismo” che Pasolini indica come acceleratore di crudeltà, è solo un’aggravante che si aggiunge al male del potere maschile quando si volta in furore. Cadrà lui stesso in quella trappola, una manciata di giorni dopo, circondato e ucciso tra le sterpaglie del Lido di Ostia, 2 novembre 1975. Avvertite i censori del tempio: un altro pezzo della nostra storia da vietare ai minori.
L’esame del pupillo di Galli Al telefono, col prof vicino
Al cellulare e con il presidente della commissione accanto. Venti minuti, non di più. Così si è svolta la prova orale che ha consegnato ad Agostino Riva la vittoria nel concorso pubblico per professore associato. A presiedere il tutto, l’infettivologo dell’ospedale Sacco, Massimo Galli. Riva vincerà a scapito del più quotato Massimo Puoti. Così, secondo la Procura di Milano, le manovre del prof. Galli, dopo il “falso verbale” sui punteggi scritti, proseguono anche durante lo svolgimento dell’orale. Galli è indagato per turbativa e falso nell’inchiesta su una presunta “concorsopoli” all’Università Statale. Due giorni fa, all’interrogatorio si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ma stando alle intercettazioni su un capo d’imputazione già svelato dalla Procura, dopo l’interrogatorio di Puoti, la vicenda assume toni surreali: Riva fa l’esame in metà del tempo via cellulare con i commissari collegati, mentre il presidente Galli è accanto lui. Di più: già prima dell’esame, la stesura dei quesiti è risultata sospetta agli inquirenti che hanno “riscontrato come la procedura di assegnazione degli argomenti (…) era stata gestita interamente da Galli, con la complicità di Maria Ghisi, sua segretaria”. Il 17 marzo 2020, Ghisi dice a Galli: “Mando ad Agostino (…) i tre temi, giusto?”. “No – risponde Galli – prima devi mandarli agli altri due”. Quindi chiama il docente della Sapienza di Roma, Claudio Mastroianni (indagato). Dice: “Ti sta arrivando la richiesta”. Il collega e commissario chiede: “Che devo fare?”. L’infettivologo: “Devi rispondere: vanno bene. Domani (…) a lezione però, ci siamo capiti”. Dello stesso tenore il dialogo con il terzo commissario. Galli: “Sta arrivando l’indicazione del mio suggerimento per le tre domande (…). Che poi abbiamo un candidato unico e qui i problemi sono spariti”. Galli richiama la segretaria. “Allertati!”. La Ghisi: “Devo mandare le proposte ad Ago, che deve rispondermi quale vuole”.
Il giorno dopo c’è l’orale che, intercettato, durerà la metà del tempo ufficiale. Gli inquirenti sostengono che “a riscontro della valenza formale della prova e della precostituita scelta a tavolino di voler aggiudicare il posto a Riva, l’esame veniva sostenuto da Riva in presenza del solo Galli, mentre gli altri commissari erano collegati” da remoto. Di più: “Galli durante la prova” rimane “al telefono con altri, disinteressandosi della fase concorsuale”. Pochi minuti prima dell’esame, Riva: “Le diapositive dove le metto, Massimo, per farle vedere anche a loro”. Galli: “Non ho la più pallida idea”. Nel frattempo il collegamento continua a saltare. Galli esclama: “Come si fa a unire le chiamate, mamma mia (…). Possiamo provare che chiama il telefonino e vediamo di farla in questo modo, d’altro canto siamo in condizioni d’emergenza, abbiamo un unico candidato, dovremmo cavarcela in una decina di minuti”. Insomma, dopo i punteggi “falsati”, l’esame orale fatto al cellulare. Con Galli, stando alle intercettazioni, impegnato su tutto tranne che sul concorso pubblico. Concorda anche un’intervista con la giornalista di un settimanale. Siamo al 18 marzo in pieno primo lockdown e le sue parole sul Covid sono su tutti i giornali. Alla fine il collegamento sembra venir ripristinato. Galli: “Fantastico, ci voleva il coronavirus per farci fare questa cosa, allora io lascio lo spazio al dottor Riva a cui ho chiesto di contrarre al massimo la cosa per ovvi motivi”. Quindi si parte? Non ancora perché Agostino Riva dopo quasi dieci minuti di preparativi e discorsi che nulla c’entrano con l’esame è ancora alle prese con le diapositive. Dice: “Io devo mettere le diapo qua però non so come possano vederle loro”. Aggiunge: “Io ho 45 minuti”. Galli è sbrigativo: “Tu fai un quarto d’ora con le cose essenziali”. L’intercettazione parte alle 12:21 e alle 12:47 Riva pare iniziare la sua prova. Nel frattempo Galli discute con un’altra persona di questioni inerenti all’organizzazione interna del Sacco. “Ora – dice – chiamo il direttore generale”. Poi aggiunge, ma non si comprende il tema: “Questo non gli permette di manipolare le cose a questi livelli, se non ce l’ha abbastanza lungo di temere il mio confronto, è veramente una …”. E intanto alle 12:51 Riva conclude: “L’ultima cosa che volevo sottolineare è la prevenzione della macinazione cioè i pazienti”. Dall’inizio sono passati 26 minuti.
Un mese dopo l’esame, il 14 aprile 2020 con “decreto rettorale” Riva è dichiarato vincitore. In un’intercettazione del 20 luglio, Galli ricordando il concorso spiega: “Ecco, per cercare di uscire dal fondo della classifica (…) abbiamo fatto le operazioni che dovevano essere fatte portando avanti Agostino (…) è chiaro che insomma, giocare tutte le carte diventa veramente difficile (…). Si fa tutto quello che si può fare eh”. Mentre in altra intercettazioni aggiunge: “Però non me lo far dire…”. Per gli inquirenti queste parole rappresentano la “definitiva conferma dei favoritismi compiuti per far conseguire a Riva l’importante incarico”.
La vicenda si delinea già a gennaio 2020 quando Galli sapeva che sarebbero stati due i candidati e che “l’altro” (Puoti) avrebbe rinunciato. Ne parla la dirigente del Sacco Monica Molinai con la ricercatrice Claudia Moscheni (indagata). La prima: “Chi aveva di fianco? Riva (…). Con lui (Galli) al telefono che chiama la commissione: tanto l’altro non si presenta. Ma che cazzo (…). Gli ho detto, ma stia zitto, ma cosa dice (…). Che tu non dovresti neanche sapere chi è l’altro! (…). Poi gli ho detto, ma cerchiamo di fare le robe (…) ogni tanto seriamente”. E la Moscheni: “Mi auguro che avesse il telefono sotto controllo, giuro!”.
Piace (quasi) a tutti e soprattutto è donna: Monica Maggioni è in prima fila per il Tg1
“Ancora tu…”. Verrebbe da canticchiare Lucio Battisti di fronte ai nomi che girano per le nomine Rai che Carlo Fuortes dovrà affrontare a fine ottobre. A partire da quello di Monica Maggioni, favorita per la poltrona del Tg1. Giuseppe Carboni, con la sponda di Giuseppe Conte, proverà a resistere puntando sui buoni risultati ottenuti. Ma l’unico che resterà al suo posto è Gennaro Sangiuliano al Tg2. Maggioni ha due importanti frecce al suo arco: l’essere donna, al Tg1 Fuortes vuole una donna, e un curriculum granitico: inviata di guerra, caporedattrice al Tg1, direttrice di Rai News 24, presidente della Rai e ad di RaiCom. Contro le gioca qualche spesa di troppo, come un tour per un suo libro a spese della Rai. Non è la prima volta che ci prova. Nel 2012, con Luigi Gubitosi dg, era quasi fatta, ma la poltrona le fu soffiata all’ultimo da Mario Orfeo. Lo stesso Orfeo che poi si ritrovò alla guida dell’azienda con lei presidente, dopo l’uscita di scena di Campo Dall’Orto. Ma Maggioni può contare su sponde importanti anche fuori Rai. Nella politica e nel mondo lobbistico-imprenditoriale. Suo grande sponsor a Palazzo Chigi è Roberto Garofoli, il potente sottosegretario alla Presidenza, ascoltatissimo da Draghi. Con lui la giornalista vanta un antico rapporto di amicizia. Ma dalla sua parte c’è lo stesso Gubitosi, oggi ad di Tim, il principale investitore pubblicitario della tv pubblica. “Quando Gubitosi chiama, in Viale Mazzini si srotolano i tappeti rossi…”, racconta una fonte. Poi c’è tutta la filiera del gruppo Bilderberg e Trilateral (di quest’ultima è stata presidente italiana), che le assicura solidi rapporti trasversali e internazionali. Nel mondo delle imprese, poi, tifa per lei Stefano Lucchini, capo relazioni esterne di Banca Intesa. Tornando alla politica, i suoi interlocutori vanno dal Pd (Gentiloni) a Forza Italia. Molti della “nidiata” Gubitosi, poi, sono stati promossi: Pierluigi Colantoni alla comunicazione, Antonella Pisanelli al cerimoniale e Chiara Longo Bifano al Prix Italia. Un primo indizio. Il secondo è che lunedì sera sarà Maggioni a condurre lo Speciale Ballottaggi su Rai1, con il suo Sette Storie anticipato in prima serata, cosa che ha fatto andare su tutte le furie la redazione del Tg1. Dove, dicono, non sia molto amata. Lì, tra l’altro, ci sono due sue competitor: Costanza Crescimbeni e Natalia Augias. In corsa, poi, la direttrice del Gr Simona Sala. Ma Fuortes potrebbe pure sparigliare. Nel caso, salirebbero le quotazioni di Giovanna Botteri e Lucia Goracci.