La mafia non uccide solo d’estate, vedi Buccinasco

E ora, davanti ai fatti, proviamo a smetterla con la cantilena della mafia che è cambiata e non spara più. Che oramai sono solo soldi, niente violenza, tranne qualche balordo. Come fossimo davanti a una sorta di new wave mafiosa.

Quel che è successo lunedì scorso a Buccinasco, alle porte Sud-ovest di Milano, sembra un messaggio forte e chiaro. Un assassinio compiuto platealmente in pieno giorno, sulla strada, con tanto di colpo di grazia finale. Buccinasco non è un luogo qualunque. È stata ribattezzata e non per nulla, da decenni, “la Platì del Nord”. E Platì è considerata a sua volta la “mente” della ’ndrangheta mondiale (San Luca ne sarebbe invece il “cuore”).

Buccinasco, insieme alla vicina Corsico, è stata a lungo – e forse lo è ancora – snodo di smistamento di droga a livello internazionale, sulle rotte dell’Est come dei sudamericani. I clan platioti vi hanno raggiunto un livello di potenza tale da concepire, quasi trent’anni fa, l’assassinio di Alberto Nobili, il magistrato che indagava su di loro; progetto per fortuna scoperto in tempo grazie alle intercettazioni. Buccinasco è l’unico luogo del Nord in cui un boss (della famiglia Papalia) ha pubblicamente annunciato a un sindaco, la socialista Francesca Arnaboldi, la sua defenestrazione politica (rapidamente avvenuta) per contrasti sul piano regolatore.

Qui il potere dei clan è cresciuto grazie a una rete impressionante e ubiqua di corruzione (altro che new wave…), come ha testimoniato Saverio Morabito, collaboratore di giustizia di rango, e anche grazie a una serie di sentenze e decisioni giudiziarie sorprendenti o sconcertanti. Insomma, se ascoltando il nome del luogo qualcuno pensa che si tratti di un grumo di case e picciotti di periferia si sbaglia. È un epicentro.

Ecco, da lì, dal cuore di un sistema è stato gridato con l’assassinio qualcosa che appare un “noi ci siamo, sappiamo ancora sparare e non abbiamo paura”. Qualunque sia stata, lunedì mattina, la causa contingente della eliminazione del narcotrafficante Paolo Salvaggio, nessuno può averlo assassinato senza il consenso dei poteri criminali locali. Se questo non c’era lo sapremo presto: con nuovi morti o qualche “lupara bianca”. Comunque con altro sangue.

La lezione che ne può trarre chi non si fa abbagliare dalla retorica permanente (quella secondo cui ogni anno nella mafia “è tutto cambiato”) è che la mafia uccide e ha gli arsenali per farne qualcosa, anche se preferisce la pace, la “sua” pace, pure a Buccinasco. Perché al mafioso – si ricordi Il giorno della civetta – piace da sempre essere considerato uomo di pace. La lezione è che al Nord la violenza non è andata in esilio. Non ci vanno le bombe nei cantieri o davanti alle saracinesche, e nemmeno gli incendi o le devastazioni di auto o portoni, di cui mai si parla. E neppure ci va la “violenza maggiore”: quella dell’agguato sanguinoso o del sequestro di persona. Sia nei luoghi del radicamento storico, come l’hinterland milanese, sia nei luoghi di insediamento più giovane, come la provincia bresciana, dove l’indagine “Tabacco selvatico” ha negli scorsi giorni rivelato un asse “Leonessa”-Calabria portando alla luce arsenali, progetti di morte fortunatamente evitati e uno invece già compiuto in trasferta, nonché rapporti operativi con i clan di Rizziconi e di Taurianova, provincia di Reggio Calabria.

Questa violenza non è andata in esilio. Chissà piuttosto quando ci andranno i dilettantismi impenitenti. Come si dice, non è mai troppo tardi.

 

Mariti m5s, vergogna: votate bene o state zitti

Sacrilegio: i mariti di Virginia Raggi e Chiara Appendino non votano come piace a Corriere e Repubblica. Cioè come si confà a mariti della buona società, suvvia, signora mia: avete usurpato le stanze del potere cinque anni e ora alzate pure le creste? Così ieri i due giornali hanno destinato al pubblico ludibrio Andrea Severini, sposo della Raggi che non esclude il voto a Michetti, e Marco Lavatelli, Mr Appendino schierato per Damilano, ma pure Fabio Versaci, marito di Valentina Sganga e sostenitore del dem Lo Russo. Scostumati! Secondo il Corriere è “una faccenda sconfortante” segno del “vuoto pneumatico dei 5S”. Rep, inebriata dalla nostalgia tipo De Niro con l’oppio, sentenzia che “l’attivismo dei mariti 5S fa rimpiangere le mogli invisibili della Prima Repubblica” che stavano “al loro posto”. Ecco, stiano al loro posto questi sciagurati: alle urne vadano solo i mariti competenti.

Comica finale: Salvini che fa il pacificatore

Come l’apprendista stregone dei cartoni animati (ma molto meno divertente), dopo avere sparso odio e zizzania in lungo e in largo per l’Italia, adesso Matteo Salvini chiede (senza ridere) a Mario Draghi “un piano di pacificazione nazionale”. Infatti, subito, nella veste pacificatrice, il leader della Lega di governo lancia un forte segnale distensivo: “Di alcuni ministri non mi fido”. Nel mirino, neanche a dirlo, i titolari del Viminale, Luciana Lamorgese, e della Sanità, Roberto Speranza. Insomma, il solito Salvini chiagni e fotti che sentendo puzza di sconfitta nella Capitale – dove il negazionista de noantri, Enrico Michetti si è assicurato i voti della Decima Mas – mette le mani avanti pronto a scaricare “sul clima infame creato a sinistra” un altro possibile tonfo della destra (notevole anche “il problema non è il fascismo”, come se l’assalto alla Cgil se lo fosse organizzato Landini). Purtroppo, anche per le pagliacciate è troppo tardi, perché le forze primordiali dell’internazionale complottista, a lungo eccitate, stuzzicate, titillate dal sovranismo del tanto peggio tanto meglio, una volta lasciate allo stato brado non le controlli più. Un fenomeno di autocombustione sociale che sul versante dell’ordine pubblico (dopo la disastrosa impreparazione di sabato scorso) sarà faticosamente messo sotto controllo. Ma che sul piano della disobbedienza civile sembra destinato a produrre danni non facilmente calcolabili. Speriamo tanto di sbagliarci, ma alla delicatissima scadenza del 15 ottobre (estensione del Green pass nei luoghi di lavoro) il governo sta dando l’impressione di essere arrivato in ordine sparso, senza una precisa strategia, privo di un piano B, fidando nell’improvvisazione e nello stellone nazionale. Come se si trattasse di gestire l’ordinaria amministrazione e non invece le conseguenze dei comportamenti di 2,5 milioni di lavoratori non vaccinati. Per esempio, la decisione di accollare allo Stato la spesa per i tamponi in alcuni comparti sensibili poteva essere una soluzione di buon senso. Ma se viene ventilata proprio alla vigilia dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni trasmette inevitabilmente un senso di debolezza, e proprio quando si proclama la linea della fermezza. Un tentennare subito cavalcato negli scali marittimi, da Trieste in giù, da quei camalli rivoltosi che esigono l’immediata abolizione del Pass e minacciano scioperi a catena per bloccare il Paese. Una specie di ottobre rosso, ma stavolta nero. In questo fosco quadro, gli appelli di Salvini sono soltanto la comica finale.

Bisignani ai pm che indagano su Parnasi: “Beppe Grillo voleva Lanzalone premier”

Il metodo prevedeva soldi per tutti i partiti, destra e sinistra. E rapporti anche con i 5stelle. Lo raccontano i verbali depositati al Tribunale di Roma nell’inchiesta sui finanziamenti alla politica dell’imprenditore Luca Parnasi. Un’indagine che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio, tra gli altri, dell’ex tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, e del tesoriere della Lega, Giulio Centemero. I due, che si dichiarano innocenti, sono accusati di aver ottenuto da Parnasi finanziamenti illeciti per i rispettivi partiti. In più, a Centemero la Procura contesta il reato di autoriciclaggio. “Ho notato una prassi di finanziare partiti politici ad ampio raggio. C’era la prassi di partecipare a cene elettorali. La strategia era quella di mantenere rapporti con ogni schieramento politico”. È la testimonianza davanti al pm di un ex responsabile commerciale di una delle società di Parnasi. Versione simile è arrivata da un altro ex dipendente: “Era risaputo da me e da altri collaboratori che lui avesse costanti rapporti con la politica”. Anche con i 5stelle. Lo racconta ai pm Luigi Bisignani, sentito come persona informata sui fatti il 29 settembre: “C’era il problema dei rapporti con il Comune di Roma e lui entrò in relazione con l’avvocato Lanzalone, personaggio importante nel panorama 5 Stelle, tant’è che girava voce potesse diventare presidente del Consiglio in luogo di Conte. Fu Grillo a delegare Lanzalone a gestire i rapporti per lo stadio della Roma”. Bisignani viene sentito perché in passato era stato intercettato con Parnasi mentre parlava di come gestire la notizia pubblicata nel marzo del 2018 da L’Espresso: 250 mila euro donati da una delle aziende riferibili a Parnasi alla Più Voci, fondazione per i pm “riconducibile alla Lega Nord”. Centemero ha sempre ribadito che neanche un centesimo è arrivato al partito di Salvini. Dice Bisignani a verbale: “Parnasi mi disse che la decisione di delegare Lanzalone era stata nella sostanza di Grillo che lo aveva invitato a Genova, ma che godeva di fiducia da parte della Raggi. Lui considerava Lanzalone anche un contatto molto importante e che aveva un grandissimo rapporto con Grillo. Poi è precipitato tutto in quei giorni”. Era la primavera del 2018. “Reputo che l’arresto (di Lanzalone, poi revocato, ndr) di quei giorni – ha detto Bisignani – abbia potuto condizionare la successiva nomina di Conte quale presidente del Consiglio. So da Parnasi che Grillo gradisse più Lanzalone che Conte”.

Lavoro, continua la strage: 4 morti in quarantott’ore

Altre tre vittime sul lavoro. Ieri mattina un operaio 54enne è stato trovato morto all’Ibl, azienda che produce compensati e pannelli in legno di Coniolo Monferrato, nell’Alessandrino, e subito dopo un 48enne di Pieve del Grappa, in provincia di Treviso, è rimasto vittima di un incidente all’interno di un cantiere nella vicina località di Caerano San Marco. Alla due morti si poi è aggiunta poche ore prima quella di Tiziana Bruschi, coinvolta in un incidente alla Sistema srl di Scandicci un mese fa e deceduta il 12 ottobre. Sulla vicenda la Procura di Firenze ha aperto un’inchiesta.

Il primo lavoratore è precipitato da una passerella di 3 metri, forse mentre stava svolgendo manutenzione a un impianto che trasporta legname, durante il turno di notte. L’operaio di Pieve del Grappa è invece stato travolto da un pesante pannello in metallo.

Nel pomeriggio del 12 ottobre, invece, a Messina, un operaio della Toto Costruzioni ha perso la vita nel cantiere del Viadotto Ritiro, sulla tangenziale dell’autostrada A20 Messina-Palermo.

Trasparenza zero: così Londra bloccò “Il Fatto”

Quali informazioni possiede il ministero degli Esteri britannico, il Foreign Office, sull’omicidio di Giulio Regeni, lo studioso italiano rapito, torturato e ucciso nel gennaio del 2016 in Egitto, dove si trovava per una ricerca di dottorato con l’Università di Cambridge? Qualunque informazione le autorità britanniche possiedano, deve essere sensibile abbastanza da averle spinte a rivolgersi a un’unità riservata, chiamata “Information Clearing House”, che opera all’interno del Cabinet Office, l’Ufficio di Gabinetto del primo ministro. L’esistenza di questa unità è emersa solo nel novembre scorso e a oggi non è chiaro come sia intervenuta per bloccare il rilascio della documentazione riguardante il giovane studioso ammazzato in modo brutale quasi sei anni fa.

Nel settembre del 2017, abbiamo presentato una richiesta di accesso agli atti tramite Foia al ministero degli Esteri inglese per ottenere l’intera corrispondenza del Foreign Office con le autorità italiane e con quelle americane su Giulio Regeni. Il Foia è uno dei pochissimi strumenti con cui un giornalista può cercare di ottenere i documenti interni di un governo riguardanti un caso di pubblico interesse, per ricostruirlo in modo rigoroso, sulla base di fatti e dati oggettivi. A differenza dell’Italia, in cui l’istituzione del Foia è molto recente, nel Regno Unito è uno strumento ben rodato.

Due mesi dopo la nostra richiesta, il Foreign Office ha risposto dichiarando di non aver scambiato alcuna corrispondenza su Giulio Regeni con le autorità americane del Dipartimento di Stato, l’organo del governo degli Stati Uniti responsabile per la politica estera e le relazioni internazionali. La diplomazia inglese e quella americana hanno una relazione speciale: colpisce che non abbiano minimamente comunicato su un caso di così alto profilo. Quanto alla corrispondenza con le autorità italiane della Farnesina, il Foreign Office ci ha rilasciato un’unica email pesantemente censurata, spiegando di non poter confermare né smentire che ce ne siano altre e invocando il rischio di danno alle relazioni internazionali, nel caso in cui la documentazione fosse resa pubblica. Ogni tentativo di accesso alla documentazione è stato completamente respinto. Per quasi quattro anni abbiamo messo da parte il nostro Foia su Giulio Regeni. Poi, però, nel novembre scorso, tre giornalisti inglesi, Jenna Corderoy, Peter Geoghegan e Lucas Amin del giornale online Open Democracy, hanno scoperto che all’interno dell’Ufficio di Gabinetto del primo ministro opera una misteriosa unità riservata, la Information Clearing House, che blocca il rilascio delle informazioni considerate più sensibili. Di questa unità si sa veramente poco, tanto che i tre giornalisti stanno conducendo una battaglia di trasparenza per scoprire come opera esattamente: quali Foia vengono bloccati e chi decide? Appena emersa l’esistenza di questa struttura, abbiamo prontamente presentato una richiesta alle autorità inglesi su consiglio dei nostri avvocati londinesi specialisti di Foia, Estelle Dehon e Jennifer Robinson, per scoprire se l’Information Clearing House fosse intervenuta anche sui nostri Foia. È venuto fuori che sei giorni prima che il Foreign Office rispondesse alla nostra richiesta su Giulio Regeni, il ministero degli Esteri inglese aveva inviato a quella struttura riservata la bozza della risposta preparata per rispondere al nostro Foia, e il 21 novembre 2017 l’Information Clearing House aveva tenuto un incontro su di esso. Che cosa hanno discusso le autorità inglesi nel corso di quel meeting? A oggi non abbiamo risposte. Negli ultimi 6 anni abbiamo presentato molte richieste di accesso ai documenti alle autorità britanniche. Solo i nostri Foia sul caso Julian Assange, sui giornalisti di WikiLeaks e su Giulio Regeni risultano essere stati inviati a questa unità definita dalla stampa inglese come “orwelliana”.

Cartabia, altri processi a rischio come quello Regeni

E dulcis in fundo ci sono le notifiche. Anche su queste è intervenuta la riforma Cartabia. Il testo votato a settembre dal Senato ha infatti fissato dei paletti più stringenti per quanto riguarda le comunicazioni che devono essere fatte agli imputati per dar loro la consapevolezza di essere coinvolti in un processo. I risultati di queste indicazioni si conosceranno in futuro: solo una volta stilati i decreti legislativi si potrà sapere se la normativa facilita realmente il lavoro delle Procure che devono comunicare agli imputati i processi a loro carico, o se invece consegnerà un’arma in mano agli imputati per ritardare o bloccare il giudizio. Soprattutto per coloro che affrontano il processo in contumacia, ossia non si presentano davanti al loro giudice.

È il caso tipico di tutte quelle inchieste i cui imputati sono persone straniere. Per esempio, gli accusati di omicidi di italiani commessi all’estero. La normativa, seppur molto tecnica, potrebbe avere quindi conseguenze pesanti e mettere a rischio processi come – per fare il più clamoroso degli esempi – quello ai torturatori e assassini di Giulio Regeni.

Per chiarezza: qualunque sarà il decreto legislativo, non si potrà applicare retroattivamente al processo agli agenti egiziani che di quei delitti sono accusati, ma la nuova disciplina peserà eccome su tutti i processi simili futuri. Questo ovviamente impensierisce molti magistrati che si domandano se e quali norme verranno varate e se metteranno a rischio le loro inchieste.

È all’articolo 2 che la riforma Cartabia prevede tra le altre cose una serie di principi e criteri direttivi da seguire. Uno degli aspetti riguarda appunto la consapevolezza dell’imputato di avere un processo in corso. È peraltro la questione che si discuterà nuovamente oggi – e vedremo perché – all’apertura del processo agli agenti egiziani per il caso Regeni.

Nel testo della riforma voluta dalla ministra Marta Cartabia si impone anche di “ridefinire i casi in cui l’imputato si deve ritenere presente o assente nel processo, prevedendo che il processo possa svolgersi in assenza dell’imputato solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che egli è a conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una sua scelta volontaria e consapevole”.

Su questa linea, il testo propone i criteri da seguire: alcuni sono già presenti nella normativa italiana, ma in futuro dovranno essere più stringenti.

La questione è già normata nel codice di procedura penale, anche all’articolo 420 bis, che riguarda “l’assenza dell’imputato”. Proprio di questo si discuterà oggi all’apertura del processo agli agenti degli apparati di sicurezza egiziani ritenuti dalla Procura di Roma i sequestratori di Giulio Regeni. Due uomini del dipartimento di sicurezza del Cairo, Tariq Sabir e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e due agenti della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, sono accusati del sequestro del ricercatore italiano, mentre il solo maggiore Sharif è accusato anche di lesioni aggravate e omicidio. È lui l’uomo che – secondo la Procura di Roma – con altri soggetti ancora da identificare (su questo le indagini sono ancora in corso), “con crudeltà, cagionava a Regeni lesioni che gli avrebbero (…) comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo, con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni”.

L’indagine è stata condotta in questi anni dal procuratore di Roma Michele Prestipino e dall’aggiunto Sergio Colaiocco che, nonostante la quasi inesistente collaborazione dei colleghi egiziani, sono riusciti a ottenere il processo per i quattro 007. Non vi è stata collaborazione da parte delle istituzioni del Cairo neanche quando i magistrati capitolini hanno chiesto con una rogatoria internazionale l’elezione di domicilio degli agenti.

Già un giudice dell’udienza preliminare ha stabilito che il processo può comunque svolgersi, con questa motivazione: “La copertura mediatica capillare e straordinaria ha fatto assurgere la notizia della pendenza del processo a fatto notorio”. Dunque gli agenti non possono essere all’oscuro delle accuse a loro carico e il processo può essere celebrato. Ma il codice italiano prevede che questa decisione, già assunta nell’udienza preliminare, di fronte a imputati in contumacia debba essere rinnovata in ogni grado del processo. Quindi oggi la questione sarà di nuovo affrontata in Corte d’assise. Il pm Colaiocco ribadirà la posizione netta della Procura e aggiungerà ulteriori dieci elementi che dimostrano come si sia cercato dapprima di depistare le indagini, poi di rallentarle e infine, con la mancata elezione di domicilio, di far saltare il processo. Per la Procura di Roma quindi gli imputati si sono sottratti volontariamente al processo. La National Security – ricostruisce Colaiocco – sapeva: avevano anche i documenti del ricercatore trovato senza vita al Cairo nel febbraio 2016, hanno visto i video alla fermata della metropolitana di Dokki dove Regeni è stato sequestrato il 25 gennaio di quello stesso anno. Tutti elementi che per gli investigatori italiani dimostrano la consapevolezza degli imputati delle accuse loro rivolte.

Già oggi questo nodo potrebbe essere sciolto: se la Corte d’assise seguirà la linea del giudice dell’udienza preliminare e della Procura, il processo potrà proseguire con gli imputati assenti giudicati in contumacia. Altrimenti i giudici potrebbero chiedere una sospensione del procedimento.

Il rischio di non poter celebrare i processi agli imputati che si sottraggono alle notifiche, nel futuro potrebbe essere aggravato dalla riforma Cartabia e potrebbe riguardare anche tutti i processi con imputati in contumacia. Tutto dipenderà da come sarà redatto il decreto legislativo sulle notifiche, che dovrà rispettare i criteri richiesti dal testo della riforma. L’allerta dunque resta alta.

Cuffaro & Renzi: è l’ora di Italia Vasa Vasa

Quello che succede politicamente in Sicilia, spesso ha ripercussioni a carattere nazionale. E l’immagine dell’isola che si riflette sullo Stivale, mostra il ritorno dell’ex governatore Totò Cuffaro, che dopo aver scontato 7 anni di carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio, ha riesumato dalle ceneri la Democrazia Cristiana per allearsi con i forzisti guidati da Gianfranco Miccichè, pupillo di Silvio Berlusconi, presentandosi in quattro città (Caltagirone, Giarre, Favara e San Cataldo) e ottenendo altrettante sconfitte.

Ma Totò Vasa Vasa non si è perso d’animo e rilancia: “Ho parlato con Saverio Romano, Davide Faraone e Fabrizio Ferrandelli – ha detto a Repubblica –. Rifaremo il centro e diremo la nostra sulle Comunali a Palermo e sulle Regionali”.

Sono anni che Cuffaro strizza l’occhio a Matteo Renzi, spesso definito un “giovane politico che ha capacità e passione”. Non è un caso che molti cuffariani abbiano seguito la corrente renziana nel Pd, quando il loro leader era fuori dai giochi.

Per il momento Renzi non conferma l’inciucio e guarda ai possibili alleati. “La Lega così com’è non va da nessuna parte, il Pd non può rincorrere il M5S e i 5S sono politicamente morti. FI deve scegliere – dice Renzi –. Gli schieramenti siciliani e palermitani sono sempre anticipatori di quello che succede a livello nazionale. Noi cercheremo in tutta Italia le forze non estremiste, il disegno di Italia Viva è stare in un’area centrale e riformista che possa fare la differenza”. E più riformista di Totò Cuffaro che ha resuscitato la Dc cosa ci può essere?

D’altra parte l’appeal di Renzi nell’isola è ai minimi storici, basti vedere con che facilità i deputati regionali Luca Sammartino e Giovanni Cafeo e la senatrice Valeria Sudano lo abbiano scaricato per passare alla corte di Matteo Salvini e del “Carroccio alla Norma”.

Per l’alleanza giallorosa invece, i risultati sembrano dare nuovo vigore al Pd, e mettono in risalto le debolezze del M5S. I pentastellati infatti, se viaggiano da soli si sciolgono e perdono consensi, mentre vincono se corrono uniti ad altre forze politiche. La riconferma ad Alcamo di Domenico Surdi (42%) è dovuta all’alleanza tra i M5S e le liste civiche locali. Il successo a Caltagirone di Fabio Roccuzzo (54%), che sbaraglia il centrodestra unito, è il frutto dell’intesa giallorosa, che andrà ai ballottaggi anche a Lentini, San Cataldo e Favara. Mentre è cocente la sconfitta della solitaria pentastellata a Porto Empedocle.

Il sottosegretario M5S Giancarlo Cancelleri giudica “entusiasmanti” i risultati del Movimento nell’isola, e già pregusta una possibile terza ricandidatura a governatore. “Mi sembra prematuro”, è il commento di Giuseppe Conte, che dovrà riprendere in mano il Movimento nell’isola, ormai diviso da numerose fazioni.

In tanti non perdonano a Cancelleri gli scivoloni sul ponte di Messina, sull’apertura a Forza Italia e sulle scelte di alcuni candidati alle precedenti elezioni.

Sullo sfondo aleggia il nome di Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia regionale e leader dei Cento Passi, pronto a misurarsi alle primarie di coalizione tra i giallorosa.

Boss liberi: da destra e Iv stop al nuovo ergastolo

Il centrodestra e i renziani hanno fatto saltare in commissione Giustizia della Camera il voto sul testo base della nuova legge ergastolo ostativo-benefici penitenziari per mafiosi e terroristi, che il Parlamento, su imposizione della Corte costituzionale, deve modificare entro sette mesi. Se ne riparlerà nelle prossime settimane, sulla “riva destra” della maggioranza ha prevalso la logica elettorale: nessuna concessione al M5S, che “non deve toccare palla”, tantomeno sul fronte giustizia. La Commissione, su proposta del presidente Mario Perantoni, M5S, avrebbe dovuto votare come testo base quello che ha come primo firmatario Vittorio Ferraresi, altro 5S, dato che, a detta dei diversi magistrati antimafia auditi in Commissione, è quello più “strutturato”, in modo da evitare che con la nuova legge ci sia un “liberi tutti” per mafiosi irriducibili che, con quella attuale, invece, non hanno diritto alla libertà condizionata.

Ieri, però, il centrodestra e i renziani si sono messi di traverso, non vogliono un testo con il “timbro” M5S e quindi i pentastellati, che avevano dalla loro parte il Pd (il testo in Commissione firmato dalla deputata dem Bruno Bossio, come già scritto, non ha avuto seguito nel partito) e anche Leu, hanno dovuto prendere atto che non c’erano i numeri; al presidente Perantoni, che resterà relatore della legge, non è rimasto che decidere di convocare un “comitato ristretto” con membri di tutti i partiti per trovare la quadra su un testo unico, che rappresenti la Commissione. Sullo sbarramento, nei fatti anti-M5S, è intervenuto l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Il mancato recepimento della nostra proposta come testo base per la legge rappresenta una inspiegabile battuta d’arresto nel cammino della legge sull’ergastolo ostativo. Noi ci siamo e continueremo a lavorare per una legge così importante, ma in questa occasione sarebbe stato giusto mettere da parte tutte le strategie politiche ed essere uniti sulla proposta che porta la firma di Ferraresi”. In una nota, i deputati M5S in Commissione, ribadiscono che questa legge è “una battaglia fondamentale antimafia” e si dicono “profondamente stupiti” che “Italia Viva e il centrodestra abbiano scelto di non sostenere la nostra proposta di legge, ritenendola troppo restrittiva”.

Il Parlamento deve approvare una legge entro maggio 2022 che scongiuri le scarcerazioni di capimafia, perché la Corte costituzionale ad aprile ha “sdoganato” pure la libertà condizionata, dopo 26 anni di carcere, per i boss con ergastolo ostativo che non hanno mai collaborato. Ha, però, deciso che sia il Parlamento, entro un anno, a normare. Nel 2019, invece, ha dato il via libera essa stessa ai permessi premio, con dei paletti di cui devono tenere conto i giudici di Sorveglianza chiamati a decidere.

Ieri, in Commissione è saltato anche un altro voto, quello in merito al parere sul ddl del governo sulla presunzione di innocenza, che imbavaglia i pm e i giornalisti, prevedendo che i procuratori possano parlare con i cronisti solo con comunicati e “in casi eccezionali” in conferenza stampa, impedendo così, con la scusa del recepimento di una direttiva Ue, che i cittadini vengano a conoscenza di inchieste che riguardino politici e altre figure istituzionali, di rilievo sociale.

Ma questo bavaglio è insufficiente per il relatore in Commissione Enrico Costa, di Azione, che non vuole neppure le conferenze stampa dei procuratori e che, per dire, si sappiano i nomi dei pm titolari di indagini. Ferraresi si è espresso contro e ha chiesto, invece, delle modifiche al testo già restrittivo del governo, per garantire il diritto all’informazione e ai giudici il libero convincimento quando scrivono un provvedimento. Alfredo Bazoli, Pd, dal canto suo, ha proposto un parere favorevole secco “per stare col governo e con la maggioranza”. A quel punto si sono iscritti a parlare tutti i deputati M5S e il presidente Perantoni, grazie anche a un “provvidenziale” inizio dei lavori dell’Aula, ha rinviato il voto di una settimana.

“M5S quando vede che il voto non ha l’esito che desidera lo impedisce” ha commentato un Costa furioso, Perantoni ammette il problema politico: “È stato un rinvio dovuto sia a ragioni tecniche, cioè l’inizio dei lavori d’Aula, sia per evitare una conta che avrebbe spaccato la maggioranza”.

Destra accerchiata: Salvini & Meloni contro la piazza Cgil

Le facce sono scure, l’atmosfera pesante. Il centrodestra si sente accerchiato. E lo si vede al Tempio di Adriano, a pochi passi dalla Camera, dove i leader della coalizione si riuniscono in una conferenza stampa senza domande per sostenere il candidato a Roma, Enrico Michetti. Il clima è di quello da vigilia di una sconfitta: anche tra i dirigenti di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia in pochi ormai credono nella vittoria di Michetti al ballottaggio contro Roberto Gualtieri. Difficile riportare al voto le periferie e la bassa partecipazione, stimata poco sopra il 40%, potrebbe favorire il centrosinistra. A maggior ragione adesso che Pd e M5S si stanno mobilitando sulla causa antifascista dopo l’assalto di Forza Nuova alla sede della Cgil e visto che sabato, nel giorno del silenzio elettorale, manifesteranno con il sindacato in piazza San Giovanni. Un appuntamento che i leader del centrodestra vedono come fumo negli occhi. E allora l’obiettivo del centrodestra diventa quello di proibire, rinviare o spostare la manifestazione di sabato in solidarietà con il sindacato. E allo stesso tempo di ergersi a vittima degli avversari e dei media che, a loro dire, sfruttano scandali e gli scontri di sabato per politicizzare il voto.

Giorgia Meloni parla così della piazza di San Giovanni: “È una cosa vergognosa, serve alla sinistra prima delle elezioni”. Anche Matteo Salvini ci va giù durissimo. Chiede un incontro a Mario Draghi perché “ci sono ministri di cui non mi fido” e perché “se la macchina è fuori controllo non si va lontano”. Nel pomeriggio il leader della Lega viene ricevuto per un’ora a Palazzo Chigi dal premier e propone, a nome di tutto il centrodestra, una “pacificazione nazionale”. Chiede di “abbassare i toni” e, magari, di intervenire con un appello “alle responsabilità dei partiti”. Durante il colloquio il leader della Lega ha chiesto a Draghi di fermare “le campagne di delegittimazione feroci contro Lega e FdI”. Difficile che il premier si esponga così tanto: da Chigi fanno sapere che Draghi non può fare più di tanto sulle polemiche interne ai partiti. Resta, nel centrodestra, il clima da accerchiamento. Gli scandali Morisi, Fanpage, le vecchie frasi antisemite di Michetti e l’assalto di sabato alla Cgil di FN vengono descritti come un unico disegno (Meloni evoca la “strategia della tensione”) per far fuori il centrodestra. E così i toni si alzano. La leader di FdI parla di “killeraggio” e di “campagna elettorale indegna”, Lorenzo Cesa (Udc) si agita perché “dare del fascista a Michetti è vergognoso, perché è un democristiano”, Antonio Tajani invita la sinistra a non “usare la manifestazione per fini elettorali”, Maurizio Lupi di spostarla a Milano.

Enrico Michetti, il candidato gaffeur che fino a pochi mesi fa inneggiava alla Wehrmacht, si è difeso dall’accusa di essere fascista contando 86 attacchi in 100 giorni e paragonandosi addirittura ad Alcide De Gasperi durante la conferenza di Parigi del 1946: “Disse: ‘So che tutto è contro di me tranne la vostra personale cortesia’. Per me è uguale, io sono un democristiano”. Poi si passa ai contenuti e la trovata (non molto originale) è un “patto per Roma” firmato dai leader per dare più soldi e poteri alla Capitale. Ma le previsioni sono pessime: “Nelle periferie troppa gente non vota – mette le mani avanti Salvini – in alcuni municipi vinceremo, ma sono fiducioso sulla possibile vittoria in Campidoglio”. Scarso entusiasmo. E così Meloni e Salvini salutano Michetti e nel pomeriggio vanno a Latina, a casa Durigon, per sostenere il candidato Vincenzo Zaccheo. Lì almeno si può vincere.