Michetti riabilita la Raggi. Gualtieri vince per inerzia

Infine duello fu. E tolse ogni dubbio sul motivo per cui Enrico Michetti ha sempre evitato i confronti diretti con gli altri candidati al Campidoglio. La sfida televisiva con Roberto Gualtieri nel salotto di Porta a Porta – arbitro l’immarcescibile Bruno Vespa – si chiude con una vittoria abbastanza netta dell’ex ministro all’Economia del centrosinistra. O meglio, con una sconfitta nitida del “tribuno” voluto da Giorgia Meloni.

Nonostante i tre punti di vantaggio nel primo turno, Michetti è ampiamente sfavorito. E come tale si gioca la carta della disperazione: la ricerca del sostegno di Virginia Raggi. Nei 40 minuti di duello, la chiamata del tribuno all’ex sindaca è evidente in più di un passaggio. Il più esplicito, quando parla della candidatura di Roma a Expo 2030: “Devo dire che l’attuale consiliatura, con la sindaca Virginia Raggi, ha fatto un ottimo lavoro. La candidatura è ben pianificata, ci ha lavorato più di un anno. Per onestà intellettuale, devo riconoscere il buon lavoro dell’amministrazione capitolina”.

Ma i messaggi obliqui di Michetti continuano anche quando si parla di rifiuti, pulizia e decoro. La vera colpevole del degrado di Roma, secondo il candidato delle destre, è la Regione Lazio. Michetti è un po’ goffo: lo dice a più riprese, ma si scorda di fare il nome di Nicola Zingaretti, governatore e compagno di partito di Gualtieri. Il senso comunque è chiaro, se Roma è sporca la colpa non è della Raggi ma del Partito democratico: “La Regione Lazio ha una responsabilità enorme. Non solo redige il piano rifiuti, ma se il Comune è inadempiente ha il dovere di commissariarlo per garantire l’igiene urbana. Invece non ha mai messo il Comune nelle condizioni di risolvere il problema di Roma. Ha creato un disastro ambientale. Secondo una rivista americana, Roma è peggio di Bangkok”.

Michetti chiama Raggi, quindi, nell’improbabile speranza che la sindaca uscente gli conceda una preferenza pubblica che spaccherebbe il Movimento 5 Stelle, visto che Giuseppe Conte ha già annunciato il suo voto per Gualtieri (come pure l’altro sconfitto del primo turno, Carlo Calenda). Poi il tribuno si gioca la carta Guido Bertolaso, pluricitato nei 40 minuti di duello e annunciato come futuro “supercommissario” ai rifiuti e al Giubileo del 2025, con un’insistenza che fa sembrare quasi lui il vero candidato sindaco.

Gualtieri è rimasto lucido e forse un po’ troppo freddo, di certo non ha infierito. Non ha giocato con le tremende gaffe del suo avversario, che continuano a emergere dagli archivi cartacei e radiofonici (da quella sulla Shoah e la pietà per gli ebrei “perché avevano le banche”, alle lezioni scivolose sull’ascesa di Hitler). Non ha puntato sulla settimana “nera” della destra e sulle reticenze di Meloni nel riconoscere “la matrice” delle ultime violenze di piazza. Ha esposto il programma con chiarezza, mostrando più concretezza e familiarità con i numeri e gli argomenti trattati. Un paio di volte ha replicato con ironia, quando Michetti l’ha accusato di essersi dimenticato di inserire Roma nella sua versione del Pnrr quando era ministro (“Le farò avere una copia sottolineata, è l’unica città d’Italia a cui sono dedicati fondi appositi”) o quando il tribuno insisteva negli affondi contro Zingaretti (“Le farò dono anche di un manuale di diritto sulle responsabilità amministrative degli enti locali”). Un colpo a segno sul tema legalità: “Michetti parla con grande afflato di sicurezza, ma sarebbe stato meglio se non ci fossero stati occupanti di CasaPound nelle sue liste, che rischiano di essere eletti in Consiglio. Per fortuna non succederà”. Nel complesso Gualtieri è stato pulito, ma ha rischiato poco: ha lasciato fare tutto al suo avversario.

Scontri, Lamorgese balbetta. La Digos parla di “eversione”

Solidarietà alla Cgil, difesa delle forze dell’ordine che hanno contato 38 feriti, impegno a valutare lo scioglimento di Forza Nuova. Nel question time di ieri alla Camera, però, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, non è entrata nel merito delle sottovalutazioni e degli errori che hanno accompagnato, sabato scorso, l’assalto alla Cgil e i cortei arrivati fino ad assediare Palazzo Chigi. Spiegherà tutto il 19 ottobre, ha detto che non ha ancora ricevuto tutte le relazioni della polizia e del prefetto. Così facendo, tuttavia, Lamorgese si è esposta agli attacchi di Giorgia Meloni, che l’ha accusata addirittura di aver “volutamente permesso” quanto accaduto e ha parlato di “strategia della tensione”.

Nelle stesse ore cominciavano a circolare gli atti della Procura di Roma che chiede di tenere in carcere Giuliano Castellino e Roberto Fiore, leader romano e nazionale di Forza Nuova e gli altri quattro capipopolo “No pass” arrestati nella notte tra sabato e domenica che rispondono, tra l’altro, di devastazione e saccheggio – reato punibile fino a 15 anni – per l’irruzione nella sede del sindacato.

Oggi il giudice decide. “La determinazione di dirigersi nella direzione della sede sindacale Cgil nasce già in piazza del Popolo – scrive la Digos di Roma nell’informativa alla base delle richieste dei pm – allorché un esponente di Forza Nuova, il noto Aronica Luigi, si evidenzia per aver chiesto la possibilità di muoversi in corteo proprio nella direzione della citata sede sindacale”. Non è uno qualsiasi Aronica, 65 anni, detto “Er Pantera” e anch’egli arrestato: è un ex Nar che ha scontato 18 anni. Così la polizia ha inviato un contingente a proteggere lo storico edificio di Corso Italia, ma a quanto pare non pensava a un assalto, semmai a un lancio di oggetti, quindi ha schierato ben pochi uomini davanti all’ingresso, che sono stati facilmente sopraffatti, mentre almeno due squadre dei carabinieri sono rimaste a lato. Sono riusciti a entrare dopo la rottura di una finestra e della porta a vetri. “Portateci da Landini o lo andiamo a prendere noi”. Questo avrebbe detto Castellino, secondo le relazioni agli atti, agli uomini della Questura. “Fatece passa’, dovemo entra’”.

La vicenda è ormai nota, dopo la manifestazione di 15-20mila persone in piazza del Popolo c’è stato un tentativo di sfondare il cordone di polizia in via del Babbuino per andare verso Palazzo Chigi e Montecitorio, respinto senza particolari danni. Intanto però gran parte dei dimostranti se ne andava su per Villa Borghese verso la Cgil, per poi in parte travolgere e in parte aggirare un altro, più esiguo schieramento all’uscita del parco. Quindi una parte ha imboccato via Veneto per ridiscendere verso Palazzo Chigi e gli altri sono andati alla Cgil, ormai a due passi. Il dispositivo di polizia era già nel pallone.

Nella richiesta, i pm Gianfederica Dito e Alessandra Di Taranto ricordano che Castellino è sottoposto alla sorveglianza speciale, che ha violato più volte le restrizioni e da mesi è in prima linea nelle mobilitazioni prima contro il lockdown e poi contro il Green pass. Almeno due volte la Procura aveva chiesto misure più severe, negate dai giudici. Lamorgese ha spiegato che arrestarlo in piazza del Popolo sarebbe stato “rischioso per l’ordine pubblico”.

Secondo la Digos “le condotte descritte, anche ostentate da alcuni indagati sulle rispettive piattaforme social, quasi a mo’ di trofeo, hanno travalicato il piano della lesione di beni di rango individuale, vulnerando non solo un ente preposto alla tutela dei diritti e alla salute dei lavoratori, ma più in generale l’ordine pubblico. L’azione condotta – scrive ancora la Digos – appare lambire i contorni di un clima eversivo in cui le istituzioni del sistema Paese vengono individuate come obiettivi da sacrificare a sostegno di una causa politica e/o ideologica, comunque in contrapposizione con i principi costituzionali di solidarietà e tolleranza”. Oggi gli arrestati si difenderanno dicendo, a seconda dei casi, di non essere entrati nei locali della Cgil o di non aver sfasciato nulla, anzi Fiore ha detto ai suoi avvocati di aver fermato coloro che si accanivano sugli arredi, tra i quali i video mostrano anche persone evidentemente estranee alla militanza politica, ma erano lì e Procura e polizia non hanno dubbi sulla loro leadership.

Altri fronti

 

 

 

Poliziotti 1 su 5 senza nella “mobile” in pericolo i turni e la sicurezza

Martedì, il sindacato della Polizia, la Coisp, aveva detto che erano almeno 18mila i poliziotti non ancora vaccinati. E ieri, dai dati di molte città d’Italia è emerso che, in media, il 20 per cento non è immunizzato. A Torino, ad esempio, non è vaccinato un agente su tre; a Firenze quasi quattro su dieci. Nei reparti di Roma e Milano sono almeno un centinaio. Il rischio che da venerdì ci siano problemi nella copertura dei turni è alto, soprattutto mentre si moltiplicano le proteste contro il Green pass (e tenendo conto che anche tra i carabinieri c’è una quota di personale non vaccinato che dovrebbe essere di poco inferiore al 10%). “È impensabile lasciare a casa anche un solo poliziotto, soprattutto dopo l’impegno e i sacrifici degli ultimi mesi” ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini. Ieri, poi, il capo della Polizia, Lamberto Giannini, ha firmato la circolare su come funzioneranno i controlli per i poliziotti, con un punto fermo: chi inizia a lavorare con il pass continuerà fino alla fine del servizio anche se dovesse scadere la certificazione.

 

Agricoltura Centomila braccianti potrebbero fermarsi. Allarme mele

L’obbligo di Green pass rischia di bloccare l’agricoltura. Almeno questo è l’allarme lanciato ieri dalla Coldiretti che parla di percentuale di non vaccinati pari al 25%: 100 mila addetti dei campi, su un totale di 400 mila, sprovvisti di certificato verde e che quindi da domani non potranno andare al lavoro. L’associazione ha chiesto al governo una semplificazione dei meccanismi di controllo all’ingresso, ma ha anche colto l’occasione per reclamare contratti più flessibili per assumere i beneficiari di ammortizzatori sociali. La situazione più complicata sembra riguardare il Trentino Alto Adige, dove in questo momento è in atto la raccolta delle mele, attività che impegna molti rumeni i quali presentano percentuali di vaccinazione molto basse. Meno allarmista la posizione della Cia: “Niente proroghe né deroghe alla strategia del governo, mirata a sconfiggere il Covid. Vengano garantiti servizi rapidi a disposizione dei lavoratori, ora è prioritario mettere in sicurezza il Paese”.

 

Tpl Conducenti e macchinisti: fino al 25% in meno, controlli a campione

Venerdì agita Atm e Trenord. Le due società di trasporti milanese, che a regime hanno rispettivamente 800 mila e 1,4 milioni di passeggeri, potrebbero avere il 20% di possibili defezioni tra il personale. Le società eseguiranno il controllo del Green pass agli ingressi e a campione durante l’orario di lavoro. Disagi “inevitabili” anche a Bologna: mancheranno 88 autisti e difficilmente potranno essere garantite le corse. La previsione è della stessa Tper, l’azienda che gestisce il trasporto pubblico locale sia in città che a Ferrara. Non andrà meglio a Torino, dove la Filt Cgil si stima il 25% di personale senza Green pass. Possibili disagi anche a Roma. L’Atac spiega che effettuerà dei controlli a campione fra autisti, macchinisti e addetti alle stazioni. La Cgil stima che il 10% degli 11 mila lavoratori non sia vaccinato. L’Anm, l’azienda di trasporto pubblico locale di Napoli che conta poco più di 2.000 dipendenti, calcola in un 10-15% la percentuale di personale sprovvisto di certificato verde. I controlli avverranno a campione, non più del 30% giornaliero, e attraverso servizi di vigilanza esterna.

Da Trieste agli autisti dell’Est: trasporto merci a rischio stop

Alla vigilia dell’introduzione del Green pass obbligatorio la situazione resta confusa nel mondo dei trasporti con il rischio che camionisti e portuali blocchino il sistema Paese. Container che non partono e merci che non riempiono gli scaffali dei supermercati, l’impossibilità di fare il pieno il rifornimento di carburante, ma anche il blocco nei cantieri edili a causa della mancata distribuzione delle materie prime: queste le possibili estreme conseguenze dell’annunciato blocco a oltranza dei due settori dove il tasso degli addetti senza la prima vaccinazione supera il 30% del totale. “Su 1,5 milioni di addetti, abbiamo 400 mila dipendenti nelle aziende dei trasporti e altrettanti impiegati nelle attività di magazzinaggio che non hanno il Green pass”, spiega Ivano Russo, il direttore di Confetra che riunisce oltre 100 mila imprese tra spedizionieri, marittimi e terminalisti che smistano ogni giorni metà delle importazioni italiane su gomma.

Quello degli autotrasporti è un settore già in notevole affanno: negli ultimi anni la mancanza di autisti ha spinto le imprese a rivolgersi all’Europa dell’Est, proprio dove si riscontra la problematica maggiore sul fronte vaccinale. Se una parte dei camionisti italiana decidesse comunque di organizzarsi con il tampone, nonostante le difficoltà per farmacie e laboratori di processare un numero così elevato di test, resta però certo il rebus sui controlli per gli autisti bulgari, polacchi, romeni e bosniaci. Lavoratori che arrivano dai Paesi con la percentuale più bassa di vaccinati in Europa: si va dal 15% della Bosnia al 29% della Romania. E chi è comunque vaccinato, lo ha fatto con Sputnik, un vaccino non riconosciuto dall’Ema e che il governo non intende considerare valido. Altra problematica arriva dalla Turchia: con le vaccinazioni ferme al 54% della popolazione, sono a rischio le consegne, ad esempio, di grano o nocciole. Ora la speranza dei sindacati è che resti valido il protocollo siglato con il ministero dei Trasporti che, spiega il presidente di Conftrasporto-Confcommercio Paolo Uggé, “potrebbe consentire da venerdì a un camionista non vaccinato di trasportare le merci, ma di non scaricarle rimanendo chiuso in cabina”. Insomma, lo stesso sistema utilizzato durante la pandemia quando la distribuzione non si è mai fermata. Ma che ora – denunciano i sindacati – a causa dell’obbligo del Green pass rischia di deflagare e portarsi dietro tutto il processo logistico.

Al possibile blocco delle consegne, si aggancia un altro settore che già da ieri ha dimostrato di mettere seriamente in crisi l’Italia: i porti. Il caso limite è quello di Trieste dove, secondo il portavoce dei portuali, Stefano Puzzer, “il 40% degli addetti non è vaccinato”. L’invito del Viminale a fornire gratuitamente tamponi ai dipendenti sprovvisti di Green pass (non si sa quanto condiviso con Palazzo Chigi) è stato raccolto dalle imprese, ma il Comitato Lavoratori Portuali di Trieste è rimasto fermo, anche di fronte alle minacciate dimissioni del presidente dell’Autorità portuale Zeno D’Agostino.

Il diktat è chiaro: o salta l’obbligo di Green pass o sarà blocco a oltranza. Una piazza agitata è anche quella di Genova, dove è stata convocata per oggi una riunione in prefettura tra i sindacati e le aziende del porto. Secondo Duilio Falvo della Uiltrasporti Genova, il personale sprovvisto di vaccino è stimato intorno al 20%. Qui diverse imprese si sono dette disponibili a forniture di tamponi a loro spese, ma solo per i propri dipendenti. Altre criticità non si registrano, invece, nei porti di Livorno, Napoli e Venezia. Ad essere attenzionata resta, quindi, Trieste anche se va valutata un’altra conseguenza del possibile blocco dei portuali: “Con l’obbligatorietà del Green pass è inevitabile che ci saranno maggiori costi per gli importatori e gli esportatori di merci che si scaricheranno su tutta la filiera”, denuncia Massimo De Gregorio, presidente di Anasped, la federazione degli spedizionieri doganali.

Il governo va allo scontro: il Green pass resta com’è

Arrivati a questo punto è un gioco a incastri: un passo indietro, anche minimo, farebbe crollare tutto l’impianto, una figuraccia che Mario Draghi non vuole fare. Meglio affrontare il non quantificabile caos a cui si rischia di assistere da domani, quando scatterà l’obbligo di Green pass per tutti i lavoratori. I segnali di difficoltà arrivano un po’ da tutta Italia (come leggete in queste pagine). Non c’è solo il porto di Trieste che rischia la paralisi, con i portuali decisi allo sciopero a oltranza contro l’obbligo. Ci sono imprese grandi (come Ilva) o piccole che si sono rassegnate a mettere a disposizione i test gratis, ma soprattutto non c’è associazione di categoria che non lanci un allarme. Le difficoltà maggiori sono nel trasporto pubblico locale e nell’autotrasporto, dove la quota di lavoratori senza certificato si avvicina al 30% grazie all’alta percentuale di stranieri, specie dell’Est. Ma ci sono anche le forze di polizia (i reparti mobili sono i più colpiti).

Per capire come si è arrivati a questo punto, serve un passo indietro. L’obbligo è stato previsto, via decreto, il 13 settembre, rendendo l’Italia un banco di prova nel mondo. Nonostante il governo avesse centrato l’obiettivo dell’80% di vaccinati over 12, Draghi ha voluto usare l’arma “fine di mondo” nella speranza di costringere i più restii a vaccinarsi. Dopo un iniziale incremento, la scorsa settimana si è toccato il ritmo più basso nelle vaccinazioni da luglio. Il piano, da questo punto di vista, è fallito, soprattutto per il nodo dei tamponi. A Palazzo Chigi i numeri sono noti: un documento interno, citato dalla Reuters, parla del 15% di dipendenti privati e dell’8% nel pubblico senza Pass.

Tornare indietro sarebbe però politicamente esplosivo per il premier. Draghi ha convocato per oggi i leader di Cgil, Cisl e Uil. Formalmente il tema è il decreto che inasprisce le sanzioni per chi viola le norme di sicurezza sul lavoro (potrebbe finire nel Consiglio dei ministri in giornata o venerdì): difficile non si parli anche del Green pass, viste le difficoltà crescenti.

Ieri per dire, si è tenuto l’incontro tecnico coi ministeri di Salute e Lavoro che i sindacati avevano chiesto il 29 settembre per sciogliere alcuni nodi non da poco. La richiesta è di mettere i lavoratori senza certificato in grado di fare il tampone, aprendo degli hub appositi (niente da fare, invece, per la richiesta di averli gratis) vista la difficoltà delle farmacie a far fronte all’impennata della domanda di test, peraltro già in atto. Altra richiesta: che vengano riconosciuti anche i vaccini non autorizzati dall’Agenzia europea del farmaco, come il russo Sputnik. E anche qui, niente da fare. “C’è poi il tema dei controlli che abbiamo richiesto possano avvenire anche a campione e a rotazione in accesso al lavoro e non durante il turno – ha detto Ivana Veronese, segretaria confederale della Uil –. Abbiamo posto tanti altri temi, ma è chiaro che non tutti troveranno soluzione entro venerdì. Una riflessione sui tempi di applicazione del Pass il governo a questo punto dovrebbe farla”. La confusione è notevole. A Palazzo Chigi, per esempio, studiano un ulteriore aggiornamento delle Faq, le domande e risposte sul sito del governo che dovrebbero evitare dubbi applicativi. Alcune cose non sono chiare: che succede, infatti, se scadono le 48 ore di validità del tampone durante il turno di lavoro, visto che i controlli possono avvenire anche dopo l’ingresso?

Niente da fare invece per l’estensione a 72 ore (dalle 48 attuali) della validità dei test rapidi: era la richiesta delle regioni del Nord guidate dal centrodestra, ma bocciata dai presidenti di centrosinistra (si lavora però a un documento che chieda i test gratis o calmierati ulteriormente). Draghi, insomma, non sembra intenzionato a tornare indietro. Linea che avrebbe recapitato anche a Matteo Salvini, ieri a Palazzo Chigi. Il leghista chiedeva un’apertura sui tamponi, visti i 3,5 milioni di lavoratori coinvolti (“non si possono lasciare 20 mila poliziotti a casa”). Anche qui niente da fare.

L’astrattismo al potere

Si temeva, dopo gl’incredibili abbagli di febbraio (“Draghi è grillino”, “Cingolani è grillino”), che Beppe Grillo avesse smarrito le sue proverbiali antenne: quelle che, sotto l’istigazione e la regia di Gianroberto Casaleggio, lo portarono a intercettare i segnali che agitavano sottotraccia le periferie politiche, sociali e mediatiche d’Italia, prima col suo blog, poi con i due VDay, poi con l’autocandidatura alla segreteria del Pd, infine col M5S. Invece l’altroieri, col suo appello alla “pacificazione” contro questa farsa di strategia della tensione sul Green pass, ha ritrovato improvvisamente il radar e la sintonia con la parte meno conosciuta del Paese. Gli è bastato che le urne si svuotassero e le piazze si riempissero, per darne la lettura meno scontata e conformista, dunque più seria e attendibile: liquidare tutti gli “anti”, anche i manifestanti pacifici di Roma e Milano, anche i Cobas e i portuali di Trieste, come “fascisti” è ridicolo e pericoloso. E sarebbe assurdo uscire dalla pandemia in assetto di guerra dopo esserci entrati e averla affrontata tutti insieme con la calma e la persuasione di Conte. Ora però che ha recuperato le antenne, Grillo dovrebbe compiere il passo successivo e abbandonare la strana passione per i “tecnici” (nel 2011 ebbe un fugace flirt pure con Monti). Tutta gente ben incistata nelle centrali del potere finanziario, dunque totalmente scollegata dalla realtà e dalla vita delle persone. Ricordate la Fornero? Fece piovere dalla sua torre d’avorio la controriforma delle pensioni, poi si accorse che, ops che sbadata!, le era sfuggito un piccolo dettaglio: 390mila esodati che si ritrovarono da un giorno all’altro senza più lo stipendio e senza ancora la pensione. Un genio.

Ora abbiamo SuperMario che, con quell’arietta da Maria Antonietta, si crede ancora alla Bce e detta le tavole della legge dal Sinai senza degnarsi di spiegarle alla plebe né preoccuparsi delle conseguenze. Anche quando sono note a tutti. Un mese fa, quando impose il Green pass per lavorare (caso unico nel mondo libero), non ci voleva un ex presidente della Bce per intuire che milioni di lavoratori sarebbero stati espulsi dal posto del lavoro e dallo stipendio senza poter essere sostituiti: una bomba sociale su milioni di famiglie, una carica di tritolo sull’ordine pubblico per le prevedibili proteste, un missile aria-terra sul sistema produttivo a corto di manodopera. Infatti molti incompetenti, noi compresi, l’avevano capito subito. Lui no. Ora, all’improvviso, Maria Antonietta Draghi e i suoi laudatores si battono la manina sul capino e scoprono che chi resta senza lavoro né stipendio s’incazza e le imprese senza manodopera si bloccano. Fortuna che questi sono i migliori: figurarsi se fossero i peggiori.

McKennitt: “Sognavo di diventare veterinaria, ma la musica mi rapì”

“Trent’anni sembrano un tempo lungo, non importa come lo si misuri”, afferma la cantautrice canadese Loreena McKennitt, parlando del suo disco The Visit, che a tre decadi dalla pubblicazione viene riproposto in un cofanetto versione deluxe, con quattro Cd e un disco Blu-ray audio e un libretto illustrato di 32 pagine. “Guardando al passato come a un’immagine possiamo vedere com’è stato quel periodo nel suo contesto. Tante persone mi hanno detto come questo disco sia diventato una specie di colonna sonora per le loro vite nel periodo in cui è stato pubblicato nei primi anni Novanta”.

Originale, McKennitt, lo è stata sin dall’inizio: nel tempo, poi, è divenuta una autentica icona della musica celtica, con oltre 14 milioni di album venduti in tutto il mondo, vincendo dischi d’oro, di platino e multi-platino in 15 Paesi di quattro continenti. All’inizio degli anni Novanta, con il suo stile peculiare caratterizzato da una voce da soprano particolarmente acuta e duttile, si impone all’attenzione del grande pubblico.

Eppure, Loreena, che oggi è una splendida 64enne dai modi estremamente gentili, da bambina mai avrebbe pensato che sarebbe diventata una musicista: “Non avevo alcuna intenzione di entrare nel mondo della musica, infatti ho sempre desiderato essere una veterinaria. Ritengo, piuttosto, che sia stata la musica a scegliermi. Da adolescente provavo un certo interesse per la musica folk, ascoltavo con assiduità Simon & Garfunkel e Joni Mitchell, poi alla fine degli anni Settanta entrai in contatto con la musica celtica e subito mi resi conto che c’era qualcosa di incredibilmente interessante mi spingeva a entrare a farne parte. Ovviamente non osavo neanche sfiorare il pensiero che potessi ricavarne addirittura una carriera professionale”.

Nell’autunno del 2019, Loreena ha deciso di prendersi una pausa dalla sua carriera musicale per poter dedicare più tempo e attenzione a tematiche civili e al cambiamento climatico, sostenendo anche leggi per la protezione dei diritti degli artisti e incoraggiando il pubblico a comprare la musica direttamente dall’artista quando possibile. Ora, dopo questa ripubblicazione di The Visit – The Definitive Edition, un disco che quando uscì nel 1992 segnò un punto di svolta nella carriera dell’artista, in quanto in esso annetté al suo bagaglio compositivo ed esecutivo elementi di World Music e tinte esotiche, scelta che le valse le prime ovazioni internazionali, si spera che l’artista canadese possa rimettersi in viaggio, quel viaggio grazie al quale è riuscita a dare vita a dischi di raffinata bellezza.

Il “Mistero buffo” di Dario Fo: ciò che toccava diventava arte

Quando il discorso cadeva sul Nobel per la Letteratura, il viso grande e lungo, misteriosamente buffo, si illuminava. Non per il premio, ma per il modo in cui ne era venuto a conoscenza: “Ero in viaggio in autostrada da Roma a Milano con Ambra Angiolini con cui stavo registrando un programma tv. All’altezza di Firenze ci supera una macchina con a bordo un giornalista di Repubblica che sventola un cartello: ‘Dario hai vinto il Nobel’”. Primo dei molti colpi di scena di quel pomeriggio del settembre 1997. Come arriva a Milano, le auto lo seguono a clacson spiegati, un tram si ferma, i passeggeri scendono per salutarlo, il cortile della sua casa a Porta Romana è invaso da ragazzi che trasformano la via in una festa mobile, cori e musici improvvisati cantano Porta Romana bella a ritmo di samba. Ancora una volta il genio ribelle, contagioso, impudente di Dario Fo aveva trasformato in teatro tutto ciò che tocca, o da cui è toccato, Nobel compreso.

Oggi il concetto di narrazione è così inflazionato da risultare molesto. Todos narratores. Lo storytelling si studia nelle scuole di scrittura come nei corsi aziendali, ma lui aveva cominciato per tempo a trasformare in palcoscenico ogni momento della vita. I primi recital vanno in scena sui trenini che dal Lago Maggiore lo portano a Milano, dove frequenta l’Accademia di Brera. Il caos primigenio affollato di loschi pretoni, pulzelle procaci, contadini affamati e irresistibili cacciaballe nascono lì, davanti alla platea dei pendolari delle cinque del mattino, e lì si battezza il leggendario grammelot la lingua simil-medievale impastata di mille dialetti e onomatopee – immaginaria, dunque universale – che il genio di Dario racconta di avere imparato dai soffiatori di Porto Valtravaglia, “un paese dove si lavorava soprattutto la notte, in cui i bar e le osterie non chiudevano mai, un paese dove c’erano persone che provenivano da tutta Europa, e perfino dall’Oriente, ognuno con una tecnica diversa di soffiatura del vetro”. Da quel momento, Fo non smetterà più di soffiare il vento della sua grande magia. Nel 1962, insieme con Franca Rame, riesce a portare l’alito del teatro anche nella democristianissima Rai di Ettore Bernabei; saranno sette puntate di Canzonissima prima dell’inevitabile censura.

Il Sessantotto gli viene incontro a 42 anni, e sarà un invito a nozze. Addio definitivo alle sale tradizionali, irruzione nelle case del popolo, nelle chiese sconsacrate, nei circoli privati. Qui, come un trovatello dentro una capanna, nasce il monologo simbolo Mistero buffo, e nasce un’idea di teatro civile dove il pubblico suggerisce i temi, propone e quasi impone spettacoli con temi di denuncia inauditi, che porteranno Dario e Franca più di una volta in tribunale; il lavoro a domicilio, lo sfruttamento dei minori, la ribellione di alcuni consumatori milanesi raccontata in Non si paga, non si paga!, poi divenuta un caso nazionale, fino alle stragi di Stato. Sono gli anni della Palazzina Liberty, – anni di oro e di piombo, mistero triste – con le compagnie di tutta Europa e degli Stati Uniti che vengono a portare i loro spettacoli al Collettivo la Comune.

Comincia la lunga parabola del riflusso, i politici che si prendono sempre più la ribalta, attori mediocri eppure ubiqui; lui però continua a spingere il suo soffio omerico in tutte le direzioni, scena, letteratura, pittura, e il 9 ottobre 1997 tocca all’Accademia di Stoccolma farsi teatro, quando arriva quel signore in frac “che nella tradizione dei giullari medievali ha fustigato il potere e sostenuto la dignità degli umili”, quel cantastorie capace di fondere in un’unità inseparabile testo scritto e tradizione orale, l’infimo e il celestiale. Miracolo mai tanto prezioso come oggi; le generazioni convinte che con un messaggio e una faccina si possa dire tutto dovrebbero vedere Mistero buffo; basterebbero cinque minuti per capire che senza senza la voce e senza il corpo non si può dire nulla.

Negli indimenticabili giorni di 23 anni fa, ci fu anche chi si stupì e storse la bocca di fronte all’incoronazione di quel santo giullare, di quel cane sciolto che rivendicava le proprie radici laiche e popolari: un vero sgarro nel Paese delle arcadie, delle confraternite culturali, del razzismo letterario. Dunque a Stoccolma avevano preso un abbaglio? Se ci voltiamo indietro, e vediamo cosa ne è, un quarto di secolo dopo, della narrativa e della drammaturgia italiane, della sensibilità della politica per la cultura, dell’asfissia della satira… da qualsiasi parte ci giriamo, sentiamo che ci manca qualcuno. E quel qualcuno è Dario Fo.

“Mia Cara H. le voglio bene, h.”

Può darsi un’amicizia spirituale, intellettuale, intensamente tenera e purtuttavia non fisicamente erotica tra un uomo e una donna in pari grado cerebrali e sensuali?

Lui, scrittore e critico letterario sessantenne, è l’uomo più affascinante del mondo degli esuli ebrei tedeschi in America; lei, quarantenne, è tra i più grandi filosofi del Novecento.

Hermann Broch e Hannah Arendt si conoscono nel 1946 nell’appartamento newyorkese della loro comune amica Annemarie Meier-Graefe. Lei gli confessa di essere rimasta colpita dal suo La morte di Virgilio, che reputa al livello delle opere di Kafka; lui, che non sa resistere alla vanità, si sente commosso dall’idea di essere finalmente compreso. Il loro carteggio – oggi edito da Marietti, a cura di Roberto Rizzo e tradotto da Vito Punzi – durerà fino alla morte di lui, avvenuta nel 1951 per un attacco di cuore.

Lui prova subito a sedurla, è allenatissimo al flirt, che esercita preferibilmente nei confronti di segretarie e traduttrici. Ma lei è Hannah Arendt, la futura autrice de Le origini del totalitarismo, sposata a Heinrich Blücher (aveva divorziato da Günter Anders), già folgorata dall’amore fatale, nel 1924, da studentessa ebrea diciottenne, per il suo professore Martin Heidegger, il filosofo antisemita che nel ’33, diventato rettore all’Università di Friburgo, giurerà fedeltà a Hitler.

In una delle sue ultime lettere, lei aveva scritto a Heidegger: “Ciò che voglio dirti adesso non è altro, in fondo, che un’esposizione pura e semplice della situazione. Ti amo come il primo giorno – tu lo sai e io l’ho sempre saputo, anche prima di questo nostro incontro”. In Hannah lottano incessantemente il sentimento dell’amore ineluttabile ancorché tradito e la fedeltà alla sua missione; a lei Walter Benjamin, il filosofo ebreo tra i geni più luminosi del Novecento, aveva lasciato i suoi manoscritti inediti, prima di morire suicida sul confine tra Francia e Spagna, in fuga dai nazisti.

Con questo bagaglio morale, Hannah si lega a Broch. Lui le dà del lei, poi del tu, poi di nuovo del lei; la chiama “mia cara”, o solo con la iniziale del nome. Si lascia rimproverare e la rimprovera per le cose più disparate. Lei gli oppone un ironico e cortese rifiuto: “Hermann, lasci che io sia l’eccezione”. Ogni volta dopo una serata passata con lei, Broch convoca l’amico Pick e brontola scuotendo la testa: “Non si dovrebbe permettere a nessuno di sapere tante cose!”. Hannah è l’unica donna che gli resiste e l’unica tra gli intellettuali contemporanei a provocargli un’autentica “invidia” mista a tenerezza.

Dall’ospedale di Princeton, dove è ricoverato per una frattura all’anca, azzarda: “Le voglio bene”. Hannah ha una mente alacre e rigorosa. Usa la fantasia per immaginare sbocchi per la filosofia dopo l’Olocausto: per la poesia la condanna di Adorno (“scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”) era stata inappellabile, e quando Broch le manda versi scritti di suo pugno, lei il più delle volte graziosamente sorvola. Ma è Broch a correggere i suoi manoscritti, con una severità che la affascina. Di Heidegger, che pure ha avuto un grande influsso sulla sua concezione filosofica, Broch parla malissimo a Hannah: lo chiama “autore di poesie e aforismi” affetto da “immaturità senile”, inventore di un esistenzialismo “scivoloso e molliccio come il sapone”.

Sa che nella vita di lei c’è una ferita, che si riapre nel 1950, quando, in visita in Germania, scende in un albergo di Friburgo e scrive un biglietto con le sole parole: “Sono qui”. Lo fa recapitare a Heidegger, che si presenta in albergo con l’intenzione di lasciare a sua volta un biglietto; ma mentre sta per consegnarlo al fattorino, decide di farsi annunciare.

Broch, che intanto ha sposato Annemarie Meier-Graefe, non le fa domande, dal suo letto d’ospedale, ma si dice “preoccupato” per lei. Si sa malato, lavora incessantemente, e soprattutto pensa di aver fatto un enorme errore a sposarsi (chiama sua moglie “la vedova”). “Sono stanco morto”, scrive a Hannah. Quando due giorni dopo muore, è Arendt ad avvisare la moglie, che si trova a Parigi: “Hermann è morto questa mattina alle 3”. Poi scrive nelle sue note: “Sopravvivere. Come si vive però con i morti? Il sentimento che si schianta è come un pugnale che mi viene girato nel cuore” (è una citazione da una lettera di Kafka). La dedica è a “lui – chi uno sia lo si sa solo quando è morto – disperato nelle reti di una vita massimamente ingarbugliata”.

Nel 1960, in occasione dell’uscita di Vita activa, Arendt lo manderà a Heidegger con una dedica. Tra i suoi appunti verrà trovata questa nota, mai spedita e senza destinatario: “De Vita activa. Come faccio a dedicarlo a te, l’intimo amico, cui sono e non sono rimasta fedele, sempre per amore”.

Assalto alla Cgil Reazione giusta o eccessiva?

L’assalto di Forza Nuova alla sede nazionale della Cgil ripropone l’eterna contrapposizione italiana tra fascismo e antifascismo, che copre tutto l’arco della Repubblica. Qual è oggi l’esatta dimensione della questione? Per “Bifo” è falsa, vuota, se non ridicola. Aiuta a distrarre dai veri problemi di oggi: il dogmatismo sanitario ai tempi del Covid e la drammatica emergenza dei migranti. Al contrario, Giovanni Valentini evoca il rischio di un regia ben precisa dietro il sabato fascista del 9 ottobre. In pratica, lo spettro di una nuova strategia della tensione.

 

Parere/1

I “buoni” ipocriti e il vero fascismo dell’Ue che ammazza e discrimina

Lo sdegno di cui le persone per bene riempiono in questi giorni le prime pagine dei loro giornali suona falso, vuoto, perfino ridicolo.

A Roma qualche giorno fa si è svolta una sceneggiata orrenda: poche decine di patetici individui noti alle cronache hanno riproposto un copione vecchio di cento anni: l’assalto alla sede del sindacato dei lavoratori.

Questo assalto si è svolto nel contesto di una mobilitazione no-vax di proporzioni inquietanti che riunisce motivazioni e sensibilità molto diverse fra loro, ma è stata unificata e consegnata in blocco all’egemonia dei rottami fascisti dal dogmatismo sanitario dominante. L’intero arco politico si veste di antifascismo. Evviva. Siamo salvi, la democrazia è destinata a trionfare se gode di tanti appassionati difensori come Giorgia Meloni e come Letta e Salvini, quei due buontemponi che corsero a portare solidarietà a Israele mentre Israele bombardava i palazzi di Gaza.

L’auto-assoluzione delle persone per bene mi fa vomitare. Quelle persone per bene dimenticano allegramente un paio di cose: che questo Paese, anzi questa Unione europea, uccide ogni anno decine di migliaia di persone nelle acque del Mediterraneo, nelle foreste a est di Bihac, nei campi di concentramento disseminati tutt’attorno al bacino mediterraneo. E adesso questa Unione dei bianchi europei progetta la costruzione di un muro per proteggersi dalle orde che provengono dai luoghi che la nostra aviazione ha bombardato e che le nostre imprese hanno saccheggiato.

Le persone per bene che oggi in coro condannano il fascismo forse non sanno che in questo Paese si sono formate sacche di lavoro schiavistico. Infatti tra gli sciagurati che riescono a sopravvivere ai campi di tortura libici, ai cani-poliziotto croati, all’annegamento, a Minniti e Salvini, tra i fortunati che riescono a sbarcare, molti lavorano come schiavi nelle piantagioni del sud assolato dove alcuni muoiono di infarto dopo 12 ore a raccogliere pomodori sotto il sole impazzito.

La popolazione europea convive con questo arcipelago di nazismo come i cittadini di Auschwitz convivevano col fumo che usciva da quelle ciminiere. La maggioranza dei cittadini europei approva e caldeggia lo sterminio. Il nazismo è dovunque, e le persone per bene che firmano gli editoriali sdegnati dovrebbero sapere che due squilibrati aggressivi come Fiore e Castellino sono solo un minuscolo problema di pulizia, mentre la peste nazista è rifiorita nel cuore di una popolazione impoverita dal liberismo, umiliata dall’impotenza e rimbambita dalle trombe del panico.

Inoltre siamo complici di un apartheid globale che esclude metà del genere umano dall’accesso al vaccino mentre ci prepariamo a iniettarci una terza dose e poi una quarta destinate solo a coloro che appartengono alla razza superiore.

Non giudico le misure di sanità pubblica, non ne ho la competenza né l’autorità. Riconosco che la potenza del virus è più grande della potenza della volontà umana; che la volontà dei politici è poca cosa, anzi nulla di fronte alla tempesta caotica che il virus ha scatenato. Ma proprio per questo capisco bene che una parte della popolazione (irriducibile a un’identità politica) si ribelli inorridita di fronte alla disciplina sanitaria.

L’unanime coro delle persone per bene che firmano articoli sui giornali del regime draghiano (il regime ideologicamente più compatto della storia italiana) provoca tra l’altro l’effetto catastrofico che abbiamo visto in piazza del Popolo: quattro gaglioffi ignoranti vestiti di nero guidano una rivolta eterogenea che si riconosce nel grido equivoco di “libertà”.

Franco “Bifo” Berardi

 

Parere/2

Stiamo attenti, rischiamo una nuova strategia della tensione

Chi – per ragioni anagrafiche o scelta politica – non è mai stato né fascista né comunista, stenta a comprendere l’origine del clima di tensione e di odio esploso con le violenze che hanno sconvolto Roma alla fine della settimana scorsa. Fra queste, in particolare l’assalto alla sede nazionale del Cgil, il maggiore sindacato dei lavoratori che sabato prossimo scenderà in piazza insieme a Cisl e Uil per manifestare contro lo squadrismo, chiedendo a norma della Costituzione lo scioglimento di Forza Nuova e di altre formazioni neofasciste. Un attacco tanto incomprensibile e ingiustificato quanto inatteso e imprevedibile. E il primo aspetto da mettere a fuoco è proprio l’assurda contrapposizione fra il mondo del lavoro e il popolo dei No Green Pass o No Vax, l’uno identificato con la sinistra e l’altro con la destra. Quasi che il vaccino anti-Covid rappresentasse uno spartiacque politico o addirittura ideologico, per distinguere i due campi e i due schieramenti.
L’infausta teoria degli “opposti estremismi”, come si ricorderà, risale storicamente alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso: la sua finalità principale era quella di aggregare le forze centriste per isolare le due ali della destra e della sinistra. E tornò in auge negli anni Settanta, sfruttando le violenze di una parte e dell’altra attraverso la cosiddetta “strategia della tensione” che insanguinò il Paese con le bombe, le stragi e poi le azioni dei terroristi neri e rossi. Ecco, non vorremmo che oggi quella storia si ripetesse, magari sotto la regìa occulta di centrali di potere nazionali o internazionali e con la complicità di apparati deviati dello Stato. Ma, per evitare un pericolo di questo genere, occorre una maggiore vigilanza da parte delle istituzioni, delle forze dell’ordine e della magistratura, insieme a una mobilitazione generale dell’opinione pubblica democratica.
Proprio chi non è mai stato né fascista né comunista non può mettere sullo stesso piano le due grandi tragedie del Novecento, come pretende di fare il direttore di Libero Alessandro Sallusti e altri con lui. Non può farlo per un motivo fondamentale: e cioè che la nostra Costituzione è geneticamente antifascista. E, come si sa, reca in calce anche la firma del comunista Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente, insieme a quelle del liberale Enrico De Nicola e del democristiano Alcide De Gasperi.
Certo, in nome di un ideale di uguaglianza e di un’utopia degenerata nella dittatura, i regimi comunisti hanno commesso nel mondo enormi atrocità, sopprimendo la libertà e i diritti civili. Ma per nostra fortuna, o forse proprio perché il Pci era diverso e la vecchia Dc faceva da argine, in Italia il comunismo non c’è mai stato al contrario purtroppo del fascismo. E comunque, a partire dalla metà degli anni Settanta con Enrico Berlinguer, il Partito comunista italiano ha compiuto un lungo percorso di revisione e trasformazione riformista, fino a cambiare più volte nome e simbolo per approdare nel 2007 al Partito democratico. Equiparare oggi il Pd al comunismo, dunque, significa incorrere in un doppio errore: storico e politico.
Ma il peggio è che, magari senza volerlo e senza esserne consapevoli, si rischia così di innescare una spirale antagonistica che può riprodurre gli “opposti estremismi”, con la rapidità e le varianti di un virus epidemico. Separare la sinistra riformista dal comunismo equivale a separare la destra liberale dal fascismo e dallo squadrismo. Senza ambiguità, ammiccamenti o strumentalizzazioni che fanno il gioco di chi vuole soffiare sul fuoco dell’odio e della violenza.

Giovanni Valentini