Siccità, pandemia e in 14 milioni senza un pasto assicurato

“Abbiamo solo quattro o cinque settimane al massimo per portare il cibo nelle aree montuose. L’inverno in Afghanistan arriva presto e isola molte comunità. Quando la neve inizia a scendere diventa impossibile raggiungere milioni di persone”. Ma per avere derrate da distribuire, bisogna che la comunità internazionale devolva molti più soldi al World food programme, l’agenzia dell’Onu che si occupa di assistenza alimentare. Per questa ragione, Mary-Ellen McGroarty, direttrice del Wfp in Afghanistan, ha avvertito con queste drammatiche parole, durante una conferenza da Kabul tenutasi online qualche ora prima dell’inizio del G20, che servono 200 milioni di dollari entro la fine dell’anno e altri 300 milioni per i primi tre mesi del 2022. Il Wfp si trova da mesi davanti a nuove sfide causate dalla pandemia, dal cambiamento climatico responsabile della peggiore siccità in 40 anni e dal collasso economico generale causato dal ritorno al potere dei talebani.

“La siccità dell’anno scorso, la seconda in quattro anni, ha ridotto del 40% la produzione di grano e costretto migliaia di persone a lasciare le proprie abitazioni. Ma anche il ritorno dei talebani , due mesi fa, ha spinto centinaia di migliaia di persone a lasciare tutto e cercare riparo in altre zone dell’Afghanistan”, spiega McGroarty. A oggi, secondo i dati raccolti da Wfp, sono 14 milioni, su 39 milioni di afghani, le persone che affrontano un’insicurezza alimentare acuta. Si stima che circa 3,2 milioni di bambini sotto i cinque anni soffriranno di malnutrizione molto severa entro la fine dell’anno. Senza cure e cibo immediati, almeno un milione di questi bambini rischia di morire. McGroarty, che ha appena visitato le maggiori città, ha incontrato, ad esempio, Jahan Bibi, la cui figlia di 18 mesi ha iniziato a ricevere terapie per malnutrizione acuta grave all’Ospedale regionale di Herat, dove ha portato la bambina perché non poteva più allattarla: “Stiamo vendendo tutto per acquistare cibo, ma io non mangio quasi niente. Sono debole e non ho latte per mia figlia”. Dall’inizio del 2021, il Wfp ha fornito alimenti salvavita e assistenza nutrizionale a 8,7 milioni di persone, che comprende cure e interventi di prevenzione della malnutrizione per circa 400.000 donne incinte e che allattano e per 790.000 bambini sotto i cinque anni.”Solo a settembre, sono state raggiunte circa 4 milioni di persone”, informa la direttrice. Dai sondaggi del Wfp emerge che il 95% delle famiglie non consuma abbastanza cibo, gli adulti mangiano meno e saltano i pasti così che i figli possano mangiare di più. Con il congelamento degli asset decisi per convincere i talebani a rispettare le richieste della comunità internazionale in materia di diritti umani; il contingentamento dei prelievi di denaro (200 dollari massimo a settimana); la chiusura delle banche, delle imprese e dei negozi perché sono sempre di meno coloro che possono permettersi di fare acquisti dato che il 30 per cento della popolazione ha perso il lavoro mentre i prezzi del cibo e del combustibile continuano a crescere per l’inflazione, la crisi umanitaria sta colpendo per la prima volta anche la classe media urbana e pertanto anche molti professionisti, specialmente le donne, che svolgevano lavori essenziali nell’ambito sanitario e dell’istruzione ma anche quelle arrivate nelle città per fare le collaboratrici domestiche. “Lavoro col Wfp da molti anni, ma la portata della crisi cui sto assistendo non l’ho mai vista prima”, denuncia la direttrice rivolgendosi ai leader del G20 per chiedere finanziamenti.

Lo sciita al-Sadr rivendica la vittoria: Teheran non gioisce

Dall’invasione dell’Iraq nel 2003, Muqtada al-Sadr è forse l’unico leader iracheno costantemente rimasto in primo piano sulla scena politica, senza però avere mai un ruolo di punta istituzionale. Forse, questa sarà la volta buona: considerato favorito alle elezioni legislative in Iraq, il movimento del clerico sciita rivendica ora di essere primo nel Parlamento di Baghdad con oltre 70 seggi, pare 73 su 328, un quarto in più dei 54 che aveva alla fine della legislatura appena conclusasi. I risultati sono ancora provvisori, ma un funzionario della commissione elettorale irachena assicura all’Afp che il movimento sadrista è “davvero in testa”, secondo i dati preliminari. Ancora giovane – ha 47 anni –, al-Sadr è fondatore e capo dell’Esercito del Mahdi, una milizia creata nel giugno 2003 per combattere le forze di occupazione in Iraq.

Circa tremila candidati, fra cui 900 donne, si contendevano i seggi del Parlamento federale – novità, una quota rosa di 83 seggi, uno per ogni collegio elettorale –. Il primato conseguito alle urne consentirà ad al-Sadr di avere un grande peso nelle trattative sulla composizione del futuro governo e la designazione del premier. La frammentazione dei seggi in Parlamento e l’assenza di una chiara maggioranza costringe i partiti a negoziare alleanze a più voci. Le elezioni di domenica, indette in anticipo dal governo del premier Moustafa al-Kazimi per placare l’ondata di proteste sviluppatesi dal 2019 per il malcontento della popolazione contro la corruzione e il malfunzionamento dei servizi pubblici, sono state le quinte dal 2003, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein, e le seconde dopo la sconfitta del sedicente autoproclamato Stato islamico, l’Isis.

L’Iraq è oggetto delle attenzioni di Iran e Usa, entrambi sostenitori del premier uscente. L’incarico, tradizionalmente, spetta a un musulmano sciita. Sullo sfondo dei negoziati che stanno per aprirsi, c’è un Paese deluso dalla politica – l’affluenza alle urne è stata appena superiore al 40%, peggio che nel 2018, quando aveva votato quasi il 45% degli oltre 24 milioni di potenziali elettori – e alle prese con scarsità d’approvvigionamento idrico, elettrico, petrolifero e di generi alimentari. Le sommosse, scoppiate a più riprese, sono state represse nel sangue e con la violenza. Sia il premier al-Kazemi sia il Grand Ayatollah Ali Sistani, maggiore autorità sciita dell’area, avevano invitato i cittadini a recarsi alle urne. Anche la regione autonoma del Kurdistan contesta, ormai, i partiti tradizionali legati agli storici clan curdi da decenni al potere e legati rispettivamente alla Turchia e all’Iran. Il partito Taqadom, dell’influente presidente del Parlamento Mohamed al-Halboussi, un sunnita, afferma di avere conquistato “oltre 40 seggi in Parlamento”. E l’Alleanza per lo Stato di diritto dell’ex premier Nouri al-Maliki conta per sé 37 seggi. La coalizione Hachd al-Chaabi, vicina all’Iran, che era la seconda forza del Parlamento uscente, sembra invece in declino, ma rimane attore chiave nello spettro politico. L’Iran ha tutta l’intenzione di continuare ad avere un peso nelle vicende interne irachene. E gli Usa mantengono 2.500 militari, di cui il Parlamento di Baghdad chiese a vuoto il ritiro dopo l’uccisione con un drone a Baghdad del capo dei Pasdaran iraniani Qasem Soleimani. L’Iran vuole promuovere una cooperazione regionale con Iraq, Siria e Giordania, con l’obiettivo “d’una maggiore stabilità a livello regionale, nonché di una crescita economica”. È quanto emerge dai contatti del ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian con i colleghi giordano Ayman Safadi e siriano Faisal Mekdad: atteso a Teheran, dopo che Amirabdollahian è stato a Damasco e ha visto il presidente Bashar al-Assad. Amirabdollahian promuove attivamente la politica estera del nuovo presidente Ebrahim Raisi. E l’Iraq è un Paese chiave della regione: il secondo maggiore produttore di petrolio del Medio Oriente e il Paese dell’area più colpito dalla pandemia.

G20, la grande trovata: adesso utilizziamo l’Onu e parliamo coi talebani

Eccolo il “piano” di Draghi: il ritorno dell’Onu. È il senso del vertice G20 che ieri in teleconferenza ha riunito i 20 più importanti capi di Stato e di governo del pianeta a eccezione, non secondaria, di Russia e Cina. Il piano è sintetizzato nel “pieno supporto” all’azione umanitaria delle Nazioni Unite che “gioca un ruolo essenziale”, come recita il documento finale. Intervento che andrà fatto con il “coinvolgimento dei talebani”.

Dopo venti anni, la crisi afghana produce un ritorno alla casa madre dell’Onu sotto le diverse vesti dell’organizzazione internazionale: la struttura dedicata all’Afghanistan, Unama, l’aiuto ai profughi e ai rifugiati, Unchr, il contrasto alla droga tramite l’Unodc.

La scorsa estate erano ben altre le attese quando il governo faceva filtrare le grandi manovre draghiane per organizzare il G20.

I titoli dell’estate “Draghi ha un piano” titolava Libero il 21 agosto, lo stesso giorno in cui La Stampa strillava: “Draghi a Biden, un piano per l’Afghanistan”. Due giorni prima Repubblica scommetteva su “la mossa di Draghi sui profughi”, mentre il 22 agosto il Giornale si rallegrava per “l’attivismo di Draghi”.

L’attivismo per organizzare il G20 c’è stato senz’altro e la riunione di ieri è comunque un risultato parziale vista la presenza di Joe Biden. Ma non può sottovalutare l’assenza di Russia e Cina a livello di leader. “Non credo sia stato per motivi politici” ha chiosato il presidente del Consiglio in conferenza stampa, forse non ricordando quando si diceva della sua abilità a “incassare l’apertura della Cina al vertice straordinario” (Repubblica, 8 settembre) o si metteva in evidenza la “linea pragmatica, coinvolgere Putin e Xi” (Corriere della Sera, 25 agosto).

Né Putin né Xi si sono visti e soprattutto la Cina ha messo agli atti, anche con dichiarazione pubblica, che la via per alleggerire la situazione degli afghani passa per la rimozione delle sanzioni internazionali. Qualche divergenza sembra esserci.

Ma per il premier il vertice è stato “fruttuoso” e in grado di inviare, come ha detto nelle conclusioni davanti ai leader, “un ampio mandato” alle Nazioni Unite “a coordinare tutte le attività a favore dei cittadini afghani”. Un “ritorno del multilateralismo”.

Da buon banchiere internazionale, ha messo l’accento sul rischio di un collasso finanziario augurando il pronto intervento di Fmi e Banca mondiale in grado di “consentire alle Nazioni Unite di utilizzare le risorse” disponibili. L’Unione europea annuncia di aver stanziato 1 miliardo e gli Usa 300 milioni. Si tratta poi di garantire agli afghani il maggior numero possibile di servizi pubblici, compresa una campagna di vaccinazione – su questo Draghi ha particolarmente insistito – tramite la struttura Covax (che finora però non ha brillato).

Servono i talebani L’obiettivo sarà quindi quello di aiutare i profughi, di intervenire all’interno dell’Afghanistan anche se servirà il “coinvolgimento” dei talebani. Che non significa “riconoscerli”, sottolinea Draghi, ammettendo però, nella risposta in inglese al giornalista della Bbc, che l’Afghanistan è un “big country” e senza i talebani non sarà possibile agire. Anche qui, le frasi roboanti della scorsa estate sul “covo di terroristi”, il petto offerto agli avversari da Bernard Henry Lévy per portare in salvo chi si era battuto per la democrazia, lasciano il posto al tono pragmatico.

“Nella misura in cui il governo talebano è disposto ad accettare aiuto, una linea d’azione cruciale è quella della ricostruzione delle istituzioni”. Una svolta che non sfugge, ad esempio, al giornale inglese The Guardian, che su questo apriva ieri la sua edizione online.

Come farlo è tutto da vedere. Anche sull’aeroporto di Kabul, oltre a ringraziare Turchia e Qatar per il ruolo che stanno svolgendo, non si dice altro.

Ma “l’approccio pratico” è sottolineato dall’emiro del Qatar che, dopo il vertice, ha rilanciato la necessità di ricostruire “istituzioni statali” e di operare in un clima “di riconciliazione nazionale”. Con i talebani, ora, si può.

Il Nobel è quando i libri fanno ohhh…!

Ormai lo stupore con “cui viene regolarmente accolta la proclamazione del premio Nobel per la Letteratura ha superato i tributi verso il vincitore, come è accaduto anche nel caso di Abdulrazak Gurnah. Sui Nobel alle discipline scientifiche, nessuno obietta nulla; invece si infoltisce la schiera dei vincitori ombra per la letteratura, posizione strategica che a differenza del Nobel non scade mai, a lungo occupata da Borges, poi da Philip Roth, adesso in pole position c’è Murakami.

Ma se la stessa scienza fatica ad avere evidenze – la pandemia l’ha spinta a un passo dal Bar Sport –, la letteratura è sempre stata orgogliosa di non averne. Chi sono i più grandi scrittori viventi? Nessuno lo sa ma tutti sono convinti di saperlo, un movimento No Nobel è lì lì per nascere. Il valore letterario è il più arbitrario in assoluto da stabilire, dunque il più manipolabile; un tempo c’era la critica, ma ormai è scomparsa, sostituita dall’ubiqua divinità del “Mercato”. Ma a Stoccolma, per fortuna, non la pensano così.

Ci si stupisce che il vincitore del Nobel sia semisconosciuto al dio Mercato, invece è questa la sua vera ragion d’essere. A cosa serve un premio aperto al mondo, se non a svelare il rapporto tra un autore, le sue radici e il suo tempo? Le parole chiave dell’opera di Gurnah sono colonialismo e migrazione; nessuno potrà obiettarne la contemporaneità, specie della prima, di fronte a un’industria culturale colonizzata dalla globalizzazione. C’è poi un’altra ragione, assai ostica per noi italiani. Da noi i premi hanno come principale funzione di saltare sul carro dei vincitori, correre in loro aiuto, celebrarne il successo, lottizzare il potere delle confraternite editoriali. Da noi ci si recensisce e ci si premia a vicenda, a priori. A Stoccolma si va ancora a caccia di quella cosa inafferrabile che chiamiamo letteratura: più il valore del premiato ne verrà illuminato a posteriori, più il premio avrà avuto un senso. Un fulmine a ciel sereno, dove piove sempre sul bagnato.

Nessuno tocchi Caino ma neppure Abele

Le cronache si occupano in questi giorni della scarcerazione, dopo aver scontato una pena di 10 anni, di chi fu condannato per l’omicidio volontario di Alberica Filo della Torre. Il figlio della vittima ha dichiarato: “Esce di galera per buona condotta e benefici vari. Ha fatto solo dieci anni, e già gliene avevano dati pochi, 16: si può definire la pena giusta?”. Dunque? La risposta è in un sorriso amaro: “Dunque andrò ad aspettarlo fuori dal carcere per fargli i complimenti, per stringergli la mano e dirgli bravo, te la sei sfangata… D’altra parte la legge è con lui”.

Purtroppo è vero che “la legge è con lui”. Si trattava, per quanto è dato comprendere da notizie di stampa (non sono riuscito a reperire le sentenze su internet), di un omicidio a scopo di rapina (quest’ultima prescritta perché l’autore fu identificato circa vent’anni dopo).

Per l’omicidio volontario la legge prevede la reclusione non inferiore ad anni 21 (art. 575 codice penale e quindi da 21 a 24 anni), ma se l’omicidio è commesso allo scopo di eseguire od occultare un altro reato la pena prevista è l’ergastolo (art. 576 comma 1 n. 1 codice penale). Tuttavia se viene concessa un’attenuante (ad esempio le attenuanti generiche) giudicata equivalente all’aggravante si torna alla pena base (da 21 a 24 anni). L’imputato chiese il rito abbreviato che comporta la riduzione di un terzo della pena e quindi gli fu inflitta la pena nel massimo (due terzi di 24 anni sono 16 anni).

Il rito abbreviato e l’applicazione di pena (patteggiamento) furono introdotti con il codice di procedura penale in vigore perché si era consapevoli che questo codice allungava di molto i tempi dei processi ed era compatibile solo con un ridotto numero di procedimenti. In realtà la prescrizione sconsiglia dal ricorrere ai riti alternativi perché nessuna pena è meglio di una pena ridotta di un terzo. Solo coloro che sono imputati di reati che prevedono una pena molto elevata e sono raggiunti da prove schiaccianti ricorrono ai riti alternativi. In particolare per l’omicidio, essendo le pene elevate, sono rari i processi celebrati con rito ordinario. Ad esempio a Milano esistevano cinque Corti d’Assise ridotte a una sola dopo l’entrata in vigore del codice di procedura penale. Infatti nel rito abbreviato giudica il Giudice dell’udienza preliminare. Peraltro in appello se il reato, in caso di rito ordinario, fosse stato di competenza della Corte d’Assise, giudica la Corte d’Assise d’appello. Caso unico in Europa e forse anche altrove di giudici popolari nel giudizio di appello. Quindi le Corti d’Assise d’appello sono rimaste quelle che erano cioè tre.

In sede di esecuzione della pena ogni sei mesi (valutandosi anche il periodo di custodia cautelare) di “partecipazione all’opera di rieducazione” (art. 54 legge 26 luglio 1975, n. 354) comportano una riduzione di pena di 45 giorni per liberazione anticipata, quindi gli anni di carcere da eseguire sono di nove mesi, ovvero ogni anno vendono tolti tre mesi. Scontata almeno metà della pena (in alcuni casi due terzi) il condannato può essere ammesso al regime di semilibertà (art. 50 legge n. 354/1975). Quando la pena residua è inferiore a quattro anni il condannato può essere affidato al servizio sociale.

Il sommarsi delle riforme processuali e penali ha pian piano eroso il sistema sanzionatorio, aprendo un divario fra le pene minacciate e quelle concretamente eseguite nei confronti dei condannati.

Negli Stati Uniti d’America (di cui alcuni erroneamente credono sia stato copiato il processo penale) la persona condannata per l’omicidio di Robert Kennedy ha scontato oltre cinquant’anni di carcere prima di essere scarcerato. Peraltro la maggioranza dei membri della famiglia Kennedy ha ritenuto ingiusta la scarcerazione.

In un modo dove le frontiere sono facilmente transitabili la repressione penale non teorica (law in book), ma quella concretamente attuata (law in action) non può essere troppo diversa da quella di altri Stati perché se è più alta si esporta criminalità, se è più bassa si importa criminalità. In Italia da tempo importiamo criminalità.

Nei progetti di riforma della giustizia penale si pensa di rendere ancora più appetibili i riti alternativi prevedendo ulteriori riduzioni di pena, senza toccare i parametri edittali delle pene, così vanificando l’effetto deterrente delle pene senza probabilmente ottenere il risultato di ridurre il numero di processi.

Ora è vero che la Costituzione della Repubblica prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato, ma si tratta pur sempre di pene, cioè della privazione di qualche bene, nella specie di quello della libertà personale.

Quando il legislatore prevede una pena lo scopo principale che si prefigge è quello di prevenire la commissione di reati. In altri termini si tratta di una minaccia: se commetti questo reato incorrerai in questa pena. Le minacce però sono credibili se (e solo se) sono seguite dai fatti. Minacciare l’ergastolo per eseguire 10 anni è poco serio e vanifica l’efficacia della minaccia, cioè la deterrenza.

C’è un’associazione chiamata “Nessuno tocchi Caino”, che nel nome si richiama alla Bibbia (Libro della Genesi 4,15) laddove recita. “Ma il Signore gli disse: ‘Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!’. Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato”. Vorrei però che qualcuno si ricordasse anche della parte che precede (Genesi 4,9) quando, dopo che Caino uccise Abele, si afferma “Allora il Signore disse a Caino: ‘Dov’è Abele, tuo fratello?’ Egli rispose: ‘Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?’. Riprese: ‘Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello’”.

D’accordo, nessuno tocchi Caino (che comunque va in esilio), ma prima di tutto nessuno tocchi Abele, perché la giustizia esiste per proteggere i diritti di tutti, anche quelli delle vittime.

 

Apologia del Duce e degli squadristi: due editori fascisti al Salone di Torino

Fascisti su Marte, come nel film di Corrado Guzzanti? No: fascisti a Torino, al Salone del Libro che apre domani. Basta sfogliare il catalogo di un paio di editori, Eclettica e Idrovolante, espositori al Lingotto, per imbattersi nei discorsi sulla rivoluzione di Mussolini e nei testi dedicati a Giorgio Almirante, Adriano Romualdi, Mario Gioda e a Giuseppe Solaro, segretario del Partito fascista repubblicano di Torino e comandante della brigata nera Ather Capelli, impiccato dai partigiani. Così come si trovano i libri di Italo Balbo e i saggi che esaltano gli squadristi neri del Ventennio: ecco Squadristi 1919-1923. La morte a grinta dura di Pierluigi Romeo di Colloredo, biografo del maresciallo nazista Kesselring e presidente di Aristocrazia Europea. Il suddetto Romeo, nel settembre del 2020, ricordava ad Affaritaliani l’amico Roberto Jonghi Lavarini, il cosiddetto Barone Nero, “senza il quale Aristocrazia Europea non sarebbe la realtà attiva e operante che è”.

Tanto Eclettica quanto Idrovolante, che alla fiera di Torino condivide lo stand con Historica-Giubilei Regnani, compaiono nel catalogo di Altaforte, il marchio editoriale di CasaPound escluso dal Salone del Libro del 2019. Idrovolante divulga le opere dell’avvocato di CasaPound Domenico Di Tullio e di Carlomanno Adinolfi, figlio di Gabriele Adinolfi, ex leader del gruppo fascista Terza Posizione, e fondatore della libreria romana La Testa di Ferro. Quest’ultima, ha ricordato lo stesso Carlomanno Adinolfi, ha pubblicato libri per rivalutare il gerarca della Repubblica di Salò, Alessandro Pavolini, e “soprattutto il Riprendersi Tutto di Adriano Scianca, forse la sintesi più esaustiva sul pensiero di CasaPound”. Tutto ciò lo si potrà trovare al Salone del Libro di Torino, già città medaglia d’oro della Resistenza.

Mail Box

Addio Merkel, menomale
che c’è il “Santo Subito”

Mala tempora currunt. Sulla intera Europa è scesa una cappa di sconforto: dal 26 settembre non c’è più il riferimento morale ed economico che era la Merkel. A infondere speranze per il futuro si adoperano i giornaloni nostrani nel proporre come prossima guida europea il Santo Subito. Si notano e distinguono nel compito: Repubblica, un giornale ex progressista che a firma di Stefano Folli propone un semipresidenzialismo alla francese che, a suo scrivere, è già in atto e perfettamente funzionante. Se non conoscete la Costituzione, potete interpellare l’esimio Sabino Cassese, giudice emerito della Corte per il quale non ci sono sfregi costituzionali da parte del governo che va avanti a Dpcm e voti di fiducia. È lo stesso esimio che per i Dpcm paragonava il precedente premier a Orbán. Si vede e distingue nell’avallo il Messaggero, per cui nel 2023 avremo il salvatore dell’euro, nelle vesti di capo dello Stato con delega a capo del governo e facente funzioni di salvatore dell’Europa. Con la pletora di appoggi di cui gode potrebbe aspirare a salvator mundi, ma la carica è già occupata da 2021 anni e lo sarà per saecula saeculorum; salvo trovare una pezza di appoggio che gli spiani la strada. Il nome della pezza è facile da ricordare: l’Innominabile. La supervisione a un noto tutto sapere di nome Carletto La Qualunque.

Carlo Di Girolamo

Cgil assalita dai fascisti?
Colpa del 5Stelle, ovvio!

Ho visto e sentito la fastidiosa e ridicola analisi giornalistica della cosiddetta conduttrice di In Onda a La7, quando voleva far capire che la genesi di quanto avvenuto sabato scorso a Roma sia riconducibile al M5s. In effetti per loro tutto si risolverebbe semplicemente sciogliendo con decreto il Movimento. Decreto sicuramente impossibile per quei fascisti che sostengono FdI e Lega, e che questi ringraziano.

Fabio De Bartoli

Menzogne sul green pass,
ma i giornalisti tacciono

Perché i giornalisti non fanno il loro dovere e permettono di far passare messaggi faziosi nei programmi televisivi e sui giornali senza intervenire? Ieri ho sentito dire da Sileri a Controcorrente che il green pass permette le riaperture e rende sicuri i luoghi di lavoro. Sono due menzogne: 1) il passaporto Covid per le riaperture è una scelta italiana, non certo una necessità, in controtendenza rispetto a quello che sta facendo quasi tutta l’Europa dove le riaperture sono anche maggiori delle nostre, ma il green pass non viene richiesto né per lavorare né per avere una normale vita sociale; 2) le persone vaccinate possono infettarsi e infettare, per cui il controllo del passaporto Covid all’ingresso di un locale non può in alcun modo garantire che il virus non circoli al suo interno. Sul Fatto leggo nel titolo dell’articolo riferito alla marcia per la pace che “I care” significa “Io curo” invece che “mi interesso/mi preoccupo/mi prendo cura (degli altri)”, passando un messaggio ancora una volta fazioso con un riferimento indiretto al Covid.

Giorgio

 

La certificazione di chi
ha avuto la malattia

Non voglio fare filosofie sul green pass ma solamente far notare alcune incongruenze cliniche. Qualcuno dei soloni che stanno al governo, dal premier Draghi al ministro Speranza, mi possono spiegare com’è che il green pass per chi ha avuto il Covid vale solamente sei mesi? Eppure è in tutti i testi di medicina che l’immunizzazione naturale è più forte di quella indotta con i vaccini. Il prof. Galli addirittura sostiene che chi ha avuto la malattia non andrebbe neppure vaccinato. Ma noi, oltre al danno di aver avuto il Covid, abbiamo la beffa di avere un green pass dimezzato. Ho chiesto al mio medico di farmi misurare gli anticorpi ma niente da fare, sembra che non abbiano validità clinica. Alcune persone che lavorano nell’ambiente sanitario mi dicono che casi di persone che hanno avuto il Covid e si sono riammalate ce ne sono pochissimi, mentre è più possibile che chi si sia vaccinato si ammali.

A. Marini

 

Tante chiacchiere, ma
a cosa serve la Scelba?

Dopo gli ultimi eventi violenti a Roma e, come direbbe Greta, i soliti “bla bla bla” dei politici nostrani, mi chiedo: a cosa serva la legge 645 del 1952 (legge Scelba)? Nonostante le tante e continue parole e azioni squadriste dei fascisti, non mi risulta che sia mai stato sanzionato qualcuno per apologia del fascismo.

Claudio Trevisan

 

Ma perché Draghi dice
che la pandemia è finita?

Sento dire da Draghi, tramite La Stampa, che siamo in vista della fine della pandemia. Ma è sicuro che Draghi voglia dire pandemia? O per pandemia intende l’epidemia? Perché quest’ultima riguarda una sola area, che potrebbe essere l’Italia, mentre la prima riguarda un’infezione di tutti i continenti e di tutte le nazioni appartenenti. Stanno proprio così le cose? Poiché i confini sono aperti, siamo veramente a un passo dalla fine di questa infezione pandemica? O si parla a casaccio?

Roberto Calò

 

Le cose buone e taciute di Raggi e Appendino

Sono anarchico e, seguendo alcune indicazioni di Enrico Malatesta che scrisse che in casi estremi si doveva andare a votare, ho votato per Antonio Di Pietro, poi per i 5Stelle. Sono stato a Roma molte volte e anche a Torino, ma non ho visto quei disastri che, puntualmente, venivano elencati nelle trasmissioni tv da personaggi alquanto ambigui e disinformati. In nessun salotto televisivo si parla invece delle cose buone fatte dalla Raggi e dall’Appendino. La mia meraviglia è stata grande quando ho letto i risultati elettorali. Ma i torinesi e i romani non erano consapevoli? E ora che si va ai ballottaggi, non viene loro il dubbio che Calenda e Gualtieri, non volendo nessun 5Stelle, non vogliano controllori che, sino a prova contraria, sono onesti?

Marco Pedriali

Quale Ue? “Mio nipotino è bloccato in Spagna perché il consolato dorme”

Gentile redazione, vi scrivo per raccontarvi questa storia tanto assurda quanto ingiusta. Mio figlio e sua moglie vivono a Palma di Maiorca e a luglio hanno allargato la loro famiglia con la nascita di un bel maschietto.

Lui è uno chef: tra poco la stagione finirà e avranno il tempo di tornare in Italia, dopo oltre due anni di assenza a causa del Covid, e poter fare conoscere il piccolo a noi nonni, ai parenti e agli amici che non si sono potuti spostare.

Il problema è che il piccolo Andres non ha documenti e quindi non può viaggiare: al consolato italiano di Palma per avere il passaporto hanno detto che ci vorranno almeno quattro mesi, mentre in quello di Barcellona dovrebbero farlo in un giorno. Peccato che non rispondono alle email e che sul sito è evidenziato che per avere la carta d’identità non ci sono appuntamenti fino ad agosto 2022.

Io sono una paziente oncologica e ogni 14 giorni devo fare la terapia salvavita, ma di questo al nostro consolato non importa nulla.

Mio figlio, sua moglie e il loro bambino sono praticamente in ostaggio della lentezza della burocrazia e dell’inefficienza del personale: basti pensare che gli uffici lì hanno chiuso tutto il mese di agosto per ferie.

In Italia si sa che questi impiegati hanno tempi lavorativi così assurdi? In una società civile è possibile che un bimbo non abbia nessun documento di riconoscimento?

Siamo avviliti, scontrarsi con questa burocrazia sembra che sia una battaglia persa, non solo in Italia, ora anche in Spagna… Ma non siamo forse in Unione europea? Confidiamo in un cenno di riscontro anche dai nostri politici.

Grazie.

 

Gli storici in tv Dopo la scorpacciata di virologi, magari spiegano il fascismo

Coi virologi abbiamo dato, e se cominciassimo con gli storici? Intendo: se in ogni telegiornale, talk show, siparietto divertente, angolo delle interviste, documentario e Carosello, invece di un esperto di pandemie ci mettessimo qualcuno che ha studiato seriamente il famoso Ventennio? Ok, abbiamo fatto per quasi due anni una straripante, strabordante, spannometrica, lezione di virus. In tram senti signore che parlano di memoria cellulare o di affinità e divergenze tra AstraZeneca e noi, bene. Passiamo alla nostra storia, che ne dite? Ed ecco a voi il primario di Storia Contemporanea…

Se ci allontaniamo un po’, come prospettiva, dalla sede della Cgil di Roma (massima solidarietà) e vediamo le cose più ad ampio spettro, di lezioni di storia ne servirebbero un bel po’. Il discorso di Giorgia Meloni in Spagna, per esempio, ci rivela una folta platea sinceramente e devotamente franchista, dittatura molto amata dai fascisti nostrani della generazione Almirante, come anche i colonnelli greci (è gente che non si fa mancare niente, gli piaceva anche Pinochet). In Francia si litigano la palma di re della destra, in vista dell’Eliseo, madame Le Pen e monsieur Zemmour, come dire fascio e più fascio. Non va meglio nel resto d’Europa, sia a livello di governi (l’Ungheria di Orban e la Polonia che insegue), e non c’è paese che non abbia una formazione parafascista, fortemente nostalgica, a volte rappresentata alle elezioni; a volte dispersa in una galassia semiclandestina di gruppetti con la svastica tatuata su fronti “inutilmente spaziose”.

Se ne deduce che il “non conosco la matrice” (delle azioni squadriste di Roma, ndr) di Giorgia Meloni è un trucchetto ancor più patetico di “voglio vedere tutto il girato”. Quella matrice lì, con le croci celtiche, le svastiche, i boia chi molla e tutto il campionario, la riconosce anche un ripetente di seconda media, dunque quella della Meloni è una provocazione.

Detesto i paralleli storici, anche perché le cose non sono mai parallele, ma pensare che siamo nel 2021, cioè a un secolo esatto da fatti che somigliano a quelli di oggi, con gli arditi che attraversano indisturbati una città per andare a devastare la sede sindacale, beh, qualche brividino dovrebbe metterlo. Quindi uno storico ospite qui e là che ci dicesse come si arrivò a quella situazione, perché, come mai, quali furono le molle sociali, economiche, ideologiche, insomma, che ci faccia un ripassino, non sarebbe male. Magari che smonti il diffuso luogocomunismo fascista del “ha fatto anche cose buone”, o le agghiaccianti nostalgie repubblichine tanto in voga. Magari ci spiegherebbe – il nostro ipotetico storico diffuso – che il vittimismo era parte consistente nella costruzione del primo fascismo, e non sarebbe difficile ritrovare quel tratto nella difesa dei gerarchi di FdI e della Lega e nei titoli dei giornali della destra. Passare per vittime, insomma, è un tratto distintivo, e la vulgata di destra di questi giorni lo conferma. Non si tratta di cercare analogie, che è un giochetto facile, ma di individuare – appunto – la “matrice”, che è un imprinting ideologico. Giorgia Meloni non sa, o forse ha capito dopo, di aver dato un titolo perfetto al dibattito, e forse non troppo conveniente per lei. Perché se si cercano gli arditi, eccolì lì, già noti alle cronache, i Fiore, i Castellino, facile. Ma se si cerca davvero la matrice, la struttura ideologica, il dna storico-culturale, beh, si scopre facilmente che quello è l’album di famiglia di Giorgia, che la matrice è nota

 

Ora Boccassini sveli il nome della talpa che salvò Berlusconi

La storia non si fa con i se. Ma di certo fa rabbia leggere ne La stanza numero 30, il libro di Ilda Boccassini, come qualcuno (un funzionario dello Stato o un magistrato?) abbia con una fuga di notizie “consapevolmente” bruciato, alla vigilia delle elezioni politiche del 1994, le indagini sul denaro che, secondo i pentiti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri versavano periodicamente a Cosa Nostra. Soldi Fininvest che, stando alle sentenze definitive, sono stati per anni effettivamente ricevuti da Toto Riina, ma solo fino al 1992 e non in epoca successiva alle stragi.

Prima però di chiederci chi sia la talpa e perché lo abbia fatto, vediamo i fatti. Il 18 febbraio 1994, Boccassini è a Caltanissetta per indagare sulla morte di Giovanni Falcone. Quel giorno, da sola, interroga Salvatore Cancemi, il reggente del mandamento mafioso di Porta Nuova. Cancemi in altri interrogatori ha già detto che Riina si era vantato con Raffaele Ganci, capo mandamento della Noce, di essersi incontrato, prima della strage di Capaci, con “persone importanti”. Personaggi esterni alla mafia che gli avevano tra l’altro garantito la revisione dei processi in cui proprio Riina era stato condannato.

Il 18 febbraio Cancemi e Boccassini sono così l’uno davanti all’altra. Il boss deve spiegare. E lo fa: dice che quei nomi non gli furono mai svelati da Ganci, ma aggiunge di aver intuito qualcosa. Perché sa che, almeno fino al luglio del 1993, “un intermediario di Cosa Nostra si era adoperato per far transitare verso il capo della sanguinaria mafia corleonese somme di denaro provenienti da Berlusconi”. Cancemi, scrive Boccassini nel suo libro, ricorda “di aver assistito, in più occasioni, al passaggio di decine di milioni di lire in banconote usate”. E afferma di essere sicuro che le consegne di soldi fossero ancora in corso.

L’inchiesta dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Per il pentito, chi materialmente riceve a Palermo il denaro di Berlusconi è Pierino Di Napoli, il capo della famiglia di Malaspina. Per stabilire se ha ragione basta controllarlo 24 ore al giorno. Se si assiste a una consegna si fa bingo. Boccassini incarica così il capitano Ultimo, il migliore dei suoi investigatori, di sorvegliare Di Napoli e invia una copia del verbale alle Procure di Firenze e di Palermo. Il 24 marzo 1994, però, esattamente tre giorni prima delle elezioni che avrebbero portato al governo Berlusconi, Repubblica, a firma di Attilio Bolzoni e Peppe D’Avanzo, pubblica tutto. Di Napoli si rinchiude in casa senza muoversi più. L’indagine di Ultimo muore.

Capire chi e perché ha dato quasi in tempo reale il verbale di Cancemi ai due autori dello scoop diventa importante. Per 17 anni il mistero resiste. Poi una sera, davanti a un bicchiere di whisky, D’Avanzo, che morirà di lì a poco, rivela alla sua amica Boccassini il nome della fonte. Racconta di aver ricevuto una telefonata a casa da parte di una persona che conosceva da anni. Di essere stato invitato dalla fonte nella sua abitazione romana, distante una decina di minuti in auto, di aver trovato lì un uomo “con le lacrime agli occhi e delle carte in mano”: i verbali segreti di Cancemi.

Boccassini nel libro non ne fa il nome. Spiega solo che la fonte di D’Avanzo era un persona “nota a tutti per l’aplomb, la razionalità e l’estrema freddezza”. Chi è? Noi, senza averle parlato, siamo convinti che Boccassini abbia scritto tutto questo perché si attende di essere sentita come teste da chi ancora indaga sulle stragi. Anzi lo chiede. Confidiamo che qualcuno le risponda.