Draghi rischia di coprire di soldi i soliti Benetton

Il premier Mario Draghi e il suo “governo dei migliori” non sembrano ascoltare i familiari delle 43 vittime nel crollo del ponte autostradale Morandi a Genova, che li hanno esortati a non ricomprare Autostrade per l’Italia (Aspi) arricchendo ancora di più la famiglia Benetton e gli altri proprietari della società coinvolta in quel disastro. Ma, oltre alle proteste di quanti affrontano lutti dolorosi, sono trapelati dubbi di valutazione eccessiva di Aspi, che dovrà spendere somme enormi per risistemare e mettere in maggiore sicurezza la rete autostradale. I venditori vorrebbero addirittura scaricare sullo Stato gran parte dei risarcimenti per il Morandi e ingenti ristori da pandemia (dimenticando il rischio d’impresa di una società monopolista con storia di alti profitti grazie ai pedaggi generosamente aumentati da tanti governi?).

Il premier si è assunto la responsabilità dell’eventuale acquisto di Autostrade nominando al vertice della Cassa Depositi e Prestiti – la holding pubblica pronta a comprare – il fido Dario Scannapieco, uno dei “Draghi boys” da quando – negli anni 90 – il suo mentore era direttore generale del ministero del Tesoro e gran “privatizzatore”. Partecipano all’affare due fondi di investimenti privati delle multinazionali, Macquarie e Blackstone, allettate da futuri aumenti dei pedaggi imposti ad automobilisti e camionisti. Draghi rischia così di essere di nuovo considerato un “Robin Hood al rovescio”, che favorisce i ricchi e non i poveri. Anche perché fu lui, da direttore del Tesoro, a far decollare dal 2000 l’arricchimento dei Benetton, consentendogli di rilevare la quota dell’allora pubblica Autostrade a debito e con condizioni vantaggiose: nonostante i magliai di Ponzano Veneto non sembrassero i migliori gestori possibili di una mega-infrastruttura fondamentale per l’Italia.

Draghi, ricomprando Aspi a caro prezzo, ammetterebbe che fu un errore aver venduto ai privati un così importante bene dello Stato (quindi di proprietà anche dei cittadini poveri). E potrebbe riattirarsi le critiche per altre sue “privatizzazioni”, che beneficiarono finanzieri e imprenditori vicini ai governi di quegli anni. Da presidente della Bce il premier ha manifestato la tendenza da “Robin Hood al rovescio” elargendo liquidità (gratis o quasi) anche alle banche con attività speculative, che pompavano i mercati finanziari a vantaggio loro e di ricchi clienti. O quando ha condiviso con la Germania e altri Paesi Ue il salvataggio con denaro pubblico delle banche (principalmente tedesche e francesi) con esposizioni ad alto rischio in Grecia: dove masse di poveri in difficoltà furono drammaticamente abbandonate.

Le politiche dette da “Robin Hood al rovescio” sono legittime. Erano un classico di presidenti Usa repubblicani, che sostenevano perfino la finanza di Wall Street promettendo successivi effetti positivi sull’economia e sul resto della collettività. La crisi del 2008 li ha smentiti con il conto fantascientifico a carico dei contribuenti per coprire i “buchi” di banchieri e speculatori. E quei presidenti Usa almeno erano eletti. Il problema è diverso, per esempio, alla Commissione europea di Bruxelles con membri nominati dai governi, quando propone direttive e regolamenti Ue influenzati da lobby ricche e potenti. Nella stessa situazione si trovava Draghi da nominato alla Bce. E si trova ora a Palazzo Chigi, dove è arrivato senza il consenso diretto degli elettori. Pertanto, in caso di decisioni da “Robin Hood al rovescio”, dovrebbe renderle note in anticipo fin nei dettagli – con la massima trasparenza – per verificare, oltre al consenso dei partiti, anche quello dei cittadini, che poi pagano il conto.

Non c’è solo Aspi. Sono in arrivo “riforme” ispirate dai non eletti della Commissione Ue. Il ministro dell’Economia, Daniele Franco, presentando la riforma fiscale, ha ricordato l’articolo 53 della Costituzione sulle tasse progressivamente più alte per i più ricchi, che sarebbe piaciuto a Robin Hood. Ma il governo sta agendo di conseguenza? Molti cittadini, colpiti dal forte aumento della povertà, non hanno gradito gli annunci di Draghi di aiutare con la riforma fiscale “il mercato dei capitali” (cioè principalmente banchieri e finanzieri) o di garantire “per cinque anni” – anche ai proprietari di immobili con alti redditi – tasse minime sulle rendite catastali in quanto bloccate ai livelli degli anni 80. Non sarebbe più giusto investire prima maggiori risorse per potenziare il Reddito di cittadinanza come misura di inclusione sociale degli “ultimi”, di contrasto al malcostume dei lavori sottopagati e di stimolo dei consumi di beni primari non di lusso?

 

Ma Siamo proprio sicuri che “Gola profonda” sia un film per bambini?

Gola profonda è un film per bambini? La domanda non è se possa piacere a grandi e piccini, ma se il nuovo cartone animato Pixar non sia rivolto in primo luogo agli adulti. L’uscita annunciata di Gola profonda, il nuovo film di animazione della Pixar, versione a cartoni animati del celebre film porno con Linda Lovelace che negli anni 70 fece scandalo perché aveva una trama, è stata accompagnata da polemiche, sia perché sarà diffuso contemporaneamente in tutto il mondo sul servizio di streaming Disney+, sia perché sarà disponibile dal giorno di Natale, la tradizionale festa per bambini che dall’Occidente cristiano si è diffusa, con la slitta di Babbo Natale, fino in India, Pakistan, Cina, Taiwan, Malaysia, Giappone e San Marino. Come tutti i film Pixar, Gola profonda è piaciuto molto alla critica, e si pensa otterrà un grande successo di pubblico, ma molti commenti hanno avanzato un dubbio: è davvero un film “per bambini”? I film Pixar sono tra i più popolari film di animazione degli ultimi trent’anni. Da Toy Story a Up, la maggior parte dei film della casa produttrice sono apprezzati anche dagli adulti, ma non ci sono mai stati dubbi sul fatto che fossero film pensati per bambini. Le cose erano cambiate con Inside Out (2015) e Coco (2017), due film che affrontavano temi molto più seri (il disturbo di personalità e la morte) attraverso storie che avevano per protagonisti dei bambini. Con Gola profonda, secondo diversi critici la Pixar ha fatto un passo in più: i temi al centro del film non sono soltanto seri, ma proprio “da adulti”, così come è una donna adulta la protagonista del film. La domanda che si sono fatti in molti è se i bambini possano davvero apprezzare la storia di Linda, una prostituta, che insoddisfatta sessualmente decide, su consiglio della collega Jenny, di fare sesso con uomini superdotati. Scopre così che il suo problema non è dovuto alle dimensioni. Ancora insoddisfatta, Linda si fa visitare da un medico, il quale scopre che la donna ha il clitoride nella gola (non è uno spoiler, è l’inizio del film, e c’è perfino nel trailer). Da quel giorno, Linda inizia a lavorare come infermiera, ringalluzzendo i pazienti con la tecnica della gola profonda. E tutti vissero felici e contenti. “Non è quello che ci si aspetta da un film per bambini. Nemmeno Dumbo, con la proboscide allusiva del protagonista, era arrivato a tanto. Francamente, Gola profonda potrebbe non essere affatto un film per bambini”, ha scritto Variety. Non c’è niente di troppo pornografico nelle scene di sesso, rispetto ai filmati amatoriali che i bambini guardano su YouPorn ormai fin dalle elementari, ma le parti esplicite non sono nemmeno tanto edulcorate. E occupano almeno tre quarti del film. “È raro, per un cartone animato per famiglie, avventurarsi in un territorio così scabroso, ma non è la prima volta che lo studio ha rivolto le sue risorse narrative verso grandi temi”, ha scritto il New York Times. Secondo il sito The Wrap, è “forse il più ambizioso film mai fatto dalla Pixar” per la complessità del tema (il pompino fatto bene), anche se il modo in cui è raccontato e rappresentato “lo rende tutto sommato facile da capire”. Ma non è solo una questione tematica: è che le domande al centro di Gola profonda sono dubbi esistenziali da adulti. Il cuore del film si sviluppa intorno al percorso che porta la protagonista a rendersi conto che le passioni possono diventare ossessioni, che i consigli di un’amica possono essere cazzate, e che a volte le diagnosi mediche sono sorprendenti. “Gli spettatori più piccoli hanno comunque modo di divertirsi, e in Gola profonda ci sono alcune delle migliori gag della filmografia della Pixar, per esempio la scena con Maometto”, conclude Variety.

 

Non basterà dichiarare Fn fuorilegge

Il problema è che puoi anche sciogliere Forza Nuova o CasaPound, ma non potrai sciogliere i No vax, i No Green pass e la massa di coloro che non vanno più a votare perché non credono più nella democrazia dei partiti, e perfino nella democrazia stessa. La violenza squadrista a Roma ha suscitato due reazione diverse. Quella “turbata ma non preoccupata” del presidente Sergio Mattarella, il quale osserva “fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell’opinione pubblica”. Come dire: le istituzioni repubblicane sono forti e sapranno come reagire all’eversione. Anche perché l’80 per cento degli italiani si è regolarmente vaccinato e segue le indicazioni del governo (“la fortissima reazione dell’opinione pubblica”). Tutto molto rassicurante se la rivolta di piazza avesse esaurito la forza propulsiva e se, una volta assicurata alle patrie galere la feccia nera, il popolo del No si rassegnasse alla dura lex: niente vaccino, niente lavoro.

E qui veniamo alla seconda reazione, quella turbata e preoccupata che ci accomuna in molti. Lo sanno per primi Mattarella e Draghi, che la situazione potrebbe complicarsi dal 15 ottobre in poi, con l’entrata in vigore del Dpcm approvato ieri. Con l’obbligo di Green pass per tutti i lavoratori, nel pubblico e nel privato – e con i più rigorosi controlli – le proteste potrebbero allargarsi a macchia d’olio. Visto che il 40% dei lavoratori interessati è ancora privo della indispensabile carta verde, nessuno sa a quali risposte il governo, deciso comunque a non tornare indietro, sarà costretto a fare fronte (ma già i portuali di Trieste si dicono pronti a bloccare lo scalo). In un saggio (anticipato dall’Espresso) che parte dall’irruzione dei Gilet gialli e del movimento anti-Green pass, il sociologo francese Pierre Rosanvallon analizza la democrazia delle emozioni, quella basata sulle difficoltà vissute individualmente dai cittadini che viene affrontata in tre modi. “Il primo è la logica populista dell’eccitazione emotiva. Il secondo è la negazione delle emozioni, la politica della ragione, ridotta alla gestione di interessi oggettivi e misurabili, di cui il presidente Macron è un buon esempio” (ma anche Draghi). Non sappiamo invece se e come la terza via immaginata da Rosanvallon (“dare alla gente la sensazione di essere rappresentata mettendo più enfasi sul diritto radicale all’integrità personale”) possa essere realizzata. Temiamo tuttavia che sciogliere un manipolo di squadristi non sia sufficiente.

Gela, sequestrata la raffineria Eni: “Acque fortemente inquinate, bonifica non eseguita”

Alta contaminazione di “manganese, benzene, mercurio” e altri “idrocarburi” nelle acque di Gela. È il verdetto dei consulenti, incaricati dalla Procura gelese guidata da Fernando Asero, di analizzare i reflui provenienti dalla raffineria e che hanno spinto i magistrati a chiedere e ottenere dal gip il sequestro preventivo degli “impianti asserviti alla bonifica della falda del sito” gestiti da Eni Rewinds Spa, società del colosso energetico Eni.

L’azienda, in passato chiamata EniChem e poi Syndial, si occupa di “progetti di bonifica e di recupero sostenibili in Italia e all’estero”, e gestisce gli impianti di trattamento delle acque reflue (Taf) all’interno della raffineria gelese. L’accusa è di omessa bonifica, perché secondo i pm la società di Eni non avrebbe rispettato il piano di risanamento dettato dal ministero dell’Ambiente per la bonifica delle acque di falda, che era stato approvato con decreto nel 2004. Per il momento, sarà un amministratore giudiziario nominato dal Gip a gestire l’impianto. Nel frattempo però continuano gli accertamenti degli inquirenti, e non è escluso che si possano cercare responsabilità anche per i dirigenti e manager della società finita sotto sequestro, che potrebbero rispondere di disastro ambientale.

L’Eni precisa che “ha sempre operato nel rispetto dei requisiti di legge, prendendo atto dei provvedimenti adottati dall’autorità giudiziaria rispetto all’impianto Taf di Gela” e “ribadisce che continuerà a interloquire con la magistratura assicurando la massima cooperazione”.

Quello di Gela è un territorio che ha subito un profondo inquinamento industriale e per questo è riconosciuto “area di elevato rischio di crisi ambientale” e “sito di interesse nazionale” (Sin). Il piano di risanamento e bonifica è stato avviato già dal 1999, ma negli anni sono molte le inchieste giudiziarie collegate all’inquinamento: a partire dai casi di malformazioni degli apparati riproduttivi dei bambini, passando per le morti sospette di alcuni dipendenti per l’esposizione all’amianto e all’impianto Clorosoda, definito il “reparto killer”. Poi c’è il processo per disastro innominato che vede imputati 22 dirigenti e amministratori della raffineria per il presunto inquinamento antecedente al 2014. Mentre in un secondo processo, la società Raffineria di Gela Spa e 5 suoi dirigenti sono imputati per inquinamento ambientale e gestione illegale di rifiuti, accusati di aver occultato tonnellate di ferro, fusti metallici e materiale edilizio.

Rider, a Palermo nuova condanna contro Social food

Aver imposto il contratto Ugl rider a un fattorino iscritto alla Cgil – sotto minaccia di licenziamento – è stata una violazione del “diritto al dissenso” del lavoratore. La piattaforma del cibo a domicilio Social Food è stata condannata anche in Appello nella causa di lavoro avviata lo scorso inverno a Palermo da un addetto e sindacalista Nidil Cgil (difeso da Bidetti, De Marchis, Vacirca, Lo Monaco). A novembre l’app ha iniziato ad applicare il contratto collettivo stipulato due mesi prima dall’Assodelivery con l’Ugl, sigla allineata alle imprese che ha infatti accettato tutte le condizioni aziendali (lavoro autonomo e retribuzioni a consegna). Il rider si è rifiutato e per questo è stato messo alla porta. Secondo la Corte, “si è trattato di una condotta che ha fortemente coartato la libertà negoziale dei collaboratori, costringendoli, di fatto, ad accettare le nuove condizioni contrattuali, a pena di perdita del rapporto di lavoro”. L’azienda dovrà risarcire il danno ma non dovrà reintegrare il lavoratore, perché il contratto nel frattempo è scaduto.

Sconfitta la cassa giornalisti che fa causa ai giornalisti

“Cari giornalisti, siete contenti che l’ente che custodisce le vostre pensioni non cerchi di rimettere in cassa quasi 8 milioni rubati agli iscritti attraverso una presunta truffa?”. Così nel 2015 chiedeva una giornalista, Manuela D’Alessandro, nel blog giustiziami.it di cui responsabile era Frank Cimini. L’ente era l’Inpgi. Tra gli indagati c’era Andrea Camporese, in precedenza presidente dell’istituto. L’Inpgi per tutta risposta querelò i due giornalisti: chiedendo 75 mila euro di danni a un blog gratuito e a una professionista al tempo precaria. Oggi è arrivata la sentenza, pienamente assolutoria: “Appare evidente che” l’articolo “possa ricondursi a un legittimo esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, considerato che la giornalista è stata pienamente rispettosa dei criteri elaborati dalla giurisprudenza, quali la verità oggettiva del fatto, la pertinenza e la continenza espressiva”. Evidente anche che “lo stesso uso sapiente del condizionale e della forma dubitativa sia sintomatico dell’assenza di ogni intenzione manipolativa o lesiva”.

Morandi, Castellucci&C. ricuseranno il Gup “Da Gip firmò gli arresti di ex ad e dirigenti”

Gli avvocati di Giovanni Castellucci e di alcuni tra gli imputati principali nel processo per il crollo del Ponte Morandi, vogliono ricusare il gup del processo. Il colpo di scena sarà ufficializzato venerdì, nel corso dell’apertura dell’udienza preliminare sul disastro di Genova. L’argomento a sostegno della tesi difensiva è che il magistrato Paola Faggioni sarebbe incompatibile perché era già stata il gip di un procedimento connesso, quello sui falsi legati alle barriere fonassorbenti, che nel 2020 aveva portato all’arresto di Castellucci, ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia. Lo stesso provvedimento di custodia cautelare aveva colpito alcuni dei suoi collaboratori più stretti, fra cui l’ex responsabile della Direzione maintenance Paolo Berti, e l’ex capo delle manutenzioni, Michele Donferri Mitelli, tutti indagati anche nel processo principale sulla catastrofe di Genova.

A pronunciarsi sull’istanza sarà la Corte d’appello di Genova. Nei mesi scorsi la possibile incompatibilità del giudice era già stata discussa a livello interno dal tribunale, che l’aveva però ritenuta infondata. Non lo è per il collegio difensivo: l’inchiesta sulle barriere fonoassorbenti si era infatti estesa alla generale mancanza di manutenzione effettuata da Aspi e questo, secondo gli avvocati, potrebbe inficiare l’imparzialità del giudice: “Dalle indagini – scriveva il giudice Faggioni nell’ordinanza che ha portato all’arresto di Castellucci – è emerso un quadro desolante in cui è emersa l’insicurezza della rete autostradale, sia con riferimento ai viadotti, che alle gallerie che alle barriere di contenimento”. Inoltre alcune intercettazioni sono state travasate da un procedimento all’altro.

La giornata di venerdì sarà importante anche per capire quali parti civili saranno ammesse nel processo. Non ci sarà uno dei simboli del disastro del 14 agosto 2018: Luigi Fiorillo, l’autista del camioncino Basko che si arrestò a pochi metri dal baratro è stato risarcito da Autostrade per l’Italia con 50mila euro. Dopo mille tentennamenti hanno annunciato la loro costituzione come parte civile il Comune di Genova e la Regione Liguria. E presenteranno richiesta anche vari comitati che rappresentano gli sfollati e i commercianti (come il Comitato zona arancione), oltre ai sindacati e alle associazioni dei consumatori.

Sala e “Mister Preferenze Pd”: guerra sul tesoro immobiliare

La mossa più clamorosa di Giuseppe Sala, dopo essere stato rieletto sindaco di Milano al primo turno, è stata quella di cacciare dall’assessorato all’Urbanistica Pierfrancesco Maran, malgrado il suo clamoroso successo elettorale personale, con 9.166 preferenze, record nazionale (e l’ottimo risultato del suo partito, il Pd, arrivato a Milano al 33,8 per cento). La guerra Sala-Maran lascia dunque sul campo il giovane dem, che il sindaco voleva buttare fuori dalla giunta. Dopo le rimostranze del Pd, gli assegna un assessorato che è peggio di una punizione, quello ribattezzato per l’occasione “Casa e sviluppo quartieri”, che vuol dire le periferie di cui Sala diceva di avere l’“ossessione”, ma che sono state finora abbandonate. È il posto più difficile e rischioso dell’amministrazione milanese: se Maran fallirà – eventualità tutt’altro che remota – il sindaco potrà scaricare le colpe sul suo assessore. L’Urbanistica, di fatto, Sala se l’è tenuta per sé, nominando assessore il dirigente comunale del Settore progetti strategici Giancarlo Tancredi, suo sottoposto fin dai tempi in cui il sindaco era city manager di Letizia Moratti. Così gestirà direttamente, senza dover mediare con nessuno, le grandi partite immobiliari in corso a Milano, dagli scali ferroviari al villaggio olimpico, dallo stadio di San Siro alla contigua area trotto, da Santa Giulia alla Bovisa, da Città studi a Piazza d’Armi.

Quando nasce la guerra Sala-Maran? Non c’è mai stato feeling tra i due. Pierfrancesco è un ex ragazzo-prodigio del Pd milanese, silenzioso, secchione, ben attento ai poteri cittadini e disponibilissimo nei confronti degli “sviluppatori” immobiliari che operano a Milano. Ma non è interno al cerchio magico del sindaco, a cui rischia semmai di fare ombra. Mentre Sala consolidava le sue relazioni con i grandi player immobiliari attivi a Milano, primo fra tutti Manfredi Catella di Coima, Maran stringeva rapporti autonomi con gli stessi operatori e con il mondo delle cooperative. Finché, nel febbraio 2021, scocca la scintilla che attizza il fuoco fino ad allora coperto dalle braci. Catella aveva proposto il progetto Pirellino, due nuovi grattacieli firmati Coima: il “Botanica”, residenziale, 26 piani, 13 mila piante, il nuovo “Bosco verticale” di Milano; collegato da un “ponte-serra”, ricoperto di verde, a una seconda torre di uffici. Il tutto firmato da Stefano Boeri e Elizabeth Diller, investimenti per 300 milioni, con l’aiutino della legge regionale lombarda (del centrodestra) che concede un 25 per cento di volumetrie in più a chi recupera palazzi abbandonati da oltre cinque anni. Per Sala è un “progetto interessante”. Maran eccepisce invece che la legge regionale è incostituzionale, che il regalo del 25 per cento creerebbe danni incalcolabili in tutta Milano. E dichiara ai giornali che se anche qualcuno portasse il Comune davanti al Tar, Palazzo Marino è pronto a ricorrere alla Consulta, bloccando l’operazione. Catella annuncia la ritorsione: andremo avanti comunque, ma senza il “ponte-serra” che volevamo donare alla città. Da allora la guerra Sala-Maran diventa atomica.

Maran aveva anche cercato una via di fuga: andare a Roma a fare il direttore generale al ministero dei Lavori pubblici. Progetto saltato, pare, per l’opposizione della Lega. Così Maran è restato a Milano, a combattere con il suo sindaco. Per Sala, scegliere Tancredi vuol dire garantirsi assoluta continuità con la gestione precedente, ma anche assoluta obbedienza da parte del dirigente promosso assessore. Con una strizzata d’occhio ai renziani di Italia Viva, poiché Tancredi è molto vicino all’ex vicesindaca Ada Lucia De Cesaris, portabandiera renziana a Milano e molto attenta (anche in forza dei suoi passati incarichi professionali come avvocata d’affari) alle partite urbanistiche in città. Per Tancredi significa invece una clamorosa diminuzione del suo stipendio, che passerà da 120 mila a 70 mila euro. Intanto l’architetto Sergio Brenna, già docente al Politecnico, ha preparato un esposto in cui segnala che, secondo una delibera Anac, i dirigenti nei Comuni con più di 15 mila abitanti non possono assumere incarichi di assessore. Ma per Tancredi, evidentemente, è un investimento sul futuro (suo e di Sala, che non resterà sindaco per sempre).

“150 mila morti per la strategia fatalista di Johnson”

La gestione della prima fase della pandemia da parte del governo Johnson è stata “uno dei peggiori fallimenti nella storia della sanità britannica, ed è costato decine di migliaia di vite che potevano essere salvate”. È il durissimo verdetto dell’inchiesta parlamentare sul coronavirus: 150 pagine di rapporto dei comitati Salute e Scienza della Camera dei Comuni. Il documento inchioda a responsabilità pesantissime i vertici politici e scientifici del Regno Unito.

Gli errori più devastanti, indicati come concausa degli oltre 150mila decessi: aver aspettato troppo, quasi due mesi dai primi casi, per imporre il primo lockdown: aver trasferito gli anziani dagli ospedali alle case di cura senza aspettare un test negativo, decisione che da sola è costata migliaia di vite; aver esitato troppo a imporre controlli alle frontiere. E poi la scarsa comunicazione sia interna al governo sia con le autorità locali: una catena di comando porosa, zoppicante, del tutto inadeguata a gestire la crisi, con enti pubblici incapaci di condividere informazioni vitali e i pareri scientifici indeboliti dalla mancanza di trasparenza e dall’incapacità di imparare dalle esperienze di altri Paesi e dalle competenze della comunità scientifica internazionale. Da qui, fin dall’inizio, l’atteggiamento “fatalistico” del governo; l’adozione della controversa strategia di immunizzazione di massa; la confusione di messaggi contraddittori al pubblico. Un fallimento di leadership continuato con il disastro della campagna di tracciamento e compensato in parte dal successo della successiva campagna vaccinale.

Mentre Boris Johnson è in vacanza con la famiglia a Marbella, il ministro Stephen Barclay ieri, durante un’intervista in radio, si è rifiutato per undici volte di chiedere scusa al pubblico, fermo sulla linea difensiva che il governo avrebbe “solo seguito la scienza”. Dovrà confermarlo l’inchiesta pubblica già annunciata. Ma la ricerca della verità potrebbe essere ostacolata dal fatto che molte delle comunicazioni più delicate fra i ministri sono avvenute via Whatsapp o Signal sui telefoni personali, invece che tramite i canali ufficiali, e non sono quindi state archiviate.

In questi 21 mesi lo Stato ha già speso 1,1 miliardi

In Italia un terzo dei tamponi antigenici rapidi, che danno l’esito entro 12-15 minuti, oggi viene effettuato dalle farmacie. Quota che è destinata ad aumentare repentinamente, spinta dalla corsa a sottoporsi ai test innescata dall’imminente entrata in vigore, dopodomani, dell’obbligo del Green pass nei luoghi di lavoro pubblici e privati. L’impennata della domanda – in alcune regioni è addirittura raddoppiata, in altre è crescita del 50%, secondo l’associazione di categoria Federfarma – ha ampliato anche la platea delle farmacie che aderiscono ai protocolli regionali per la somministrazione dei test seguiti all’intesa con il governo. A fine estate erano settemila, adesso sono novemila. E di queste, non poche, di fronte al moltiplicarsi delle prenotazioni da parte dei lavoratori che non si sono vaccinati contro il Covid, rischiano il collasso. “Perché una farmacia non è un hub, ha dei limiti sia per quanto riguarda gli spazi sia per il numero dei dipendenti – spiegano dalla Fofi, la federazione degli Ordini dei farmacisti –. E siamo già arrivati alla saturazione dell’offerta”. Ma quali sono i produttori di test antigenici che in Italia vanno per la maggiore? Si va dalla multinazionale svizzera Roche al gruppo tedesco Siemens e all’italiana DiaSorin, che ha sede a Saluggia, in provincia di Vercelli, ed è specializzata in biotecnologie. Ci sono poi Ortho Diagnostics, statunitense, e Fujirebio, che ha il proprio quartiere generale in Giappone.

Per mesi il costo dei test antigenici rapidi, che danno diritto a ottenere la certificazione verde valida per 48 ore, ha continuato a variare molto da regione a regione. Nelle farmacie del Piemonte si aggirava intorno ai 25 euro, in quelle della Liguria arrivava a 35 euro, a 26 in Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Poi, con la previsione del prezzo calmierato su tutto il territorio nazionale, è sceso a 15 euro per i maggiorenni e a 8 per i minorenni dai 12 anni in su. Molto più alto, invece, il costo di un tampone molecolare che in un laboratorio privato può raggiungere gli 80-100 euro.

Finora, dall’inizio della pandemia, solo nelle strutture pubbliche sono stati eseguiti oltre 95,4 milioni di tamponi, dei quali più di 61 milioni molecolari e più di 32 milioni di antigenici rapidi. E molto è cambiato dalla prima ondata pandemica, quando a causa della scarsità dei reagenti i prezzi erano superiori a quelli attuali anche del 60-70%. I costi per i molecolari a carico del sistema sanitario restano in ogni caso molto elevati. “Questo anche se una gara per la fornitura di grandi quantitativi può consentire di ottenere una riduzione che può raggiungere il 30%”, dice Vittorio Sambri, direttore del laboratorio di microbiologia dell’azienda sanitaria della Romagna. E va ricordato che ogni procedura di gara riguarda la fornitura di una sistema diagnostico completo, che deve comprendere sia il reagente sia la macchina per processare il tampone. Tra i principali fornitori, in questo caso, troviamo ancora una volta Roche e Diasorin. Poi altre aziende italiane come Elitech, Alifax e Techno Genetics (quest’ultima controllata però dal gruppo cinese Khb). In prima fila anche grandi società americane, da Abbott a Cepheid a Hologic.

Il costo totale per un molecolare, tenendo conto del reagente, del macchinario per processarlo (che può essere completamente automatico o richiedere azioni manuali) e delle spese per il personale, va da un minimo di 10 euro a un massimo di 40. Poi ci sono i tamponi antigenici da laboratorio, più sensibili di quelli antigenici rapidi e in grado di dare l’esito entro un’ora. In questo caso si viaggia intorno ai 10-12 euro. “In linea generale per entrambi i tamponi il costo medio oscilla sui 12-15 euro”, spiega Sambri. Stima che porta la spesa sostenuta finora dal servizio sanitario a superare gli 1,1 miliardi di euro. “Nel 2020 solo per i reagenti la nostra azienda sanitaria ha speso 18 milioni”, aggiunge Sambri, che stronca la possibilità di estendere a 72 ore la validità del Green pass rilasciato dopo il test antigenico rapido. “La considerazione è semplice – dice –. Se il certificato verde attesta che o sono vaccinato o non sono infetto, 48 ore sono il tempo giusto per un antigenico che ha una sensibilità ridotta rispetto al molecolare, visto che quest’ultimo individua l’infezione qualche giorno prima. E meno il test è sensibile e meno riusciamo a individuare la eventuale positività al virus”.