Tamponi, affare da 2,5 mld fino a dicembre

Un business miliardario per pochi, un pesante salasso per molti. I pochi sono i produttori e gli intermediari che vendono al pubblico i test sul Covid, rapidi e molecolari. I molti sono milioni di lavoratori non ancora vaccinati che da dopodomani, 15 ottobre, per poter lavorare dovranno sottoporsi ogni 48 ore ai test per il Covid-19, pena il taglio dello stipendio. L’obbligo di Green pass per i lavoratori non vaccinati da venerdì diventerà un affare di proporzioni gigantesche: ai valori attuali, entro fine anno, si può generare un giro d’affari da 2 miliardi. I profitti sono giganteschi: solo nell’ultimo passaggio, dai grossisti alle farmacie, il prezzo dei test quintuplica.

Dal 15 ottobre chi non si vaccinerà dovrà sottoporsi a tampone rapido ogni 48 ore, che potrebbero salire a 72 se verranno recepite le proposte di modifica avanzate da alcune forze politiche. Ma l’ipotesi di allungamento della validità del responso dei test, per parificarlo a quello dei test molecolari, per ora resta un’ipotesi. Grazie al protocollo firmato il 5 agosto dal Commissario straordinario Francesco Paolo Figliuolo e il ministro della Salute Speranza con Federfarma, Assofarm e FarmacieUnite, fino a dicembre i test rapidi avranno un prezzo calmierato al pubblico di 15 euro che scendono a 8 per i minorenni – gli altri 7 sono rimborsati dal Servizio sanitario nazionale –. Ogni settimana per lavorare o studiare in presenza serviranno quindi tre tamponi: la spesa pro-capite sarà di 45 euro, cioè 180 al mese o 2.100 euro l’anno, al netto di ferie e festività. Un salasso.

Il business potenziale è enorme. Non ci sono dati ufficiali sui cittadini non vaccinati. La Fondazione Gimbe stima tra i 4 e i 5 milioni gli italiani in età lavorativa privi di Green pass ai quali, per lavorare, servirebbero dai 12 ai 15 milioni di tamponi a settimana. Altre stime, più conservative, ipotizzano i lavoratori senza Green pass in 2,5 milioni circa, 250mila calcolati dal ministero della Funzione pubblica e altri 2,2 milioni nel settore privato. Con 48 ore di validità dei tamponi rapidi, in questo caso servirebbero 7,5 milioni di test alla settimana. Si può dunque ipotizzare che nel giro di qualche giorno si possa arrivare a un giro d’affari da 112,5 sino a 225 milioni alla settimana, ovvero da un minimo di 5,85 sino a 11,7 miliardi l’anno. Una spesa teorica, ovviamente, perché molti lavoratori e studenti al momento lavorano e studiano ancora da remoto e molti altri si risolveranno a vaccinarsi, spinti dai costi insostenibili dell’assenza di Green pass. Ma le cifre in ballo restano gigantesche: da qui a fine anno il fatturato dei tamponi rapidi in due mesi e mezzo potrebbe arrivare a valere tra 1,2 e 2,4 miliardi.

Questi i numeri del mercato che si spalanca davanti a tutti gli attori di una filiera che va dai colossi globali a centinaia di importatori, dai piccoli distributori locali sino alle catene delle farmacie. Del resto il business è davvero florido. Secondo Confindustria Dispositivi Medici, l’associazione dei produttori italiani, non è possibile isolare i dati sui soli test rapidi, ma l’intero mercato degli strumenti per la diagnostica in vitro del Covid, che includono test e strumentazione per indagini molecolari, per i test antigenici, per la ricerca di anticorpi e di anticorpi neutralizzanti e test rapidi – solo nel 2020 valeva 354,3 milioni e 283,3 milioni solo nei primi otto mesi del 2021. Attenzione però: si tratta delle cifre che riguardano solo i produttori nazionali e che riportano i prezzi alla produzione. Lungo il canale della distribuzione questi valori aumentano in modo esponenziale.

Secondo informazioni di mercato raccolte tra le grandi società che si occupano di distribuzione alle farmacie, la domanda di test rapidi per il Covid sta già decollando, con un incremento tra il 15 e il 20% registrato solo nelle ultime due settimane. La fascia di prezzo delle vendite di tamponi rapidi alle farmacie è compresa tra i 2 e i 4 euro a pezzo, che comprende margini molto ridotti (con un ricarico medio del 5-10%) per i distributori. Ma se si calcola un valore medio teorico di 3 euro, si può osservare che il prezzo al pubblico è quintuplicato grazie ai 15 euro calmierati pagati al farmacista in base all’accordo stretto questa estate con il governo. Le farmacie spiegano che non si tratta di puro profitto, perché per somministrare i tamponi rapidi molte si sono dotate di personale ad hoc, ad esempio di infermieri, e hanno spese per materiale di consumo, come guanti, camici e cuffie di protezione per chi raccoglie il test. Di certo, comunque, anche al netto di questi costi (che si trasformano in altro fatturato a monte), i ricarichi sono giganteschi e vanno quasi integralmente nelle tasche di farmacisti e centri di diagnostica medica, perché i medici di famiglia si rifiutano di effettuare i tamponi per il Green pass sui non vaccinati perché ritengono che si tratti di un’operazione che contrasta con la finalità scientifica del loro lavoro mirato a tutelare la salute pubblica.

Per accorgersi di quanto sia grande e lucrativo il business dei test Covid basta sfogliare i bilanci dei principali produttori. Il gigante del settore a livello globale è la svizzera Roche Diagnostics: nei primi sei mesi del 2021, in base all’ultimo bilancio disponibile e al cambio attuale, le vendite sono salite di ben 2,8 miliardi di euro, +50% su giugno 2020, con margini di profitto oltre il 25% dei ricavi totali, in controtendenza con l’intera divisione farmaceutica che ha perso il 3% dei ricavi. Anche Abbott, altro colosso Usa della diagnostica medica, ha festeggiato i tamponi Covid: solo la diagnostica rapida per il virus ha visto le vendite globali passare in un anno da 866 milioni a 3,2 miliardi di euro. Trend confermato dai dati di Thermo Fisher, altro gigante Usa della diagnostica molecolare: balzo del 50% delle vendite legate al Covid passate da giugno 2020 a giugno 2021 da 2,82 a 4,08 miliardi di euro. Nel 2020 i test hanno fatturato 5,71 miliardi, oltre il 20% dell’intero giro d’affari globale del gruppo che valeva 27,7 miliardi.

Anche i produttori italiani fanno grandi affari. In 12 mesi Diasorin ha visto esplodere i ricavi da test Covid del 108% a 185 milioni su un fatturato totale di 515 milioni. Test e tamponi hanno contribuito grandemente alla redditività, con l’utile passato da 94 milioni del primo semestre 2020 a 150 a giugno 2021. Altro grande player nazionale è Menarini Diagnostics: il Covid ha spinto i ricavi da 137 milioni nel 2020 a 214 (+56%) e l’effetto test ha fatto triplicare le vendite (+181%) a 96 milioni, quasi la metà del giro d’affari complessivo, con l’utile pre-tasse quadruplicato nel 2020 da 5,5 a 22,4 milioni. La corsa a spartirsi la grande torta è già in corso: l’aumento dei volumi di test rapidi richiesti dal mercato nazionale non farà che stimolare ulteriormente gli appetiti.

Delimobil, gli amici russi dell’affarista tra offshore e 300 milioni investiti

Lussemburgo, Svizzera, Malta, Cipro, Liechtenstein, Hong Kong. La rete finanziaria di Vincenzo Trani, l’imprenditore che ha scelto Matteo Renzi come consigliere d’amministrazione della sua Delimobil, è costruita su nazioni che fanno della riservatezza e del risparmio fiscale il proprio segno distintivo. Dietro il nuovo marchio del primo car sharing russo, pronto alla quotazione a Wall Street, Trani ha costruito negli anni un’architettura finanziaria molto riservata. Decine di società sparse in paradisi fiscali, controllate le une dalle altre che gestiscono investimenti per almeno 300 milioni di euro. Una struttura in cui si fa fatica a comprendere l’origine dei soldi, quelli con cui questo ex bancario di Mps, arrivato a Mosca vent’anni fa per una vacanza e rimastoci, racconta lui, quasi per caso, è diventato l’italiano di Russia del momento. A una richiesta di intervista, Trani ha detto di non poter rispondere perché l’authority Usa per la trasparenza, che coordina la quotazione, non consente di rilasciare dichiarazioni.

Come abbiamo raccontato ieri, Delimobil è oggi partecipata dalla banca di Stato Vtb, che oltre ad acquistare il 13,3% delle quote ha concesso un prestito da 75 milioni di dollari alla società. La maggior parte del denaro con cui si sta finanziando Delimobil arriva però dal gruppo Mikro Kapital, fondato e diretto dallo stesso Trani, presidente della Camera di commercio italo-russa e console onorario della Bielorussia. Trani ha detto in alcune interviste alla stampa italiana di aver iniziato la sua avventura imprenditoriale con Mikro Kapital nel 2008. In realtà, l’azienda da cui è partito tutto è stata fondata a Mosca il 5 luglio 2007. Si chiama Finanza Futuro e ha due azionisti. Uno è lui, l’altro è Dmitry Aleksandrovich Naumov. Il registro societario russo non fornisce altre informazioni, ma un uomo con lo stesso nome, avvocato, fa parte di Russia Unita, il partito del presidente Putin: è stato nominato nel 2016, da parte del capo della Repubblica del Komi, responsabile del dipartimento locale di giustizia.

È stata la società russa Finanza Futuro, fondata insieme a Naumov, a dare vita alla holding lussemburghese che ancora oggi ha in mano buona parte dei soldi investititi dal gruppo di Trani. Si chiama Mikro Kapital, il bilancio del 2020 dice che oggi ha in pancia asset finanziari per 231 milioni di euro, a cui si aggiungono altri 30 milioni di investimenti diretti. Da dove sono arrivati tutti questi soldi? La Mikro Kapital all’inizio era una piccola società d’investimenti, capitale sociale di 20mila euro, di proprietà di Trani e altri due: Giorgio Parola, ex collega alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, oggi braccio destro di Trani in quasi tutte le sue attività; e Denis Saklakov, russo di Rostov, che non risulta avere mai avuto ruoli operativi nel gruppo. I soldi iniziano a girare quando nel 2011 viene varato un aumento di capitale da 10,6 milioni, sottoscritto quasi interamente da Trani. I documenti societari non danno indicazioni su chi abbia finanziato l’operazione, ma col trascorrere degli anni i soldi gestiti da Mikro Fund aumentano, passando dalle poche migliaia di euro ai 30 milioni di euro del 2018. L’anno dopo succede qualcosa di inaspettato. Gli investimenti passano di colpo a 204 milioni, in più l’azienda trova 100 milioni di finanziamenti vendendo obbligazioni a investitori istituzionali. I nomi sono ignoti, ma alcuni milioni sarebbero riconducibili al Vaticano: nel processo in corso contro il cardinale Angelo Becciu, il finanziere Enrico Crasso – per 27 anni responsabile degli investimenti per la Santa Sede – ha raccontato che in quel periodo monsignor Perlasca e Fabrizio Tirabassi gli avevano fatto pressioni per investire sulle obbligazioni di Mikro Kapital. “L’interesse per Mikro Kapital – ha detto Crasso interrogato – era dovuta al fatto che la stessa aveva fatto una donazione da 10 milioni di euro alla Santa Sede”. Solo una delle mille mosse finanziarie di Trani, l’italiano di Mosca che ha scelto di farsi accompagnare a Wall Street da Matteo Renzi.

Renzi, business tour in Baviera “Incontri, relax e riservatezza”

Matteo Renzi ha di nuovo le valigie in mano. Tra un paio di settimane, il senatore di Rignano è atteso all’Unternehmertag 2021, un raduno esclusivo di manager, politici, imprenditori e personaggi noti organizzato dalla Mountain Partners, colosso svizzero che investe in start-up in tutto il mondo.

Va da sé che Renzi si sentirà a casa, potendo ormai figurare tra gli speaker – come confermato sul sito dell’evento – sia in veste di leader di partito sia come uomo d’affari, dato anche il recente approdo nel Consiglio di amministrazione dell’azienda di car sharing Delimobil.

L’Unternehmertag è in programma dal 25 al 27 ottobre sul lago Tegernsee, in Baviera, 24 ore prima del nuovo evento del FII Institute a Riyad che dunque potrebbe costringere Renzi a prendere un aereo direttamente dalla Germania all’Arabia Saudita, dove fa parte del board of trustees dell’istituto. A organizzare il summit in Baviera è invece Cornelius Boersch, fondatore di Mountain Partners con interessi in centinaia di società e con spirito di iniziativa da vendere: oltre a Renzi è riuscito a convincere – tra gli altri – Philipp Rosler, più volte ministro e vice cancelliere di Angela Merkel; il manager lussemburghese Jean-Claude Biver, amministratore delegato di Tag Heuer; e Martin Clements, esperto di cybersecurity che ha lavorato a lungo col governo inglese.

Ma al di là dei principali ospiti, dell’evento si sa poco. Contattato dal Fatto, l’ufficio stampa della kermesse non ha chiarito se i partecipanti riceveranno un gettone di presenza. Oscuro pure il programma dei tre giorni, su cui Mountain Partners spiega solo che “l’agenda e le informazioni dettagliate sull’Unternehmertag 2021 saranno consegnate ai partecipanti dieci giorni prima dell’evento” e che “il programma non sarà pubblicato”.

D’altra parte la riservatezza è la chiave dell’incontro, ideato nel 2007 “per offrire agli imprenditori e agli investitori un’opportunità unica per incontrarsi” – si legge sul sito degli organizzatori – “e di scambiare idee in una atmosfera rilassata”. Fare rete, insomma, scambiare informazioni e contatti con potenziali finanziatori o nuovi referenti politici, ma anche con noti giornalisti o personaggi dello sport, purché i colloqui restino confidenziali. Il tutto “solo tramite invito”, perché all’Unternehmertag si applica una severa selezione all’ingresso. La stessa che Renzi deve aver superato alla grande, vista anche la biografia agiografica con cui è presentato: “Grazie ai suoi governi, l’Italia è passata da un -1,7% di Pil a un +1,6. Il suo Jobs Act ha creato 1,2 milioni di posti di lavoro. Ha moltiplicato per 100 gli investimenti contro la povertà e ha guidato l’unico governo italiano con parità di genere” (considerando viceministri e sottosegretari, in realtà, la percentuale di donne era sotto il 30%). Ma soprattutto, la biografia sottolinea come Renzi sia “componente di numerosi advisory board”. Senza elencarli tutti, chissà se per privacy o anche solo per non perdere il conto.

Forza Nuova al bando: bavaglio FdI a Rampelli

Quella delle quattro mozioni parlamentari per sciogliere Forza Nuova, che saranno votate alla Camera il 20 ottobre, è una partita da cui il centrodestra potrebbe uscire con le ossa rotte. Per Pd e M5S è una situazione win-win: se Lega, FI e FdI non votano la mozione del centrosinistra saranno tacciati di complicità col fascismo, se la votano avranno prestato il fianco ai giallorosa.

Così ieri il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli a Radio 24 ha fatto sapere che FdI avrebbe votato la mozione del Pd per sciogliere Forza Nuova: “ Voteremo sì alla mozione sullo scioglimento di FN, ma questo non ci toglie la libertà di esprimere un giudizio su un atto esclusivamente propagandistico”. Quando la dichiarazione è uscita sulle agenzie di prima mattina è scattato il panico tra i meloniani che fino a poche ore prima gridavano alla “deriva autoritaria”: così è servito l’intervento di Giorgia Meloni con il suo deputato e si dice anche quello di Matteo Salvini con gli alleati, per mettere tutto a tacere. Rampelli poco dopo ha fatto dietrofront dicendo che era stato “mal interpretato” e che si riferiva “alla mozione del centrodestra”. Ieri, per tutta la giornata, il vicepresidente della Camera di FdI ha ripetuto che il suo partito voterà solo una mozione che sciolga qualunque movimento eversivo “di destra e di sinistra” a partire dai centri sociali. Meloni invece si è detta “stufa” degli accostamenti tra Forza Nuova e FdI e che, se vuole, “il governo può sciogliere” il partito fascista. Ma non passando dal Parlamento. Draghi però deve superare un ostacolo politico, oltre che tecnico, se vuole sciogliere FN per decreto. Si chiama Matteo Salvini.

Ieri il premier ha confermato che il governo sta valutando consultando giuristi e magistrati: “La questione è all’attenzione nostra e dei magistrati che stanno continuando le indagini – ha detto Draghi – Stiamo riflettendo”. Servirebbe una sentenza della magistratura per dare più legittimità all’atto ma al momento non c’è. Il premier vede con una certa irritazione le mozioni parlamentari che stanno spaccando la maggioranza. Ma se decidesse di andare avanti con il decreto dovrebbe affrontare anche il nodo politico: Forza Italia acconsentirà ma la Lega al momento dice no. Salvini sostiene che devono pensarci i giudici perché c’è il rischio che si crei un precedente pericoloso: “Qualcuno vuole mettere fuori legge forze politiche, ma anche il fascismo nacque mettendo fuori legge chi non la pensava come loro” ha detto ieri da Trieste. Il leader della Lega si oppone anche per ragioni elettorali: dire sì alla vigilia dei ballottaggi rischia di far perdere consensi alla Lega perché vorrebbe dire piegarsi al centrosinistra e visto che sabato in piazza del Popolo, tra coloro che hanno manifestato pacificamente contro il green pass, c’erano molti elettori del Carroccio.

L’arresto negato: Castellino divide Polizia e Procura

Più di un anno di sit-in e cortei culminati, almeno in tre occasioni, in disordini e scontri. Ora l’arresto per qualcuno “tardivo” di Giuliano Castellino ha creato qualche tensione tra la Procura di Roma e la polizia. Il 45enne leader romano di Forza Nuova, da mesi in prima linea nelle manifestazioni contro le norme anti Covid, ha potuto contare su un crescendo di partecipazione, dai 100 ultras al Circo Massimo del giugno 2020 ai 20 mila di sabato scorso in piazza del Popolo. Non era certo una piazza neofascista, ma è cresciuta anche sull’onda dell’incessante propaganda social del piccolo partito di Roberto Fiore, che con la pandemia ha ottenuto una quasi insperata visibilità. “Soggetto pericoloso” per il tribunale, sorvegliato speciale dal gennaio scorso, con numerosi carichi pendenti e una condanna in primo grado (5 anni) per l’aggressione a due giornalisti dell’Espresso, Castellino in questi mesi ha avuto la libertà di andare allo stadio a vedere la Roma (fino a un recente Daspo), di incontrare il vicepresidente del Senato Ignazio La Russa e aprire un giornale online, L’Italia Mensile, dove fa propaganda “rivoluzionaria” e No-Vax e pubblicizza l’associazione di un capo ultrà della Lazio, Paolo Arcivieri (non indagato). L’arresto è arrivato all’alba di domenica dopo l’assedio di Palazzo Chigi e l’assalto alla Cgil.

A quanto ci risulta la Digos ha sollecitato almeno tre volte, dal 2020, misure più restrittive per il neofascista romano, gravato da una misura di prevenzione che tra l’altro gli vietava di uscire di casa dopo le 21 e di lasciare la Capitale, ponendo anche limiti all’uso dei mezzi di comunicazione. Diverse informative illustravano il suo ruolo nelle dimostrazioni più calde. Ma i provvedimenti non sono arrivati, i giudici li hanno negati e la stessa Procura ha manifestato dubbi sull’efficacia del lavoro degli investigatori. Ancora nei giorni scorsi la polizia aveva suggerito non solo l’oscuramento del sito di Forza Nuova, disposto lunedì dalla Procura, ma anche de L’Italia Mensile, che però è una testata registrata e non risulta aver ospitato interventi “incendiari” dopo gli scontri di sabato.

Diversità di vedute tra poliziotti e magistrati sono fisiologiche e nessuno fa polemiche. Resta che il “sorvegliato speciale”, arrivato come sempre in un secondo momento, sabato era sul palco. “Ecco il nostro condottiero” e gli hanno dato la parola. Lì Castellino ha lanciato la minaccia alla Cgil che un’ora dopo si è concretizzata con l’assalto alla storica sede di Corso Italia, protetta in ritardo e con forze troppo esigue. E proprio lui ha rivendicato via chat, postando un selfie scattato davanti all’ingresso del sindacato in cui si vedono alcuni degli arrestati, fra cui l’ex Nar, Luigi Aronica detto “Er Pantera”, 65 anni. “Conquistata la Cgil”, scriveva Castellino alle 17.30. Per la Procura conta poco se siano entrati nei locali o no, come sostengono i loro legali.

Ieri i pm hanno depositato le richieste di convalida dell’arresto e di misure cautelari per i sei leader No Vax: Castellino, Aronica e il segretario di Fn Fiore, oltre ai movimentisti Pamela Testa, Biagio Passaro e Salvatore Lubrano. Domani tocca al giudice. Rispondono a vario titolo di istigazione a delinquere, devastazione e saccheggio, radunata sediziosa, resistenza a pubblico ufficiale e violazione di domicilio. A sostegno delle richieste anche video, foto e chat di whatsapp e telegram. Due dei primi sei arrestati sono in carcere, misure più lievi per gli altri quattro.

Oggi la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, prima di rispondere in Parlamento sulle lacune nella gestione di sabato scorso, riunirà il comitato nazionale per l’ordine pubblico. All’ordine del giorno una stretta su prevenzione e gestione della piazza, che suscita perplessità: limitare i cortei, mantenere i dimostranti a distanza dalle piazze e dai palazzi più centrali, impedire che i sit-in si trasformino in manifestazioni. Sarà stanziale, in piazza San Giovanni, anche la manifestazione antifascista indetta sabato 16 dalla Cgil con Cisl e Uil. Quel giorno a Roma, poche ore dopo, si gioca anche Lazio-Inter, partita che coinvolge gruppi ultras vicini all’estrema destra: gli interisti ieri hanno esposto uno striscione per “Er Pantera” Aronica. Qualche preoccupazione in Questura c’è. Tanto più che il giorno seguente anche a Roma si vota per i ballottaggi comunali. I No Green pass manifesteranno a Milano.

Ballottaggi: la destra teme il flop. E Michetti si scopre antifascista

Qualcuno, nello staff di Enrico Michetti, arriva a usare la parola “complotto” per spiegare l’assalto alla Cgil di sabato scorso da parte dei facinorosi di Forza Nuova. Quasi a voler insinuare che dietro agli scontri e alle violenze ci fosse un’unica regia in grado di fare il gioco del centrosinistra e far perdere Michetti al ballottaggio. E non è un caso che proprio lunedì mattina Ilario Di Giovambattista, patron di Radio Radio e vero uomo macchina del candidato di centrodestra, lo abbia invitato a gettare la spugna prima del ballottaggio: “Enrico lascia stare, ritirati. Roma è cosa loro”.

E ha concluso, riferendosi alla manifestazione di sabato e alle polemiche sulle sue frasi antisemite del 2020: “Michetti sarà l’unico a rimetterci da questa cosa”. Non solo una provocazione. C’è di più: nello staff del candidato del centrodestra, che ormai è in balia delle sparate su Radio Radio dei suoi sostenitori (si parla addirittura di “comitato parallelo”), si teme che l’adunata di sabato in piazza San Giovanni e la mobilitazione antifascista del centrosinistra possano pesare eccome sul ballottaggio di domenica. Addirittura fino al 6-7%. “Le scene di sabato di fascisti che mettono a ferro e fuoco la Cgil non ci aiutano – dice un fedelissimo del candidato – gli elettori moderati di Calenda e di Raggi adesso difficilmente ci voteranno”. Intanto ieri a Di Martedì Giuseppe Conte ha dato il suo sostegno a Roberto Gualtieri che ieri ha fatto campagna con Beppe Sala: “Michetti non mi dà alcuna affidabilità, quindi io andrò a votare per Gualtieri. Ma attenzione non dico che il M5S debba farlo, gli elettori non sono pacchi postali”. Subito è arrivata l’esultanza di Enrico Letta e Goffredo Bettini.

Michetti è in difficoltà e quindi ha voluto mandare un messaggio forte sull’antifascismo per recuperare terreno nei confronti del suo avversario Gualtieri, che sabato scenderà in piazza con la Cgil: ieri il tribuno radiofonico ha comunicato ai suoi che vorrebbe andare anche lui in piazza San Giovanni al corteo del sindacato. C’è però un problema politico, ovvero che FdI e Lega sono contrari: troppo grosso sarebbe lo smacco nei confronti di Giorgia Meloni e Matteo Salvini che hanno parlato di “corteo fuorilegge” nel giorno del silenzio elettorale. Ieri dal suo staff facevano sapere che Michetti “ci sta pensando” ma poi, quando la voce si è sparsa in giro, da FdI gli hanno spiegato che non era il caso. E così in serata è arrivato il dietrofront: “Non andrò, rispetto il silenzio elettorale” ha detto Michetti. Poi ha fatto una dichiarazione in cui si è detto convintamente “antifascista”: “Io sono antifascista, non c’entro niente con questa violenza – ha scandito – ho avuto una sola tessera, quella Dc, che rispetto agli altri partiti è sempre stata dalla parte della libertà e delle istituzioni ”. Questa mattina ripeterà il concetto nella conferenza stampa unitaria con i leader del centrodestra al Tempio di Adriano – ci saranno Salvini, Meloni, Tajani, Lupi e Cesa, ma non Berlusconi che arriverà a Roma la prossima settimana – e poi stasera a Porta a Porta. La conclusione della campagna elettorale sarà venerdì con Meloni in periferia, alla Borghesiana.

Chi ha paura che l’antifascismo possa pesare sul voto dei ballottaggi è anche il candidato del centrodestra Paolo Damilano a Torino. Dopo essersi smarcato dai propri alleati e aver partecipato al sit-in della Cgil, l’imprenditore nei giorni scorsi ha avuto uno scontro furioso con Augusta Montaruli durante una riunione. Damilano ha chiesto alla fedelissima di Giorgia Meloni in Piemonte di prendere le distanze dal fascismo “senza ambiguità” e lei gli ha risposto invitandolo a “essere più di destra”. Una replica che il candidato non ha accettato e per questo se n’è andato. Damilano ha anche chiesto a Meloni e Salvini – che tra giovedì e venerdì, probabilmente divisi, arriveranno sotto la Mole – di parlare solo dei problemi della città perché ogni riferimento al fascismo potrebbe risultare ambiguo. Osvaldo Napoli, deputato torinese di Cambiamo! e molto ascoltato dal candidato, lo dice senza girarci tanto intorno: “Damilano rischia di pagare grosso le ambiguità di Salvini e Meloni, Torino è una città antifascista”.

Regole, controlli e divieti: così venerdì si potrà lavorare

Mancano 48 ore al G-day, l’obbligo del Green pass per 22,7 milioni tra dipendenti pubblici, privati e autonomi. Ma la combo micidiale voluta dal ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, prevede che venerdì sia anche il suo D-day con la fine allo smart working per 3,2 milioni di dipendenti pubblici che avranno così una sola modalità di lavoro: in presenza. Un conto alla rovescia troppo imminente che rischia di mandare in tilt il sistema sanitario, perché non sarà in grado di reggere il gran numero di tamponi che si renderanno necessari, ma anche di far ritrovare l’Italia con gli scaffali vuoti e il blocco delle industrie a causa del caos nei settori dei trasporti e della logistica, come raccontiamo nell’articolo in alto.

E chi pensava che i due dpcm che ieri ha firmato il premier Mario Draghi con le linee guida relative all’obbligo del Green pass da parte del personale delle Pa e del settore privato avrebbero dipanato tutti i dubbi dovrà ricredersi: i nodi restano tanti, a partire da quello organizzativo. Tecnicamente solo da questa mattina i dirigenti pubblici e privati potranno cominciare a confrontarsi con le nuove disposizioni, fare la conta dei lavoratori che non hanno deciso di vaccinarsi (sarebbero 3,5 milioni quelli senza neanche una dose di vaccino, di cui mezzo milione solo nella Pa), organizzarsi per il controllo e le possibile conseguenze sanzionatorie per quanti non mostreranno neanche l’esito negativo di un tampone effettuato nelle 48 ore precedenti. I dpcm prevedono controlli quotidiani, niente contribuiti e ferie oltre allo stipendio per chi non ha il Green pass e risulta assente. Ma anche che si possa chiedere il certificato verde in anticipo in caso si debbano programmare turni aziendali, ma questo anticipo non potrà comunque essere superiore alle 48 ore. E per cercare di ridurre i problemi, è stato anche sdoganato che chi si è immunizzato all’estero con i vaccini autorizzati può avere la certificazione. In particolare, i controlli vanno fatti ogni giorno, all’accesso in ufficio o anche successivamente, a tappeto o a campione in una misura non inferiore al 20% del personale in servizio e assicurando una rotazione costante. Per evitare ritardi e code all’ingresso, i datori di lavoro potranno stabilire una maggiore flessibilità negli orari di ingresso e d’uscita. Per le verifiche potrà essere utilizzata la app VerificaC19 oppure la piattaforma già utilizzata per la scuola che consente una verifica quotidiana e automatizzata, rivelando solo il possesso del Green pass. L’applicazione interagisce con un software del ministero della Salute che può essere anche integrato ai tornelli di accesso. Ma il dpcm chiarisce anche che il datore di lavoro, pubblico e privato, non può conservare i Qr code delle certificazioni né raccogliere i dati dei dipendenti per le verifiche dei giorni successivi.

Fin qui le modalità sono comuni al pubblico e al privato. Ma il già pasticciato quadro normativo per la Pa è stato ulteriormente aggravato da una novità: la presenza di un mobility manager che dovrebbe semplificare gli spostamenti casa-lavoro, un po’ come è stato già previsto per le scuole. E anche in questo caso, si tratta di una figura inesistente o priva di risorse che non riuscirà a smistare la mole di dipendenti pubblici che torneranno tutti in presenza. “Il rientro generalizzato in locali spesso non attrezzati, con un afflusso incontrollato dell’utenza non soggetta a Green pass, protocolli di sicurezza non aggiornati o messi in soffitta pongono grandi problemi sulla tenuta della sicurezza dei posti di lavoro”, commenta Marco Carlomagno, segretario generale Flp. Resta una clausola già annunciata: i dipendenti pubblici non potranno chiedere di lavorare in smart working per eludere il controllo del Green pass. E ad avere necessariamente la certificazione verde saranno anche i dipendenti fragili che possono richiedere il lavoro fragile fino a fine anno.

Grillo: “Test pagati dallo Stato”. Anche Conte l’aveva detto

Itoni sono pacati, quasi paterni. Ma il senso quello rimane, che il Garante vuole dare la linea, ancora, al M5S che pure ha un presidente di nome Giuseppe Conte, a norma di nuovo Statuto “l’unico titolare e responsabile della determinazione dell’indirizzo politico del Movimento”. Ma questo non è un ostacolo per Beppe Grillo, che con un post sul suo blog invoca “la pacificazione sui Green pass”, ovvero tamponi gratis da qui al 31 dicembre per tutti i lavoratori che non si sono finora vaccinati. Costo per lo Stato, sostiene – “da buon ragioniere ho buttato giù alcuni appunti” – un miliardo di euro. E Conte nulla dice, nulla risponde. Almeno in pubblico e almeno ieri. Perché sui social si diffonde subito un video di un suo recente comizio in una delle tante piazze che ha girato in queste settimane. E in quei pochi secondi l’ex premier rassicura così un signore che protesta contro il Green pass: “Abbiamo chiesto tamponi gratis, da tempo c’è una nostra proposta in Parlamento”.

Di fatto è la stessa idea di Grillo. Solo che non l’aveva notata quasi nessuno, quella spiegazione da un microfono. Però poi ieri ecco il Garante, un megafono. A suo dire vale la pena spendere un bel po’ pur di tenere buoni i no vax, “un popolo molto contenuto in Italia” sostiene, citando il dato dei 41 milioni di vaccinati, “uno dei migliori in Europa”. E comunque “il dibattito è aperto” chiosa Grillo, come a dire che non vuole imporsi. E magari che non vuole criticare troppo quel governo Draghi a cui ha garantito i sì del M5S e la sua neutralità. L’esecutivo di quel premier che sovente quando c’è stato un problema ha telefonato direttamente a lui, a Grillo. Di certo il post del Garante, a poche ore dall’entrata in vigore del Green pass obbligatorio, mette in imbarazzo, e parecchio, il M5S di governo. Anche perché con un pugno di righe si mette sulla stessa rotta di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, che quasi lo applaude: “Ho visto Grillo chiedere l’estensione della validità dei tamponi e di offrirli gratuitamente, meglio tardi che mai”. Per questo i 5Stelle, già alle prese con i postumi delle Comunali, restano zitti sul tema. In chiaro parla solo il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, un veterano, già membro del fu Direttorio: “Ammesso e non concesso che ci sia un miliardo a disposizione, lo userei per aiutare le famiglie che hanno avuto decessi a causa della pandemia. Chi oggi non ha il Green pass è un no vax”. Sibilia forse non sa nulla del video di Conte. E fa muro a Grillo. Proprio come il ministro del Lavoro, il dem Andrea Orlando: “Mi sembra ragionevole pensare a tutte le forme possibili di calmierazione del prezzo, ma far diventare il tampone gratuito significa dire sostanzialmente che chi si è vaccinato ha sbagliato”.

I 5Stelle disseminati per Montecitorio però parlano soprattutto di Sibilia: “Guarda come gli ha risposto…”. E di metodo: “Beppe è entrato di nuovo a gamba tesa, è più forte di lui, vuole imporre la linea”. Ma c’è anche chi è d’accordo con Grillo, eccome. “Alcuni dei nostri del Nord lo ripetono da stamattina, ‘quanto detto da Beppe avremmo già dovuto dirlo noi’” racconta un big. Le posizioni sono diverse, frammentate, nel Movimento che di questi tempi è un insieme di atomi. Però poi si torna sempre al capo, a Conte. In giornata appare alla Camera per incontrare i parlamentari campani. Proprio mentre la sindaca uscente di Roma, Virginia Raggi, raduna qualche eletto romano nella sede nazionale del partito a due passi da Montecitorio, nonostante le avessero chiesto di cambiare sede dell’incontro. Ma così va, nel M5S. Conte tace, in attesa di parlare in tv in serata.

Però i social non aspettano, e su Twitter si diffonde quel video dove anche lui parla di tamponi gratuiti. E ovviamente glieli rinfacciano, quei pochi secondi da un palco. Ma l’avvocato non entra sul punto. Sempre a DiMartedì, ribadisce che sulle vaccinazioni il suo M5S ha le idee chiare: “Se parliamo di qualche dubbio sui vaccini, questi sono stati espressi in passato da persone che hanno abbandonato il M5S. Su questo noi abbiamo una posizione lineare, e io sono il presidente del Consiglio che ha avviato la campagna vaccinale”. Ma il Green pass e i tamponi sono un’altra storia, molto più aggrovigliata per i 5Stelle. E certi grovigli tolgono la voce.

Porti e logistica a rischio caos. Il Viminale: “Tamponi gratis”

A due giorni dall’entrata in vigore dell’obbligo di Green pass per i lavoratori, regna il caos anche in un settore nevralgico come quello dei trasporti e della logistica. Con migliaia di magazzinieri, addetti alle manovre ferroviarie, autisti e marittimi impossibilitati a lavorare e centinaia di portuali di tutti gli scali, in primis a Trieste, pronti a incrociare le braccia, il rischio di un collasso della rete di distribuzione merci è concreto. Iniziano così ad aprirsi le prime crepe negli obblighi. Per 25 anni le lobby di autotrasporto e armamento hanno lavorato a norme che consentissero di impiegare personale straniero per abbattere i salari. Marittimi e autisti italiani sono così divenuti merce rara, rimpiazzati da colleghi stranieri. Solo che fra questi, extracomunitari o est europei, molti non sono vaccinati o hanno vaccini non riconosciuti nell’Ue, in aggiunta alle difficoltà di applicare la norma a personale viaggiante su tratte internazionali. Per Confitarma e Assarmatori sono 15-20 mila i marittimi di navi italiane in questa situazione. E se per gli armatori la soluzione sono i protocolli pre-Green pass (obbligo di test molecolare prima dell’imbarco), per Anita, sigla confindustriale dell’autotrasporto, si rischia una “fuga di massa” e sono indispensabili “deroghe specifiche per tutti i conducenti, italiani ed esteri”.

La situazione può diventare critica. Parziale soluzione l’ha abbozzata nei giorni scorsi la Lega. A raccogliere le lamentele delle aziende che vogliono forza lavoro a basso costo è stato Edoardo Rixi, ex viceministro ai Trasporti, con un emendamento: “Per i lavoratori impiegati nel settore dei trasporti e della logistica è disposto il provvisorio riconoscimento della certificazione rilasciata dalle competenti autorità dei Paesi d’origine”. L’idraulico polacco, il marittimo filippino e il camionista bulgaro, ora sono i benvenuti. Peccato che la misura sia inserita nell’iter di conversione del dl Infrastrutture e non entrerà in vigore prima di 15-20 giorni almeno.

Più puntuale la risposta del governo alle preoccupazioni delle imprese logistico-portuali. Come rivelato ieri dal Fatto, il decreto Capienze ha ritoccato la norma sul Green pass per aiutare le aziende che, come i terminal portuali, lavorano su più turni e sospettano un’alta percentuale di “no Green pass” fra i dipendenti. Da ieri sul diritto alla privacy sanitaria dei lavoratori prevale – spiega una circolare degli Interni ai prefetti – “l’esigenza di procedere a un immediato monitoraggio dei dipendenti sprovvisti della certificazione”: appena il datore chiederà, il lavoratore dovrà rivelare lo stato vaccinale. Eppure iniziano a vedersi le prime crepe: il Viminale, per dire, ha raccomandato alle imprese portuali la “messa a disposizione del personale sprovvisto di Green pass test molecolari o antigenici gratuiti” per evitare la paralisi.

Un appello rispedito al mittente da Assiterminal, che di pagare i tamponi non ha intenzione e si dice “perplessa che, a tre giorni dal 15 ottobre, anche il nostro comparto, richiamato dal ministero tra i servizi essenziali, versi in questa condizione”. Molte imprese però stanno cedendo. Mentre il presidente dell’autorità portuale di Trieste, Zeno D’Agostino, ha annunciato le dimissioni in caso di blocco a oltranza, le imprese del porto ieri hanno confermato al Prefetto che offriranno tamponi gratis per evitare la paralisi, scatenando la reazione di Matteo Salvini: “E per gli altri milioni di lavoratori invece zero?”, ha attaccato il leghista, prendendosela col ministro Luciana Lamorgese.

Reazione blanda dal sindacato confederale, che si è limitato a chiedere l’estensione della raccomandazione a tutti i settori del trasporto. Problemi sono attesi anche nel trasporto pubblico locale. A Milano, per dire, i sindacati si attendono una quota fino al 20% di personale senza Green pass.

Venerdì, il caos, fra banchine, navi, magazzini, ferrovie e strade è più di un’ipotesi.

Disordine Nuovo

Siccome i soliti cretini fingono di non capire ciò che scriviamo e pensiamo, mentre noi abbiamo capito benissimo ciò che loro pensano ma non scrivono, mettiamo qualche puntino sulle i. Reparto ovvietà. 1) Chi assalta le sedi della Cgil, come chiunque usi metodi violenti, va individualmente arrestato, processato e condannato secondo il Codice penale e la Costituzione (“la responsabilità penale è personale”). 2) La riorganizzazione del partito fascista è vietata e quindi, una volta appurato da una sentenza definitiva della magistratura che questa o quella formazione di destra si propone di rifondare il Pnf, il Viminale la scioglie. Senza sentenze irrevocabili, il governo può sciogliere per decreto movimenti e organizzazioni di qualunque colore che fanno della violenza il loro metodo di lotta politica. Il che non vuol dire che i fascisti non possano esprimere le loro (aberranti) idee, purché non passino alle vie di fatto: il che spiega perché furono sciolte organizzazioni violente come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, ma non il Msi di Almirante né Fascismo e Libertà di Pisanò, dichiaratamente nostalgici del fascismo, ma senza i metodi violenti e antidemocratici del fascismo propriamente detto, quello di Mussolini.

E ora qualcosa che dovrebbe essere altrettanto ovvio, ma non lo è. 3) Chi critica il Green Pass per lavorare (come noi) o il Green Pass tout court e/o i vaccini (al contrario di noi) non è per ciò stesso un fascista e ha tutto il diritto di manifestare il suo pensiero, anche in piazza, purché pacificamente: fascista è chi vorrebbe impedirglielo. 4) Noi siamo favorevolissimi ai vaccini, che ci stanno salvando da una strage peggiore della prima ondata; ma il governo ha saggiamente stabilito che siano facoltativi: dunque dubitiamo che lo stesso governo possa togliere a chi esercita il diritto di non vaccinarsi un altro diritto, quello al lavoro, su cui si fonda la Repubblica. 5) Il governo che vanta una campagna vaccinale fantasmagorica, dichiara “sotto controllo” la pandemia e poi, unico nel mondo libero e senza uno straccio di spiegazione del premier, decide di lasciare 4 milioni di lavoratori senza lavoro né stipendio per aver esercitato un diritto, deve prevedere che costoro protesteranno: non solo sabato, quando s’è fatto cogliere impreparato, ma soprattutto da venerdì. E l’annunciata “stretta” alle manifestazioni sarà altra benzina sul fuoco. Finora gli italiani avevano accettato pacificamente le restrizioni e, in gran parte, le vaccinazioni e ora vengono improvvisamente precipitati in una parodia di guerra civile tra fascisti e antifascisti: una strategia della tensione fuori tempo massimo che puzza tanto di giochetto elettorale. Con l’80% di adulti vaccinati, ne valeva la pena?