“Da Genova ai Mari del Sud”: Hugo Pratt va in mostra coi suoi eroi tra Corto Maltese e Kirk

Sostiene Hugo Pratt (1927-1995): “Penso che l’avventura sia una componente molto bella della natura umana, ma è necessario saperla vedere, cercare, incontrare. La si può trovare dappertutto se si ha abbastanza fantasia, perché è una cosa di cui l’uomo ha bisogno e che spesso gli viene tolta”. Non a caso Alberto Ongaro (1925-2018), narratore eccellente e fraterno amico di Hugo, gli dedicò il libro (assai bello) Un romanzo d’avventura.

Ora le avventure in forma di “nuvole parlanti” e di romanzi di Corto Maltese – e naturalmente di Pratt, il suo creatore – si potranno incontrare, vedere e sognare nel sottoporticato del Palazzo Ducale di Genova fino al 20 marzo, grazie alla grande mostra Hugo Pratt da Genova ai Mari del Sud. Ovvero oltre 200 opere, tra tavole e acquerelli, che innervano l’esposizione curata da Patrizia Zanotti, collaboratrice numero uno, dal 1979, dell’artista e narratore veneziano, “unica donna che Corto Maltese non abbia lasciato”.

Genova è lo scenario ideale per Hugo Pratt e i suoi personaggi, non soltanto per il passato glorioso di regina dei mari. Intanto perché è a pieno titolo una capitale dell’avventura letteraria. Infatti alla fine dell’800 ci abitò Emilio Salgari e genovese, seppure di origini berlinesi, era Anton Donath, l’editore più importante del papà del Corsaro Nero e di Sandokan. Poi Genova, soprattutto, è stata la prima casa editoriale di Corto Maltese. La storia che inaugura la saga dell’affascinante gentiluomo di fortuna, Una ballata del mare salato, debuttò nel 1967 nel mensile Sgt. Kirk, fondato a Genova dall’imprenditore Florenzo Ivaldi e diretto da Claudio Bertieri. Ha ricordato Stelio Fenzo, un autore veneziano di fumetti, che l’incontro fra Ivaldi e Pratt avvenne al Lido di Venezia, alla trattoria Da Ciccio, e fu “un colloquio memorabile”. Pratt andò poi a Genova e, secondo una versione leggendaria, il primo abbozzo di Corto Maltese fu disegnato proprio in un’osteria della città.

La mostra di palazzo Ducale non racconta soltanto Corto e le sue avventure, in cui compaiono alcuni degli amori letterari di Hugo come Jack London, ma anche il Grande Nord americano e canadese, l’Africa degli Scorpioni del deserto, la Venezia alchemica di Corte sconta detta Arcana e tanti altri eroi: da Ernie Pike ad Anna nella Giungla, dall’Ombra al Sergente Kirk.

Una mostra in cui immergersi con lo spirito del Mago Merlino, che in Sogno di un mattino di mezzo inverno dice: “Chi sogna a occhi aperti è pericoloso perché non sa quando finisce il sogno”.

Ricco “Maialino di Natale”: la Rowling ritrova la magia

Quando perdiamo qualcuno che ci è caro è sacro continuare a coltivarne il ricordo, ma è scellerato credere che non sarà più possibile sperimentare lo stesso coinvolgimento sentito per chi abbiamo “smarrito”.

L’amore non si divide, l’amore si moltiplica e anche quando tutto si fa nero qualcosa rimescola sempre le carte del mazzo. Non bisogna disperare. Non sorprende che questo sia il cuore del nuovo romanzo di J.K.Rowling, Il Maialino di Natale, a distanza di oltre vent’anni dall’esordio della saga di Harry Potter, in uscita oggi in contemporanea mondiale, perché per lei il tema della perdita è una costante. La storia di Harry nacque infatti quando sua madre morì, gettandola in una profonda depressione – “fu la terribile sensazione di abbandono che mi spinse a creare il personaggio del maghetto orfano” – e anche quella del piccolo Jack, del suo legame con Maialino, l’unico a cui affida pensieri ed emozioni da quando ha due anni, e del suo tragico smarrimento, prese forma tempo fa quando un’amica, vedendola in difficoltà, le rammentò che “Natale arriva tutti gli anni”. Nell’immaginario collettivo Natale rima con fiducia, attesa, dono inteso come possibilità, miracolo.

La favola-romanzo, per lettori dagli 8 anni ma pure per gli adulti con un barlume di fanciulli, racconta il viaggio, inteso in senso classico, di Jack nella Terra dei Perduti, luogo in cui finiscono gli oggetti quando vengono smarriti, alla ricerca del suo pupazzo e un po’ anche di sé. La separazione dei suoi genitori e un nuovo assetto di vita e famiglia lo hanno infatti destabilizzato. La notte di Natale, accompagnato dal nuovo Maialino regalatogli per rimpiazzare il precedente, Jack attraverserà la terra del Dove sarà mai, La Landa degli Illacrimati (dove vagano penosi gli oggetti che nessuno ama più), La città dei Rimpianti, L’isola dei Diletti fino alla Tana del Perdente, mostro metallico che odia i Viventi e le loro Cose e le divora, facendole sparire per sempre e svuotando di speranza chi le cerca ancora perché troppo importanti, come facevano i Dissennatori della saga di Potter. Se inizialmente Jack rifiuta l’idea di potersi affezionarsi al nuovo Maialino progressivamente il legame cresce sulle basi di un progetto comune: avere cura del prossimo mettendo in campo solidarietà ed empatia e contemplando il sacrificio. Per far del bene siamo talvolta chiamati a rinunciare a qualcosa, ma se siamo stati amati la rinuncia sarà lieve.

“La buona novella” è siciliana. De André riletto da Giunta

Prendere un gioiello della canzone d’autore, riadattarlo nel proprio dialetto, il siciliano, e dargli una seconda opportunità. Francesco Giunta – poeta, cantastorie e appassionato linguista – l’ha fatto, registrando e pubblicando in un vinile, in edizione limitata, la sua personale “riscrittura” della Buona novella di Fabrizio De André. Con le voci di Cecilia Pitino, Alessandra Ristuccia, Laura Mollica, Giulia Mei, l’accompagnamento al pianoforte di Beatrice Cerami e l’ambientazione ritmica di Giuseppe Greco con voce narrante di Edoardo De Angelis.

L’idea è stata audace, ciononostante è stata premiata con l’approvazione della Fondazione Fabrizio De André Onlus nella persona della stessa Dori Ghezzi. Fa impressione rivedere la copertina che è identica all’originale per gentile autorizzazione delle etichette discografiche. La rilettura ha avuto anche la “benedizione” del professor Giovanni Ruffino, considerato uno dei più grandi dialettologi al mondo, accademico della Crusca.

L’originale, datato 1970, nacque da una vera urgenza di Fabrizio: “Volevo salvare il cristianesimo dal cattolicesimo. I vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica”. E contro ogni stereotipo incalza Giunta: “Spero sia proprio una ‘buona novella’ per la Sicilia, per tentare di dire una volta per tutte, in modo chiaro, che il dialetto siciliano non è la lingua dei mafiosi, è la lingua della nostra cultura migliore. Appartengo alla schiera di quanti sono convinti che l’opera di De André sia stata fondamentale nel suggerire la possibilità di essere e di diventare migliori rispetto all’allora pensiero dominante”.

Dori Ghezzi è rimasta piacevolmente incantata dal progetto: “Fabrizio amava spesso ripetere: ‘Un uomo che perde il dialetto è come un animale che perde l’istinto’. Scelse il genovese e i discografici non ci credevano, dissero che nemmeno a Genova l’avrebbero comprato un disco in dialetto, ma lui vedeva sempre avanti: dopo qualche anno esplose la world music e la musica etnica divenne importante a livello internazionale. Quando ho ricevuto le tracce del riadattamento mi sono resa conto di trovarmi di fronte a un’opera fatta veramente con arte e passione e con idee geniali. Ed è molto fedele all’originale. Il fatto di tradurla in un idioma e non lasciarla solo in italiano è un’azione, se vogliamo, rischiosa ma alla fine vincente. E io amo queste cose, così come Fabrizio non voleva mai le cose scontate. Oltretutto, ha dimostrato di avere molto rispetto degli idiomi locali, i dialetti popolari. Perché hanno una ricchezza che nemmeno l’italiano può competere. Il siciliano come il napoletano, tra i vari idiomi locali, sono quelli più popolari al mondo. Forse più dell’italiano stesso. E sono più internazionali se vogliamo. Fabrizio avrebbe apprezzato senza dubbio. Anzi lo sta apprezzando molto. Ci sono fraseggi in certi idiomi che non riesci a tradurli neanche bene in italiano perché non corrispondono esattamente. Non ti danno quell’esatta sensazione. E quindi anche io sono molto favorevole a questi esperimenti. Se l’italiano ha dei confini – in qualche modo, perché esistono sempre anche se c’è l’Europa unita –, gli idiomi non ne hanno: volano, sono internazionali. E tra l’altro qual è il disco più popolare di Fabrizio nel mondo? Creuza de ma. Noi non ci rendiamo conto di questi valori, di questi patrimoni che abbiamo e che vanno salvaguardati”.

L’arte di Fabrizio non conosce il passare del tempo: “Lui non ha mai trattato la gente da stupida. Ha sempre avuto un rispetto delle capacità intellettuali degli altri”, prosegue Ghezzi. “Ha cominciato a fare concerti per poter incontrare la gente, per lui era nuova linfa. E se ha osato tanto nel suo lavoro è perché era consapevole di questo rispetto. Sapeva di essere capito. E questo è arrivato alla gente. Perché lo ama? Non solo perché ha fatto cose che tutt’ora piacciono, vengono ascoltate e trovate attuali. Ma, soprattutto, umanamente: lui si è fatto veramente capire come persona. Ecco perché per tutti è Faber, l’amico, il fratello, il padre. Generazione dopo generazione è così. È un punto di riferimento che non passa”.

Voto, l’unione anti-Babis ora vuole governare: “Stop al caos”

L’ultima speranza che resta all’ex premier ceco Andrej Babis per rimanere al potere dopo la sconfitta elettorale di domenica scorsa si trova in questo momento in una stanza d’ospedale: è stato ricoverato d’urgenza in terapia intensiva a Praga il presidente Milos Zeman, ormai unico alleato rimasto al primo ministro tradito dal suo elettorato, che ha favorito i suoi avversari.

Zeman, 77 anni, affetto da una neuropatia che lo ha costretto a usare la sedia a rotelle, si è aggravato subito dopo un colloquio avuto con lo stesso Babis domenica al termine delle elezioni. Adesso, seppur serie, “le sue condizioni sono stabili”, riferisce il personale medico, ma Zeman deve restare ancora in corsia, monitorato dagli specialisti. Il presidente, che secondo la Costituzione ceca ha il potere di nominare il premier, aveva riferito in precedenza che avrebbe scelto a capo del nuovo governo il leader del gruppo politico più votato alle urne. Alle ultime elezioni la maggior parte delle preferenze a un singolo partito è andata alla creatura politica di Babis, Ano (in ceco vuol dire “Sì”), ma la coalizione più votata è stata quella di Spolu (“Insieme”), un’unione di tre movimenti di centro destra guidati da Petr Fiala, 57 anni, professore universitario.

“Il dominio di Babis è finito, l’era del caos è dietro di noi”: con queste parole, senza attendere la scelta di Zeman, Fiala ha già reclamato la sua vittoria politica e si è detto pronto a governare con Ivan Bartos, a capo del PirStan, il partito dei pirati e dei sindaci indipendenti, che ha ottenuto il 15% delle preferenze. La loro eventuale coalizione vanterebbe 108 seggi su 200 alla Camera bassa, dove, per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, non ci sarà il Partito comunista, che non ha superato la soglia di sbarramento del 5%.

Prima degli avversari politici, due cose hanno sconfitto l’ex premier miliardario che in campagna elettorale ha promesso aumento degli stipendi a pioggia e meno valori legati all’Unione Europea: la pessima gestione della pandemia, che ha reso la Repubblica Ceca uno dei Paesi con più decessi al mondo per Covid, e i nuovi scandali finanziari in cui è coinvolto, emersi dai Pandora Papers insieme alle accuse di frode, appropriazione indebita e uso di compagnie offshore.

Libano, altra fumata nera. Si vive senza cibo, al buio

Dopo il buio, il fuoco. Ancora una volta un incendio ha mostrato la fatiscenza delle infrastrutture libanesi e l’incapacità della classe dirigente di far fronte ai problemi del paese. Il collasso del Libano, ex Svizzera del Medio Oriente, continua senza che il governo “tecnico” Mikati, nominato lo scorso settembre per fare le riforme richieste dalla Banca Mondiale e dagli altri creditori internazionali dopo 13 mesi di tentativi propiziati dalla Francia in accordo con l’Iran, riesca a divincolarsi dalle pressioni politiche di Hezbollah e degli altri partiti al governo.

Mentre il black out dei giorni scorsi si è temporaneamente e parzialmente risolto grazie alle riserve di gasolio in dotazione all’esercito trasferite nelle centrali rimaste all’asciutto, nel deposito di carburanti di Zahrani, utilizzato anche dall’esercito, è scoppiato un incendio. Nei serbatoi c’erano 16 mila tonnellate di carburante acquistate dall’Iraq e arrivate a fine settembre. L’Iraq ha potuto in parte donare e in parte vendere legalmente il proprio carburante, invece le cisterne mandate dall’Iran via Siria all’inizio del mese non potranno più arrivare nel Paese dei Cedri perché Teheran è sotto embargo in seguito alle sanzioni statunitensi. I camion cisterna iraniani infatti non erano potuti entrare in Libano attraverso i valichi ufficiali bensì attraverso la zona libanese settentrionale al confine con la Siria gestita da Hezbollah, il partito armato sciita creato e finanziato dal regime iraniano, che di fatto governa il Libano. I rappresentanti della società civile, riuniti nel fronte Sayedat al Jabal, hanno accusato Najib Mikati e Hezbollah di aver permesso che l’Iran violasse palesemente la sovranità nazionale. Nelle ultime manifestazioni di protesta avvenute giovedì scorso durante la visita del ministro del neo governo iraniano, i manifestanti innalzavano cartelli con la scritta: “Iran out”, l’Iran fuori. L’incendio a Zahrani è un’altra battuta d’arresto per il Libano a corto di liquidità che continua a lottare con una crisi sistemica del petrolio e del carburante che ha paralizzato la vita pubblica. L’elettricità statale è praticamente inesistente garantendo solo due o tre ore di distribuzione al giorno, le altre quattro ore di elettricità circa provengono dai generatori privati che obbligano a pagarla a prezzi esorbitanti e in continua ascesa a causa della drammatica perdita di valore della moneta libanese. Famiglie e imprese sono schiacciate dalla cosiddetta “mafia dei generatori” a cui lo Stato non riesce a imporre una politica dei prezzi meno vampiresca.

Inoltre il prezzo del carburante è andato aumentando quasi settimanalmente, poiché il governo sta lentamente abolendo i costosi sussidi per la popolazione, sei milioni di persone, che ormai per tre quarti vive in povertà. Mikati, l’uomo più ricco del Paese, magnate delle telecomunicazioni con forti agganci in Siria fin dai tempi di Assad padre, dovrebbe ora risolvere tutti i problemi strutturali per avere i soldi dei creditori. La macroeconomia non va di pari passo con la microeconomia. “Mia madre, farmacista, mi dice che riesce a mangiare due volte al giorno e così i miei fratelli, ma credo me lo dica per non farmi preoccupare. A questo punto ho cambiato strategia: le chiedo cosa ha mangiato oggi”, dice una giovane libanese che vive in Italia da anni ma preferisce non essere nominata. “Sono tutti ladri corrotti e Hezbollah è a capo di questa congrega di mostri. Non so se andrò più a votare finché l’Iran dominerà il Paese. Il ministro dell’Energia parlava con un’arroganza così volgare per tentare di lavarci il cervello che mi sono reso conto che ormai il Libano, come l’Iraq è un protettorato iraniano”, dice Ara uno studente universitario. “È colpa della corruzione endemica se siamo precipitato così in basso. Le medicine, per esempio, ora ci sono ma solo quelle salva vita hanno i prezzi calmierati, tutte le altre sono talmente costose che è impossibile per la maggior parte della gente acquistarle”, sottolinea Sarah, una contabile diabetica che ha perso il lavoro. Ad aiutare i malati ci sono i presidi ambulatoriali statali, ma per quanto riguarda il cibo non sono state create mense per i poveri. “Fino a quando Hezbollah non deporrà le armi, non dissolverà il proprio esercito, diventando un partito normale, il Libano rimarrà un paese in crisi a sovranità limitata”, sottolinea il giornalista e scrittore Saad Kiwan.

MailBox

 

Non c’erano solo fascisti a protestare in piazza

Non vi sembra francamente strano che quando il popolo scende in piazza arrivano con precisione oraria a far casino, se non i gruppi di nazi-fasci, i black block? Dalla narrazione mainstream la risultante comune è stata “le piazze violente dei no vax”. Ma non c’è ribrezzo per questa narrazione? E dal prossimo venerdì, a cosa assisteremo con l’entrata in vigore della follia pass? E chi incolperanno questa volta?

Francesco Avellino

 

Infatti noi abbiamo distinto tra i manifestanti pacifici e gli squadristi fascisti.

M. Trav.

 

La destra soffia sul fuoco dei no vax da fine 2020

Il rapporto tra i neofascisti e i no vax è un po’ più complesso di una strumentalizzazione last minute. In realtà l’estrema destra, come rivelato tempo fa da Report, è stata molto operativa a partire dall’inverno 2020 nel confezionare e diffondere fake news antiscientifiche sulla pandemia, riconoscendo e alimentando il potenziale sovversivo che la situazione poteva generare. In tal senso i no vax sono in gran parte creatura di una forma di rimpallo propagandistico via social non direttamente riconducibile alla fonte. Ricordo inoltre che i forzanuovisti, durante il primo lockdown, si erano radunati in piazza San Pietro per forzare la sospensione della messa di Pasqua decisa da Francesco, in collegamento con il cattolicesimo reazionario, tanto caro anche ai leader delle destre parlamentari.

Gloria Bardi

 

La condanna a Lucano è per motivi banali

Mi dispiace, da affezionato lettore, che Travaglio insista in modo così banale sulla questione di Lucano. Guarda il dito e dimentica la luna, purtroppo. Rispettare la Costituzione non significa solo rispettare il Codice penale, altrimenti sarebbero condannabili tutti quelli che hanno lottato per le idee che hanno cambiato il mondo. Non sto a fare l’elenco, e dentro ci sono persone comuni, politici, sindaci e quant’altro. Se Lucano avesse agito per suo interesse, le darei ragione. Ma continuare a condannarlo perché non ha fatto una gara d’appalto o ha usato con modalità diverse i finanziamenti pubblici, ma per le stesse finalità, mi sembra piuttosto gretto.

Giovanni Massoni

 

Caro Giovanni, la Costituzione impone che la Pa sia ”imparziale” per dare a tutti, ai blocchi di partenza, le stesse opportunità. Nei concorsi, negli appalti, negli esami, nelle elezioni. Se un’impresa capace e in regola viene scavalcata negli appalti da una coop priva di autorizzazioni ambientali, per giunta vicina al sindaco che le dà l’appalto con affidamento diretto, la Costituzione è violata insieme all’imparzialità della Pa e al Codice penale. Tutto questo le sembra “banale”?

M. Trav.

 

Grazie per l’articolo sul teatro di Gambassi

Volevamo ringraziare la redazione del Fatto per lo splendido articolo sul teatro di Gambassi Terme e per il tempo che Maddalena Oliva e Tomaso Montanari ci hanno dedicato. Purtroppo avevamo ordinato al distributore 50 copie del giornale, ma ne sono arrivate solo due (problemi dei paesini di provincia) così ci siamo abbonati e abbiamo trascritto l’articolo per metterlo a disposizione del Comitato! Ancora grazie da parte di tutti per aver portato una voce autorevole e illuminata.

Elisabetta e Paolo

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo pubblicato sabato sul Fatto Quotidiano con il titolo “Storari agì fuori da regole, Davigo violò i suoi doveri”, a firma di Gianni Barbacetto e Antonio Massari, si precisa quanto segue. 1. Eni non è mai stata in possesso della copia del video di Armanna, né della sua trascrizione integrale, prima del luglio 2019, ma solo di un estratto di poche righe trascritto in una nota della Gdf. Tale estratto era processualmente inutilizzabile ai fini della difesa. Solo al momento del deposito nell’ambito di Opl245, la difesa Eni ha scoperto che la trascrizione si articolava su 73 pagine e il video aveva una durata di oltre un’ora (elementi noti invece agli inquirenti). 2. Tale video fu incomprensibilmente definito non rilevante dal pm De Pasquale, al contrario di quanto poi stabilì il Tribunale di Milano nella propria sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” (rilevanza trattata anche dalla sentenza definiva in appello su Obi e Di Nardo). 3. Eni evidenzia infine di avere ottenuto dalla procura di Roma, a metà luglio 2021, un secondo video ripreso tra Amara, Bigotti e terzi presso la sede di Bigotti nel dicembre 2014. Tale video (a disposizione degli inquirenti) prova inequivocabilmente che: (i) Amara agiva nell’interesse economico proprio e di Armanna in relazione alle motivazioni riprese nel primo video; (ii) che il primo video era genuino e non una “trappola” tesa ad Armanna e (iii) gli obiettivi di Amara nelle vicenda di Trani e Siracusa fossero di interesse personale suo e di suoi alcuni sodali ex-manager di Eni volte a colpire Umberto Vergine. Il secondo video mette la pietra tombale sulle calunniose ricostruzioni di Amara, Armanna e dei loro complici, denunciate sia dalla società sia dai suoi attuali manager. Eni attende da tempo la chiusura delle indagini al riguardo. Eni si riserva di intraprendere le opportune azioni legali contro chiunque dovesse continuare ad affermare che la società fosse in possesso del video di Armanna prima della sua condivisione processuale innanzi al Tribunale.

Ufficio stampa Eni

Auto elettriche. La transizione è già partita: dal 2035 niente più benzina

 

Buongiorno, nell’ultima puntata di Piazzapulita, un apprezzabile servizio ha svelato come la speranza di eliminare l’inquinamento dovuto al traffico, con l’introduzione massiccia dell’auto elettrica sia, nel breve e medio periodo, una pia illusione, anche a causa della logistica delle colonnine, dei tempi biblici di ricarica, dei costi insostenibili per un’auto di nuovo tipo e del reperimento delle materie prime impiegate nelle batterie. L’articolo del Fatto del 23 settembre scorso, evidenzia come i motori a combustione causino in Italia la morte di 65.000 persone all’anno, una cifra identica all’ecatombe provocata dal Covid (130.000 morti circa in 2 anni). Esisterebbe tuttavia un obbligo, realizzabilissimo (a differenza di quello obbligo vaccinale), che permetterebbe di risparmiare i 65.000 morti annui da traffico a un costo minimo (500 euro circa a vettura), ammortizzabile nel tempo e con un sicuro guadagno dell’utente, obbligando tutti alla conversione al metano o al gpl. Perché nei talk-show si blatera di un impossibile obbligo vaccinale e da nessuna tv, giornale o intellettuale di grido si sente proporre un’idea così facile, semplice e conveniente?

Enzo Rossetti

 

Gentile Rossetti, il motore a combustione interna è già destinato all’estinzione. La domanda è solo quando. Nel pacchetto di misure ambientali, incredibilmente complesso, della Commissione europea l’obiettivo è di agire su vari fronti, regolamentari e industriali, pur di ridurre i gas nocivi del 55% entro il 2030. E tra le misure spicca quella relativa alle automobili: dal 2035 non potranno più essere venduti veicoli che emettono Co2. Ma la rivoluzione ecologica non sarà priva di costi sociali e di rischi economici. Da quella data, anche in Italia ci si muoverà solo in elettrico, con la transizione che già è iniziata sia sull’offerta di prodotti sia sulla riduzione dei costi delle batterie. Basti pensare agli incentivi statali in vigore che hanno permesso lo scorso anno, nonostante la pandemia, di far salire la quota delle auto elettrificate in Italia al 4,3% (di cui 2% plug-in ibride e 2,3% elettriche), nonostante il ritardo con cui si sono mosse la case automobilistiche per resistere al cambiamento. In questo contesto come si può obbligare al metano o al gpl, che sono combustibili fossili al pari di diesel e benzina e, quindi, parimenti inquinanti?

Patrizia De Rubertis

I vaccini in Africa con l’8 per mille

Abbiamo più volte sottolineato che, malgrado la vaccinazione di massa nei Paesi occidentali stia garantendo una flessione significativa di forme gravi da Covid e decessi, tutto potrebbe essere vanificato se lasciassimo non vaccinate intere popolazioni, come quelle dell’Africa. Mentre gli attuali vaccini, fabbricati sul virus di Wuhan, sono efficaci, in media al 60%, poiché l’attuale virus circolante mostra molte mutazioni rispetto alla forma iniziale, il timore è che sorgano nuove varianti, grazie al proliferare dei virus. Ciò potrebbe far invertire la rotta all’attuale miglioramento. Al 23 settembre, è stato vaccinato completamente il 32% della popolazione mondiale. L’Europa al 51%; gli Usa al 54%; l’Africa solo al 4%. Sappiamo che i problemi per una vaccinazione di massa dell’Africa sono quasi insormontabili, ma bisogna superarli. In questo caso non si tratta solo di un motivo filantropico. Ci riguarda tutti. Come fare? Innanzitutto si dovrebbe organizzare la distribuzione e la somministrazione del vaccino. Attività impegnativa, ma possibile coinvolgendo associazioni e Ong. L’altro problema sono le risorse economiche. Il prezzo di ciascuna dose è una cifra enorme in quelle realtà. Peraltro sappiamo che ultimamente le case produttrici ne hanno ritoccato in su il costo. La dose Pfizer è passata da 15,50 euro a 19,50, quella Moderna da 22,60 dollari a 25,50. Tutto ciò mentre nel mondo stanno scadendo milioni di dosi del vaccino AstraZeneca che, senza alcuna motivazione ufficiale, non è più somministrato mentre i Paesi elemosinano quantità irrisorie di dosi. Un’idea potrebbe essere dedicare l’8 per mille. Nel 2019 questo ammontava a 1.401.255.936 euro che, tradotto in numero di dosi di vaccino, significa quasi 72 milioni di dosi che, se le case produttrici praticassero uno sconto speciale, potrebbero anche duplicarsi. E stiamo parlando solo dell’Italia. Ogni Paese dovrebbe fare la sua parte e saremmo tutti protetti. Alla pandemia siamo arrivati impreparati. Non possiamo permetterci di arrivare in ritardo nel contenere la diffusione del virus.

 

I piedi di Nerone, il bacio di Giotto e Picasso a Locri

Donne. “Le donne perbene non devono odorare di nulla” (Svetonio).

Bianco. Alla corte di Elisabetta I, uomini e donne avevano dipinto, sulle facce bianche di biacca, le vene azzurre che provavano la loro nobiltà.

Matrone. Passione delle matrone romane per gli uomini abbronzati.

Telero. Numero di esseri umani dipinti da Carlo Levi nel grande telero conservato nel Palazzo Lanfranchi di Matera: 180. Misure del telero: 18 metri per 3. Tra le figure rappresentate: l’uomo che andava di paese in paese seguito da un branco di lupi feroci, l’uomo che al solo apparire faceva nevicare, ecc. Carlo Levi, sulle ragioni per cui chiedeva ai contadini un parere sui suoi quadri: “Avevo sempre visto che, poiché non hanno i pregiudizi della mezza cultura, i contadini sono, in generale, capaci di vedere la pittura”.

Bacio. Giotto, memore del fatto che secondo i teologi del suo tempo Maria fu concepita “ex osculo, sine semine viri”, mostrò nella Cappella degli Scrovegni Gioacchino e Anna, con le loro rughe e i capelli bianchi, che si baciano in bocca.

Montalbano. L’ufficio del commissario Montalbano che si vede in tv è stato ricavato in una stanza del municipio di Ragusa.

Uovo. Sempre a Ragusa, il mistero dell’uovo di struzzo dipinto nella chiesa di San Giovanni Evangelista ai piedi del Cristo in gonnella.

Uomo. Quando il pittore De Nittis ebbe compiuto sette anni, i parenti gli dissero: “Peppino, ora sei un uomo. Sei entrato nel peccato mortale”. E lo mandarono a scuola.

Labirinto. Quando Franco Maria Ricci comunicò a Jorge Luis Borges la sua intenzione di costruire il labirinto più grande del mondo, si sentì rispondere: “Esiste già. È il deserto”.

Angeli. I cinquantatré metri traforati da ottanta finestre esagonali della concattedrale di Taranto furono concepiti da Giò Ponti, per la notte come rifugio degli angeli, per il giorno come macchina per imbrigliare le nuvole.

Bisso. Metodo per la preparazione del bisso marino: una volta tosate le Pinna nobilis che giacciono, alte un metro, sui fondali di Taranto, si immerga il groviglio nell’urina di vacca in modo da schiarirne le fibre ed esaltarne la lucentezza, si cardi poi questa barba su una tavola chiodata e se ne ottenga la bambagia, si proceda quindi alla filatura, badando che le ragazze abbiano dita sottili e polpastrelli delicati. Nel Medio Evo si sostituì l’urina di vacca con succo di limone, e bagni di due giorni.

Riace. I due di Riace sono sì in bronzo, ma hanno i capezzoli rosa in rame, le labbra in oro rosso, i denti d’argento, gli occhi d’avorio.

Foglie. Il barone Corrado Arezzo de Spuches finanziò una deviazione della ferrovia che gli permettesse di godere, nei suoi possedimenti di Donnafugata, di una stazione personale, in servizio ancora oggi. Ottenne poi dallo Stato che le foglie del suo ficus potessero affrancarsi e spedirsi come cartoline postali.

Nerone. Nerone si profumava le piante dei piedi e voleva che fossero profumati anche gli animali destinati al sacrificio. Solone aveva invece proibito il profumo ad Atene, e anche gli spartani, se sorprendevano qualcuno a vender profumi, lo cacciavano dalla città.

Ettore. Afrodite tenne lontani i cani di Achille dal cadavere di Ettore spargendone il corpo con essenza di rose.

Locri. Picasso andò in incognito a Locri, vide i piedi della Persefone e li copiò nelle Due donne che corrono sulla spiaggia.

Bacio. “Chi prende un bacio ma non prende anche il resto sarà degno di perdere quello che ha avuto” (Ovidio).

Notizie tratte da: Lauretta Colonnelli, “Storie meridiane”, Marsilio, pagine 351, euro 29 (2. Fine)

 

Non solo no pass:i nuovi movimenti

Quello che abbiamo visto in tempi pandemici non è stato ciò che, come studiosi della democrazia e dei movimenti, ci aspettavamo: non c’è stato un congelamento della protesta.

Normalmente, perché ci siano movimenti sociali, c’è bisogno di luoghi aperti e della possibilità fisica di incontrarsi, c’è bisogno di stare in strada, c’è bisogno della piazza. Non a caso, i movimenti precedenti alla pandemia – gli Indignados in Spagna e in Grecia, la Primavera araba e così via – avevano realizzato e praticato l’idea che le proteste non possono essere solo digitali: c’è bisogno di occupare spazi pubblici. L’impressione, se torniamo indietro nel tempo, a marzo del 2020 e allo scoppio della pandemia, era dunque quella che i movimenti sarebbero stati costretti a fermarsi, perché si doveva stare a casa, perché c’era paura, perché sembrava che tutti i progetti sviluppati in tempi pre-pandemici dovessero essere ripensati.

Quello che si è visto, invece (e alcuni giornali lo avevano anche sottolineato), è l’emergere immediato di tante proteste su rivendicazioni legate alla pandemia. In parte questo è dipeso dal fatto che, mentre si diffondeva l’immagine che tutti fossimo chiusi in casa, in realtà in nessun Paese europeo il lockdown è stato assimilabile alla chiusura totale imposta a Wuhan. Molte persone hanno dunque continuato a lavorare, hanno rischiato di contagiarsi sui mezzi di trasporto, sono state costrette a surrogare i servizi normalmente offerti dallo Stato. Tante proteste sono così cresciute nel mondo del lavoro: dai rider ai driver e ai lavoratori di Amazon, sempre più sfruttati in pandemia, ai lavoratori dei cosiddetti servizi essenziali, spesso costretti a lavorare senza dispositivi di protezione individuale. Il tema della sanità pubblica è diventato inoltre subito centrale, perché la pandemia ha reso ancora più evidente non solo l’importanza della sanità pubblica in un momento di emergenza, ma anche come un diverso accesso alle cure mediche potesse avere effetti di lungo periodo sulla salute delle persone, rendendo socialmente ineguale il rischio di ammalarsi, soprattutto in forme gravi. E mentre inizialmente la narrazione della pandemia era stata “il virus colpisce tutti allo stesso modo”, in realtà è emerso molto presto come le diseguaglianze di classe, di genere, di razza, generazionali, avessero un effetto sulla pandemia. E nell’estate 2020, immediatamente successiva alle riaperture, è stato il movimento Black Lives Matter a dimostrare quanto in pandemia le differenze sociali di razza e di etnia fossero diventate più evidenti nei loro effetti. Anche le proteste per l’ambiente hanno continuato a svilupparsi: anzi, le ricerche sulla epidemiologia del virus hanno confermato come inquinamento e riscaldamento climatico accentuassero la diffusione del Covid in alcune zone. E, più in generale, ci sono state proteste per i diritti sociali: dal diritto all’abitare (dato che il lockdown aveva accentuato gli effetti delle diseguaglianze nella qualità dell’alloggio), al diritto alla istruzione (date le discriminazioni create con la chiusura di scuole e università), ai diritti ai trasporti e ai servizi sociali. Soprattutto nei regimi autoritari, ci sono state proteste contro i lockdown che accentuavano la repressione sia dal punto di vista politico che dal punto di vista sociale e di classe.

Per spiegare l’emergere delle proteste per i diritti sociali e di cittadinanza è importante considerare, inoltre, che i movimenti che le hanno promosse hanno costruito su strutture organizzative e pratiche d’azione che si erano già sviluppate in risposta a crisi precedenti. Non a caso nel 2019 (con le ondate di proteste dal Cile al Libano) si era parlato di un “autunno caldo” e, nel periodo immediatamente precedente alla pandemia, erano diventati molto visibili nuovi movimenti sul tema dell’ambiente (come i Fridays For Future, con i grandi scioperi globali per il clima), ma anche sui diritti delle donne e sui diritti di genere, con mobilitazioni particolarmente importanti nel contrastare quello che era stato definito come un backlash, un “contraccolpo”, con l’affermarsi di una destra neoconservatrice molto aggressiva.

Le proteste su questi temi sono state particolarmente innovative. Dato che il distanziamento sociale per combattere il contagio impediva l’organizzazione di grandi manifestazioni di massa, si sono inventate forme d’azione ad alto contenuto simbolico, spesso in forme ibride tra piazza e social.

C’è comunque da aggiungere che i movimenti sociali impegnati sul fronte dei diritti di cittadinanza non hanno solo protestato, ma hanno anche creato molte occasioni e forme di solidarietà attraverso lo sviluppo di un nuovo mutualismo. Sin dall’inizio della pandemia abbiamo visto emergere iniziative di soccorso reciproco a livello di vicinato, attraverso cui si sono anche ricostruiti legami che il forzato isolamento rischiava di spezzare. Alla distribuzione di cibo e medicine si è aggiunto il sostegno psicologico e, anche, la creazione di forme di socialità, ad esempio attraverso l’uso pubblico di finestre e balconi, per cantare insieme ma anche per rivendicare investimenti nella sanità pubblica. Spesso poi, anche attraverso l’incontro con attivisti di vari movimenti, queste forme di solidarietà sono entrate in rete e hanno anche elaborato proposte di cambiamento.

I movimenti sono stati infine molto importanti nello sviluppare delle idee alternative sulle cause della pandemia e sulla post-pandemia. In generale, i movimenti producono conoscenza critica, e questa è particolarmente importante in questo momento. Un sociologo italiano, Alberto Melucci, chiamava i movimenti “i profeti del presente”, a sottolineare la loro capacità di costruire utopie e identità collettive. Nel contesto di una pandemia, i movimenti sociali possono svolgere una funzione ancora più importante nell’immaginare e anche nel prefigurare una alternativa possibile. Lo fanno attraverso una critica delle conoscenze esistenti: propongono una diversa “costruzione sociale” della malattia stessa, individuandone le cause nelle diseguaglianze sociali e nella crisi climatica, e riflettendo sulle soluzioni e le trasformazioni auspicate in un mondo post-pandemico. Come nel caso di una precedente pandemia, quella collegata a Aids-Hiv, i movimenti attivi hanno proposto inoltre diverse concezioni della conoscenza come intreccio di diversi saperi (specialistici ma anche legati alla esperienza diretta) e della comunicazione, come interazione e partecipazione. Da questi movimenti è venuto infatti un contributo importante nel diffondere le informazioni sui rischi legati alla pandemia, sui modi per proteggersi dal contagio, ma anche nella denuncia di sfruttamento accentuato e mancanza di protezioni sui luoghi di lavoro. Più in generale, questi movimenti hanno contribuito a una riflessione sulle responsabilità collettive e il crescente bisogno di solidarietà.

Da questo punto di vista, una rivendicazione comune è stata quella del vaccino come un bene comune, che deve essere gratuito e accessibile per tutti, piuttosto che fonte di profitto. Non a caso, questi movimenti sono stati attaccati da gruppi No Vax che – emersi da un incontro tra neofascisti e tendenze New Age – hanno rivendicato la scelta sul vaccino come libertà individuale. E, mentre in alcune delle proteste contro i lockdown si incontravano istanze legate agli interessi economici di diverse categorie in difficoltà, le recenti proteste No Green Pass hanno visto invece intrecciarsi gruppuscoli No Vax mobilitati su paure irrazionali, sostenute da sette cospirative, con formazioni di estrema destra, su posizioni di eversione politica. L’assalto e la devastazione da parte di neofascisti e No Vax sabato scorso contro la sede nazionale della Cgil a Roma rappresenta il conflitto tra chi risponde alla pandemia con odio e paura e chi, invece, promuove solidarietà e responsabilità.