Quello che abbiamo visto in tempi pandemici non è stato ciò che, come studiosi della democrazia e dei movimenti, ci aspettavamo: non c’è stato un congelamento della protesta.
Normalmente, perché ci siano movimenti sociali, c’è bisogno di luoghi aperti e della possibilità fisica di incontrarsi, c’è bisogno di stare in strada, c’è bisogno della piazza. Non a caso, i movimenti precedenti alla pandemia – gli Indignados in Spagna e in Grecia, la Primavera araba e così via – avevano realizzato e praticato l’idea che le proteste non possono essere solo digitali: c’è bisogno di occupare spazi pubblici. L’impressione, se torniamo indietro nel tempo, a marzo del 2020 e allo scoppio della pandemia, era dunque quella che i movimenti sarebbero stati costretti a fermarsi, perché si doveva stare a casa, perché c’era paura, perché sembrava che tutti i progetti sviluppati in tempi pre-pandemici dovessero essere ripensati.
Quello che si è visto, invece (e alcuni giornali lo avevano anche sottolineato), è l’emergere immediato di tante proteste su rivendicazioni legate alla pandemia. In parte questo è dipeso dal fatto che, mentre si diffondeva l’immagine che tutti fossimo chiusi in casa, in realtà in nessun Paese europeo il lockdown è stato assimilabile alla chiusura totale imposta a Wuhan. Molte persone hanno dunque continuato a lavorare, hanno rischiato di contagiarsi sui mezzi di trasporto, sono state costrette a surrogare i servizi normalmente offerti dallo Stato. Tante proteste sono così cresciute nel mondo del lavoro: dai rider ai driver e ai lavoratori di Amazon, sempre più sfruttati in pandemia, ai lavoratori dei cosiddetti servizi essenziali, spesso costretti a lavorare senza dispositivi di protezione individuale. Il tema della sanità pubblica è diventato inoltre subito centrale, perché la pandemia ha reso ancora più evidente non solo l’importanza della sanità pubblica in un momento di emergenza, ma anche come un diverso accesso alle cure mediche potesse avere effetti di lungo periodo sulla salute delle persone, rendendo socialmente ineguale il rischio di ammalarsi, soprattutto in forme gravi. E mentre inizialmente la narrazione della pandemia era stata “il virus colpisce tutti allo stesso modo”, in realtà è emerso molto presto come le diseguaglianze di classe, di genere, di razza, generazionali, avessero un effetto sulla pandemia. E nell’estate 2020, immediatamente successiva alle riaperture, è stato il movimento Black Lives Matter a dimostrare quanto in pandemia le differenze sociali di razza e di etnia fossero diventate più evidenti nei loro effetti. Anche le proteste per l’ambiente hanno continuato a svilupparsi: anzi, le ricerche sulla epidemiologia del virus hanno confermato come inquinamento e riscaldamento climatico accentuassero la diffusione del Covid in alcune zone. E, più in generale, ci sono state proteste per i diritti sociali: dal diritto all’abitare (dato che il lockdown aveva accentuato gli effetti delle diseguaglianze nella qualità dell’alloggio), al diritto alla istruzione (date le discriminazioni create con la chiusura di scuole e università), ai diritti ai trasporti e ai servizi sociali. Soprattutto nei regimi autoritari, ci sono state proteste contro i lockdown che accentuavano la repressione sia dal punto di vista politico che dal punto di vista sociale e di classe.
Per spiegare l’emergere delle proteste per i diritti sociali e di cittadinanza è importante considerare, inoltre, che i movimenti che le hanno promosse hanno costruito su strutture organizzative e pratiche d’azione che si erano già sviluppate in risposta a crisi precedenti. Non a caso nel 2019 (con le ondate di proteste dal Cile al Libano) si era parlato di un “autunno caldo” e, nel periodo immediatamente precedente alla pandemia, erano diventati molto visibili nuovi movimenti sul tema dell’ambiente (come i Fridays For Future, con i grandi scioperi globali per il clima), ma anche sui diritti delle donne e sui diritti di genere, con mobilitazioni particolarmente importanti nel contrastare quello che era stato definito come un backlash, un “contraccolpo”, con l’affermarsi di una destra neoconservatrice molto aggressiva.
Le proteste su questi temi sono state particolarmente innovative. Dato che il distanziamento sociale per combattere il contagio impediva l’organizzazione di grandi manifestazioni di massa, si sono inventate forme d’azione ad alto contenuto simbolico, spesso in forme ibride tra piazza e social.
C’è comunque da aggiungere che i movimenti sociali impegnati sul fronte dei diritti di cittadinanza non hanno solo protestato, ma hanno anche creato molte occasioni e forme di solidarietà attraverso lo sviluppo di un nuovo mutualismo. Sin dall’inizio della pandemia abbiamo visto emergere iniziative di soccorso reciproco a livello di vicinato, attraverso cui si sono anche ricostruiti legami che il forzato isolamento rischiava di spezzare. Alla distribuzione di cibo e medicine si è aggiunto il sostegno psicologico e, anche, la creazione di forme di socialità, ad esempio attraverso l’uso pubblico di finestre e balconi, per cantare insieme ma anche per rivendicare investimenti nella sanità pubblica. Spesso poi, anche attraverso l’incontro con attivisti di vari movimenti, queste forme di solidarietà sono entrate in rete e hanno anche elaborato proposte di cambiamento.
I movimenti sono stati infine molto importanti nello sviluppare delle idee alternative sulle cause della pandemia e sulla post-pandemia. In generale, i movimenti producono conoscenza critica, e questa è particolarmente importante in questo momento. Un sociologo italiano, Alberto Melucci, chiamava i movimenti “i profeti del presente”, a sottolineare la loro capacità di costruire utopie e identità collettive. Nel contesto di una pandemia, i movimenti sociali possono svolgere una funzione ancora più importante nell’immaginare e anche nel prefigurare una alternativa possibile. Lo fanno attraverso una critica delle conoscenze esistenti: propongono una diversa “costruzione sociale” della malattia stessa, individuandone le cause nelle diseguaglianze sociali e nella crisi climatica, e riflettendo sulle soluzioni e le trasformazioni auspicate in un mondo post-pandemico. Come nel caso di una precedente pandemia, quella collegata a Aids-Hiv, i movimenti attivi hanno proposto inoltre diverse concezioni della conoscenza come intreccio di diversi saperi (specialistici ma anche legati alla esperienza diretta) e della comunicazione, come interazione e partecipazione. Da questi movimenti è venuto infatti un contributo importante nel diffondere le informazioni sui rischi legati alla pandemia, sui modi per proteggersi dal contagio, ma anche nella denuncia di sfruttamento accentuato e mancanza di protezioni sui luoghi di lavoro. Più in generale, questi movimenti hanno contribuito a una riflessione sulle responsabilità collettive e il crescente bisogno di solidarietà.
Da questo punto di vista, una rivendicazione comune è stata quella del vaccino come un bene comune, che deve essere gratuito e accessibile per tutti, piuttosto che fonte di profitto. Non a caso, questi movimenti sono stati attaccati da gruppi No Vax che – emersi da un incontro tra neofascisti e tendenze New Age – hanno rivendicato la scelta sul vaccino come libertà individuale. E, mentre in alcune delle proteste contro i lockdown si incontravano istanze legate agli interessi economici di diverse categorie in difficoltà, le recenti proteste No Green Pass hanno visto invece intrecciarsi gruppuscoli No Vax mobilitati su paure irrazionali, sostenute da sette cospirative, con formazioni di estrema destra, su posizioni di eversione politica. L’assalto e la devastazione da parte di neofascisti e No Vax sabato scorso contro la sede nazionale della Cgil a Roma rappresenta il conflitto tra chi risponde alla pandemia con odio e paura e chi, invece, promuove solidarietà e responsabilità.