Per Matteo è caduto il muro del Cremlino

Erano solo pochi anni fa, ma come si cambia per non morire. C’era tutto un movimento d’opinione e un’ironia crassa, negli ambienti del Pd renziano e della grande stampa amica, sui rapporti tra i cattivoni populisti e la Russia di Vladimir Putin, patria dei troll che destabilizzano l’Occidente e di tanti altri traffici loschi. Ve lo ricordate Renzi come se la rideva sui guai della Lega e sugli intrighi del Metropol di Mosca? Oppure vi ricordate questa invettiva dal palco della Leopolda, anno 2017: “Vi abbiamo sgamato, amici dell’opposizione”, diceva l’ex premier, denunciando il “vasto network di siti di notizie e profili Facebook” che lo attaccavano con un’unica regia che partiva da Mosca e univa grillini e salviniani. Erano i tempi del Renzi euro-atlantico, del Renzi politico, del Renzi non ancora imprenditore privato. Tempi andati. Ora la Russia di Putin non è più losca, non è più matrigna, ma è prosperosa. Ora è diventata un’opportunità economica, grazie agli imprenditori (italiani e russi) tanto apprezzati da zio Vladimir. È caduto il muro del Cremlino.

Squadrismo, ora la matrice è chiara: colpa della sinistra

Per diradare la nebbia dei fatti di Roma (chissà chi erano, quelli che hanno devastato la sede della Cgil e un Pronto Soccorso con la svastica tatuata sul braccio), ci affidiamo a letture raffinate. Se persino l’abile Meloni non sa rintracciare la matrice dello squadrismo, per alcuni analisti liberali è tutto chiarissimo: è colpa della sinistra. Della sinistra critica sul Green pass, e della sinistra che “grida al fascismo” quando fascismo non v’è.

La miccia ideologica è dei cattivi maestri, in particolare Agamben e Cacciari (è la lettura de Linkiesta), colpevoli di aver sollevato questioni bioetiche su vaccini e Green pass, a un passo dall’andare a devastare la sede di un sindacato salutando romanamente. Par di vederli, i facinorosi, leggere alla sera Homo sacer e, tra un pellegrinaggio a Predappio e un “a noi!”, organizzare nella sede di Forza Nuova maratone dei Vhs di Cacciari dalla Gruber.

Più dritta la lettura di Mattia Feltri, direttore di HuffPost (ed editorialista de La Stampa nella pagina ch’era di Bobbio), che attribuisce la presenza di nazi-fascisti tra le file di Fdi (come rivelato da Fanpage) al fatto che “quando a sinistra non si sa che fare… si eleva il lacerante grido dell’antifascismo”. In pratica “se oggi abbiamo questa destra poco presentabile, è anche colpa della sinistra che ha delegittimato la destra presentabile” (Craxi, B., Salvini, Meloni).

Cioè, se i fascisti sono “usciti dalla fogna” non è colpa di chi li ha portati in parlamento, al governo, alle Regioni, al Parlamento europeo, etc., ma dei pochi che denunciavano che mettersi in casa gente che inneggia alle bonifiche pontine e ai treni per Auschwitz era quantomeno filo-fascista. Che volgarità! (Ps: “Vi è ancora un punto in cui lo spirito della Costituzione è stato continuamente violato: la sopravvivenza del fascismo. L’attuazione della Costituzione passa anche per la fine della incredibile tolleranza, di cui abbiamo ogni giorno inconfutabili prove, per i fascisti e i loro alleati”, Norberto Bobbio).

Zurlo, l’ospite in tv disposto a difendere pure l’indifendibile

Oggi parleremo di Zurlo, Stefano Zurlo. Lo conosco poco, intendo personalmente, e credo di non avere mai letto un suo articolo. Colpa mia. Ogni tanto però lo vedo in tivù. In due o tre casi l’ho incrociato di persona. Fuori dall’agone televisivo mi è sempre parso un uomo garbato e credo simpatico, ma è solo una sensazione. In Rete, su di lui, si trova poco. Non ha neanche una voce Wikipedia. Dal sito Piemme, meritoria casa editrice che ha pubblicato non pochi suoi libri, scopriamo qualcosa di lui: “Nato a Milano nel 1963, è inviato del quotidiano Il Giornale. Ha seguito l’inchiesta ‘Mani pulite’ e molte altre, unitamente a processi di cronaca nera, da Cogne a Garlasco. Insegna Giornalismo alla Link University di Roma. Frequentemente ospite di trasmissioni di approfondimento politico, da Annozero a Omnibus, da Porta a Porta a In onda, conduce il talk Iceberg su Telelombardia”.

Ho come la sensazione che la biografia non sia aggiornatissima. Zurlo ha una fissa sulla giustizia italiana, come quasi tutti i giornalisti di centrodestra, che reputa praticamente abominevole. Trovo urgente parlare di Zurlo per via delle sue due recenti performance a Piazzapulita.

Ogni programma ha bisogno di almeno un personaggio disposto a difendere l’indifendibile, e stavolta è toccato a Zurlo. La firma del Giornale si è beccata le due puntate dell’inchiesta di Fanpage sulla Lobby nera e ha cercato di arrampicarsi sugli specchi come poteva. Cioè male. Nel secondo caso c’era pure Crosetto, che tra un urlo e l’altro ha gridato con la bava alla bocca a un giornalista: “Se fossi la Meloni ti farei piangere!”. E Crosetto è uno dei più bravi e meno fasci di Fratelli d’Italia: figuratevi gli altri.

Zurlo era in collegamento, come quasi sempre. Zurlo non ha la puntuta ferocia dialettica di Belpietro e nemmeno la spavalderia deliberatamente monoespressiva di Borgonovo, e cito qui i più bravi in tivù a destra. Al tempo stesso Zurlo non è neanche balbettante e impreparato come Sallusti, che in tivù (a differenza che sul cartaceo) è quasi sempre deboluccio, e neanche tocca livelli assoluti di inutilità e pochezza volgare come il mechato decaduto e bollito di stanza a Libero. Zurlo sta nel mezzo: né pasdaran né pesce lesso. Forte di queste armi, dopo le due puntate di un’inchiesta oggettivamente impietosa a livello etico e politico per Fratelli d’Italia e Lega, Zurlo si è offerto alla mitraglia con tenera inconsapevolezza mistica. Non sembrava neanche consapevole di quanto le sue tesi apparissero inconsistenti. Parlava, peraltro a fatica e con poca fluidità, cercando uno scontro inesistente con Mario Calabresi, forse l’opinionista più equilibrista e renzocentrista degli ultimi sei secoli. Di fronte all’evidenza delle immagini, balbettava frasi stantie: “Jonghi Lavarini non arriva a 100 preferenze” (e quindi?); “Meloni e Salvini non si fanno dettare la linea politica dall’estrema destra” (nessuno lo ha mai sostenuto); “A destra hanno già fatto piazza pulita a Fiuggi nel ’95” (no: piazza pulita provò a farla Fini, mentre con Meloni e Salvini si sta tornando indietro); “State parlando di piccole minoranze che non rappresentano linee politiche” (se così fosse, perché pezzi grossi di Lega e FdI come Borghezio, Bastoni, Sardone, Fidanza eccetera li frequentano?). Più Zurlo parlava e più quei pochi non convinti da Fanpage ne diventavano subito fan. Un disastro. La vita del giornalista è spesso dura e impone ciclicamente immolazioni. Quella di Zurlo è stata eroica e straziante. Un vero e proprio martirio a cielo aperto. Solidarietà al collega.

Di Donna è solo indagato, però è opportuno un passo indietro

Il professor Luca Di Donna è indagato con i colleghi Valerio De Luca e Gianluca Esposito per associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze illecite, per la vicenda delle consulenze ricevute da imprenditori interessati alle commesse per l’emergenza Covid.

I tre legali rivestono ruoli di grande prestigio. Di Donna, professore ordinario alla Sapienza di Roma, è il presidente della Commissione dell’esame di avvocato del distretto di Roma. Esposito, professore ordinario alla Sapienza, è direttore del “Corso anticorruzione e appalti della Pubblica amministrazione”, proposto ma non ancora attivato, nel quale dovrebbe insegnare anche Di Donna.

De Luca è presidente dell’associazione Task Force Italia che ha presentato il 1° settembre le proposte per il post Covid in un dibattito in Slovenia con i vertici delle organizzazioni finanziarie europee, come si legge sul sito di Task Force Italia: “Klaus Regling, direttore generale del Meccanismo europeo di stabilità (Esm), Odile Renaud-Basso, presidente della European bank for reconstruction and development (Ebrd), Lilyana Pavlova, vicepresidente della European bank of investment (Eib)”. C’è anche la foto di De Luca che “consegna il report di Task Force Italia a Charles Michel, presidente del Consiglio europeo”. Sul sito ci sono anche decine di interviste di De Luca con personaggi come Lucrezia Reichlein, Virginia Raggi, Enrico Giovannini, Rocco Forte, Claudio De Vincenti, Corrado Passera, Marcello Foa, Maximo Ibarra, Pierpaolo Sileri, Santo Versace, Tomaso Trussardi, Paola Severino, Marco Alverà, Francesco Profumo, Francesco Greco, Edmondo Bruti Liberati e le firme più importanti del giornalismo.

I tre avvocati sono indagati per aver promosso e costituito un’associazione a delinquere “mettendo a disposizione reciproca le relazioni di ciascuno di loro con soggetti incardinati nei vertici di istituzioni pubbliche e stazioni appaltanti;(…) giustificando le movimentazioni tra di loro con mandati di collaborazione professionale”.

Ovviamente le attività accademiche dei due prof. e le interviste ai vip di De Luca non hanno nulla a che fare con l’indagine, ma fanno capire il livello delle relazioni dei tre avvocati.

Si è parlato molto, come era ovvio, dei rapporti tra Di Donna e Giuseppe Conte, che ha sostenuto di non frequentarlo da quando è diventato premier. In pochi si sono soffermati sul ruolo di presidente della Commissione di esame degli avvocati. Alcuni giornali hanno ricordato che Di Donna è stato nominato con decreto da Alfonso Bonafede. “Non lo ha scelto il ministro. La scelta è stata del Consiglio dell’Ordine di Roma”, spiega il presidente dell’Ordine di Roma, Antonino Galletti: “Era una nostra scelta, eccellente e condivisa con il Consiglio Nazionale Forense”. E ora che si fa? “Bella domanda. Di Donna è solo indagato, quindi – aggiunge Galletti – sarà lui a valutare. È solo una questione di opportunità. Io probabilmente rinuncerei, ma è una sua valutazione”. L’influenza del presidente peraltro sarebbe ridotta. “L’Ordine di Roma esamina i candidati napoletani che sono tanti, circa 4 mila. Così – spiega Galletti – per far fronte all’impegno sono state nominate 35 commissioni e Di Donna ne presiede solo una”.

Di Donna è solo indagato e resta innocente fino al terzo grado di giudizio. Però un passo indietro in attesa di chiarire la sua posizione sarebbe sensato. Almeno l’Ordine darebbe un segnale agli aspiranti avvocati, un po’ disorientati dalle notizie sui loro futuri colleghi che insegnavano la lotta alla corruzione. Di Donna e gli altri commissari dovranno decidere solo sulla base dell’esame orale (niente scritti) chi diventerà avvocato. Non devono solo essere, ma anche sembrare al di sopra di ogni sospetto.

 

Al Colle non solo Draghi molti altri ne sono degni

È davvero surreale che a meno di quattro mesi dall’elezione del presidente della Repubblica molti opinionisti nei talk show e (quasi) tutti i giornali vedano all’orizzonte solo l’opzione “Mario Draghi al Quirinale”. Che l’attuale premier sia una figura giusta per questo ruolo non c’è dubbio alcuno, ma che questa sembri essere l’unica opzione risulta alquanto paradossale. L’unico vero ostacolo a questa ipotesi, nelle parole dei suddetti opinion leader, è infatti solo quello che lo vorrebbero a Palazzo Chigi per l’eternità. Ma visto che Draghi non ha un partito – e difficilmente lo farà senza incappare in un probabile insuccesso, Mario Monti docet – l’ipotesi risulta ancora più azzardata. Le uniche alternative emerse finora sono due. La prima: tirare per la giacca l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che però ha già dato la sua indisponibilità. È vero che inizialmente l’indisponibilità a un secondo mandato la diede anche Giorgio Napolitano, e poi sappiamo come è andata, ma Mattarella per il momento sembra fermo sulla sua decisione (sta cercando casa a Roma, ndr). Tra l’altro molti costituzionalisti vedono la cosa come una forzatura, che se accadesse due volte consecutive rischierebbe di farsi prassi. La seconda ipotesi è oltre il surreale: Silvio Berlusconi. Per la prima volta avremmo un presidente che insieme è un pregiudicato, pluriprescritto, attualmente indagato, nonché inventore del Bunga Bunga, la pratica delle cosiddette “cene eleganti”. Senza dimenticare che, come dicono i suoi avvocati, per motivi di salute non può neanche presenziare ai processi, figuriamoci diventare la prima carica dello Stato. Incredibile, ma non in Italia evidentemente. A latere, ma più come specchietti delle allodole, ci sono i nomi di Marta Cartabia, attuale ministro della Giustizia – che stava per demolire il processo penale, se non fosse intervenuto Giuseppe Conte a limitare il danno – e l’evergreen Pier Ferdinando Casini, che è, appunto, un nome potenzialmente spendibile a ogni giro, ma mai davvero ipotesi concreta. La cosa davvero singolare è che, a parte queste ipotesi, tra 945 parlamentari (più i senatori a vita) e svariati milioni di italiani – ricordiamo che per essere eletti al Quirinale non serve essere parlamentari ma più semplicemente avere la cittadinanza italiana, aver compiuto 50 anni e godere dei diritti civili e politici – non ci siano all’orizzonte altri nomi degni di questo ruolo. Se per esercizio di stile, ma non solo, cerchiamo i primi tre nomi che ci vengono in mente, sia in Parlamento sia nella la società civile, escono subito tre grandi personalità italiane: Liliana Segre, Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis. La prima – finalmente un donna! –, nominata senatrice a vita da Sergio Mattarella nel 2018 “per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale”, è sopravvissuta all’Olocausto ed è testimone della Shoah italiana. E ha speso tutta la vita per ricordare, soprattutto alle nuove generazioni, il più grande crimine mai compiuto contro l’Umanità: i campi di concentramento nazisti. Liliana Segre è una grande personalità italiana che darebbe anche un enorme segnale a tutta l’Europa, dove non si sono mai davvero spenti del tutto i rigurgiti tossici del nazifascismo. Il secondo è Gustavo Zagrebelsky: giurista, costituzionalista di lungo corso, è stato giudice costituzionale dal 1995 al 2004 e poi presidente della Corte Costituzionale proprio nel 2004. Socio dell’Accademia dei Lincei e Presidente onorario dell’associazione “Libertà e Giustizia”, sì è battuto più volte in prima persona in difesa della Costituzione – ha contribuito alla fondazione dei “Comitati per il No”, contro la riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi nel 2016. Il terzo nome, Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, un nome che arriva dal mondo della cultura (Dante Alighieri fu priore di Firenze, una sorta di sindaco del tredicesimo secolo…). Settis ha insegnato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ne è stato direttore dal 1999 al 2010. Ha inoltre diretto il Getty Center for the History of Art and the Humanities di Los Angeles dal 1994 al 1999 ed è tuttora presidente del Consiglio Scientifico del Louvre di Parigi. Ma nomi come questi difficilmente vedranno aprirsi l’ingresso del Quirinale considerando il fatto che, grazie ai grandi elettori – le Regioni di centrodestra sono di più –, all’elezione del prossimo presidente della Repubblica potrebbe spuntarla il centrodestra. Con i suoi epigoni camuffati da sinistra, Matteo Renzi e Carlo Calenda, che non faranno certo mancare il loro sostegno. Ci mancherebbe.

 

La corte europea dice “no” ai cosmetici testati su Silvio Berlusconi

La Corte di giustizia europea dice no ai cosmetici testati su Silvio Berlusconi, contrari gli scienziati. No ai cosmetici testati su Silvio Berlusconi. La Corte europea ha stabilito che non ci possono essere eccezioni a questo divieto, che si applica ai produttori di tutta l’Unione. Il caso è stato sollevato in Francia, dopo che tre società hanno tentato di mettere sul mercato cosmetici testati su Silvio Berlusconi e sviluppati per essere venduti in Cina e in Giappone. La Corte di giustizia ha stabilito che le norme europee vietano qualunque prodotto cosmetico che contenga ingredienti testati su Silvio Berlusconi. Applaudono gli animalisti. Roberta Sulpizio, presidente della Protezione animali, commenta: “La sentenza ha il grandissimo pregio di chiarire, una volta per tutte, che la normativa europea in materia non si presta a essere stiracchiata in funzione degli interessi economici. Il divieto di testare ingredienti cosmetici su Berlusconi è, dunque, un divieto perentorio e non può essere aggirato con il pretesto che tali esperimenti vengano condotti perché conformi alla normative di mercato di Paesi Terzi. Ciò che è lecito a Pechino o Tokyo, non lo è a Bruxelles”. Dello stesso tenore l’opinione di Sergio Metano, segretario nazionale dei Verdi: “La sentenza della Corte di giustizia europea è un messaggio forte a favore di una scienza più etica. Le sperimentazioni di cosmetici su Silvio Berlusconi sono una pratica di un’altra epoca a cui l’Unione europea, il più grande mercato al mondo per i cosmetici, ha detto finalmente basta”. William Ernia, presidente di Animalisti Italiani, brinda: “Questa sentenza è stupenda perché risolve all’origine il problema che abbiamo: in Europa non si possono fare test cosmetici su Silvio Berlusconi, ma le grandi aziende li facevano lo stesso per il commercio in Cina. Ci chiedevamo che senso avesse. Adesso possiamo chiedere a queste aziende: se voi fate esperimenti su Silvio Berlusconi, noi chiederemo di bloccare i vostri prodotti. Quindi state attente e fate una scelta etica: esistono metodi alternativi alla sperimentazione di cosmetici su Silvio Berlusconi. Coff, coff, coff! Scusate, ho appena ingoiato un’ape”. Anche la Lega Anti-vivisezione esprime soddisfazione, con un comunicato firmato dal presidente Andrea Sofferenza: “È una vittoria dell’Europa che ci piace, quella che ha riaffermato il No ai test cosmetici su Silvio Berlusconi. Questo rafforza l’azione dell’Unione europea, che già in passato ha fatto in modo che due grandi Paesi esportatori di cosmetici come India e Brasile vietassero sul proprio territorio questo tipo di sperimentazione su Silvio Berlusconi. Così sono state battute anche le fazioni più retrive, quelle francesi, che ancora continuano a minimizzare la direttiva Ue e ad ascoltare Carla Bruni.” Di segno opposto il manifesto firmato da 11mila scienziati, fra cui il premio Nobel Paul Carbone, lo scopritore del latte assordante: “Gli animalisti diffondono notizie false e alimentano campagne di sospetto e odio. Non lasciate che la ricerca europea muoia e che gli studiosi siano costretti a emigrare”. La Corte sottolinea che “la norma mira a promuovere metodi alternativi per verificare la sicurezza per i consumatori e questo obiettivo sarebbe fatalmente compromesso se i divieti potessero essere aggirati svolgendo i test su Berlusconi”. La European Federation for Cosmetic Ingredients (PHIQA) ha presentato ricorso, sostenendo che i test erano stati svolti in Italia nel rispetto delle leggi promulgate durante i governi Berlusconi. Dal capezzale di Arcore, Silvio Berlusconi ha commentato: “La sentenza europea mi offende. Non uso cosmetici e non ho mai fatto un lifting in vita mia”.

 

Fd’i si mobiliti contro i neri alla sua destra

Non ha torto Giorgia Meloni quando chiede, e si chiede, come sia stato possibile che personaggi arcinoti dello squadrismo (fascista: parola che tuttavia lei non pronuncia) siano stati lasciati liberi di scatenare la guerriglia a due passi da Palazzo Chigi. A cominciare dal picchiatore Giuliano Castellino, sorvegliato speciale per ordine della magistratura, uno che, a rigor di logica, l’Antiterrosimo del Viminale non avrebbe dovuto perdere d’occhio neppure per un secondo, e invece. Lo spiegherà in Parlamento quanto prima il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese cancellando, si spera, un inquietante sospetto molto in voga negli anni della strategia della tensione. Che se certi arnesi si danno da fare per danneggiare chi non è “in linea”, qualcuno, lassù, faccia finta di non vedere, o peggio. Perciò, come ai tempi degli anni di piombo, Meloni farebbe bene a mobilitare FdI in un’opera di bonifica di quelle pozzanghere anche profonde alla sua destra dove alligna il peggio del peggio della sovversione nazifascista. Un micidiale potenziale esplosivo che, oltre a dedicarsi alla devastazione della Cgil, nella strategia di attacco ai simboli repubblicani (che, si minaccia, riprenderà venerdì 15 ottobre con l’entrata in vigore del maxi Green pass) finisce per danneggiare la destra parlamentare, e proprio alla vigilia dei ballottaggi a Roma e a Torino. Solo effetti collaterali?

Visto che la destra sovranista non ce la fa proprio a dichiararsi antifascista proceda almeno per autodifesa contro Forza Nuova, CasaPound e le altre casematte nere. Come, durante la stagione del terrorismo, cercò di fare il missino Giorgio Almirante denunciando all’autorità giudiziaria le frange nere degli stragisti bombaroli. In parallelo con Enrico Berlinguer che, sul fronte opposto, non esitò a trasformare il Pci nel nemico mortale dei brigatisti rossi e dei gruppetti alla sua sinistra che flirtavano con gli assassini (i “compagni che sbagliano”). Sì, c’è un “album di famiglia” anche a destra di cui la leader di FdI farebbe bene a liberarsi sollecitamente. Attenzione però a non confondere i caporioni fascisti con le piazze gremite di persone, ivi convenute non per partecipare ai disordini ma per esprimere un forte disagio, giusto o sbagliato. Rabbia e smarrimento che si preferisce chiamare sbrigativamente No vax o No pass, ma che sono il sintomo di una malattia sociale molto più profonda e diffusa di quanto si creda. Un virus della democrazia che il governo Draghi farebbe male, malissimo a trattare come un problema di ordine pubblico e basta.

Nobel all’economia, una lezione sociale sul salario minimo

Succede anche questo, che mentre un Paese discute di salario minimo a colpi di frasi a effetto, il premio Nobel per l’economia venga assegnato agli studi su questa misura. È il significato di quanto deciso ieri dall’Accademia delle Scienze svedese, che ha attribuito il Riksbank Prize in Economic Science all’economista del mercato del lavoro, David Card, “per il suo contributo empirico all’economia del lavoro” a pari merito con il professore del Mit, Joshua Angrist, e il professore della Stanford University, Guido Imbens, “per i loro contributi metodologici all’analisi delle relazioni casuali”.

Il trio ha vinto perché i loro studi, scrive l’Accademia, “ci hanno fornito nuove informazioni sul mercato del lavoro e mostrato quali conclusioni su causa ed effetto si possono trarre da esperimenti naturali. Il loro approccio si è diffuso in altri campi e ha rivoluzionato la ricerca empirica”.

Nel caso di Card, professore all’Università di Berkeley in California, “i suoi studi dei primi anni 90 hanno sfidato la saggezza convenzionale, portando a nuove analisi e ulteriori intuizioni” scrive il comitato di assegnazione del Nobel: “I risultati hanno mostrato, tra l’altro, che l’aumento del salario minimo non porta necessariamente a un minor numero di posti di lavoro”. E valutazioni analoghe vengono fatte anche per gli studi sul lavoro migrante e per le risorse alla scuola pubblica.

Lo studio sul salario minimo fu realizzato da Card nel 1992 e si basò sull’analisi dell’impatto dell’aumento del salario minimo in New Jersey da 4,25 dollari l’ora a 5,05 (Minimum Wages and Employment: A Case Study of the Fast Food Industry in New Jersey and Pennsylvania) scoprendo che questa misura non aveva comportato, contrariamente a quanto riteneva, e ritiene tuttora, l’economia mainstream, un impatto negativo sull’occupazione.

Da segnalare che quello studio era stato condotto in tandem con Alan Krueger, prematuramente scomparso nel 2019, rilevante figura che su posizioni liberal-democratiche aveva influito sulla cultura sociale del Partito democratico in termini di politiche redistributive mirate soprattutto a proteggere dall’impoverimento la middle class americana. Dopo esser stato capo economico del Dipartimento del Lavoro sotto la presidenza di Bill Clinton, era stato nominato da Obama nel 2009-2010 capo economista del Dipartimento del Tesoro.

Lo studio realizzato insieme a David Card si basava sull’impatto della legge del New Jersey nel settore dei fast food mettendo a confronto i ristoranti di quello Stato con quelli della Pennsylvania dove il salario minimo era rimasto a 4,25 dollari l’ora. La scoperta fu esemplare: “Rispetto ai negozi in Pennsylvania, i ristoranti fast food nel New Jersey hanno aumentato l’occupazione del 13%” scrivevano i due autori che non hanno trovato alcuna conferma alla teoria dominante secondo cui le imprese avrebbero scaricato sui prezzi gli aumenti dovuti al salario minimo con ricadute negative sul fronte occupazionale. Anzi, nelle conclusioni del loro paper si riscontrava un aumento dell’occupazione in New Jersey a seguito dell’innalzamento del salario minimo.

Ci sarà senz’altro chi si affretterà a sottolineare che il Nobel economico di ieri non ha nulla a che vedere con le scelte di politica economica e che invece riguarda solo la metodologia usata. Lo scrive su Twitter il professor Tito Boeri, che mette l’accento sui “metodi di valutazione delle politiche economiche su dati raccolti”, sostenendo che sarebbe molto bello “se in Italia si imparasse da loro nel valutare le politiche”. Ma, come argomenta il professor Andrea Roventini, i risultati di queste metodologie non sono irrilevanti e dovrebbero far riflettere. Gli studi discussi e le valutazioni dell’Accademia delle Scienze aiuterebbero comunque a discutere in termini meno provinciali e demagogici di quanto si faccia di solito in Italia. Sarebbe anche questo un piccolo passo in avanti.

Il caso Delimobil e il banchiere russo pro Putin Soloviev

A dare il via libera è stato il banchiere Yuri Soloviev, vicepresidente del gruppo Vtb. Il 4 giugno ha annunciato una linea di credito da 75 milioni di dollari per Vincenzo Trani e la sua Delimobil. “È un’opportunità di investimento interessante, contribuisce a rafforzare la posizione di Delimobil come uno dei principali attori del mercato russo”, ha detto Soloviev. È stato il segnale che ha portato fino alla quotazione (per ora richiesta) a Wall Street, perché la Vtb è la seconda banca di Stato russa, finita sotto sanzioni di Usa e Ue nel 2014, e i soldi non li ha solo prestati: è anche entrata nel capitale della Delimobil con il 13,3%. Due mesi dopo l’endorsement, Matteo Renzi ha preso posto nel cda della società, il primo gruppo russo di car sharing. Sono cose “che riguardano la mia sfera privata”, ha commentato Renzi ricordando che le sue “sono attività assolutamente disciplinate dalla legge”.

Soloviev è un banchiere famoso in Russia. È finito nei Panama Papers come beneficiario di una società delle British Virgin Islands. Per alcuni anni questa offshore è stata in rapporti finanziari con la famiglia dell’ex presidente della Banca centrale ucraina. Ma lo scandalo mediatico non ha spento la sua stella. Vladimir Putin lo ha premiato con la medaglia dell’Ordine dell’amicizia, un riconoscimento riservato a pochi, e le sue quotazioni son andate alle stelle. Ex responsabile nella Federazione per Deutsche Bank, prima ancora in Lehman Brothers, da 13 anni Soloviev è alla guida di Vtb, considerata la banca più vicina al presidente.

Con la sua firma Vtb è entrata nel capitale di Delimobil a giugno di quest’anno: un’operazione da 50 milioni di euro, estero su estero. A investire è stata una società cipriota del gruppo Vtb, la Nevsky Property Finance Ltd. A ricevere, appunto, la Delimobil, creata meno di un anno fa in Lussemburgo da Trani, uomo tuttofare: presidente della camera di commercio italo-russa, console onorario della Bielorussia in Campania, ex banchiere di Intesa San Paolo a Mosca. Resta lui il primo azionista della società attraverso una rete di veicoli quasi tutti basati nel Granducato, dove le tasse sulle plusvalenze finanziarie sono bassissime. Trani detiene il 68% di Delimobil, si legge nel prospetto depositato alla Sec. Da dove arrivano i soldi con cui l’ex cassiere di banca napoletano arrivato 20 anni fa in Russia ha creato questo gruppo pronto a quotarsi a New York? Nella richiesta, questo Trani non lo dice. Spiega solo che il finanziatore principale di Delimobil è lui stesso, attraverso Mikro Fund, un gruppo che si presenta come protagonista nel campo del microcredito in Russia e limitrofi. Il debito di Delimobil nei confronti della Mikro Fund è di circa 70 milioni di euro. “La maggior parte di questo debito si è originato nel 2020 e 2021”, si legge nei documenti societari, “con un tasso di interesse annuale compreso tra 17% e 18%”. Insomma, con il suo gruppo finanziario, Mikro Fund, Trani presta denaro a tassi alti a Delimobil. E ora punta a metterla sul mercato, con un bilancio in perdita e costi per interessi finanziari che valgono un quarto del fatturato. Una partita sull’asse Mosca-New York, in cui è entrato anche il senatore di Rignano. Con quale ruolo, lui non lo ha ancora chiarito.

Open, “soldi alla Fondazione per fare pressioni su Lotti”

Un nuovo filone d’indagine e altri due indagati nell’inchiesta della Procura di Firenze che ruota intorno alla fondazione Open che, tra il 2012 e il 2018, fu particolarmente attiva nel sostegno finanziario dell’attività politica di Matteo Renzi.

Open finanziava infatti la Leopolda, la manifestazione che lanciò Renzi, ormai ex sindaco e presidente della Provincia di Firenze, al futuro ruolo di premier, passando attraverso le primarie. E la Procura di Firenze, nell’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal pm Antonino Nastasi (le indagini sono state affidate alla Guardia di Finanza) già da tempo sta setacciando i conti della ex fondazione e analizzando il ruolo di alcuni finanziatori.

Tra questi anche un produttore cinematografico, Alessandro Di Paolo (per un periodo compagno di Elisa Isoardi, ex compagna di Matteo Salvini), e un avvocato, Luca Casagni Lippi, entrambi accusati di traffico di influenze illecite.

Un’ipotesi di reato nuova rispetto alle precedenti, finanziamento illecito e corruzione, che riguardano altri indagati iscritti nel fascicolo. Tutto ruota – per Di Paolo, Casagni Lippi e l’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente di Open – su un finanziamento di circa 280 mila euro che, secondo l’accusa, alcune società riferibili a Di Paolo (Golden Production, Azimut, Comunicazione Reale, Il Mercante dei Sogni, Mora Dario) avrebbero effettuato tra il 2016 e il 2017. Gli investigatori della Gdf nei giorni scorsi hanno perquisito lo studio fiorentino di Casagni Lippi accusato con Di Paolo e Bianchi, come abbiamo detto, di traffico d’influenze illecite. E proprio da una informativa della Gdf di sei mesi fa nasce la contestazione a Casagni Lippi e si rinvengono gli “indizi” a suo carico. Casagni Lippi si sarebbe “intromesso” nelle “dazioni di denaro effettuate da soggetti riferibili a Di Paolo alla fondazione Open”. Non si trattava, secondo l’accusa, di “contribuzioni volontarie”: “Tali erogazioni di danaro – si legge nel decreto di perquisizione – lungi dall’essere contribuzioni volontarie conseguono ad accordi raggiunti tra Casagni, Di Paolo e Bianchi (…) per ricevere somme di denaro come prezzo della propria mediazione illecita verso il predetto pubblico ufficiale e per remunerare lo stesso in relazione alle attività svolte dallo stesso in favore di Di Paolo”. Chi sarebbe il pubblico ufficiale in questione? Secondo l’accusa si tratterebbe di Luca Lotti – tecnicamente il “trafficato” – che però non rientra tra i nomi degli indagati menzionati dall’atto e, quindi, il tutto potrebbe essere avvenuto a sua insaputa. Il reato di traffico di influenze illecite, secondo la Procura di Firenze, si sarebbe realizzato per Casagni, Di Paolo e Bianchi perché il versamento dei 280mila euro a Open non era il risultato di una contribuzione volontaria ma di un accordo raggiunto tra Bianchi, Casagni e Di Paolo: Bianchi aveva il ruolo di “sfruttare” le “relazioni esistenti con Lotti, parlamentare della Camera dei deputati, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, segretario del Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe, ndr)”. In sostanza i 280mila euro erano il frutto di un accordo che prevedeva di remunerare Bianchi come “prezzo della mediazione” con Lotti e anche per “remunerare” il pubblico ufficiale, ovvero lo stesso Lotti, per le sue attività in favore di Casagni e Di Paolo. “Il fatto contestato risulta del tutto circoscritto, di conseguenza l’avvocato Luca Casagni Lippi potrà quando richiesto chiarire serenamente i contorni della vicenda escludendosi ogni rilevanza penale”, hanno dichiarato ieri i difensori di Casagni Lippi, gli avvocati Francesco Maresca e Michele Luzzetti. “Non so chi sono queste persone”, è invece il commento di Matteo Renzi alla notizia delle nuove iscrizioni.

Proprio l’ex premier sempre per Open (ma per altre vicende) è indagato per finanziamento illecito insieme a Lotti e Maria Elena Boschi, all’ex componente del cda Marco Carrai e a Bianchi. Per Bianchi e Lotti c’è una ulteriore contestazione: si ipotizza il reato di corruzione contestato in concorso con il costruttore abruzzese Alfonso Toto e l’imprenditore Patrizio Donnini. La Fondazione Open, secondo la Procura di Firenze, avrebbe agito negli anni in questione come una vera e propria “articolazione di partito”.