Il 30 settembre scorso sono stato sentito dalla Commissione Giustizia in ordine ai progetti di legge in esame per la riforma della normativa sull’ergastolo ostativo, e ho formulato una serie di rilievi e proposte sul piano tecnico giuridico finalizzati a evitare il pericolo che escano dal carcere non solo mafiosi ergastolani che si sono effettivamente ravveduti e che non possono collaborare per ragioni oggettive che ho esemplificato, ma anche i c.d. “irriducibili”. Cioè boss mafiosi che per i loro ruoli direttivi sono conoscitori di informazioni importantissime che consentirebbero di fare piena luce sulle stragi del 1992/1993 e che, ciononostante, non sono disponibili per ragioni soggettive a “tradire” l’organizzazione di cui hanno fatto parte e i suoi potenti alleati, contribuendo con il loro silenzio a garantire l’impunità e la permanente operosità criminale di pericolosi stragisti rimasti nell’ombra, con l’ulteriore ricaduta di disincentivare future collaborazioni. Poiché nei pochi minuti a disposizione mi sono dovuto limitare a brevissimi accenni ai precedenti che dimostrano come e perché l’abolizione dell’ergastolo ostativo sia stato e resti al centro di un ininterrotto impegno strategico dell’intera compagine mafiosa, approfitto ora dell’ospitalità del Fatto Quotidiano per un sintetico memorandum.
Primo fu Cucuzza: “Mi dissocio ma non accuso altri”
Siamo all’epilogo di una storia che inizia nel 1992, quando Salvatore Riina pone tra le condizioni per cessare le stragi proprio l’abolizione dell’ergastolo e una modifica della legge sui pentiti che introduca la possibilità della dissociazione. Dopo che con l’arresto di Bagarella nel 1995 e di Brusca nel 1996 l’ala stragista di Cosa Nostra viene definitivamente neutralizzata, iniziano i primi tentativi di boss mafiosi detenuti di ottenere l’uscita dal carcere mediante la via della dissociazione e della c.d. desistenza. L’apripista è Salvatore Cucuzza, capo del mandamento mafioso di Porta Nuova, che nel luglio del 1996 scrive da detenuto una lettera al presidente del Tribunale di Palermo, di cui dà notizia la stampa, nella quale dichiara di dissociarsi da Cosa Nostra pur non volendo collaborare con la giustizia: “Non intendo accusare altri, ma soltanto ammettere le mie responsabilità” afferma. L’iniziativa viene attentamente monitorata dagli altri capi in libertà, tra i quali Carlo Greco, fedelissimo di Provenzano, reggente insieme a Pietro Aglieri del mandamento di S. Maria del Gesù, il quale, come risulta da una intercettazione del 18 luglio 1996, nello spiegare agli altri mafiosi i vantaggi della dissociazione, dice che bisogna attendere l’emanazione di una legge sui dissociati di mafia sulla falsariga di quella sui dissociati del terrorismo, aggiungendo che sarebbe opportuno dare delle direttive interne in modo che tutti dichiarino di dissociarsi. Senonché il tentativo di Cucuzza abortisce per l’irremovibile rifiuto della Procura di Palermo di prendere in alcuna considerazione la sua proposta. Ma le manovre proseguono sottobanco. Nella primavera del 2000 il procuratore nazionale antimafia Vigna scrive al ministro della Giustizia Fassino che quattro detenuti, il cui capofila è Pietro Aglieri, altro fedelissimo di Provenzano, hanno chiesto di incontrare altri capi mafia detenuti per decidere la dissociazione da Cosa Nostra. Fassino consultatosi con Caselli allora capo del Dap, blocca l’operazione. Il 2 agosto 2000 viene intercettato Giuseppe Lipari, altro uomo di Provenzano, il quale riferisce al suo interlocutore che vi era stata una riunione di vertice nella quale Provenzano aveva detto che non poteva “rimettere insieme il giocattolo” se non riceveva indicazioni dal carcere, cioè dall’ala stragista facente capo a Riina. Il 6 febbraio 2001 il quotidiano Repubblica dà notizia di una intercettazione da cui risultava che nell’estate del 2000 si era svolta una riunione, pure voluta da Provenzano, nella quale era stata, tra l’altro, affrontata la situazione dei detenuti. Vengono riportate tra virgolette alcune frasi testuali della trascrizione tra cui la seguente: “Dicono anche che tutti i responsabili delle province devono stare molto tranquilli… e poi bisogna pensare ai detenuti che sperano nell’abolizione dell’ergastolo… ”. In effetti in quel periodo l’obiettivo sembrava raggiunto. La legge 16 dicembre 1999, n. 479 aveva esteso a tutti gli imputati, ivi compresi quelli condannati in primo grado per strage, la possibilità di ottenere la conversione della pena dell’ergastolo in anni trenta di reclusione che, grazie al beneficio della liberazione anticipata, si riducevano a poco più di venti decorrenti dalla data dell’arresto.
Lo scopino e la trattativa: uscire senza collaborare
Il 23 ottobre 2000, Riina, Giuseppe Graviano e altri 15 condannati in primo grado all’ergastolo per le stragi del 1993 si alzano in piedi nelle gabbie della Corte d’assise di appello di Firenze per chiedere l’abbreviato. Soltanto allora, dopo le proteste dei magistrati e dei parenti delle vittime, il nuovo governo Amato si affretta a ripristinare l’ergastolo almeno per le stragi con un escamotage retroattivo. Nel 2001 si registra una novità che dimostra che il “giocattolo” su questo importante versante era stato rimesso in piedi. Infatti accanto ai provenzaniani, inizia a operare attivamente per condurre le trattative sulla dissociazione anche Salvatore Biondino, braccio destro e uomo ombra di Salvatore Riina, il quale dopo avere avuto nel gennaio colloqui con Vigna, a novembre avanza l’insolita richiesta di essere autorizzato a fare lo scopino all’interno del carcere di Rebibbia. Il magistrato Alfonso Sabella, a capo dell’Ispettorato del Dap, segnala a Tinebra, subentrato al vertice del Dap, che si tratta in realtà di uno stratagemma per consentire a Biondino di muoversi liberamente all’interno del carcere e condurre le consultazioni con gli altri capi. Il risultato è che Sabella viene immediatamente rimosso dal suo incarico. In una analitica lettera del 20 dicembre 2001 al Csm e al ministro della Giustizia, Sabella denuncia l’illegittimità della sua rimozione e ricostruisce con ricchezza di dettagli tutte le manovre sotterranee in corso tra i capi mafia detenuti per condurre una trattativa segreta finalizzata alla fuoriuscita dal carcere senza collaborare. La lettera cade nel vuoto e il 16 febbraio 2002 a Sabella viene pure revocata la scorta che gli era stata riconfermata sino a poco tempo prima nel dicembre 2001. La trattativa riprende subito il 28 marzo 2002 quando Aglieri invia una lettera a Vigna nella quale lancia la proposta di consentire un ampio confronto tra i boss detenuti alla ricerca di “soluzioni intelligenti e concrete”. La proposta viene fermamente respinta dalla Procura della Repubblica di Palermo di cui si fa portavoce Piero Grasso con pubbliche prese di posizione, e anche dal presidente della Commissione parlamentare antimafia, Roberto Centaro. A questo punto entrano apertamente in campo i boss detenuti esponenti dell’ala stragista, lanciando inquietanti messaggi intimidatori. Il 12 luglio 2002 Leoluca Bagarella afferma, dichiarando di parlare a nome dei detenuti ristretti nel carcere di L’Aquila, che sono stanchi di essere presi in giro e che le “promesse non sono state mantenute”. Segue il 17 luglio un altro messaggio proclama dal carcere di Novara firmato da Cristoforo Cannella, componente del gruppo di fuoco di Bagarella, nel quale si accusano di inerzia gli avvocati di mafia eletti in Parlamento e componenti di Commissioni legislative. La stampa pubblica la notizia che i Servizi segreti e lo Sco hanno raccolto da attendibili fonti di ambiente notizie su “un progetto di aggressione che avrà inizio con azioni in toto non percettibili all’opinione pubblica fino a raggiungere toni manifesti, con la commissione, in un secondo momento, di azioni eclatanti”. Vengono anche specificati alcuni nominativi di personaggi del mondo politico che potrebbero essere uccisi. Dopo queste minacce, la trattativa riprende dietro le quinte. Alcuni boss mafiosi detenuti trattativisti vengono trasferiti nel carcere di L’Aquila dove nel 2005 chiedono di essere autorizzati a discutere tra loro i particolari della dissociazione/desistenza. Ma al tal fine occorrerebbe modificare i decreti ministeriali che vietano ai detenuti mafiosi di avere contatti. Roberto Castelli, ministro della Giustizia dal 2001 al 2005, dopo essersi consultato con i capi di alcune procure, nega il suo via libera all’operazione, come egli stesso ha dichiarato in una pubblica intervista. Intanto nel carcere di Tolmezzo, Filippo Graviano dice a Gaspare Spatuzza, come questi ha riferito in dibattimento: “È bene far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare qualche cosa, è bene che anche noi cominciamo a parlare coi magistrati”. Nel gennaio 2020 Giuseppe Graviano nel corso delle udienze del processo “’Ndrangheta stragista” inizia a fare dichiarazioni e a depositare memorie di portata potenzialmente dirompente concernenti i mandanti occulti delle stragi e la sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino, che si rivolgono in modo criptato a soggetti in grado di decifrarne il reale significato. Nello stesso arco temporale, Filippo Graviano fa mettere a verbale che si è dissociato da Cosa Nostra, pur non intendendo collaborare. Uno dei favoreggiatori dei Graviano, a loro ancora vicino, ha dichiarato che Giuseppe ha fiducia che uscirà dal carcere nonostante gli ergastoli anche senza collaborare. Una fiducia che nutrono anche altri boss.
Il parlamento non può scaricare sui magistrati
Mi sembra che sia abbastanza per comprendere come siamo ancora dentro quello che Giovanni Falcone chiamava “il gioco grande”, e come sul legislatore gravi il difficilissimo compito di emanare una legge che prenda chiara posizione su alcuni nodi ineludibili, la cui soluzione, a mio parere, non può essere scaricata, con una sorta di delega in bianco, sulle spalle della magistratura di sorveglianza. Quali sono i casi nei quali si deve ritenere giustificabile la mancata collaborazione degli irriducibili? È giustificabile la paura di ritorsioni, equivalente alla ammissione della impotenza dello Stato di fronte alla capacità di intimidazione della mafia? È giustificabile il rifiuto di sentirsi “infami”, equivalente alla legittimazione di una cultura dell’omertà che prova ripulsa ad accusare complici ancora in libertà, ma non prova ripulsa morale per la violenza che costoro continuano così a praticare nei confronti di tante vittime? È giustificabile il rifiuto di non collaborare perché ciò che conta è il pentimento interiore dinanzi a Dio e non quello dinanzi gli uomini che rovina “cristiani”, come teorizza Aglieri? La cessazione di pericolosità per desistenza può essere assimilata al ravvedimento? Ed è bene che il legislatore abbia presente che oltre agli irriducibili sono in attesa di risposte su questi e altri importanti temi, anche i parenti delle vittime ai quali si dovrà spiegare perché non hanno diritto di sapere dagli “irriducibili” chi e perché, oltre ai mafiosi, volle la morte dei loro cari come moneta di scambio da giocare sul tavolo di una bieca partita di potere.