Salerno, appalti: arrestato uomo di De Luca in Regione. Indagato anche il sindaco Napoli

Un ventennio di illegittimità in favore delle cooperative di Salerno, tramutate in strumenti di consenso elettorale per gli uomini del governatore Pd ed ex sindaco Vincenzo De Luca. La sintesi di una riga delle 290 pagine dell’ordinanza cautelare notificata ieri a dieci persone, tra cui l’assessore comunale alle Politiche sociali e consigliere regionale Nino Savastano, finito ai domiciliari, un fedelissimo di De Luca dal millennio scorso, è tutta qui. Gli inquirenti collocano l’inizio dell’andazzo al 2002. E scrivono che “ha fortemente frustrato le aspettative di crescita degli operatori che agivano nel rispetto della legalità”.

Il cartello delle coop, secondo le accuse della Procura di Salerno guidata da Giuseppe Borrelli, era diventato un’associazione a delinquere tra imprese strettamente collegate tra loro per spartirsi senza concorrenza piccoli appalti di manutenzione finiti nel mirino dell’Anac. Il cartello aveva un dominus, Fiorenzo Zoccola, da ieri in carcere. Ai domiciliari il dirigente in pensione del settore Ambiente del Comune, Luca Caselli. È indagato il sindaco Vincenzo Napoli, ex capo segreteria di De Luca sindaco: turbativa d’asta sul noleggio di una macchina per pulire le strade. Ci sono intercettazioni che riferiscono di una cena organizzata da Zoccola e dal consigliere regionale deluchiano Franco Picarone (non indagato) per far sedere allo stesso tavolo i presidenti delle coop e De Luca. È avvenuta il 16 febbraio 2020 al ristorante del Golfo, c’è la fattura da 650 euro pagata dalla coop. Gli inquirenti ricordano che di lì a poco si sarebbe votato per le regionali. E indovinate per chi fanno campagna elettorale le coop? Ma per il loro assessore di riferimento, Savastano, accusato di corruzione in concorso con Zoccola. Tra i due c’è una frequentazione antica e uno uno scambio di favori. Zoccola viene intercettato mentre dice a Felice Marotta (indagato): “Nino ha trovato un suo collaboratore che mettono nella commissione (di gara, ndr)”. Un’altra intercettazione di Zoccola spiega perché è meglio puntare su Savastano e non su un altro ex assessore, Picarone: “Le direttive al momento sono 70 a Nino e 30 a Franco… Franco sta lì da 5 anni… Nino è un esordiente, Vincenzo (De Luca, ndr) ci mette la faccia e se non esce fa una figura di merda lui”.

A Zoccola è chiaro che sarebbe meglio interloquire direttamente con il governatore. I poliziotti gli hanno trovato appunti titolati: “Promemoria per il Presidente”. Un ‘papello’ di piccole richieste varie. Non si sa se gli siano arrivate.

Buccinasco: ucciso “Dumdum”, storico broker della coca

Arriva dal passato l’omicidio del “narcos” siciliano Paolo “Dum dum” Salvaggio (60 anni). Forse per un “debito di coca” non pagato a causa di sequestri di polizia. Questa una delle ipotesi sul tavolo della Procura di Milano e dei carabinieri. Salvaggio è stato ucciso a Buccinasco, roccaforte delle ’ndrine di Platì. Ucciso in bici. A sparare, due uomini su un T-Max nero. Tre colpi, l’ultimo in testa. Era stato scarcerato da 3 anni per una grave malattia. Doveva scontarne quasi 20 per un imponente traffico di droga. Poteva uscire dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18. Passava le giornate tra il laghetto vicino casa e i bar della zona. “Era in pensione, fuori dal giro”, spiega una fonte vicina ai clan. Difficile pensare a un fatto attuale legato alla droga. Giorni fa aveva litigato con i titolari cinesi di un bar. Da escludere anche la matrice ’ndranghetista. Si guarda così al passato, alla droga e ai rapporti con i narcos dell’Est, montenegrini con falsi documenti o albanesi. L’indagine del 2010 svelò tre gruppi di narcos. Uno era guidato da “Dum dum”.

Libro Boccassini, Falcone: “Smarriti pudore e rispetto”

“Quel che allarma innanzitutto è che sembra si sia smarrito ormai qualunque senso del pudore e del rispetto prima di tutto dei propri sentimenti (che si sostiene essere stati autentici), poi della vita e della sfera intima di persone che, purtroppo, non ci sono più, non possono più esprimersi su episodi veri o presunti che siano e che, ne sono certa, avrebbero vissuto questa violazione del privato come un’offesa profonda”. Sono le parole di Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni che perse la vita nella strage di Capaci nel maggio 1992 insieme alla moglie Francesca Morvillo e alla scorta, e che critica il libro dell’ex pm Ilda Boccassini (La stanza numero 30). La magistrata ha raccontato nella sua autobiografia alcuni episodi intimi e inediti legati proprio a Falcone, quando entrambi lavoravano alla procura di Palermo. “Finora ho preferito evitare commenti su una vicenda che mi ha molto amareggiata, ritenendo che il silenzio, di fronte a parole tanto inopportune, fosse la scelta più sensata”, ha detto Falcone.

Ergastolo, ultimo atto dell’eterna trattativa

Il 30 settembre scorso sono stato sentito dalla Commissione Giustizia in ordine ai progetti di legge in esame per la riforma della normativa sull’ergastolo ostativo, e ho formulato una serie di rilievi e proposte sul piano tecnico giuridico finalizzati a evitare il pericolo che escano dal carcere non solo mafiosi ergastolani che si sono effettivamente ravveduti e che non possono collaborare per ragioni oggettive che ho esemplificato, ma anche i c.d. “irriducibili”. Cioè boss mafiosi che per i loro ruoli direttivi sono conoscitori di informazioni importantissime che consentirebbero di fare piena luce sulle stragi del 1992/1993 e che, ciononostante, non sono disponibili per ragioni soggettive a “tradire” l’organizzazione di cui hanno fatto parte e i suoi potenti alleati, contribuendo con il loro silenzio a garantire l’impunità e la permanente operosità criminale di pericolosi stragisti rimasti nell’ombra, con l’ulteriore ricaduta di disincentivare future collaborazioni. Poiché nei pochi minuti a disposizione mi sono dovuto limitare a brevissimi accenni ai precedenti che dimostrano come e perché l’abolizione dell’ergastolo ostativo sia stato e resti al centro di un ininterrotto impegno strategico dell’intera compagine mafiosa, approfitto ora dell’ospitalità del Fatto Quotidiano per un sintetico memorandum.

Primo fu Cucuzza: “Mi dissocio ma non accuso altri”

Siamo all’epilogo di una storia che inizia nel 1992, quando Salvatore Riina pone tra le condizioni per cessare le stragi proprio l’abolizione dell’ergastolo e una modifica della legge sui pentiti che introduca la possibilità della dissociazione. Dopo che con l’arresto di Bagarella nel 1995 e di Brusca nel 1996 l’ala stragista di Cosa Nostra viene definitivamente neutralizzata, iniziano i primi tentativi di boss mafiosi detenuti di ottenere l’uscita dal carcere mediante la via della dissociazione e della c.d. desistenza. L’apripista è Salvatore Cucuzza, capo del mandamento mafioso di Porta Nuova, che nel luglio del 1996 scrive da detenuto una lettera al presidente del Tribunale di Palermo, di cui dà notizia la stampa, nella quale dichiara di dissociarsi da Cosa Nostra pur non volendo collaborare con la giustizia: “Non intendo accusare altri, ma soltanto ammettere le mie responsabilità” afferma. L’iniziativa viene attentamente monitorata dagli altri capi in libertà, tra i quali Carlo Greco, fedelissimo di Provenzano, reggente insieme a Pietro Aglieri del mandamento di S. Maria del Gesù, il quale, come risulta da una intercettazione del 18 luglio 1996, nello spiegare agli altri mafiosi i vantaggi della dissociazione, dice che bisogna attendere l’emanazione di una legge sui dissociati di mafia sulla falsariga di quella sui dissociati del terrorismo, aggiungendo che sarebbe opportuno dare delle direttive interne in modo che tutti dichiarino di dissociarsi. Senonché il tentativo di Cucuzza abortisce per l’irremovibile rifiuto della Procura di Palermo di prendere in alcuna considerazione la sua proposta. Ma le manovre proseguono sottobanco. Nella primavera del 2000 il procuratore nazionale antimafia Vigna scrive al ministro della Giustizia Fassino che quattro detenuti, il cui capofila è Pietro Aglieri, altro fedelissimo di Provenzano, hanno chiesto di incontrare altri capi mafia detenuti per decidere la dissociazione da Cosa Nostra. Fassino consultatosi con Caselli allora capo del Dap, blocca l’operazione. Il 2 agosto 2000 viene intercettato Giuseppe Lipari, altro uomo di Provenzano, il quale riferisce al suo interlocutore che vi era stata una riunione di vertice nella quale Provenzano aveva detto che non poteva “rimettere insieme il giocattolo” se non riceveva indicazioni dal carcere, cioè dall’ala stragista facente capo a Riina. Il 6 febbraio 2001 il quotidiano Repubblica dà notizia di una intercettazione da cui risultava che nell’estate del 2000 si era svolta una riunione, pure voluta da Provenzano, nella quale era stata, tra l’altro, affrontata la situazione dei detenuti. Vengono riportate tra virgolette alcune frasi testuali della trascrizione tra cui la seguente: “Dicono anche che tutti i responsabili delle province devono stare molto tranquilli… e poi bisogna pensare ai detenuti che sperano nell’abolizione dell’ergastolo… ”. In effetti in quel periodo l’obiettivo sembrava raggiunto. La legge 16 dicembre 1999, n. 479 aveva esteso a tutti gli imputati, ivi compresi quelli condannati in primo grado per strage, la possibilità di ottenere la conversione della pena dell’ergastolo in anni trenta di reclusione che, grazie al beneficio della liberazione anticipata, si riducevano a poco più di venti decorrenti dalla data dell’arresto.

Lo scopino e la trattativa: uscire senza collaborare

Il 23 ottobre 2000, Riina, Giuseppe Graviano e altri 15 condannati in primo grado all’ergastolo per le stragi del 1993 si alzano in piedi nelle gabbie della Corte d’assise di appello di Firenze per chiedere l’abbreviato. Soltanto allora, dopo le proteste dei magistrati e dei parenti delle vittime, il nuovo governo Amato si affretta a ripristinare l’ergastolo almeno per le stragi con un escamotage retroattivo. Nel 2001 si registra una novità che dimostra che il “giocattolo” su questo importante versante era stato rimesso in piedi. Infatti accanto ai provenzaniani, inizia a operare attivamente per condurre le trattative sulla dissociazione anche Salvatore Biondino, braccio destro e uomo ombra di Salvatore Riina, il quale dopo avere avuto nel gennaio colloqui con Vigna, a novembre avanza l’insolita richiesta di essere autorizzato a fare lo scopino all’interno del carcere di Rebibbia. Il magistrato Alfonso Sabella, a capo dell’Ispettorato del Dap, segnala a Tinebra, subentrato al vertice del Dap, che si tratta in realtà di uno stratagemma per consentire a Biondino di muoversi liberamente all’interno del carcere e condurre le consultazioni con gli altri capi. Il risultato è che Sabella viene immediatamente rimosso dal suo incarico. In una analitica lettera del 20 dicembre 2001 al Csm e al ministro della Giustizia, Sabella denuncia l’illegittimità della sua rimozione e ricostruisce con ricchezza di dettagli tutte le manovre sotterranee in corso tra i capi mafia detenuti per condurre una trattativa segreta finalizzata alla fuoriuscita dal carcere senza collaborare. La lettera cade nel vuoto e il 16 febbraio 2002 a Sabella viene pure revocata la scorta che gli era stata riconfermata sino a poco tempo prima nel dicembre 2001. La trattativa riprende subito il 28 marzo 2002 quando Aglieri invia una lettera a Vigna nella quale lancia la proposta di consentire un ampio confronto tra i boss detenuti alla ricerca di “soluzioni intelligenti e concrete”. La proposta viene fermamente respinta dalla Procura della Repubblica di Palermo di cui si fa portavoce Piero Grasso con pubbliche prese di posizione, e anche dal presidente della Commissione parlamentare antimafia, Roberto Centaro. A questo punto entrano apertamente in campo i boss detenuti esponenti dell’ala stragista, lanciando inquietanti messaggi intimidatori. Il 12 luglio 2002 Leoluca Bagarella afferma, dichiarando di parlare a nome dei detenuti ristretti nel carcere di L’Aquila, che sono stanchi di essere presi in giro e che le “promesse non sono state mantenute”. Segue il 17 luglio un altro messaggio proclama dal carcere di Novara firmato da Cristoforo Cannella, componente del gruppo di fuoco di Bagarella, nel quale si accusano di inerzia gli avvocati di mafia eletti in Parlamento e componenti di Commissioni legislative. La stampa pubblica la notizia che i Servizi segreti e lo Sco hanno raccolto da attendibili fonti di ambiente notizie su “un progetto di aggressione che avrà inizio con azioni in toto non percettibili all’opinione pubblica fino a raggiungere toni manifesti, con la commissione, in un secondo momento, di azioni eclatanti”. Vengono anche specificati alcuni nominativi di personaggi del mondo politico che potrebbero essere uccisi. Dopo queste minacce, la trattativa riprende dietro le quinte. Alcuni boss mafiosi detenuti trattativisti vengono trasferiti nel carcere di L’Aquila dove nel 2005 chiedono di essere autorizzati a discutere tra loro i particolari della dissociazione/desistenza. Ma al tal fine occorrerebbe modificare i decreti ministeriali che vietano ai detenuti mafiosi di avere contatti. Roberto Castelli, ministro della Giustizia dal 2001 al 2005, dopo essersi consultato con i capi di alcune procure, nega il suo via libera all’operazione, come egli stesso ha dichiarato in una pubblica intervista. Intanto nel carcere di Tolmezzo, Filippo Graviano dice a Gaspare Spatuzza, come questi ha riferito in dibattimento: “È bene far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare qualche cosa, è bene che anche noi cominciamo a parlare coi magistrati”. Nel gennaio 2020 Giuseppe Graviano nel corso delle udienze del processo “’Ndrangheta stragista” inizia a fare dichiarazioni e a depositare memorie di portata potenzialmente dirompente concernenti i mandanti occulti delle stragi e la sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino, che si rivolgono in modo criptato a soggetti in grado di decifrarne il reale significato. Nello stesso arco temporale, Filippo Graviano fa mettere a verbale che si è dissociato da Cosa Nostra, pur non intendendo collaborare. Uno dei favoreggiatori dei Graviano, a loro ancora vicino, ha dichiarato che Giuseppe ha fiducia che uscirà dal carcere nonostante gli ergastoli anche senza collaborare. Una fiducia che nutrono anche altri boss.

Il parlamento non può scaricare sui magistrati

Mi sembra che sia abbastanza per comprendere come siamo ancora dentro quello che Giovanni Falcone chiamava “il gioco grande”, e come sul legislatore gravi il difficilissimo compito di emanare una legge che prenda chiara posizione su alcuni nodi ineludibili, la cui soluzione, a mio parere, non può essere scaricata, con una sorta di delega in bianco, sulle spalle della magistratura di sorveglianza. Quali sono i casi nei quali si deve ritenere giustificabile la mancata collaborazione degli irriducibili? È giustificabile la paura di ritorsioni, equivalente alla ammissione della impotenza dello Stato di fronte alla capacità di intimidazione della mafia? È giustificabile il rifiuto di sentirsi “infami”, equivalente alla legittimazione di una cultura dell’omertà che prova ripulsa ad accusare complici ancora in libertà, ma non prova ripulsa morale per la violenza che costoro continuano così a praticare nei confronti di tante vittime? È giustificabile il rifiuto di non collaborare perché ciò che conta è il pentimento interiore dinanzi a Dio e non quello dinanzi gli uomini che rovina “cristiani”, come teorizza Aglieri? La cessazione di pericolosità per desistenza può essere assimilata al ravvedimento? Ed è bene che il legislatore abbia presente che oltre agli irriducibili sono in attesa di risposte su questi e altri importanti temi, anche i parenti delle vittime ai quali si dovrà spiegare perché non hanno diritto di sapere dagli “irriducibili” chi e perché, oltre ai mafiosi, volle la morte dei loro cari come moneta di scambio da giocare sul tavolo di una bieca partita di potere.

 

Roma, Raggi e Conte divisi. Ma lei: “Non farò scalate”

Nel giro di poche ore ha incontrato il suo possibile successore, il dem Roberto Gualtieri, e quello che è certamente il suo leader, il presidente del M5S Giuseppe Conte. E tra un confronto sui programmi per Roma e una riflessione sul futuro del Movimento, Virginia Raggi ha seguito sempre il suo filo rosso. Ovvero la sua linea da grillina vecchia maniera, quella dell’autonomia e dell’equidistanza dai poli, ribadita così: “A livello nazionale c’è un’intesa tra Pd e M5S, ma io a Roma andrò a sedere all’opposizione e da lì mi opporrò senza sconti e collaborando dove ci sono delle possibilità di apertura”.

Nessuna abiura per l’ormai uscente sindaca, che questo pomeriggio incontrerà un po’ di parlamentari e consiglieri comunali romani. Ma non nella sede nazionale del partito a due passi dalla Camera, come aveva inizialmente previsto. Non in quell’ufficio senza mobili ma già impregnato di cattivi pensieri. Ieri Conte, che non sapeva dell’appuntamento, le ha “consigliato” di cambiare posto. E lei si è adeguata. Meglio non forzare, vista l’aria. Perché diversi eletti sospettano che l’ex sindaca prepari una scalata al Movimento o quantomeno una corrente, “e le correnti non ci servono” scandisce la deputata Federica Daga. Proprio per questo, in giornata Raggi si è difesa con un messaggio ai parlamentari romani: “Nessuno vuole creare correnti e trovo offensiva l’accusa. In tanti mi hanno chiesto di vederci e riflettere. Al netto del VI Municipio, dove siamo al ballottaggio, nei prossimi anni saremo all’opposizione e occorre fare alcuni ragionamenti”. E da qui passa all’incontro con Conte: “Ne ho parlato con lui, occorre riorganizzarsi a livello territoriale e le liste civiche sono importantissime, facciamolo insieme”. D’altronde l’ex premier ieri l’ha incontrata proprio per questo, per tastarle il polso. Una chiacchierata in cui le ha anticipato che darà il suo sostegno pubblico a Gualtieri, il candidato del Pd a Roma a cui finora aveva lanciato “solo” segnali di stima (“è un mio ex ministro, un uomo di valore”). Ma Raggi non appoggerà mai pubblicamente il candidato dem. “Andrà a votare al ballottaggio” assicurano. Per chi, non è dato sapere. Di certo l’ex sindaca non vuole affossare Conte, e all’avvocato lo ha giurato. Però punta forte sue liste civiche – che incontrerà domani – per mantenere una sua visibilità. Nel frattempo rimarrà consigliera comunale, a “sorvegliare” da vicino il nuovo sindaco.

Potrebbe essere proprio Gualtieri, a cui ieri ha chiesto di “non smantellare” il suo sistema di microcredito, e con cui ha parlato parecchio di legalità. L’ex ministro le ha promesso di voler liberare le case popolari dal giogo dei clan. Mentre è stato ignorato il tema più spinoso, quello dei rifiuti. All’uscita Gualtieri vede positivo: “Raggi dice di voler rimanere neutrale, non è una posizione contro. Ringrazio Conte e quegli esponenti del M5S che mi hanno espresso stima”. Il resto è affare dei 5Stelle.

Sicilia, Sardegna e Trentino Alto Adige: al primo turno vincono ancora i giallorosa

Anche da Sicilia, Sardegna e Trentino Alto-Adige, dove si è votato una settimana più tardi rispetto al resto d’Italia, le Amministrative restituiscono buone notizie per Pd e M5S.

In Sicilia spicca il successo giallorosa a Caltagirone (Catania) grazie al candidato Fabio Roccuzzo. A Vittoria (Ragusa), il Comune più popoloso al voto, si va verso la vittoria del centrosinistra con Francesco Aiello, mentre il sindaco uscente 5Stelle Antonio Palumbo è il più votato a Favara (Agrigento), anche se probabilmente la sua conferma passerà dal ballottaggio. Giallorosa ok anche a San Cataldo (Caltanissetta): al secondo turno ci saranno Gioacchino Comparato, candidato dall’alleanza Pd-M5S e in vantaggio rispetto ai rivali, e Claudio Vassallo, appoggiato dalla Lega e da Fratelli d’Italia. Da segnalare poi il caso di Sebastiano Sanzarello, tre giorni fa indicato come impresentabile dalla Commissione Antimafia di Nicola Morra – perché a giudizio per concussione – e trionfatore assoluto con il centrodestra a Mistretto (Messina).

In Sardegna è ancora il centrosinistra a esultare. A Carbonia è netta l’affermazione di Pietro Morittu, mentre a Olbia si conta fino all’ultimo voto per stabilire chi tra Settimo Nizzi (centrodestra) e Augusto Navone (sinistra) abbia superato il 50 per cento. Al ballottaggio andrà invece Capoterra (Cagliari), dove si sfideranno il civico Beniamino Piga e l’uomo della destra Beniamino Garau.

Al voto anche il Trentino Alto Adige, dove emerge soprattutto il risultato di Merano (Bolzano): qui Paul Roesch, sostenuto da Pd. M5S e Verdi, andrà al ballottaggio contro Dario Dal Medico (civico di centrodestra). Roesch aveva già vinto le elezioni nel 2020, senza però riuscire a formare una giunta per amministrare. Il quadro fa esultare Enrico Letta: “I dati del primo turno delle elezioni tenutesi ieri e oggi (domenica e lunedì, ndr) in vari comuni nelle due regioni amministrate dalla destra stanno confermando e rafforzando il quadro nazionale di domenica scorsa. Avanti!”. Ancora male, però, i dati sull’affluenza: in Sicilia la media è sul 56 per cento, in Sardegna si sale fino al 60.

“Servono 15 mln di test a settimana: impossibile”

Sarebbero circa quattro milioni i lavoratori che non si sono ancora vaccinati. E il numero è sottostimato dal sommerso. Solo che se non si vaccineranno entro il 15 ottobre (venerdì prossimo, quando scatterà l’obbligo del Green pass nei luoghi di lavoro pubblici e privati) saranno necessari 12-15 milioni di tamponi a settimana. Operazione del tutto impossibile: “Non abbiamo questa capacità produttiva”, dice Nino Cartabellotta. Il presidente della Fondazione Gimbe, conti alla mano, mette in guardia il governo. La soluzione – se questi 4-5 milioni di lavoratori continueranno a opporre resistenza – sarà quella di “andare verso un obbligo vaccinale”. Ipotesi che ora è sul tavolo del governo. Anche se solo come possibile strada, come provvedimento estremo, come conferma di fatto il ministro della Salute, Roberto Speranza, tornando a parlarne – lo ha fatto domenica sera a Che tempo che fa – specificando però: solo qualora le decisioni prese finora dovessero rivelarsi del tutto inadeguate.

“I numeri dell’epidemia in questo momento in Italia – dice Speranza –, sono tra i più bassi nell’Unione europea e c’è una capacità del Paese di tenere la curva sotto controllo, quindi le scelte che abbiamo compiuto hanno portato dei risultati. L’obbligatorietà del vaccino è tra le possibilità, ma in questo momento il governo ha scelto un’altra strategia. Tuttavia abbiamo un margine per valutare e vedere”. Dopo gli scontri e le violenze di sabato, dopo l’assalto della sede nazionale della Cgil a Roma, la svolta è però già evocata.

Lo fa il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, per il quale “se non sarà possibile gestire con buon senso l’obbligo del Green pass, e la tensione che si è creata lascia intendere che questo buon senso non è sufficiente, allora forse bisognerà finire all’extrema ratio dell’obbligo”.

Sono 8,4 milioni gli italiani over 12 che non hanno ancora ricevuto nemmeno una dose, in base all’ultimo report del governo. E di questi, ha calcolato Cartabellotta, oltre 6,2 milioni sono in età potenzialmente lavorativa, tra i 20 e i 64 anni. Calcolando il tasso di occupazione, che è del 62,9%, ecco il dato: quei 4-5 milioni di persone che o sono ancora indecisi o fanno parte della schiera degli irriducibili no vax. Solo che in assenza di vaccinazione, ha spiegato Cartabellotta ai microfoni della trasmissione L’Italia s’è desta, su Radio Cusano Campus, “né le farmacie né le strutture sanitarie sarebbero in grado di effettuare ogni settimana i tamponi necessari per ottenere la certificazione verde”. Il cui obbligo, fino ad ora, dice il presidente di Gimbe, “ha prodotto un effetto modesto sulle vaccinazioni”. Tutto confermato dai numeri, visto che le somministrazioni delle prime dosi, in calo progressivo da almeno la metà di luglio, continuano a diminuire: solo una settimana fa furono oltre 52.400, domenica scorsa erano già dimezzate, nonostante la scadenza alle porte. Oggi con il tampone antigenico rapido la validità del certificato è di 48 ore, che salgono a 72 con quello molecolare, che però ha un costo molto più alto del test rapido, che può essere fatto anche in farmacia. Ma per Cartabellotta è difficilmente percorribile la strada di una estensione della validità.

“Il problema – spiega il presidente della Fondazione Gimbe –, è che le 48 ore fissate per il tampone rapido rappresentano un ragionevole compromesso che sta a metà tra politica, esigenze sociali, scienza e la reale affidabilità del test, che in altri Paesi d’Europa viene richiesto ogni 24 ore. Più ci si allontana dal momento in cui viene effettuato il tampone e più aumenta la possibilità di contagio”.

Crisanti: “Con 40 morti al giorno i veri casi saranno 15mila”. Silvestri: “Si sbaglia”

“In Italia vi è una discrepanza tra numero di casi registrati e decessi: prendendo infatti come riferimento un rapporto di uno a mille nel nostro Paese considerando tra 30 e 40 decessi giornalieri, i casi dovrebbero essere tra i 15 e i 20mila, mentre se ne registrano tra i 2 e i 3mila in media”. L’allarme Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di Microbiologia molecolare dell’università di Padova, lo ripete ieri mattina su Radio 24: “Oggi – spiega Crisanti – abbiamo 30-40 decessi al giorno e un numero ridicolo di infezioni: evidentemente c’è una discrepanza ingiustificabile perché in tutti gli altri Paesi d’Europa e del mondo c’è un rapporto di uno a mille rispetto ai numeri dei casi e dei decessi, quindi dovremmo avere anche noi un numero molto più alto di contagi. Si può avere la tendenza a pensare che con un numero basso di casi sia tutto finito invece così non è. Se nel computo mettiamo tutti coloro che fanno il tampone perché devono andare a lavorare, per lasciapassare sociale, è chiaro che le incidenze sono bassissime. Invece se i tamponi vengono usati ad esempio per la sorveglianza nelle classi, il risultato è diverso. Bisogna prendere il numero di decessi, dividerlo per due e moltiplicarlo per 1000, quindi avendo tra i 30 e 40 decessi avremmo tra i 15 mila e i 20 mila contagiati in Italia”. Non è d’accordo l’immunologo Guido Silvestri, professore ordinario e capo dipartimento di Patologia alla Emory di Atlanta negli Stati Uniti: “Sono numeri campati per aria. A volte le persone muoiono mesi dopo l’infezione, e la letalità di Covid dipende dalla demografia e dallo status vaccinale degli infettati. Poi i nuovi casi sono sicuramente più di quelli contabilizzati, ma quello è ovvio”.

Passando la palla dai medici a chi lavora con i numeri il quadro si compone. Il fisico Giorgio Sestili spiega: “C’è qualcosa nei numeri dell’incidenza registrata in Italia che non torna. E Crisanti su questo ha ragione. Se vediamo i numeri del nostro Paese e del Regno Unito, ci accorgiamo che l’incidenza inglese è 7-8 volte più alta e loro fanno circa un milione di test al giorno mentre noi la metà. Il dato settimanale del Regno Unito, sui 7 giorni, è oltre 34 mila casi, quello italiano circa 2.600, siamo a oltre 10 volte. Mentre se vediamo gli altri dati, dai ricoveri in area medica o a quelli in terapia intensiva, ci sono poche differenze. Il dato dei decessi è il doppio nel Regno Unito ma non arriva all’enorme differenza nell’incidenza. Ci sono però delle spiegazioni e forse Crisanti è troppo pessimista e genera paura. La mia impressione è che con il Green pass, che non c’è in Uk, abbiamo creato un effetto paradosso: in Italia il tampone lo fa chi ha bisogno del Pass e spesso sono persone asintomatiche o che non hanno il Covid; in Uk il tampone lo fa chi ha i sintomi e quindi la probabilità di trovare positivi è più alta”.

Anche per il matematico del Cnr Giovanni Sebastiani è sbagliato “fare il confronto con il Regno Unito, noi su mille persone ne testiamo due e loro diciassette”. Sebastiani spiega: “Bisogna fare i confronti con Francia e Spagna, ad esempio, e i numeri non sono così diversi. Ma per sapere davvero quanti sono i casi reali rispetto a quelli osservati bisognerebbe fare uno studio sierologico a campione, come ha fatto l’Istat nel luglio 2020; è, invece, fuorviante considerare i valori assoluti, bisogna cosiderare la percentuale di positività. I nuovi casi sono sottostimati, ma secondo me oggi non possono essere più del triplo di quelli certificati perché rispetto al 2020 testiamo più del doppio. A parità di percentuale di positivi abbiamo il 60% in più di decessi rapportati alla popolazione rispetto al Regno Unito, questo sì, e bisognerebbe capire il perché”.

Dai porti alla logistica: la mappa dei lavoratori senza Green pass

A 72 ore dal G-day, l’obbligo del Green pass per 14,6 milioni di dipendenti di aziende private, 3,2 milioni di dipendenti pubblici e 4,9 milioni di autonomi, i nodi aperti restano ancora tanti: il premier Mario Draghi deve firmare un Dpcm con le indicazioni sulle modalità dei controlli, mentre resta a 48 ore la validità dei tamponi rapidi (72 ore per i molecolari). E poi, soprattutto, c’è il rebus organizzativo con 4 milioni di lavoratori che non sono ancora vaccinati. Un dato che fa tremare la Pubblica amministrazione e le imprese private che venerdì potrebbero trovarsi a gestire pesanti ripercussioni se mancherà una quota di personale che si potrebbe aggirare intorno al 15%. Associazioni e sindacati prendono tempo, almeno fino a mercoledì sera, quando dovrebbe dipanarsi almeno l’incognita sul numero reale dei lavoratori senza Green pass. Da ieri, infatti, i datori di lavoro – secondo quanto prevede l’articolo 3 sul decreto Capienze – hanno cominciato a chiedere ai propri dipendenti se sono in possesso della certificazione verde. Non come l’abbiano ottenuta (vaccino, guarigione, tampone): solo se venerdì saranno in grado di andare al lavoro e non creare così un disagio organizzativo. Intanto resta una grande incognita su quello che succederà, anche perché nell’ultima settimana la macchina vaccinale si è fermata a meno di 350 mila nuovi vaccinati con prima dose.

Le preoccupazioni maggiori arrivano dal settore dei trasporti e logistica, nei quali – ricordano i sindacati – bastano anche basse percentuali di conducenti non vaccinati, tipo il 10%, per creare disservizi e rallentare le corse. È qui che già si registra una grave carenza di autisti a causa della difficoltà di accesso alla professione. E ora potrebbe complicarsi tutto: gli autisti dei mezzi pesanti sono stati già compensati con personale straniero, soprattutto dell’Europa dell’Est che resta il fanalino di coda nella vaccinazione con basse percentuali di immunizzati. E chi è vaccinato, lo ha fatto con Sputnik, non riconosciuto dall’Ema.

Ma anche la logistica ha i suoi patemi. Il caso di Trieste è eclatante: il Coordinamento lavoratori portuali ha promesso di bloccare tutte le attività perché – dicono – da loro il 40% dei 950 addetti è senza certificato verde e, quindi, sarà costretto a rimanere fuori. Ieri hanno incontrato il Prefetto che li ha invitati a desistere, facendo leva sul rischio di mandare in tilt l’intera città, ma senza convincerli. Le prime comunicazioni di personale non vaccinato stanno generando ansia anche nella metropolitana di Milano, anche se Atm (l’azienda dei trasporti locale) non ha fornito stime. Molti datori si troveranno così a cercare sostituti nelle ultime ore. Chi non ha le carte in regola sarà considerato assente ingiustificato e non retribuito, ma non potrà essere sanzionato o licenziato. “In quanto datore di lavoro – fa notare Amazon al Fatto – non abbiamo accesso alle informazioni sanitarie dei dipendenti”. “Il controllo del Green pass – aggiungono – verrà effettuato anche a tutti gli autisti dei nostri fornitori di servizi di consegna, inclusi quelli in arrivo dall’estero. Abbiamo provveduto a informare la nostra rete di trasportatori a livello europeo”.

Sul fronte del pubblico impiego, che comprende 3,2 milioni di dipendenti, vanno fatti dei distinguo. Escluso il personale ospedaliero e scolastico (dove c’è già l’obbligo vaccinale e del Green pass), su una platea di 1.300.000 lavoratori, sarebbero 200 mila quelli non vaccinati, di cui 8 mila poliziotti (sui 98 mila in totale, ma 11.500 hanno un certificato di guarigione) e circa 90 mila tra carabinieri, agenti penitenziari, guardia di finanza e militari dell’Esercito, dell’Aeronautica e della Marina. Poi altri 100 mila lavoratori senza certificazione rischiano di creare qualche difficoltà agli uffici dell’amministrazione pubblica dove non esiste più il lavoro agile dopo l’entrata in vigore del decreto Brunetta che impone il rientro in presenza.

Altro settore, altri numeri. Tra alberghi, ristoranti e hotel – spiega la Fipe – sarebbero 35 mila i lavoratori ancora non vaccinati, pari al 7-8% del totale. È uno dei settori con i numeri più elevati, e spesso si vede nelle piazze di protesta contro il green pass. Sabato scorso a Roma, all’assalto della Cgil c’era il leader del movimento “IoApro” Biagio Passaro, ristoratore di Modena.

Quando Fiore si alleò con B. e il centrodestra

Ora sembra quasi che Giorgia Meloni e i vari ex An sparsi nel centrodestra non li abbiano mai sentiti. E invece i legami di FdI con certi ambienti neofascisti sono ben presenti, come ha recentemente dimostrato pure l’inchiesta di Fanpage su Carlo Fidanza e Jonghi Lavarini. Se però davanti a Forza Nuova nel centrodestra oggi ci si vergogna e si cerca di starne alla larga, non accadeva lo stesso nel 2006, quando invece quei voti all’allora Casa delle Libertà di Fini, Casini e Berlusconi (oggi rimpianti come “moderati”) in vista delle elezioni non puzzavano. Anzi.

Accadeva, infatti, che nell’inverno 2006 Alternativa sociale di Alessandra Mussolini si alleò formalmente con il centrodestra. Ma di quella formazione, nata del 2004, dopo la fuoriuscita della nipote del Duce da An, facevano parte pure Forza Nuova di Roberto Fiore, il Fronte sociale nazionale di Adriano Tilgher , mentre il Movimento sociale fiamma tricolore di Luca Romagnoli si alleò da solo con la Cdl. L’accordo fu stipulato direttamente con Berlusconi con posti sicuri in lista per i tre leader. A mettersi di traverso furono però i centristi Casini e Follini da una parte, e lo stesso Fini, che dalla svolta di Fiuggi (1995) in poi lavorava per tenere il più lontano possibile quei mondi. A quel tempo Fiore, tra i fondatori di Terza Posizione, era già stato condannato per associazione sovversiva e banda armata, con alle spalle una decina d’anni di latitanza a Londra, mentre Tilgher, ex Avanguardia nazionale, aveva alle spalle un arresto e una condanna (nel 1975) per ricostituzione del partito fascista. Dopo aspre polemiche, a metà febbraio Fiore, Tilgher e Mussolini rinunciarono alla candidatura personale, restando però alleati, coi loro bei simboli in lista sotto quello della Mussolini. Alternativa sociale racimolò lo 0,7% alla Camera e lo 0,6% al Senato, ma per Berlusconi tutto faceva brodo, tanto da uscire sconfitto d’un soffio dall’Unione di Romano Prodi.

AS era nata un paio d’anni prima, ottenendo un 1,2% alle Europee del 2004 per poi presentarsi alle Regionali del 2005, con la Mussolini candidata nel Lazio contro Francesco Storace (vinse poi la sinistra con Piero Marrazzo), campagna elettorale che però venne funestata (lo si scoprì un anno dopo) dal Laziogate, ovvero una presunta attività illecita di spionaggio dello stesso Storace nei confronti della Mussolini, accuse da cui poi l’ex governatore venne totalmente prosciolto nel 2012. Ma i rapporti tesi in quel mondo se li ricordano bene anche i membri della Fondazione An, l’organismo che gestisce l’immenso patrimonio immobiliare dell’ex Msi, quando nell’ottobre 2015, durante una riunione all’Hotel Midas, arrivò a sorpresa una squadraccia fascista guidata proprio da Fiore, che iniziò a inveire contro i vari Alemanno, Gasparri, La Russa, e solo un solido cordone di polizia evitò il peggio. Tra l’altro Forza Nuova ha alloggiato per molti anni proprio in una sede della suddetta fondazione. “Finalmente se ne sono andati dopo 13 tentativi di sfratto”, fa sapere ora La Russa. Per la cronaca, dopo un passaggio nella Destra di Storace, oggi Tilgher guida ancora il Fronte nazionale, mentre Romagnoli fa parte della direzione nazionale di FdI.