“Volevano assalto al Palazzo”: però non è eversione

“Volevamo occupare il Parlamento”. Così ha detto al giudice uno degli arrestati, Iorio Pilosio, 54 anni, che sabato vicino a Palazzo Chigi tirava bottiglie contro la polizia, poi ha preso a pugni un vice ispettore. Rimarrà in carcere come Fabio Corradetti, il figlioccio 20enne del leader romano di Forza Nuova, Giuliano Castellino, accusato di aver forzato gli sbarramenti anche nell’assalto alla sede della Cgil e di aver fratturato la clavicola a un vicequestore. Sono accusati di resistenza, violenza e lesioni a pubblico ufficiale, come altri due che andranno agli arresti domiciliari. Un terzo, 70 anni, dovrà firmare ogni due giorni in commissariato. Un altro, che brandiva una pala, è stato scarcerato. La Procura aveva chiesto il carcere per tutti. Contestati anche l’adunata sediziosa e l’istigazione a delinquere, violazione di domicilio e devastazione e saccheggio, ma non reati di eversione o politici. Nemmeno ai leader di Forza nuova, Castellino appunto, il segretario nazionale Roberto Fiore e l’ex militante dei Nar Luigi Aronica detto Er pantera. Sono in carcere tra Roma e Napoli come i “movimentisti” Salvatore Lubrano, Pamela Testa e Biagio Passaro, quest’ultimo capo dei ristoratori dissidenti di “Io Apro”. Tra oggi e domani saranno anche loro davanti ai giudici.

La polizia ha denunciato altre tre persone. Il più noto è Luca Castellini, 44 anni, capo ultrà del Verona e dirigente forzanovista, noto per i battibecchi social con Mario Balotelli, le frasi minimizzanti su Hitler e gli insulti alla senatrice Liliana Segre. Poi Massimiliano Orsini di Palermo e Lorenzo Franceschini di Arezzo, entrambi di Fn. Per istigazione a delinquere e altri reati è stato invece sequestrato il sito internet di Forza Nuova: “Continuavano a pubblicizzare metodi di protesta, di lotta e scontro, fondanti sulla violenza e sulla prevaricazione”, scrive la Procura.

Nell’ordinanza emessa ieri per i primi cinque si legge che “alcuni manifestanti avevano intenzione di raggiungere i palazzi del potere”, “circa 1.500 persone”. Corradetti, in particolare, “faceva parte di un gruppo composto da 50 persone che aveva avuto un ruolo decisivo nel creare criticità (…) e per produrre violenti scontri”. Ed “era tra le prime file di coloro che all’altezza del Parlamento fronteggiavano le Forze di Polizia per raggiungere la Camera dei deputati”.

Secondo fonti di polizia, era noto che i manifestanti cercassero un’azione eclatante per la giornata di sabato. Lo si evince anche dai messaggi inviati su whatsapp da Castellino. C’è stata, con tutta evidenza, qualche sottovalutazione. Si attendevano tremila persone, come nei sabati precedenti, e ne sono arrivate tra le 15 e le 20 mila soprattutto dal centro-nord; nessuno si è accorto per tempo che buona parte dei manifestanti – compresi Castellino che era sorvegliato speciale, Fiore, Aronica e altri pregiudicati – da piazza del Popolo aveva risalito il Pincio per poi sfondare cordoni di polizia troppo esigui e raggiungere prima la Cgil e poi i dintorni di Palazzo Chigi e Montecitorio. Qualche testa potrebbe cadere in Questura, Lega e Fratelli d’Italia attaccano il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che dovrà riferire in Parlamento e al Copasir, il comitato di controllo sui Servizi che ha convocato anche il numero uno dell’Aisi, Mario Parente. Intanto al Viminale si elaborano linee più rigide per l’ordine pubblico in un clima di crescente tensione sociale e non solo sul green pass, anche in vista del G20 di fine mese.

La Questura fa sapere che denuncerà l’agente in borghese ripreso in un video, che circola da sabato sul web, mentre si accanisce con calci e pugni su un manifestante già fermato e a terra. Si è presentato spontaneamente ai suoi colleghi, un tempo non sarebbe avvenuto. Faceva servizio informativo, mescolato ai dimostranti. È stata poi sospesa senza stipendio la vicequestore Alessandra Schillirò che arringava la folla no pass il 25 settembre in piazza San Giovanni. Peraltro, secondo il segretario del sindacato Coisp Domenico Pianese, circa 18 mila agenti su 100 mila non sono vaccinati: dal 15 ottobre il Green pass sarà un problema anche per loro.

Forza Nuova sfascia i Migliori: FI e Lega per salvare i fascisti

Mario Draghi sta studiando il dossier sullo scioglimento di Forza Nuova, sia dal punto di vista tecnico sia politico. Perché due giorni dopo il corteo no vax di sabato, i partiti della maggioranza ancora una volta utilizzano il caso per schierarsi su fronti opposti. Il Pd presenta una mozione per lo scioglimento della formazione neo fascista, M5S si accoda. Ma il centrodestra tutto rilancia, invitando a presentare una mozione “unitaria” per chiedere interventi “contro tutte le forze eversive”. La falsariga del ragionamento è quella che vuole fascismo e post-comunismo sullo stesso piano.

Ancora una volta, l’intenzione del premier è quella di procedere per la propria strada, senza farsi tirare dalla propria parte da nessuna delle forze che lo compongono. Non è facilissimo, tanto più in un clima che si va surriscaldando. Palazzo Chigi ha chiesto conto al Viminale dei fatti di sabato, mentre valuta la stretta sui cortei. Draghi, intanto, ieri è andato alla Cgil a portare la sua solidarietà al segretario Maurizio Landini. Un atto dovuto e necessario dopo l’assalto alla sede del sindacato.

Più complicato, invece, è prendere una posizione sullo scioglimento di Forza Nuova. È la Costituzione, a vietare la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. A darne attuazione è la legge Scelba, che con l’articolo 3 disciplina lo scioglimento di questi gruppi. Due le ipotesi previste. Ci vuole una sentenza della magistratura che abbia accertato la riorganizzazione del partito fascista: in questo caso è il ministro dell’interno, sentito il Cdm, a ordinare lo scioglimento e la confisca dei beni. Oppure il governo può farlo con un decreto, in casi di necessità e di urgenza.

Finora la fine di movimenti fascisti è stata decretata a seguito di sentenze della magistratura. È accaduto così per Ordine Nuovo e per Avanguardia nazionale nel 1973.

È stato il Pd il primo a intestarsi il tema. “La nostra mozione chiede che il governo sciolga l’organizzazione neofascista Forza Nuova e tutte le altre formazioni che si richiamano al fascismo”, si legge nel testo delle presidenti dei gruppi Pd di Camera e Senato Debora Serracchiani e Simona Malpezzi. Un’altra mozione simile viene presentata dai senatori Riccardo Nencini (Psi) e Davide Faraone, capogruppo di Italia viva in Senato. Mentre sempre a Palazzo Madama Loredana De Petris per Leu eco solidali ne presenta una che firma anche la senatrice a vita Liliana Segre. A metà pomeriggio interviene anche Giuseppe Conte per dire che “il Movimento aderisce e rilancia le iniziative volte allo scioglimento di Forza Nuova” e che “saremo in prima fila per tutte le iniziative parlamentari”. Ma sono Anna Maria Bernini e Roberto Occhiuto capogruppo di FI in Senato e alla Camera, che fanno capire che le cose sono tutt’altro che lisce: “Non esistono totalitarismi buoni e totalitarismi cattivi, e per questo motivo non è possibile per i nostri gruppi firmare o sostenere la mozione presentata dal Pd”. A quel punto, parte il collegamento tra le tre forze del centrodestra, che in genere procedono in ordine sparso. Si parlano Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, per rilanciare l’idea della mozione unica. La Bernini racconta di una disponibilità dei dem a procedere e a votarla dopo i ballottaggi. Ma in realtà chiariscono dal Nazareno che la disponibilità eventuale sarà successiva al voto della loro di mozione.

Mentre dopo le parole del vice segretario dem Peppe Provenzano parte un caso ulteriore: “Meloni aveva un’occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in FdI. Ma non l’ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l’ambiguità che la pone fuori dall’arco democratico e repubblicano”. Pioggia di critiche. Poi corregge il tiro. Ma la Meloni chiede l’intervento di Sergio Mattarella e di Draghi contro quella che valuta l’intenzione di sciogliere il suo partito. Anche il Parlamento mette in atto la sua guerriglia.

5 giorni all’alba

Avvertenza per i tenutari della rubrica fissa “Raggi flop/ disastro/ catastrofe/ apocalisse” sulla Testata Unica Nazionale: affrettarsi a sparare gli ultimi colpi sulla sindaca, perché restano cinque giorni. Lunedì la finestra temporale si chiuderà e il sole, dopo il quinquennio nero, tornerà a splendere sui colli fatali di Roma. Ergo, scovare immantinente gli ultimi cinghiali, topi, gabbiani, storni, pitoni, capre, istrici e unicorni non ancora immortalati col dovuto sdegno: dal 19 ottobre queste e altre specie animali, onta e disdoro dell’oca del Campidoglio, diventeranno graziose attrazioni per residenti e turisti, simboli viventi dell’empito ambientalista della nuova Amministrazione (infatti stanno tornando pure le lucciole). Titoli come quelli di Repubblica di ieri, “Il lungo silenzio di Virginia prima di twittare contro il raid” fascista e “Cantieri aperti, girone infernale: circolazione in tilt” andranno riconvertiti come segue: “Cantieri aperti, il Paradiso delle grandi opere ripartite dopo la Sindaca dei No: i romani in coda urlano di giubilo dai finestrini” e “Il nuovo sindaco, chino h24 sui dossier, non ha tempo di sgomitare nella passerella dei soliti tweet contro il raid”.

Alla prima pioggia, in luogo delle solite battute su tombini intasati, canotti, mute da sub, arche di Noè e Mose, adottare la titolazione modello Sala sugli allagamenti alla milanese (“Colpa del surriscaldamento globale”) e sentire Greta sull’indefesso impegno del sindaco contro i mutamenti climatici. Sulle buche, la spiegazione sarà quella preclusa alla sindaca precedente: “Colpa della sindaca precedente”. Sui rifiuti: è il romano che è zozzo. E basta titoli su Spelacchio: se una pianta si secca, è sfiga. Al primo avviso di garanzia, evitare il trattamento Raggi (“Nuova Tangentopoli”, “Peggio di Mani Pulite”, “La doppia morale grillina”, “Patata bollente”, “Dimissioni”) e importare a Roma la formula in voga per tutti i sindaci non 5Stelle: “Invasione di campo dei pm”, “Paura della firma”, “Nessuno farà più il sindaco”. In caso di bus incendiati, prevedibilmente più rari per la fine dei sabotaggi, risparmiarsi ironie su Nerone e i “flambus”, evidenziando lo show pirotecnico offerto gratuitamente a cittadini e visitatori quando meno se l’aspettano, tipo rave. Stadio della Roma: finora era tutto facile, perché la Raggi sbagliava sia se lo faceva sia se non lo faceva; ora invece andrà scelta e mantenuta una posizione sola, sennò poi i lettori capiscono. Case dei Casamonica: fotografare il nuovo sindaco accanto alle macerie di quelle abbattute dalla Raggi, tanto nessuno lo sa e tutti crederanno che siano fresche di giornata. Da lunedì sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno. E Roma tornerà più bella e superba che pria. Benebravobis!

“Dire Straits, Eric Clapton e quei fantasmi sul palco”

Il pianoforte nel rock’n’roll è sempre stato visto come un intruso, eppure molte gemme sono state scritte proprio sulla tastiera. I Simple Minds – solo per fare un esempio –, sono crollati dopo la dipartita di Mick MacNeil, l’epicentro creativo. Alan Clark, tastierista e in seguito compositore e arrangiatore di molte canzoni dei Dire Straits, ha notevolmente arricchito il suono della band capitanata da Mark Knopfler, al punto di divenire l’ispiratore della collaborazione con Tina Turner – della quale è diventato direttore musicale – per Private Dancer. Clark oltre alla band di Tunnel Of Love ha collaborato con il gotha del rock, da Eric Clapton a Lou Reed, da Elton John a George Harrison e Bob Dylan. Il suo album Backstory è l’occasione per riproporre in versione unplugged su un piano Bosendorfer Romeo And Juliet e altre celebri canzoni suonate nell’arco della carriera.

Com’è nato l’amore per il suo strumento, quasi mai protagonista nel rock?

A 6 anni ho seguito lezioni di piano, ma a causa dell’insegnante detestavo lo strumento. Infatti l’ho imparato da solo e mi sono innamorato dell’organo Hammond e per 15 anni l’ho suonato con i Dire Straits.

Come è nata la sua collaborazione con la band?

Mark Knopfler ed io siamo musicalmente e umanamente in sintonia. Sono stato incluso dopo il provino e da allora sono sempre stato con loro fino alla premiazione della Rock’n’roll Hall Of Fame. Ho anche co-prodotto On Every Street, l’ultimo album. Durante il tour Brothers In Arms eravamo ormai la band più famosa al mondo, in Australia avevamo così tante date da essere quasi residenti: di giorno windsurf e di sera sul palco!

Qual è la sua canzone preferita e quella a cui ha maggiormente collaborato?

Telegraph Road è il brano con il quale ho maggiormente collaborato: l’abbiamo composta io e Mark per giorni e giorni durante i soundcheck. La mia preferita è Private Investigations perché la struttura è impregnata sul mio strumento.

È ancora in contatto con Mark Knopfler?

Non ci vediamo più spesso ma ci sentiamo ogni tanto: mi ha mandato un messaggio quando ha sentito il mio album e mi ha augurato buona fortuna. Ci tengo a dire che con lui ho spesso collaborato ai suoi dischi solisti.

Perché i Dire Straits hanno abbandonato la scena musicale?

Mark era insofferente: era tutto diventato troppo grande, una gigantesca macchina da soldi e l’anima della band si era persa. Secondo me dovevamo scioglierci dopo il Brothers In Arms Tour, il più intenso. Mark ha iniziato la carriera solista e io suonavo con la band di Eric Clapton e facevo il direttore musicale per Tina Turner.

Ecco il gancio per Private Dancer, c’è il suo zampino.

Ho ascoltato in radio da bambino River Deep Mountain High: da quel momento ho deciso che sarei stato un musicista. Private Dancer, scritta da Mark, andò al primo posto in mezzo mondo. Durante il tour con lei a Memphis abbiamo soggiornato in un hotel molto antico, il Peabody Hotel. Tina è cresciuta proprio in quella città e quando era piccola non le era permesso di entrare per il colore della sua pelle: anni dopo la trattavano in guanti bianchi!

Lei ha collaborato con Bob Dylan. È vero che ha un brutto carattere?

Al contrario, è una persona molto spontanea e creativa, giocavamo sempre a biliardo. La sua caratteristica principale è che durante la composizione di un brano ama cambiar stile musicale in continuazione. Nel mio album suono due sue canzoni.

Eric Clapton è stato il suo primo incontro col mondo del rock.

Una band fantastica, la miglior esperienza su un palco. E con lui ho avuto modo di conoscere molte star. Da George Harrison, con il quale erano grandi amici a Elton John: in Giappone mentre suonavamo, giocavamo come dei pazzi a I Spy e non riuscivamo a indovinare la parola che aveva scelto Eric. E poi Billy Joel, artefice di una memorabile jam session improvvisata per la gioia dei fans e Lou Reed, spesso ospite nelle nostre serate, persona magnetica.

E in Italia ha collaborato con Renato Zero. Che impressione le ha fatto?

Lo amo, è eccentrico. Sono stato co-autore e co-produttore di Zero settanta e Zero Il folle: è stato molto bello lavorare con lui, c’era un bel feeling con Phil Palmer e Trevor Horn, la “regia” musicale. Ho anche conosciuto Pacifico con il quale ho suonato in tre brani.

Qual è la cosa più bizzarra che gli è capitata nella sua carriera?

Ero con i Dire Straits in uno studio televisivo di Londra, dicevano che era infestato dai fantasmi ma non ci credevo ovviamente. Durante la nostra esibizione ho sentito una mano sulla spalla ma girandomi non ho visto nessuno. Poco dopo ho scoperto che la stessa cosa è successa al batterista e addirittura la mia tastiera ha continuato a suonare anche dopo aver tolto la presa di corrente! È strano e spaventoso ma è realmente accaduto, suona molto rock’n’roll.

Australia, i suicidi infiniti degli aborigeni esiliati dalle loro terre

Solo nella prima metà del 2019 ci sono stati almeno 35 suicidi di aborigeni australiani, tre dei quali avevano appena 12 anni. Nel 2016 a togliersi la vita è stata una bambina di 10 anni, dopo aver subito vessazioni e abusi. Solo questo basterebbe a spiegare la gravità di quella che gli esperti chiamano “la strage silenziosa degli indigeni australiani”. Ad oggi, secondo gli ultimi studi del governo australiano, nel 95% delle famiglie aborigene c’è stato almeno un caso di suicidio. Il fattore che più spaventa, però, è il tasso di suicidi giovanili tra gli aborigeni: il più alto di tutti i Paesi del mondo, ad eccezione della Groenlandia.

Le vittime per il 68% hanno meno di 30 anni e per il 27% meno di 20, e in particolare per gli aborigeni delle Isole dello stretto di Torres l’aspettativa di vita alla nascita è di 10-15 anni inferiore a quella degli altri australiani. Per intenderci: il tasso di suicidi fra i giovani aborigeni tra i 15 e i 24 anni è quattro volte maggiore rispetto a quello dei coetanei non indigeni; sotto i 14 anni è addirittura nove volte maggiore. “Quanti suicidi saranno necessari per far aprire le nostre orecchie al grido silenzioso che viene dai cuori e dalle anime di coloro che se ne sono andati, e di coloro che soffrono e continuano a gridare aiuto?”, spiega Cheri Yavu-Kama Harathunian, anziano della tribù aborigena Kabi Kabi.

Perché succede questo? Traumi da abusi provocati dai genitori adottivi o dalle stesse comunità, razzismo, sfratti e povertà, ma anche alcol, droghe, gioco d’azzardo e prostituzione sono i principali fattori che spingono questa popolazione all’estremo gesto, diventato oramai una pratica normalizzata. Normalizzazione, proprio così. Secondo l’Australian Institute of Aboriginal, sono talmente tanti i casi fra i giovani che il suicidio viene visto spesso come l’unico, estremo rimedio per attirare più attenzioni. “Le indagini e le ricerche psicologiche hanno dimostrato che durante le cerimonie funebri tradizionali – che durano giorni – i giovani notano la maggiore considerazione che il defunto ottiene, e ciò li spinge a togliersi la vita solo per avere lo stesso trattamento”, spiega il rapporto. “Il suicidio giovanile non è un problema solo per gli indigeni australiani, ma anche per quelli del Canada, degli Stati Uniti e della Nuova Zelanda. E l’unica cosa che abbiamo in comune è la storia della colonizzazione”, afferma la professoressa Pat Dudgeon, donna Bardi e prima psicologa aborigena australiana.

La strage silenziosa parte proprio da questo: le civiltà aborigene in Australia, come notifica il rapporto condotto dal coroner del Western Australia Ros Fogliani, sono al centro di distorsioni intergenerazionali da ben 150 anni: la Stolen generation, o generazione rubata, è il nome con cui vengono indicati i bambini australiani aborigeni e isolani dello stretto di Torres allontanati dalle loro famiglie da parte dei governi federali australiani e dalle missioni religiose. Ufficialmente per salvarli dall’estinzione, in pratica per crescerli secondo le pratiche e gli stili di vita della civiltà occidentale. Dal 2008 a oggi il numero di bambini aborigeni “in cura” – e quindi sottratti alle famiglie di origine – è aumentato del 65%.

A questi bambini è stato vietato di parlare la loro lingua tradizionale, gli sono stati cambiati i nomi, sono stati tagliati del tutto i legami con i genitori. La nuova vita è stata accompagnata da violenze e abusi, tanto negli istituti di accoglienza quanto nelle famiglie affidatarie. Il governo australiano ha recentemente varato un pacchetto milionario per risarcire proprio la generazione rubata, si tratta di un risarcimento di oltre 60mila dollari a testa, nell’ambito di un piano per ridurre le disparità sociali che tuttora subiscono le comunità indigene australiane. Peccato che c’è differenza fra idea e azione. A scatenare il fenomeno dei suicidi, infatti, è stato anche il processo di gentrificazione che ha “spinto molti aborigeni lontano dalle terre natìe, il che per molti anziani delle comunità ha provocato anche un allontanamento dalla cultura tradizionale”, commenta Julie Tommy Walker, leader aborigena e donna Innawonga.

Il governo di Scott Morrison ad oggi non ha in programma nessuna politica sociale in merito, al contrario si sono intensificati i blitz e i controlli nei villaggi degli aborigeni. Al tal punto che gli indigeni detenuti rappresentato il 29% della popolazione carceraria – anche se costituiscono solo il 3% della popolazione australiana –, e il 65% per quanto riguarda i giovani detenuti. Cosa ha provocato questi arresti? Secondo gli ultimi dati, dal 2008 ad oggi ci sono stati almeno 434 decessi (tenuti pressoché nascosti dal governo) di indigeni in custodia. Aggravando, se possibile, un’emergenza per troppo tempo ignorata.

Sportwashing: così gli sceicchi del Golfo lavano la loro immagine

Dopo il calcio i ricchi emirati arabi del Golfo stanno mettendo le mani sulla Formula Uno? Di sicuro il numero di Grand Prix in terra araba si è moltiplicato e non è certo soltanto per i milioni di dollari che girano intorno alle piste, ma una chiara strategia che va sotto il nome di “sportwashing”: lavare con lo sport le malefatte dei regimi autocratici.

Il Qatar ospiterà il Gran Premio di Formula 1 dal 19 al 21 novembre ed è la prima volta che il Paese del Golfo ospita la prestigiosa gara automobilistica. Il Qatar è stato scelto dopo che l’Australia è stata costretta ad annullare a causa delle preoccupazioni per il coronavirus. La gara si svolgerà al “Losail International Circuit”, 30 km a nord della capitale Doha. L’Emirato ha anche firmato un accordo di 10 anni con la F1 per ospitare gare annuali a partire dal 2023. L’aggiunta del Qatar come sede significa che le ultime tre gare di F1 della stagione si svolgeranno in Medio Oriente. La città saudita di Jeddah ospiterà un gran premio il 3-5 dicembre, seguita da Abu Dhabi il 10-12 dicembre.

Il Qatar si sta preparando per ospitare la Coppa del Mondo Fifa, la più grande competizione sportiva del mondo, nell’inverno 2022. Doha ospita anche iGiochi asiatici del 2030, che sono il secondo evento sportivo più grande del mondo dopo le Olimpiadi.

Ma il trattamento riservato dal paese mediorientale ai lavoratori migranti che stanno costruendo gli stadi non poteva passare inosservato suscitando critiche da parte delle organizzazioni in difesa dei diritti umani. Amnesty International ha invitato i piloti di F1 a denunciare le violazioni dei diritti in Qatar, comprese le cattive condizioni di lavoro, “limiti alla libertà di parola e la sua criminalizzazione delle relazioni omosessuali”.

“Non è un segreto che i paesi ricchi del Medio Oriente vedano lo sport di alto livello come un mezzo per lavare la loro immagine, e un gran premio in Qatar ne è l’esatto esempio”, il commento di Amnesty International.

 

Nicaragua, Ortega prepara il voto: prigione esilio e bavaglio

Arresti sommari, esili forzati, Ong ostacolate nel loro lavoro, media imbavagliati: ora che in Nicaragua le elezioni presidenziali sono alle porte (il 7 novembre), il presidente uscente Daniel Ortega è pronto a tutto pur di conservare il potere. La repressione delle opposizioni si fa sempre più dura: “Stiamo arrivando al punto di svolta verso il regime dittatoriale”, osserva Jimena Reyes, direttrice per le “Americhe” della Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh). In questo piccolo paese dell’America Latina, tra Honduras e Costa Rica, Daniel Ortega, 75 anni, si candida per il quarto mandato consecutivo. Al suo fianco, la moglie Rosario Murillo, 70 anni, vicepresidente dal 2016.

La candidatura dell’ex guerrillero sandinista, che ha combattuto la dittatura di Somoza, è stata approvata all’unanimità dal partito al potere, il Fronte sandinista di Liberazione nazionale (Fsln). “È l’ottava volta che Ortega si presenta alle presidenziali per l’Fsln –, sottolinea Bernard Duterme, sociologo specialista dell’America Latina e direttore del Cetri, il Centro tricontinentale per lo studio, la pubblicazione e la formazione sui rapporti Nord-Sud, che ha sede in Belgio –. Ortega è aggrappato al potere e, come nelle ultime elezioni, anche questa volta è pronto a usare ogni mezzo possibile, legale o illegale, per restarvi”. Per mantenere le redini del paese, la coppia Ortega-Murillo è pronta a tutto. Dallo scorso maggio gli arresti si sono moltiplicati, portando a trentadue il numero di oppositori attualmente dietro le sbarre, tra cui sette potenziali candidati alla presidenza. Cristiana Chamorro è stata il loro primo bersaglio. Appena alcune ore dopo l’annuncio della sua candidatura, nella notte di martedì primo giugno, Ortega ha bloccato la candidatura dell’influente giornalista, alla quale i sondaggi attribuivano circa il 20% dei voti alle urne, sollecitando la sua inabilitazione dagli incarichi pubblici.

La figlia dell’ex presidente Violeta Barrios de Chamorro, che aveva battuto Daniel Ortega nel 1990, e di Pedro Joaquín Chamorro Cardenal, eroe della lotta contro la dittatura di Somoza, è accusata di diversi delitti, tra cui riciclaggio di denaro, ed è stata posta agli arresti domiciliari. La decisione è stata resa nota attraverso una semplice dichiarazione del pubblico ministero, che ha chiesto che Cristiana Chamorro “non goda più dei pieni diritti civili e politici perché coinvolta in diverse procedure penali”. Anche uno dei suoi fratelli, Pedro Joaquín Chamorro Barrios, è stato arrestato a giugno, mentre l’altro fratello, Carlos Fernando Chamorro Barrios, direttore del sito di informazione El Confidencial e del programma televisivo Esta Semana, è stato costretto all’esilio. Per giustificare gli arresti, il governo di Daniel Ortega ha avanzato delle presunte violazioni di un testo adottato nel dicembre 2020, la “legge per la difesa dei diritti del popolo all’indipendenza, alla sovranità e all’autodeterminazione per la pace”, che vieta a chiunque venga considerato dal regime “traditore della patria” di candidarsi alle elezioni. Sono considerati traditori tutti coloro che “chiedono, sostengono e si dicono favorevoli all’imposizione di sanzioni contro lo Stato del Nicaragua”. Il testo include anche chiunque “guidi o finanzi un colpo di stato, (…) inciti all’ingerenza straniera negli affari interni e chieda interventi militari” o che “proponga e organizzi blocchi economici”. “È una legge molto ampia, molto vaga, la cui libera interpretazione permette al regime di accusare di tradimento praticamente chiunque e quindi di estromettere gli oppositori”, osserva Jimena Reyes della Fidh, che denuncia anche le condizioni di detenzione “molto dure e disumane”. “I detenuti sono sottoposti a torture fisiche e psicologiche. Viene per esempio lasciata accesa la luce di giorno e di notte, in modo tale che i detenuti perdano la cognizione del tempo”. Il governo ha messo su una vera strategia contro gli oppositori: prima li fa arrestare e poi chiede il prolungamento della loro detenzione per prendersi il tempo di “indagare”.

Una riforma del codice di procedura penale lo scorso gennaio ha permesso di allungare da 48 ore a 90 giorni il periodo durante il quale i cittadini possono essere mantenuti in detenzione pur senza essere incolpati. Un rapporto intitolato “Nicaragua, una crisi dei diritti umani irrisolta”, pubblicato nel luglio 2021 dall’Istituto Race and Equality, ha analizzato gli arresti dal 2018 a oggi, sottolineando la loro arbitrarietà e la mancanza di indipendenza della giustizia nel Paese. “Durante i processi dei prigionieri politici sono stati violati tutti i criteri di equità delle procedure e sono state calpestate le garanzie giudiziarie e i diritti umani fondamentali.

Le violazioni sono diverse: processi non pubblici, avvocati della difesa perseguitati, uso di falsi testimoni e false vittime da parte dei pubblici ministeri, ricorso eccessivo e diffuso alla custodia cautelare”, si legge nel rapporto. Il regime di Daniel Ortega non si limita agli arresti sommari. “Il governo fa in modo di ridurre al silenzio ogni forma di opposizione. Ha per esempio dichiarato illegale l’unico partito politico credibile che si sarebbe potuto presentare contro di lui”, spiega Bernard Duterme del Cetri. All’inizio di agosto, il Consiglio supremo elettorale (Cse) ha escluso dalle elezioni l’Alleanza cittadini per la Libertà (Cxl), la principale forza di opposizione di destra, sostenendo che il partito non ha seguito le “regole tecniche legali” previste per le organizzazioni politiche. Il Cse ha accolto una denuncia che il Partito liberale costituzionale (Pll) ha sporto contro il Cxl: il Pl chiedeva di annullare la partecipazione del Cxl perché la sua presidente, Carmella Rogers Amburn, ha la doppia nazionalità, americana e nicaraguense. Una “ben nota violazione della legge” che ha permesso l’esclusione del partito. “Praticamente il regime ha usato un presunto partito di opposizione per eliminare un altro partito di opposizione”, spiega il direttore di Cetri. Con l’allontanamento del Cxl e sette potenziali candidati alle presidenziali in prigione, Daniel Ortega non avrà nessun vero avversario con cui confrontarsi allo scrutino, la cui credibilità è dunque messa in discussione.

“I nicaraguensi sanno che queste elezioni sono una farsa, ma non possono protestare, il costo di una rivolta sarebbe enorme”, osserva Gilles Bataillon, ricercatore all’EHESS, la Scuola di alti studi in scienze sociali con sede a Parigi. Durante le rivolte del 2018, più di trecento persone sono state assassinate: “E oggi – aggiunge Bataillon – il regime continua a terrorizzare la popolazione, anche nelle zone rurali. Ortega ha paura di una rivolta perché delle armi, mai consegnate, continuano a circolare. Per far paura alla gente, in queste zone, si filmano dei massacri e i video vengono postati sui social network”. “Le milizie armate schierate nel 2018 – aggiunge Jimena Reyes della Fidh – continuano a sorvegliare la popolazione. Per umiliare e intimidire gli oppositori, marcano con la vernice le loro case”. Malgrado le reazioni della comunità internazionale, molto rare, contro la politica portata avanti da Daniel Ortega, il presidente-candidato rifiuta di fare marcia indietro. “Il suo piano è di rifondare un regime totalitario, basato non sul potere di un solo uomo, ma di una famiglia, con sua moglie come vicepresidente, e probabilmente facendo di uno dei suoi figli il suo successore”, analizza ancora Gilles Bataillon. Dopo le critiche di diversi paesi e dell’Onu, l’ex guerrillero ha richiamato in Nicaragua i suoi ambasciatori in Messico, Colombia, Costa Rica e Argentina. Ha quindi definito “terroristi” tutti gli oppositori che si trovano in carcere per presunto tradimento contro il Paese, e ha chiamato “satanisti” o “demoni in tonaca” tutti i vescovi e i preti nicaraguensi che hanno espresso delle critiche nei confronti del governo. Secondo il presidente “giustizia è stata fatta contro i terroristi”.

 

Fondi pensione. Per i lavoratori pubblici torna il silenzio-assenso, ma qualche sindacato non ci sta

L’industria del risparmio gestito vuole mettere le mani non solo sul risparmio degli italiani esistente, ma addirittura su quello futuro. In particolare sugli accantonamenti del trattamento di fine rapporto (Tfr) che matureranno per i lavoratori dipendenti. Benché in formato minore, la storia si ripete dopo che non è più ministro del Lavoro Nunzia Catalfo.

A inizio 2007, l’obiettivo era il Tfr di tutto il settore privato, ora dei dipendenti pubblici. A rigore neanche di tutti, perché restano salvi gli assunti prima del 2019. Inoltre non viene toccata la scuola, ma la sanità sì, i ministeri pure, le Regioni anche, ecc.

Per gli interessati dal 1° gennaio 2022 scatta il silenzio-assenso: il futuro Tfr di chi non si ribella in tempo, verrà dirottato nel fondo pensione Perseo-Sirio. E sarà una specie di ergastolo lungo quanto la vita lavorativa: esso finirà sempre nella previdenza complementare.

Ai lavoratori coinvolti conviene opporsi se hanno a cuore la sicurezza e il valore reale del proprio risparmio previdenziale. Con l’inflazione che ha rialzato la testa, meglio tenersi ben stretto il Tfr, impostato fin dalla sua nascita (1982) a difesa del potere d’acquisto. Alla roulette dei mercati finanziari uno può giocarsi il surplus, non certo il sostentamento per la sua vecchiaia, ovvero la pensione di base o integrativa.

Ma la cosa più odiosa è il meccanismo del silenzio-assenso. Una vera prevaricazione. Uno è stato assunto a certe condizioni, fra cui la liquidazione prevista alla fine del rapporto di lavoro. Ma così gli cambiano le carte in tavola e per impedirlo alla fine è anche costretto ad attivarsi.

La previdenza integrativa conviene non solo all’establishment finanziario, ma anche ai sindacati concertativi e alle associazioni padronali. Così gli uni e le altre ricorrono a ogni forzatura per dirottarlo nei propri fondi. Ancor di più a fronte di insuccessi, come un modesto 30% di iscritti fra i lavoratori cui Sirio-Perseo è rivolto, che comunque sono già troppi.

Però c’è una notizia confortante. Qualcuno non ha accettato di fare fessi i propri colleghi, non solo nell’area sindacale di base, ma addirittura fra i sindacati costituenti del fondo Sirio o Perseo. È il caso lodevole di Confintesa, Confsal Unsa e Federazione Sindacati Indipendenti (Fsi). Benché favorevoli come principio alla previdenza integrativa, non hanno firmato con l’Aran, la controparte pubblica datrice di lavoro, lo specifico accordo del 16 settembre 2021 per la trappola di Sirio-Perseo.

Tutto il contrario del direttore del fondo Maurizio Sarti, che si fa bello dicendo: “Vogliamo piena consapevolezza, […] non che si acceda al fondo soltanto in virtù del silenzio-assenso”. Una presa in giro. Se fosse convinto di ciò che dice, non lo avrebbe attivato.

 

Pandora files, contro l’offshore serve l’anagrafe fiscale globale

La luce è il migliore disinfettante e i riflettori accesi sui “Pandora files” fotografano un sistema di conti e strutture offshore che coinvolge leader globali, imprenditori, banchieri e celebrità. Un mondo parallelo, dove i più ricchi tra noi scelgono di mettere i loro risparmi vicino a quelli dei criminali e trafficanti e distanti dai cittadini comuni, una secessione fiscale che mina l’interesse generale e la democrazia, in Italia come altrove. Per alcuni è un modo per eludere il fisco nazionale, ma c’è anche un élite globale – come nel nel caso del Re Abdullah II di Giordania e del governatore di Dubai Mohammed bin Rashid al-Maktoum – che, pur essendo esenti da tassazione nei loro paesi di residenza, decide comunque di utilizzare strutture offshore. Perché?

I paradisi fiscali permettono non solo di eludere il fisco, ma di eludere le leggi in generale. Come noi scegliamo quale serie televisiva guardare su Netflix, così i super ricchi scelgono a quali regole sottoporsi. Protezioni per loro e la loro ricchezza, segretezza completa e barriere legali per creare un muro invalicabile tra la loro ricchezza e chiunque cerchi di entrarne in possesso: Stato, creditori ma anche ex mogli o ex mariti. Una volta trasferiti fondi in un trust nelle Cook Islands, questi diventano intoccabili, anche se i fondi sono legati al terrorismo o ad altre attività criminali. Per questa élite globale, quello che il potere e i soldi possono comprare non sono oggetti o l’influenza sugli altri, ma la libertà assoluta dagli obblighi della società, protetti da un muro di segretezza. Questo muro però si sta, con grande difficoltà, pian piano sgretolando, grazie alle recenti normative sulla trasparenza, a partire da quelli sulle generalità dei titolari effettivi, cioè chi veramente controlla società e trust contenuti in registri pubblici nell’Unione europea.

Purtroppo, l’Italia è una delle tre nazioni dell’Ue, insieme a Lituania e Ungheria a non aver ancora istituito questo registro che permetterebbe l’interconnessione tra i vari registri degli stati membri in un’unica banca dati Europea. Viste le vittorie sportive di quest’anno, sarebbe il caso di non arrivare ultimi in questa speciale classifica. A loro volta paradisi fiscali come Bermuda e Cayman Island si sono impegnati a introdurre questa misura nel 2023, ma per una adozione globale ci vorrà molto tempo.

Gli Stati Uniti, entrati prepotentemente nei “Pandora papers” grazie anche a uno dei loro paradisi fiscali, il South Dakota, hanno recentemente introdotto una normative per vietare l’utilizzo di “shell companies”, aziende che fungono da veicolo per le transazioni commerciali senza avere attività o operazioni significative. Un’iniziativa che la Commissione Europea intende replicare nel 2022.

Per mappare le ricchezze degli italiani all’estero quindi serve più trasparenza, istituendo un anagrafe patrimoniale, che includa dati su tutti i beni posseduti in Italia e all’estero: gli immobili (terreni e fabbricati), le partecipazioni finanziarie, i titoli di ogni genere, il denaro liquido, il valore delle assicurazioni possedute, i mobili, le opere d’arte, i gioielli, i natanti, gli aerei, il valore delle imprese non quotate o valutate ai prezzi di mercato, i beni detenuti all’estero, o in gestione fiduciaria, o nei paradisi fiscali. Questo richiederebbe a chi ha beni nei paradisi fiscali di dichiararli al fisco. Impossibile? No, è quello che succede ogni anno in Svizzera, dove i cittadini fanno la dichiarazione dei redditi e della ricchezza, informazioni che vengono poi utilizzate per calcolare l’imposta patrimoniale. Anagrafi patrimoniali che potrebbero essere poi interconnesse a livello Europeo o globale, come immaginato dall’economista Thomas Piketty per creare un registro globale dei beni. Gli oppositori di questa riforma non mancherebbero, nascondendosi come sempre dietro il timore, peraltro sollevato ad arte, che a più trasparenza sia conseguente un aumento di imposizione per tutti. Dietro le barricate, come per l’attuale riforma del catasto, dove c’è chi vuol tener nascoste milioni di abitazioni che oggi mancano all’appello e chi vuol mantenere l’inequità dei valori catastali (fino a 4-5 volte inferiori a quelli reali nei centri storici) ci sarebbero coloro che cercano la libertà assoluta dagli obblighi della società. Nel nostro caso una società dove tutti sono sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Se gran parte delle attività offshore sono legali, come spesso i critici dei vari “leaks” affermano, allora non c’è nulla da nascondere.

Etruria, com’è finita: il conflitto d’interessi della Banca d’Italia

Un solo condannato su 24 imputati di bancarotta: la sentenza di primo grado, emessa a inizio mese ad Arezzo, pare stabilire che il crac di Banca Etruria si è consumato da sé. Le decisioni dei giudici sui collassi bancari paiono le palline impazzite di un flipper. Eppure il 22 novembre 2015 i risparmi di 60 mila azionisti e 374,5 milioni in mano ad altre decine di migliaia di sottoscrittori dei “sicuri” bond subordinati andarono in fumo quando Banca d’Italia, guidata da Ignazio Visco, “risolse” l’istituto di credito aretino insieme a Banca Marche, CariFerrara e CariChieti, in base a una grottesca applicazione del bail-in, le regole Ue sui “salvataggi” bancari a spese degli investitori.

La crisi dell’Etruria, quotata dal 1998, era già nota a Banca d’Italia dal 2002. Il 23 maggio 2009 il cda dell’istituto silura il presidente Elio Faralli, il banchiere più amato da Licio Gelli, e lo rimpiazza con il suo vice Giuseppe Fornasari. Palazzo Koch, regnante Mario Draghi, invia ad Arezzo un’ispezione che si chiude a inizio 2010 con un giudizio “parzialmente sfavorevole”. Il piano industriale 2012-14, varato il 28 febbraio 2012, non è risolutivo. A marzo 2012 una lettera a Etruria del nuovo Governatore Ignazio Visco chiede di rafforzare il patrimonio. Il 24 luglio 2012 Visco segnala di nuovo la situazione “fortemente problematica” e chiede a Etruria un aumento di capitale da almeno 100 milioni entro l’anno, ma la banca lo conclude solo il 21 agosto 2013. Il 19 aprile 2013 un esposto anonimo denuncia falsi contabili a Consob, Bankitalia e Procura di Arezzo. Dal 3 al 7 giugno seguenti, Etruria emette un bond subordinato da 60 milioni. Il 23 settembre via Nazionale segnala alla Procura aretina i dubbi sulla banca, che il 30 ottobre piazza ai risparmiatori un altro subordinato da 50 milioni. Lo stesso giorno Bankitalia scrive a Consob segnalando le criticità di Etruria, tra le quali proprio i rendimenti dei subordinati troppo bassi per riflettere la crisi dell’istituto: il primo pagava un tasso inferiore al BTp di pari durata, il secondo il 5% a fronte del 7% delle banche migliori. Ma nessuno ferma la vendita del bond. Il 3 dicembre 2013 Visco scrive di nuovo ad Arezzo e chiede di aggregarsi con un’altra banca. Il 5 dicembre Bankitalia segnala ai giudici che è “in corso di trasmissione” alla Consob una sua nota. Il 15 dicembre la Consob impone alla banca un supplemento al prospetto dei subordinati, aggiornato su rischi e l’ispezione di Bankitalia, che però esce solo il 23 e concede a chi ha già sottoscritto i subordinati solo due giorni per revocare l’acquisto. Ma Consob dichiara di aver avuto “piena contezza” della crisi di Etruria solo il 12 maggio 2016: cioé dopo il commissariamento (10 febbraio 2015), la sospensione delle azioni in Borsa (13 febbraio 2015), la “risoluzione” (22 novembre 2015) e addirittura la dichiarazione d’insolvenza (11 febbraio 2016) della banca.

Nel frattempo Bankitalia manda per la seconda volta gli ispettori in Etruria, tra ottobre 2012 e settembre 2013, e sanziona 19 dirigenti per 2,5 milioni, denunciando per ostacolo alla Vigilanza l’allora presidente Fornasari e altri manager. Il 21 marzo 2014 la banca viene perquisita su mandato del procuratore di Arezzo Roberto Rossi, consulente di Palazzo Chigi. I vertici si dimettono. Il Cda a maggio 2014 nomina presidente Lorenzo Rosi. Ma l’aggregazione chiesta da via Nazionale (l’unica offerta è di Pop Vicenza) non arriva. Così a novembre 2014 una nuova ispezione di Palazzo Koch porta al commissariamento del febbraio 2015 e il primo marzo 2016 a sanzioni per 2,2 milioni a 27 dirigenti con nuove denunce in Procura. Ma la banca è già “risolta”. Solo il 24 novembre 2015, due giorni dopo la risoluzione, la Consob obbliga tutte le banche italiane a informare “adeguatamente” i clienti sui rischi del bail-in e solo a ottobre 2016 inizia un procedimento che si conclude a luglio 2017 con sanzioni per 2,76 milioni a 33 ex consiglieri, sindaci e dirigenti. Il 2 ottobre 2017 il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, scrive alla Procura di Milano e nega le ipotesi di reato di aggiotaggio e insider trading sulle azioni Etruria, dopo le note ufficiali della primavera del 2014 sulla fusione (mai realizzata) tra Etruria e Vicenza che avevano portato l’azione, prima di crollare, a rialzi anche del 50%. Sempre a ottobre 2017 il liquidatore, Giuseppe Santoni, con l’azione di responsabilità chiede danni per 576 milioni a 37 ex amministratori.

Da qui scatta il balletto giudiziario. Il 13 agosto 2018, 28 marzo e 25 maggio 2019 la Corte d’Appello di Firenze cancella le sanzioni Consob. Per i giudici già a fine 2013 l’autorità era informata sul dissesto di Etruria: per legge, avrebbe dovuto muoversi entro 180 giorni dalla notitia criminis, non a ottobre 2016. La Consob ricorre in Cassazione. Il 31 gennaio 2019 il Gup di Arezzo condanna con rito abbreviato per bancarotta fraudolenta Fornasari, Bronchi e Berni, che fanno ricorso. A febbraio 2019 è archiviata l’accusa di falso in prospetto per il vicepresidente Pierluigi Boschi, consigliere dal 2011 e vicepresidente dal 2014, nonché padre dell’ex ministro Maria Elena, ma il 22 marzo seguente la Cassazione conferma le sanzioni di Banca Italia ai consiglieri Boschi, Nataloni e Orlandi. Il 2 aprile per Boschi è chiesta l’archiviazione per bancarotta fraudolenta sulla liquidazione dell’ex dg Bronchi. Il 12 settembre Arezzo archivia le indagini per bancarotta fraudolenta sulla mancata fusione con la Vicenza. Ma il 13 febbraio 2020 arriva la condanna d’appello per Fornasari e Bronchi per ostacolo alla vigilanza di Banca d’Italia. Il 19 maggio 2021 Fornasari, Bronchi e Canestri sono invece assolti dall’accusa di falso nei prospetti dei bond subordinati 2013. Infine, il 6 ottobre scorso Boschi, imputato con altri 13 per bancarotta colposa nel filone “consulenze d’oro”, chiede di essere ascoltato in aula, mentre Intesa Sanpaolo, che ha acquisito Ubi che a sua volta aveva comprato la parte in bonis di Etruria, esce dal processo come responsabile civile.

Questo vortice di decisioni confliggenti nasce perché le piccole procure non hanno mezzi e competenze per inchieste così complesse. I magistrati delegano così a Banca Italia la consulenza tecnica sino all’individuazione degli illeciti e di eventuali colpevoli, assegnandole di fatto il ruolo improprio di superprocura bancaria. Sottratto a rischi penali, l’istituto di via Nazionale si costituisce parte civile come vittima del reato di ostacolo alla Vigilanza che esso stessa sancisce e denuncia. Ma Etruria non è stata la sola banca segnata da questi conflitti d’interesse.

(1 – continua)