Precariato e part time: in Italia un terzo dei lavoratori è povero

Negli ultimi mesi abbiamo assistito ai numerosi appelli degli imprenditori italiani, che faticherebbero a reperire nuovi lavoratori da assumere e al conseguente inasprirsi dell’invettiva contro i giovani che preferirebbero, a detta di alcuni media, restarsene a casa godendo del reddito di cittadinanza anziché andare a lavorare. Per comprendere le scelte di questi potenziali lavoratori, più che di qualche sferzata retorica, avremmo bisogno di studi aggiornati sui livelli salariali in Italia. Proposte sull’istituzione di un salario minimo legale nel nostro paese sono state già avanzate dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, e dall’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Il tema, del resto, ha ricevuto anche l’attenzione della Commissione Ue con la proposta di Direttiva sull’applicazione dei salari minimi dello scorso ottobre. Misure come il salario minimo o la ristrutturazione della contrattazione salariale avrebbero il fine di tutelare i cosiddetti working poor, ovvero quei lavoratori che non guadagnano abbastanza da superare la soglia della povertà da lavoro. È noto che la povertà dipenda dalla mancanza di lavoro, difatti uno strumento di contrasto alla povertà come il reddito di cittadinanza è erogato principalmente ai disoccupati. Ciò nonostante, negli ultimi anni abbiamo osservato come anche chi è occupato rischi di cadere in povertà.

E allora, chi sono e quanti sono in Italia i lavoratori poveri? Questa domanda è stata al centro di una ricerca svolta all’interno del programma Visitinps Scholars dell’Inps. Come definire la povertà da lavoro (working poverty) è tema assai dibattuto. A livello internazionale solitamente si adotta l’indicatore di “in-work poverty” di Eurostat, secondo cui sarebbero in questa condizione i lavoratori – e sono considerati tali coloro che risultano occupati per almeno 7 mesi l’anno – che godono di un reddito disponibile familiare inferiore al 60% della mediana. In base a tale indicatore, in Italia nel 2019 era working poor l’11,8% dei lavoratori; la media europea è quasi 3 punti percentuali più bassa. In realtà, l’in-work poverty è un concetto ibrido che tiene conto sia di caratteristiche individuali, per accertare lo status di occupato, sia di caratteristiche familiari, quelle relative al reddito, utilizzate per accertare lo stato di povertà.

Altri metodi fanno riferimento esclusivamente a valori individuali di salario e occupazione e perciò vengono definiti “indicatori di basso salario”. Nel progetto di ricerca si è preferito seguire questa seconda strada: l’obiettivo è stato indagare quanti sono i lavoratori (e quali le loro caratteristiche) che, se dovessero vivere unicamente del proprio salario, rischierebbero di ritrovarsi in stato di indigenza. Chiaramente, il reddito di un individuo in età da lavoro si costituisce non solo di reddito da lavoro, ma anche di trasferimenti o reddito da capitale, così come fondamentale è anche il ruolo della famiglia nel sostentamento; ma l’idea di fondo del progetto era proprio quella di sfruttare le potenzialità dei dati amministrativi per comprendere l’andamento del mercato del lavoro italiano negli ultimi 30 anni in termini di povertà da lavoro e bassi salari. Perciò, la definizione prevede che venga trascurato il reddito familiare e definito come povero da lavoro (working poor) chi nell’anno ha un reddito da lavoro non nullo e abbia una retribuzione individuale annua inferiore al 60% della mediana.

Questa definizione tiene conto di due diversi aspetti che influenzano la povertà da lavoro individuale: il basso livello delle retribuzioni per alcuni lavoratori e la ridotta intensità occupazionale, sia in termini di ore lavorate che come mesi di occupazione. Oltre a questa soglia “relativa”, che consente di misurare la povertà rispetto al livello medio di una società, ne viene applicata anche una “assoluta”, che misura la povertà in termini di distanza da uno standard di vita accettabile. Si utilizzano le soglie individuali di povertà assoluta dell’Istat, con l’obiettivo di cogliere le possibili differenze in termini di costo della vita tra i lavoratori del Nord, Centro e Sud.

I dati utilizzati sono quelli degli archivi amministrativi Inps dei dipendenti privati, dei collaboratori, dei professionisti e dei domestici, per un periodo di tempo che va dal 1990 al 2017. Il numero totale di lavoratori osservati è di 10,5 milioni nel 1990, che diventano circa 16 milioni nel 2017: la banca dati più ampia mai usata per questi studi in Italia. Lungo l’arco di tempo osservato, uno dei cambiamenti più rilevanti riguarda il numero di lavori svolti dal singolo lavoratore: se nel 1990 quasi l’87% dei lavoratori svolgeva un unico lavoro durante l’anno, nel 2017 questa percentuale si riduce al 79%, denotando un rilevante aumento della frammentazione lavorativa negli ultimi 30 anni.

A causa della stagnazione dei salari, la soglia di povertà relativa – pari al 60% della mediana dei salari annuali o mensili a seconda della dimensione di reddito considerata – si è ridotta nel periodo di osservazione, raggiungendo 10.837 euro annuali e 972 euro mensili nel 2017 (Figura 2). Quanto alla povertà assoluta, le soglie definite dall’Istat per i singoli individui nelle diverse macro-aree italiane nel 2017 oscillavano tra i 771 euro al Nord, i 740 al Centro e i 584 al Sud.

Dalle analisi emerge che nel 2017 quasi un terzo dei lavoratori era povero (Figura 1). Questo preoccupante risultato può derivare dall’utilizzo di una definizione di occupazione molto ampia (tutti coloro che hanno un reddito da lavoro positivo nell’anno), ma la tipologia di dato amministrativo – che non indica il motivo della non occupazione – suggerisce di non utilizzare il numero di settimane lavorate nell’anno per stabilire se un individuo è occupato o no. Inoltre, si osserva un trend crescente nel tasso di povertà da lavoro: dal 26% nel 1990 al 32,4% nel 2017 nel caso della povertà relativa calcolata sui salari annui. Quando si utilizza la soglia di povertà assoluta, il numero di lavoratori da considerare poveri è inferiore, ma osserviamo un trend ascendente ancora più marcato negli anni Duemila. Anche l’intensità della povertà – ovvero quanto si è distanti dalla soglia – è aumentata nel tempo: l’indice di poverty gap, riferito alla povertà relativa, è aumentato dal 13,8% nel 1990 al 17,9% nel 2017.

Quali sono le ragioni di questo incremento nel tempo? Come già detto, l’indicatore di povertà o basso salario adottato nello studio è influenzato da due variabili, il salario e il tempo di lavoro. Sul versante retributivo, ha inciso il cambiamento nella struttura occupazionale avvenuto negli ultimi trent’anni con la crescita di alcuni settori, come i servizi a famiglie e il turismo, nei quali la retribuzione non è sufficiente per uscire dalla povertà. Inoltre, vanno considerate le numerose riforme di deregolamentazione contrattuale che hanno permesso la moltiplicazione delle tipologie di contratti atipici e, sovente, precari. Un effetto analogo può essere stato esercitato dall’aumento dei contratti collettivi nazionali (854 nel 2020 secondo il Cnel, contro i 300 del 2005) che coincide con una crescente tendenza al mancato rispetto dei minimi tabellari da essi fissati.

Per quanto concerne i tempi di lavoro, sulla working poverty ha inciso la forte diffusione del part-time. Circa il 30% dei lavoratori nel 2017 è part-time secondo i dati: questo valore è quasi triplicato rispetto ai primi anni Duemila. Anche le riforme del mercato del lavoro (Pacchetto Treu, Legge Biagi, Jobs Act) hanno contribuito a moltiplicare le figure contrattuali ibride, tutte pericolosamente tendenti a non stabilire un orario di lavoro che assicuri un salario soddisfacente. Al riguardo è significativo il mancato aumento delle ore lavorate dopo la crisi finanziaria, malgrado la risalita seppur lieve dell’occupazione (trainata, quindi, dal tempo determinato e dal part-time).

Analizzando i risultati per caratteristiche demografiche dei lavoratori emerge un profondo gender gap in termini di tasso di povertà da lavoro, che si è mantenuto stabile, se non ampliato, nel tempo. Il tasso di povertà delle lavoratrici è doppio rispetto a quello dei lavoratori (40 contro 24%). Similmente, un forte divario emerge per l’età dei lavoratori: gli under 35 sono fortemente penalizzati. Infine, un ruolo preponderante è svolto dal luogo dove si lavora: la Figura 3 sulla diffusione della povertà da lavoro mostra che vi sono ampie discrepanze tra Nord e Sud.

Studiando la probabilità di essere lavoratori poveri, si coglie che i fattori correlati più importanti restano il genere, la cittadinanza e l’area geografica. Per i dipendenti, pesano soprattutto i contratti part-time e a termine. La probabilità di essere un lavoratore povero aumenta poi col numero di lavori svolti nell’anno, delineando una pericolosa correlazione tra precarietà e bassi salari.

Insomma, la povertà da lavoro dipende non solo dal salario orario, il cui livello medio va alzato, ma anche dal tempo di lavoro. Sarà cruciale incrementare le ore lavorate, aumentando la domanda di lavoro (non certo la giornata lavorativa) e limitare l’abuso di forme contrattuali non convenzionali.

Il cambiamento più rilevante emerso: la frammentazione

Lungol’arco di tempo osservato, uno dei cambia-menti più rilevanti riguarda
il numero di lavori svolti dal singolo lavoratore: se nel 1990 quasi l’87% dei lavoratori svolgeva un unico lavoro, nel 2017 la quota si riduce al 79% È un rilevante aumento della frammentazione lavorativa negli ultimi 30 anni

Cara Meloni. Non si può sfuggire alle verifiche dell’antifascismo

 

Dopo i fatti rivelati da Fanpage e da “Piazza Pulita”, le dichiarazioni della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia a Meloni, mi sono parse a dir poco reticenti. Ha continuato, infatti, a farsi schermo della per me pretestuosa richiesta di poter vedere l’intera registrazione girata dall’infiltrato di Fanpage tra le frange più estreme del suo partito. Ma che significato ha mai una pretesa del genere? Forse che tutta quella questione potrebbe risolversi dimostrando una fantomatica e clamorosa montatura mediatica da parte di un sito d’informazione e della trasmissione di Formigli? Sono senza parole e mi chiedo se questo sia un modo credibile di fare politica da parte di una forza che non può dimenticare di agire in una democrazia nata dalla lotta antifascista.

Mauro Bitossi

 

Gentile signor Mauro, proprio sul Fatto di ieri, il nostro Fabrizio d’Esposito ha risposto a molti degli interrogativi posti nella sua lettera, fotografando che cosa è oggi il partito di Giorgia Meloni se confrontato alla “svolta di Fiuggi” di Gianfranco Fini e, soprattutto, a quella sua definizione del fascismo come “male assoluto” pronunciata non a caso a Gerusalemme. C’è ancora molto da aggiungere, dunque, a tutto questo? Solo una breve considerazione, partendo proprio dal casus belli, l’inchiesta di Fanpage, e dalle prime reazioni di Giorgia Meloni: quelle, come si dice in questi casi, “a caldo” e che dunque sono sempre le più rivelatrici in qualsiasi situazione di stress o di tensione. Ecco, è proprio ciò che ha sottolineato lei signor Mauro: chiedere ai giornalisti tutta la registrazione dell’inchiesta per poter verificare, per poter controllare se non ci fossero manipolazioni o falsità. Invece, di fronte a fatti che parlano da soli, nella cruda verità di immagini, gesti e parole, la Meloni avrebbe dovuto ringraziare quei giornalisti per averle offerto uno spaccato in grado di aiutarla, mi consenta la battuta, a fare “piazza pulita” nel proprio partito. Non c’è nulla da verificare nel lavoro di Fanpage e di Formigli: semmai è la Meloni che deve, una volta per tutte, verificare se stessa rispetto alla storia del fascimo. E la sua risposta di ieri dopo i fatti di Roma, “Non so quale fosse la matrice”, non è certo un passo avanti.

Ettore Boffano

MailBox

 

Chi non ha voluto capire chi c’è dentro i No Vax

Cara redazione, per settimane e settimane, le tv ci hanno mostrato l’escalation delle proteste dei No Vax e le loro reazioni contro l’adozione dell’obbligo del green pass. Sabato, infine, abbiamo assistito all’esplosione violenta di quel fenomeno, con gli scontri a Roma davanti a Palazzo Chigi e con l’assalto di stampo fascista alla sede della Cgil. Mi chiedo però una cosa: dov’erano, in quelle stesse settimane, le nostre forze dell’ordine, i nostri servizi d’intelligence e le nostre procure? Era così difficile, anche solo guardando le immagini televisive, capire che cosa si stava preparando? Non voglio fare dietrologia, ma ogni volta che accadono cose come questa mi vengono in mente responsabilità, confusioni, ma forse anche complicità, che avrebbero bisogno di chiarezza da parte delle istituzioni.

Antonio

 

I fascisti hanno colpito la Cgil non il Green pass

Se qualcuno vuol cercare la prova che, dietro l’attacco di sabato alla Cgil a Roma, ci sono i fascisti di CasaPound e di Forza Nuova, basta ricordare che proprio il segretario di quel sindacato, Maurizio Landini, ad agosto fu il più critico sugli obblighi che il governo Draghi stava imponendo sul green pass. La Cgil è stata assaltata, dunque, non perché “nemica” dei No Vax, ma perché simbolo dell’antifascismo e delle lotte operaie.

Luciana Leonelli

 

Cosa diventa la sinistra tra Renzi e poi Calenda

Sono esterrefatta: è mai possibile che nei commenti ai risultati elettorali, nessuno, dico nessuno, si accorga che a non andare a votare sono stati gli elettori di sinistra? Questo è il gravissimo problema della politica italiana. C’è una crisi di rappresentanza di dimensioni cosmiche e nessuno se ne accorge? Ma per chi possono votare un lavoratore precario, un disoccupato, un pensionato, un lavoratore dipendente, tutti coloro a cui stanno a cuore l’ambiente, il clima, la giustizia sociale? Coloro che vorrebbero una maggiore equità, che vorrebbero una giustizia giusta per tutti e non solo privilegi per i ricchi? Coloro che vorrebbero vedere attuata la Costituzione, che vorrebbero rispetto per la cosa pubblica: per la cultura, per la scuola, per la sanità. E potrei continuare per ore. Molti di questi elettori fino a qualche anno fa votavano Cinque Stelle, con la speranza che le cose cambiassero, che finalmente si sentisse un po’ d’aria nuova. E invece. Possibile che si senta dire da Letta che per vincere “bisogna stare col centro moderato”? Ma finora con chi è stato il Pd? Non ha capito che proprio perché sta coi padroni e non con i lavoratori, ha perso e continua a perdere voti? Possibile che Conte (persona degnissima e unico presidente del Consiglio che abbia manifestato davvero serietà di propositi, senso della cosa pubblica e indipendenza) dica che il M5S continuerà a sostenere il governo Draghi, senza capire che proprio per l’appoggio al governo Draghi e alla sua politica liberista, confindustriale, di destra, è ridotto ai minimi termini?. Per parafrasare Bersani, questo, più che una mucca, è un elefante nel corridoio.

Sabrina Michelotti

 

Ma ora chi informerà Zingaretti sui cinghiali?

Caro direttore, ha notato una cosa? Dopo il primo turno elettorale nessuno parla più della famosa invasione dei cinghiali a Roma. Non ne parlano più i giornali, ma neppure quella Regione Lazio che dovrebbe occuparsene per competenza. Quest’ultima cosa era chiara a tutti, ma serviva per attaccare Virginia Raggi in campagna elettorale. Le chiedo però una cosa: se un branco di cinghiali dovesse invadere la capitale domenica 17 ottobre, durante il ballottaggio, a chi spetterà il compito di chiamare Zingaretti e dirgli: “Svegliati!”. Conosco la risposta dal punto di vista della legge: alla sindaca Raggi, per qualche giorno ancora in carica. Ma non dovrebbe farlo, per ragioni di comunanza politica, il candidato Gualtieri?

Giovanni Sardo

 

Formigli non ha fermato l’arroganza di Calenda

Voglio fare i complimenti a Corrado Formigli per le due puntate della sua “Piazzapulita” sulle infiltrazioni fasciste in Fratelli d’Italia e nella Lega. Nell’ultima, però, non mi è piaciuto il modo con il quale ha consentito a Calenda di insultare in studio, e di fatto disprezzare, Jasmine Cristallo. Colpevole credo, agli occhi dell’ex assistente di Montezemolo in Confindustria, oltre che di essere donna, anche di venire dalla gavetta e di non avere padri, madri, nonni, zii e zie, prozii scrittori, registi, scienziati e ambasciatori. Lui, invece, resta il rampollo di quei “radical chic” della insopportabile sinistra romana che tanti danni hanno già arrecato alla sinistra vera.

Virginia, una milanese

 

Lavoratori, state attenti a quel “lavoro da casa”

Molti magnificano il “lavoro da casa” e qualcuno ora si dispiace perché sta in parte finendo. Non so però se tanti lavoratori, pubblici o privati, sanno che cosa li attenderà quando, continuando a lavorare a casa (o rimandati a lavorare a casa dal datore di lavoro), si vedranno decurtare salari e contratti integrativi.

Giuseppe Annovazzi

La realtà drammatica dietro gli spot sulla “ripresa”

In un Paese normale i dati della ricerca che leggete a sinistra dovrebbero suonare come l’ultima chiamata per evitare un declino che sembra inarrestabile. Se si va a guardare i redditi individuali, escludendo il supporto economico famigliare, un terzo dei lavoratori italiani è povero. E questo nonostante la soglia di povertà si sia abbassata dal 1990 di oltre il 15% a causa della ultra-decennale stagnazione dei salari italiani. Se si è donna, straniero o si vive al Sud la probabilità di essere povero pur lavorando raddoppia. Ma questa è la fotografica dell’Italia del 2017, prima del Covid: immaginate cosa può essere diventata ora.

I dati danno un indizio. Ad agosto abbiamo perso altri 80 mila posti di lavoro (secondo mese di calo consecutivo), quasi tutti dipendenti a termine. Rispetto a febbraio 2020, restano 391 mila unità da recuperare e dei 431 mila occupati in più registrati nel 2021, l’80% è a termine. Un dato talmente terrificante che il premier Mario Draghi si è sentito in dovere di ricordarlo quando il presidente di Confindustria Carlo Bonomi lo ha accolto festante sbandierando la ripresa e i dati sul lavoro come “merito dell’industria”.

La ripresa, per ora, è parziale, non si trasmette all’occupazione e cela una realtà drammatica. Dai dati amministrativi si vede che solo lo 0,6% dei contratti a termine supera i 12 mesi, il 35% dura meno di un mese. Il peso di questi mini-contratti, specie quelli inferiori alla settimana, sta crescendo nel tempo e a tassi elevati soprattutto nel turismo e nella ristorazione, i settori su cui spesso politici e ministri avventati e a corto di idee fingono di puntare per il rilancio del Paese.

Di fronte a questo scenario, il “patto per il Paese” auspicato da Bonomi e da Draghi fa sorridere. A differenza del leader confindustriale, il premier sembra consapevole del quadro drammatico che ha di fronte ma la risposta è sconsolante. Gli accordi del ’93, a cui si guarda per il grande patto, aprirono la stagione della moderazione salariale in Italia; qualche anno dopo, il pacchetto Treu (col centrosinistra) aprì quella della precarietà del lavoro. Serve fare il contrario, ammesso che si possa rimediare a trent’anni di errori.

Maledetti numeri. “Aiuto, i conti non tornano e io sogno un mondo senza commercialisti”

Non sono portata per i conti, a scuola ero una tragedia. L’algebra, le equazioni o la trigonometria, sono misteri gloriosi che mi terrorizzano. Forse non sono a livello neanche di scuola elementare, dovrei ripartire dal pallottoliere, dall’asilo.

Le divisioni per me sono una tragedia greca, al cui confronto le Baccanti di Euripide diventano un film di Stanlio e Ollio. Sono in una specie di delirio, non trovo la calcolatrice, procedo da sola con calcoli astrusi, mentre cerco di fare dei conti con delle fatture che devo consegnare al mio commercialista.

La mia testa si riempie di cifre sgraziate e Manolita cerca di calmarmi: “Forza sei sulla buona strada” – “Ma quale strada? Io sono sull’orlo del suicidio, ti scongiuro dimmi cosa sono i decimali!” – “È semplice, sono i numeri dopo la virgola” – “Ah, hai capito che fanno questi maledetti decimali? Vanno a mettersi dopo la virgola per rovinare la vita a me! Devo sbrigarmi a consegnare queste fatture… e quand’è che c’è la virgola?” – “Quando il numero intero non è divisibile per l’altro numero. Devi fare 16 diviso 20. Il 20 nel 16 non ci sta perché è più grande, quindi c’è zero volte” – “Ma che vuol dire zero volte?” – “Vuol dire che non ci va, è zero quindi va la virgola” – “Ma come si permette quel cretino del 16 di accostarsi al 20? È chiaro che arriva la virgola e lo sostituisce subito. Aiuto!” – “Vabbè, partiamo dal basso. Il 2 nel 16 quante volte ci sta?”. Inizio a contare sulle dita sudate e di colpo urlo: “2, 4, 6, 8… ci sta 8 volteee ci sta. 8 per 2 fa 16!” – “Brava, quindi 16 nel 16 è zero!” – “Ma come zero? Era 16 un attimo fa!” – “Sì, ma 16 meno 16 fa zero, quindi metti zero e abbassa il 6!” – “No, io non abbasso niente, io scappo, lascio l’Italia! Vado a vivere in un posto senza numeri, senza commercialisti che nei numeri ci sguazzano, dove non conta contare le cose. La vita senza numeri… ah che meraviglia!”.

 

Savonarola. La Firenze spietata e senza perdono tra prediche furenti e punizioni crudeli (come oggi)

Alberto Tedoldi, giurista e docente, autore di molti scritti sul diritto e di colte variazioni sul tema – come Il processo in musica. Nel “Lohengrin” di Richard Wagner – ha pubblicato per Pacini Editore, Savonarola, il profeta disarmato.

Narra la vita del Savonarola e della Firenze di quel tempo, destinata a occupare uno spazio molto importante in un’epoca della storia italiana, del papato e del cattolicesimo italiano, della folla di genialità artistica a cavallo fra il ’500 e il ’600, e di una frenesia del potere che coinvolge e stravolge la chiesa di Roma e “i signori” di alcune grandi città italiane; in grado di tener testa per rango, ricchezza, crudeltà e intrighi ai grandi imperi con cui trattano. Tedoldi ci dà un diario di vita fiorentina che compone seguendo attentamente l’ossatura giuridica dei diversi centri del potere: dove il dominatore politico, il capopopolo, il Cardinale, il grande predicatore, fanno e cambiano e guidano la storia; raccontando dove, come sono nati e si sono amassati i valori e disvalori che formeranno l’Italia di oggi.

Tedoldi ha visto un percorso che viene spesso citato e abbandonato in favore della narrazione letteraria – e della concentrazione sugli aspetti civili del grande spazio umanistico che sta nascendo –. Da giurista questo autore pone grande attenzione ai delitti e alle pene: per prima cosa nota (nel suo libro si tratta di fatti, non di principi di politica e di religione ) come l’estrema crudeltà e il totale arbitrio della pena siano una sorta di oggetto che scatta in modo quasi automatico su sollecitazione del potere, dove Dio e la fede fanno parte del commento e della interpretazione della pena, non sono la ragione della pena. E la portata disumana ed estremamente crudele delle pena (questa è la cultura che ci porterà alla “Colonna Infame”) non viene da Dio ma dalle naturali esigenze del potere, che si tutela usando come notaio la Chiesa.

A me sembra che sia questo il punto più importante dal saggio di Alberto Tedoldi: non la narrazione della vita e dalle opere del celebre frate predicatore che aveva travolto Firenze, che nel libro è molto accurata. Ma l’enormità delle pene che vengono inflitte al frate predicatore non in relazione alle presunte colpe ma per l’inaudita offesa al potere, sia politico che religioso.

Una cosa non si può non notare leggendo Savonarola, il profeta disarmato. E cioè che la veemenza del frate, quando da lui viene invocato o evocato il castigo, è della stessa crudezza della pena che gli sarà comminata. Non circola pietà, non da una parte, non dall’altra, nel grande scontro fra predicatore e potere. Salvo forme di estrema umiliazione, non circola perdono nè dalla parte del Savonarola, nè dalla parte dei suoi accusatori ed esecutori. Questa è la ragione per cui il saggio di Tedoldi ci da indicazioni importanti per capire ( vedi Guantanamo ma anche Abu Ghraib, ma anche Santa Maria Capua Vetere ) qualcosa delle nostre radici.

 

Savonarola Il profeta disarmato Alberto Tedoldi – Pagine: 144 – Prezzo: 17,10 – Editore: Pacini

“Grazie ai tanti Camerati”: Bada Giorgia, i nostalgici si annidano in municipio

 

BOCCIATI

Stampatello e nostalgia. “Volevo ringraziare coloro che mi hanno dato una mano in Circoscrizione. Mio padre che è venuto con me nei mercati e sul territorio. Amici che mi sono stati vicino e mi hanno dato una mano. E TANTI CAMERATI di Torino che hanno lavorato x farmi entrare in CIRCOSCRIZIONE. LA DESTRA SOCIALE. In FRATELLI D’ITALIA!!! ROBELLA MASSIMO!”. Cosa faccia più specie di questo post Facebook del signor Robella, neo eletto al Consiglio della Circoscrizione 6 di Torino nelle file di Fratelli d’Italia è difficile da stabilire. Basisce di più lo stampatello “random”, con quel leggero retrogusto di psicosi; la firma (anche quella rigorosamente in stampatello, corredata da punto esclamativo) in coda a un proprio commento sulla propria pagina; il like sotto al proprio post con quel sapore a metà tra il “quanto so’ bravo” e il “metti caso che non me lo metta nessun altro, ci penso da solo”; o il sentito ringraziamento, anche quello in stampatello “ca vas sans dire”, ai tanti camerati che lo hanno votato? Scelte grafiche a parte, che tempismo deve avere un uomo che, nella settimana in cui la propria leader nazionale lavora per smarcare il proprio partito da nostalgie, retaggi e sospetti d’infiltrazioni neofasciste, viene eletto in circoscrizione e si precipita a ringraziare pubblicamente gli amici camerati? Circoscriverli in Circoscrizione non basta ad arginare la potenza distruttiva di questi esponenti locali sull’immagine del partito a cui si affiliano: per chi punta a liberarsi dalle ombre del passato, i nostalgici del Duce che militano a colpi di “condividi” sono quanto di più pericoloso ci possa essere.

VOTO 2

 

PROMOSSI

Campo minato e progressista. Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo, storico militante del Movimento cinque stelle dai tempi dei meet up, è stato un antesignano dell’alleanza tra democratici e pentastellati, sia in Europa, dove ha caldeggiato l’elezione di David Sassoli a presidente, sia in Italia, dove è stato tra coloro che hanno sostenuto la nascita del governo giallorosso. Nel sentire la sua posizione sulla questione ballottaggio ci si rende conto di quanto la materia sia delicata: “Come ha detto Conte, gli elettori non sono pacchi postali: non faremo accordi o apparentamenti. Però conosco bene Roberto Gualtieri, perché siamo stati colleghi nell’Europarlamento ed è stato un ottimo presidente della commissione Affari economici. Non voto a Roma, ma se potessi non avrei dubbi a scegliere lui rispetto al candidato del centrodestra Michetti, con cui non prenderei neppure un caffè”. Nella prudenza espressa persino da chi è dichiaratamente a favore, si colgono tutte le incertezze di un’alleanza che vorrebbe sedimentarsi, ma deve fare lo slalom tra veti incrociati, antiche resistenze, terzi incomodi che vaneggiano ultimatum, paure di trasformarsi nel socio minoritario della coalizione. E il ballottaggio, nella sua imminente concretezza, non è altro che la cartina di tornasole di tutti questi ostacoli. Per ora la certezza è una sola: il campo progressista è un campo minato.

VOTO 6

 

Arriva la “censura” alla scuola cattolica: Ma dov’è la novità?

 

BOCCIATI

Alla Sbarra. Per chi non lo sapesse: Ilda Boccassini ha scritto un “memoir”, in cui si possono leggere ricordi di una vita e giudizi inediti su alcune questioni che animano il dibattito pubblico (ve ne diremo di più, in caso, quando avremo finito di leggerlo). La questione che ha più appassionato i media riguarda il racconto del rapporto con Giovanni Falcone, di cui la dottoressa confessa di essere stata innamorata . Su questo specifico punto anche Francesca Barra ha sentito il bisogno di farci sapere la sua opinione, via Fb: “Giovanni Falcone era sposato con Francesca Morvillo che ha perso la vita perché era accanto a lui durante l’attentato (davvero?). Non credo che la Boccassini, per vendere un libro (no, dai), possa raccontare così liberamente della sua relazione con il Giudice (“la” Boccassini, il Giudice con la G maiuscola), infangando la memoria di una moglie. Trovo così leggero il modo con cui stanno riportando i giornali alcuni suoi racconti e poco rispettoso (lapis blu!). Come se fosse tutto normalizzato in questo cazzo di Paese (parbleu!), anche le corna fatte ad una vittima (corna post mortem?). Doppiamente vittima, che nemmeno può tirarle una scarpa in faccia”. Noi abbiamo cercato nel testo le corna, ma non le abbiamo trovate. Le ragioni di questa sguaiata catilinaria sono spiegate nell’incipit: “Ho scritto la biografia del giudice Falcone, scusate dunque se oggi sono così coinvolta in ciò che leggo”. E non lo dico per vedere il mio libro! (libro che, per la cronaca, è firmato da Maria Falcone con Francesca Barra). La mamma ci ha insegnato l’educazione, e ci fermiamo qui: l’hypocrisie est un hommage que le vice rend à la vertu.

Minori e minoranze. La scuola cattolica, il film di Stefano Mordini sul delitto del Circeo, tratto dal romanzo di Albinati, è stato vietato ai minori di 18 anni. L’indicazione arriva dalla apposita Commissione del Mibac, con questa motivazione: “Il film presenta una narrazione filmica (?) che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice. In particolare i protagonisti della vicenda pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti. Questa lettura che appare dalle immagini, assai violente negli ultimi venti minuti, viene preceduta nella prima parte del film, da una scena in cui un professore, soffermandosi su un dipinto in cui Cristo viene flagellato, fornisce assieme ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un’interpretazione in cui gli stessi, Gesù Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. La Commissione a maggioranza ritiene che il film non sia adatto ai minori di anni diciotto”. Oltre la forma involuta, la motivazione sembra uscita dalla penna di Giulio Andreotti (nei primi anni ’50 zelante sottosegretario allo spettacolo). Per fortuna che il ministro Franceschini, firmando il decreto che istituì la nuova Commissione per la classificazione delle pellicole, commentò: “Abolita la censura cinematografica”. Sì, sì è vero: tecnicamente il divieto ai minori di 18 anni non è censura, ma non faremo finta di non aver capito.

Pippo, che cazzo fai? Malissima tempora per Pippo Franco. Candidato alle elezioni amministrative di Roma con una lista civica collegata a Enrico Michetti, ha ricevuto meno di 100 preferenze. E ora è pure nei guai per la presunta irregolarità del suo green pass. Così, per non farci mancare nulla (la parolaccia del titoletto è da imputare a Zucchero, a.D. 1987).

 

PROMOSSI

Live is life. Il lunedì nero della galassia Zuckerberg – per sette ore sono state inaccessibili le app di Facebook, Instagram, Whatsapp e Messenger – sarebbe stato causato da un’errata configurazione dei server di Facebook. Tra tutte le reazioni del mondo impazzito abbiamo scelto un tweet del calciatore del Tottenham Lucas Moura: “Con Whatsapp e Instagram in down ho avuto modo di parlare un po’ con mia moglie. È veramente una bella persona”. Dal vivo è meglio.

 

Traditori Gigio, Vlahovic, Mbappé: la gogna per il diritto (sacrosanto ) al cambio casacca

“Ci sono un francese, un serbo e un italiano che di mestiere fanno i calciatori”. Potrebbe essere l’incipit di una barzelletta, una facezia buona per sghignazzare un po’, invece è il preambolo di una storia in cui da ridere c’è ben poco. Anzi, c’è da piangere. Se seguite anche solo un po’ le avventure del Pianeta Pallone, i nomi che sto per farvi non hanno bisogno di presentazioni: il francese è la giovane stella del Psg Kylian Mbappè, 22 anni, campione del mondo; il serbo è la giovane stella della Fiorentina Dusan Vlahovic, 21 anni, nazionale della Serbia; e l’italiano è la giovane stella già del Milan e oggi del Psg, Gigio Donnarumma, 22 anni, campione d’Europa. Qual è la cosa che accomuna in questi giorni questi tre ragazzi già milionari e famosi nel mondo grazie alle doti di cui madre natura li ha dotati in quanto a predisposizione al gioco del calcio? La libertà.

La libertà di decidere della propria vita professionale come meglio credono, libertà che qualcuno vorrebbe negargli a dispetto dei diritti acquisiti dai calciatori da ormai oltre mezzo secolo.

Pochi lo ricordano ma l’11 maggio 1978, solo per restare in Italia, Federcalcio e Leghe accolsero dopo mille rifiuti la richiesta di “firma contestuale” avanzata dall’Aic (sindacato calciatori): i calciatori diventavano liberi di decidere il proprio destino a cominciare dal rifiuto che può essere opposto a un trasferimento non gradito. Era il primo passo verso la caduta del vincolo che di fatto, fino ad allora, faceva del calciatore una “proprietà” del club fin dall’età di 14 anni: “svincolo” che venne ufficialmente sancito il 4 marzo 1981 quando il Parlamento emanò la legge 91 inquadrando il calciatore (e il professionista sportivo in genere) come lavoratore subordinato a tutti gli effetti, libero di scegliersi la società per cui prestare opera e col diritto di maturare la pensione all’età di 45 anni.

Molti lo dimenticano, ma una volta il giocatore non era una persona bensì una cosa di proprietà del club: senza diritto di parola, di firma, di scelta. E fu proprio per uscire da questo Medioevo che il 3 luglio 1968, cioè 53 anni or sono, davanti al notaio Barassi in via Fontana 22 a Milano undici illustri calciatori dell’epoca (unico assente giustificato: Rizzolini del Parma), e cioè Campana del Lanerossi Vicenza, Castano della Juventus, Bulgarelli del Bologna, Rivera del Milan, Mazzola dell’Inter, Corelli del Mantova, Losi della Roma, De Sisti della Fiorentina, Mupo della Reggina e Sereni del Padova, si riunirono per dare vita all’Aic, il sindacato calciatori di serie A e B.

E insomma: ci sono tre calciatori, un francese, un serbo e un italiano. È il 2021, il Medioevo dovrebbe essere finito da un pezzo ma l’italiano, Donnarumma, che ha scelto di lasciare il Milan per giocare nel Psg, come suo diritto, viene messo in croce non solo dai tifosi, ma da giornalisti e media in generale che apertamente lo dipingono come mercenario traditore; è il 2021 ma Vlahovic, che ha deciso di non proseguire con la Fiorentina, come suo diritto, a fine contratto (giugno 2023), viene esposto al pubblico ludibrio dai dirigenti viola che lo bollano come infedele; è il 2021 ma Mbappè, che nutre il desiderio – a scadenza di contratto col PSG (giugno 2022) – di andare a vestire la maglia del Real Madrid, come suo diritto, viene minacciato dallo sceicco Al-Khelaifi che proclama: “Mbappè non lascerà mai Parigi”. La libertà vilipesa e calpestata. Dal mondo dello sport. Palestra di educazione, ci avevano raccontato.

 

Il camper antimafia. Gli eredi di Pippo Fava: beni confiscati, ecco la mappa “on the road”

Mentre dal cielo dell’antimafia ogni tanto, come per una legge cosmica, si stacca una stella, sulla terra dell’antimafia le cose buone si moltiplicano. Così in Sicilia, epicentro Catania, è andato in onda un progetto intitolato “Le scarpe dell’antimafia”. Parola d’ordine: i soldi dei mafiosi a chi lavora. Parola d’ordine vecchia, all’apparenza. Perché la legge per l’uso sociale dei beni confiscati, l’idea di ottenere la “restituzione del maltolto” sono nate nel cuore degli anni novanta. Il fatto è che i famosi “beni” sono spesso abbandonati, vandalizzati o ancora saldamente nelle mani dei mafiosi a cui sono stati confiscati. E gli effetti del Covid sono maledettamente attuali. Ecco dunque il manifesto dei promotori del progetto, un gruppo di giovani siciliani sotto i trent’anni: “Noi ‘professionisti dell’antimafia’ pensiamo che bisogna intervenire subito sull’economia mafiosa. Non solo afferrare i suoi soldi, ma reinvestirli rapidamente, non come al solito distribuendo allegramente a questo o quel prenditore, ma facendo impresa. Con nuovi imprenditori, coi nostri giovani colti e coraggiosi e lasciati in un angolo a morire dentro. Questa è l’occasione per loro”.

Da qui un’idea estranea alla maggior parte dei gruppi di ricerca finanziati per “uno studio sui beni confiscati”: andarseli a vedere. Uno per uno, sul campo. Con le scarpe dell’antimafia, appunto. Chiedere “chi è lei” al signore che ci si incontra sopra e che ha l’aria del padrone. Andarci per controllare che il signore non sia proprio lui, il boss confiscato. Lavoro impegnativo, soprattutto in Sicilia, dove i beni confiscati sono più di 14 mila. Ma loro l’hanno fatto. Sotto dunque con eventi social di puro artigianato, con la mobilitazione consentita dal Covid maledetto.

È nata così una banda, termine loro, sotto le insegne de “I Siciliani giovani” e dell’Arci Sicilia. Il capobanda si chiama Matteo Iannitti e nell’occasione ha dimostrato con le sue cronache la stoffa del giornalista di razza. Tutti a bordo di un camper battezzato “Poderosa” come la moto del Che. Poi visite sul campo, denunce radiofoniche, pubblici dibattiti.

L’elenco delle associazionie dei gruppi che hanno partecipato alla grande marcia è straripante e può essere solo esemplificato. Dal “Mandarinarte” di Ciaculli all’ associazione “Acunamatata” di Palermo; dalla Cooperativa “Rosario Livatino” di Naro al Circolo Arci di San Cataldo; dalle associazioni antimafia di Palma di Montechiaro e Vittoria all’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Misterbianco e alla Cooperativa “Geotrans” di Catania. A loro si sono aggiunti in occasioni simboliche il Centro “Peppino Impastato” di Palermo o gli stessi presidenti della Commissione antimafia regionale e parlamentare, Claudio Fava e Nicola Morra.

Ma scrutando il materiale scritto e video raccolto dalla “banda” tra metà settembre e i primi di ottobre in più di venti città e paesi una cosa mi ha commosso. Ed è che a lavorare con i ventenni ci fossero anche due settantenni di lungo corso: Giovanni Caruso, fotografo, e Riccardo Orioles, giornalista, che lavorarono per anni al fianco di Giuseppe Fava, il direttore degli antichi, veri, I Siciliani, ucciso il 5 gennaio del 1984. “Lui cieco, io sciancato”, racconta Orioles di sé e del coetaneo, “eppure non ce la siamo cavata male fra i Siciliani giovani”. Sospiro sotto la barbetta: “Quarant’anni fa giravamo per strade e trazzere – io cronista, lui fotoreporter – sulla mia mitica Citroen ammaccata, terrore degli automobilisti catanesi e anche di lui che stringeva la macchina fotografica guardando la strada… Adesso Giovani era lì coi ragazzi, nel Poderosa che percorreva più o meno le stesse strade. Peccato che non l’abbia visto l’antico direttore. Ma a volte uno s’illude ‘chissà che un’occhiata non ce l’abbia data’…”. Un lampo di malinconia, un lampo di orgoglio.