Negli ultimi mesi abbiamo assistito ai numerosi appelli degli imprenditori italiani, che faticherebbero a reperire nuovi lavoratori da assumere e al conseguente inasprirsi dell’invettiva contro i giovani che preferirebbero, a detta di alcuni media, restarsene a casa godendo del reddito di cittadinanza anziché andare a lavorare. Per comprendere le scelte di questi potenziali lavoratori, più che di qualche sferzata retorica, avremmo bisogno di studi aggiornati sui livelli salariali in Italia. Proposte sull’istituzione di un salario minimo legale nel nostro paese sono state già avanzate dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, e dall’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Il tema, del resto, ha ricevuto anche l’attenzione della Commissione Ue con la proposta di Direttiva sull’applicazione dei salari minimi dello scorso ottobre. Misure come il salario minimo o la ristrutturazione della contrattazione salariale avrebbero il fine di tutelare i cosiddetti working poor, ovvero quei lavoratori che non guadagnano abbastanza da superare la soglia della povertà da lavoro. È noto che la povertà dipenda dalla mancanza di lavoro, difatti uno strumento di contrasto alla povertà come il reddito di cittadinanza è erogato principalmente ai disoccupati. Ciò nonostante, negli ultimi anni abbiamo osservato come anche chi è occupato rischi di cadere in povertà.
E allora, chi sono e quanti sono in Italia i lavoratori poveri? Questa domanda è stata al centro di una ricerca svolta all’interno del programma Visitinps Scholars dell’Inps. Come definire la povertà da lavoro (working poverty) è tema assai dibattuto. A livello internazionale solitamente si adotta l’indicatore di “in-work poverty” di Eurostat, secondo cui sarebbero in questa condizione i lavoratori – e sono considerati tali coloro che risultano occupati per almeno 7 mesi l’anno – che godono di un reddito disponibile familiare inferiore al 60% della mediana. In base a tale indicatore, in Italia nel 2019 era working poor l’11,8% dei lavoratori; la media europea è quasi 3 punti percentuali più bassa. In realtà, l’in-work poverty è un concetto ibrido che tiene conto sia di caratteristiche individuali, per accertare lo status di occupato, sia di caratteristiche familiari, quelle relative al reddito, utilizzate per accertare lo stato di povertà.
Altri metodi fanno riferimento esclusivamente a valori individuali di salario e occupazione e perciò vengono definiti “indicatori di basso salario”. Nel progetto di ricerca si è preferito seguire questa seconda strada: l’obiettivo è stato indagare quanti sono i lavoratori (e quali le loro caratteristiche) che, se dovessero vivere unicamente del proprio salario, rischierebbero di ritrovarsi in stato di indigenza. Chiaramente, il reddito di un individuo in età da lavoro si costituisce non solo di reddito da lavoro, ma anche di trasferimenti o reddito da capitale, così come fondamentale è anche il ruolo della famiglia nel sostentamento; ma l’idea di fondo del progetto era proprio quella di sfruttare le potenzialità dei dati amministrativi per comprendere l’andamento del mercato del lavoro italiano negli ultimi 30 anni in termini di povertà da lavoro e bassi salari. Perciò, la definizione prevede che venga trascurato il reddito familiare e definito come povero da lavoro (working poor) chi nell’anno ha un reddito da lavoro non nullo e abbia una retribuzione individuale annua inferiore al 60% della mediana.
Questa definizione tiene conto di due diversi aspetti che influenzano la povertà da lavoro individuale: il basso livello delle retribuzioni per alcuni lavoratori e la ridotta intensità occupazionale, sia in termini di ore lavorate che come mesi di occupazione. Oltre a questa soglia “relativa”, che consente di misurare la povertà rispetto al livello medio di una società, ne viene applicata anche una “assoluta”, che misura la povertà in termini di distanza da uno standard di vita accettabile. Si utilizzano le soglie individuali di povertà assoluta dell’Istat, con l’obiettivo di cogliere le possibili differenze in termini di costo della vita tra i lavoratori del Nord, Centro e Sud.
I dati utilizzati sono quelli degli archivi amministrativi Inps dei dipendenti privati, dei collaboratori, dei professionisti e dei domestici, per un periodo di tempo che va dal 1990 al 2017. Il numero totale di lavoratori osservati è di 10,5 milioni nel 1990, che diventano circa 16 milioni nel 2017: la banca dati più ampia mai usata per questi studi in Italia. Lungo l’arco di tempo osservato, uno dei cambiamenti più rilevanti riguarda il numero di lavori svolti dal singolo lavoratore: se nel 1990 quasi l’87% dei lavoratori svolgeva un unico lavoro durante l’anno, nel 2017 questa percentuale si riduce al 79%, denotando un rilevante aumento della frammentazione lavorativa negli ultimi 30 anni.
A causa della stagnazione dei salari, la soglia di povertà relativa – pari al 60% della mediana dei salari annuali o mensili a seconda della dimensione di reddito considerata – si è ridotta nel periodo di osservazione, raggiungendo 10.837 euro annuali e 972 euro mensili nel 2017 (Figura 2). Quanto alla povertà assoluta, le soglie definite dall’Istat per i singoli individui nelle diverse macro-aree italiane nel 2017 oscillavano tra i 771 euro al Nord, i 740 al Centro e i 584 al Sud.
Dalle analisi emerge che nel 2017 quasi un terzo dei lavoratori era povero (Figura 1). Questo preoccupante risultato può derivare dall’utilizzo di una definizione di occupazione molto ampia (tutti coloro che hanno un reddito da lavoro positivo nell’anno), ma la tipologia di dato amministrativo – che non indica il motivo della non occupazione – suggerisce di non utilizzare il numero di settimane lavorate nell’anno per stabilire se un individuo è occupato o no. Inoltre, si osserva un trend crescente nel tasso di povertà da lavoro: dal 26% nel 1990 al 32,4% nel 2017 nel caso della povertà relativa calcolata sui salari annui. Quando si utilizza la soglia di povertà assoluta, il numero di lavoratori da considerare poveri è inferiore, ma osserviamo un trend ascendente ancora più marcato negli anni Duemila. Anche l’intensità della povertà – ovvero quanto si è distanti dalla soglia – è aumentata nel tempo: l’indice di poverty gap, riferito alla povertà relativa, è aumentato dal 13,8% nel 1990 al 17,9% nel 2017.
Quali sono le ragioni di questo incremento nel tempo? Come già detto, l’indicatore di povertà o basso salario adottato nello studio è influenzato da due variabili, il salario e il tempo di lavoro. Sul versante retributivo, ha inciso il cambiamento nella struttura occupazionale avvenuto negli ultimi trent’anni con la crescita di alcuni settori, come i servizi a famiglie e il turismo, nei quali la retribuzione non è sufficiente per uscire dalla povertà. Inoltre, vanno considerate le numerose riforme di deregolamentazione contrattuale che hanno permesso la moltiplicazione delle tipologie di contratti atipici e, sovente, precari. Un effetto analogo può essere stato esercitato dall’aumento dei contratti collettivi nazionali (854 nel 2020 secondo il Cnel, contro i 300 del 2005) che coincide con una crescente tendenza al mancato rispetto dei minimi tabellari da essi fissati.
Per quanto concerne i tempi di lavoro, sulla working poverty ha inciso la forte diffusione del part-time. Circa il 30% dei lavoratori nel 2017 è part-time secondo i dati: questo valore è quasi triplicato rispetto ai primi anni Duemila. Anche le riforme del mercato del lavoro (Pacchetto Treu, Legge Biagi, Jobs Act) hanno contribuito a moltiplicare le figure contrattuali ibride, tutte pericolosamente tendenti a non stabilire un orario di lavoro che assicuri un salario soddisfacente. Al riguardo è significativo il mancato aumento delle ore lavorate dopo la crisi finanziaria, malgrado la risalita seppur lieve dell’occupazione (trainata, quindi, dal tempo determinato e dal part-time).
Analizzando i risultati per caratteristiche demografiche dei lavoratori emerge un profondo gender gap in termini di tasso di povertà da lavoro, che si è mantenuto stabile, se non ampliato, nel tempo. Il tasso di povertà delle lavoratrici è doppio rispetto a quello dei lavoratori (40 contro 24%). Similmente, un forte divario emerge per l’età dei lavoratori: gli under 35 sono fortemente penalizzati. Infine, un ruolo preponderante è svolto dal luogo dove si lavora: la Figura 3 sulla diffusione della povertà da lavoro mostra che vi sono ampie discrepanze tra Nord e Sud.
Studiando la probabilità di essere lavoratori poveri, si coglie che i fattori correlati più importanti restano il genere, la cittadinanza e l’area geografica. Per i dipendenti, pesano soprattutto i contratti part-time e a termine. La probabilità di essere un lavoratore povero aumenta poi col numero di lavori svolti nell’anno, delineando una pericolosa correlazione tra precarietà e bassi salari.
Insomma, la povertà da lavoro dipende non solo dal salario orario, il cui livello medio va alzato, ma anche dal tempo di lavoro. Sarà cruciale incrementare le ore lavorate, aumentando la domanda di lavoro (non certo la giornata lavorativa) e limitare l’abuso di forme contrattuali non convenzionali.
Il cambiamento più rilevante emerso: la frammentazione
Lungol’arco di tempo osservato, uno dei cambia-menti più rilevanti riguarda
il numero di lavori svolti dal singolo lavoratore: se nel 1990 quasi l’87% dei lavoratori svolgeva un unico lavoro, nel 2017 la quota si riduce al 79% È un rilevante aumento della frammentazione lavorativa negli ultimi 30 anni