Quella che segue è la seconda parte dell’intervista a Jacopo Fo per i cinque anni dalla morte del padre Dario (13 ottobre). È possibile leggere la prima parte sul Fattoquotidiano.it
Gli attori come si rapportavano a lui?
Nessuno riusciva a tenerlo, solo mamma, solo lei poteva dirgli ‘basta Dario, stai esagerando’.
Lavia spiega: “Mi dedico al teatro perché amo il post-spettacolo”.
No, mio padre si rompeva i coglioni. Andavano al ristorante in un’orda di persone, quindi passavano decine e decine di minuti prima che arrivasse qualcosa da mangiare; (sorride) dopo aver varcato la soglia del locale, si toglieva il cappotto ed entrava direttamente in cucina. Nessuno protestava perché era Dario Fo. Allora recuperava un piatto e si serviva direttamente dalle pentole; (silenzio) il bello è che assaggiava e se qualcosa non gli tornava criticava lo chef.
Non si offendevano?
La sua risposta? ‘Se lo chef non è idiota le critiche gli servono’; poi con il piatto pieno si sedeva al tavolo, mangiava, finiva e se ne andava. Ah, la liturgia veniva mantenuta pure se quella sera, con il gruppo, c’era il sindaco o qualche parlamentare.
Sua madre sopperiva?
Neanche tanto, non sono stati bravi a mantenere le relazioni, tanto che non hanno mai ottenuto alcun finanziamento pubblico per il teatro.
Mai?
In sessant’anni neanche una volta, eppure erano primi per incasso, superati solo dalla Rivista.
Neppure dopo il Nobel?
Nulla, nemmeno mai nominati direttori di qualche teatro, o direttori artistici di qualcosa, un cavalierato del lavoro o che ne so. Niente. Non esiste un solo premio, un solo riconoscimento dedicato a loro; (ci pensa) stessa storia con il Pci: nessun appoggio neanche quando lasciarono il circuito ufficiale dei teatri per crearne uno alternativo con l’Arci e il palcoscenico smontabile.
Cosa accadde?
Gli fecero saltare la tournée, a quel punto mia madre si presentò a Roma da Berlinguer, mentre gli fumava in faccia un intero pacchetto di sigarette… (silenzio, ride) Le sigarette erano di Berlinguer: da sempre penso a quanto mi sarebbe piaciuto avere un video di quel confronto, perché so come si poneva mamma, so della sua energia e sorrido a immaginarla davanti a Berlinguer mentre lo fa a pezzi e gliene dice di tutti i colori.
Come finisce?
Che Berlinguer alza il telefono e ordina di ripristinare le serate: erano saltate 35 piazze. Ed è stata la prima e unica volta dell’intervento di un politico a favore dei miei, ma era solo per sanare un sabotaggio di un altro gruppo di politici.
Sua mamma ha salvato la carriera a un ministro democristiano.
Era dotata di un intuito formidabile. Non ricordo dov’era, credo a una festa, comunque entra in un bagno, si chiude dentro e per caso ascolta il dialogo di due donne. Capisce che parlano di un ministro, di un suo imminente viaggio a Città del Messico, e una delle due spiega come lo avrebbero incastrato: ‘Troverà una ragazza bellissima nella hall, colpo di fulmine, camera da letto e telecamere piazzate’.
E sua mamma?
Il giorno dopo trova il numero del segretario: ‘Sono Franca Rame, se per caso il ministro ha in programma un viaggio a Città del Messico, mi chiami’. Dopo pochi minuti ecco il ministro: ‘Come fa a saperlo? È un segreto’. Mamma gli spiega tutto. Da quell’anno, e negli anni a seguire, a Natale ci arrivava un incredibile pacco regalo. Sempre anonimo.
Davvero non conosce il nome del fortunato?
Mai rivelato; come non so il nome del dirigente del Pd che la fece infuriare e la portò alle dimissioni da senatrice.
Come?
Lei iniziò a parlargli dell’uranio impoverito, ma si rese conto che in realtà quello fingeva di ascoltarla, così cambiò discorso: ‘Sai, ho appena accoltellato mio figlio, l’ho fatto a pezzi e ora ho una sua mano nella borsetta. Sta sanguinando in giro. Pure qui in Senato. Cosa ne pensi?’. E lui: ‘Brava Franca, brava’.
In carriera quante recite ha saltato suo padre?
I miei sono andati in scena pure lo stesso giorno della morte delle loro madri e sarebbe stato una vergogna rinunciare; (pausa) fa parte dell’onore dei teatranti: il pubblico è sacro, non puoi deluderlo; sono persone che hanno indossato il cappotto, sono uscite di casa, hanno speso soldi solo per vederti. Io stesso ho recitato in condizioni assurde: ho collassato all’esordio del primo spettacolo con i miei genitori.
Ed è salito sul palco?
Teatro Nazionale di Milano, 1.200 spettatori più le riprese televisive; non ricordo nulla della mia performance: non solo non ho sbagliato una battuta, ma alla fine, mentre me ne andavo, ho sculettato come un selvaggio della Papuasia.
Davvero non ricorda nulla?
Zero, ogni tanto rivedo il video della serata perché lì non ero io ma la “belva”. E questo è il teatro; (sorride) succedeva anche alle manifestazioni: siccome ero un cagasotto, al primo momento di pericolo, sistematicamente, mi arrivava una colica renale. Istantanea. Poi continuavo il corteo, piegato in due, con i miei amici consapevoli ma allucinati; quando poi partivano i lacrimogeni scattava in me una sorta di anestesia totale: mi alzavo ed ero pronto allo scontro.
Suo padre alla “Festa del Fatto” era in forte difficoltà nei movimenti. Sul palco diventò un’altra persona.
Non vedeva nulla! Quando abbiamo realizzato con la Cortellesi le riprese della Callas , in apparenza era perfetto, in realtà era cieco; (ride) papà scrisse la sceneggiatura per un dialogo tra lui e Paola che doveva diventare lo spot dello spettacolo. Prima della stesura finale ci incontriamo con lei a pranzo per una lettura. Papà prende i fogli. Alla fine Paola lo guarda e sentenzia: “No Dario, non va proprio bene”. Io sbianco. Dario è sempre stato uno incazzoso.
E invece?
È scattato l’effetto-Franca: Paola era riuscita a pronunciare un “no” esattamente con il tono e i modi di mia madre e papà era entusiasta. Da lì in poi l’ha amata in maniera pazzesca, perché lei gli diceva la verità, motivandola e con un istinto teatrale straordinario.
Lei era d’accordo con la Cortellesi?
Assolutamente! Però quando ero io a esprimere un giudizio, s’incazzava. E se avevo ragione dovevo dimostrarglielo con il sangue; ricordo le discussioni sulle date nei suoi monologhi: ‘Papà, se è 1720 perché devi dire 1760? Sei un premio Nobel’. E lui: ‘Chi se ne frega! Che importanza ha? Sei noioso’.
Al Nobel c’è stato un rischio…
Nooooo (il noooo è prolungato, sofferto e divertito). È stata una situazione tremenda. Attimi di terrore. E non se n’è accorto nessuno; aveva preso in prestito uno smoking dal suo amico Ferrè, ma sul palco gli sono saltate le bretelle e ha rischiato di restare in mutande come a Pordenone (mentre chiedeva le indicazioni a una passante). Secondo me, in quegli attimi, le nonne si sono riunite per tenergli su le braghe.
Sua nonna aveva predetto il Nobel…
In famiglia ero l’unico pronto a discutere il mistero della vita, argomento vietato in casa, in quanto comunisti; insomma, nonna da bambina, da contadinella, mentre raccoglieva l’insalata nel campo, ha visto una luce, ha visto Dio ed è cascata a terra svenuta. Era convinta di aver vissuto un’esperienza mistica. Dopo tre giorni, nel paesino, è arrivato un indovino e in cambio di quattro uova le ha letto la mano: ‘Avrai un figlio che sarà famoso in tutto il mondo’. Frase che sicuramente ripeteva a tutte.
E…
Mia nonna, per anni, ha massacrato di botte mio padre e il fratello perché non sapeva chi dei due fosse “l’eletto”: proibiva tutto per paura gli capitasse qualcosa. Perché lei ne era certa e lo ripeteva di continuo.
Non scherzava.
Nonna non scherzava quasi mai; una volta ero da lei, caddi in terra e si staccò la pelle del gomito. Un pezzo grosso. Arrivò, mi portò alla fontanella, sputò sulla ferita e riattaccò la pelle. Basta. Finito. Ho ancora una cicatrice allucinante.
Più efficace lo sputo di nonna o il celebre beverone energetico di Jannacci?
Quella di Enzo era quasi magia nera: se una persona normale beveva quella roba e dopo non organizzava qualcosa di pazzesco rischiava l’ospedale; (ride) una volta lo ha provato Paolo Rossi ed è andato avanti tutta la notte a recitare, anche dopo la fine del suo spettacolo e nonostante il teatro fosse chiuso. Alle sei del mattino lo hanno portato in ospedale e sono stati costretti ad anestetizzarlo.
Non è leggenda.
Tutto vero. Con la celebre battuta di Paolo: ‘Enzo si è sbagliato: io sono piccolo, e mi ha dato una dose da grande’.
Suo padre l’ha provato?
Mai. Neanche beveva. Prima dello spettacolo camminava e basta.
Dario Fo sosteneva: “Rubare è da geni, copiare è da coglioni”.
È vero, infatti sono rimasto disgustato per quanto successo a Luttazzi e l’accusa di plagio: Daniele, rispetto al teatro, è uno degli artisti più coraggiosi, e questo coraggio lo ha pagato e lo paga carissimo.
Si è goduto i suoi?
Mi sono divertito come un pazzo. E mi sono sempre ritenuto un uomo fortunato.
Nonostante le chiusure emotive di suo padre.
Rispetto alla manifestazione dei sentimenti viveva una forte difficoltà. (Pausa) Nella sua arte c’è tutto un aspetto di fuga dalla realtà e in parte è la sua grandiosità; creava mondi fantastici, poi nella vita quotidiana c’erano pezzi che non registrava, non si rendeva conto. (Silenzio) Di certe vicende non abbiamo mai parlato: ripenso al rapimento di mia madre, e forse in alcuni momenti avrei avuto bisogno di sfogarmi con lui.
Indole o vita?
Una volta, una sola volta, quando avevo cinquant’anni, mi raccontò una storia terribile: era in treno durante il più grosso bombardamento su Milano e vide una strage, con le persone che gli esplodevano davanti. Lui illeso. In questo ricordo ho avvertito una carica spaventosa di dolore, come se lui avesse subito un trauma primario che l’ha portato a chiudere le porte emotive. Per questo mi spiego certi atteggiamenti, come nel caso di mia madre.
E nella sua arte?
La sua comicità incredibile, il grammelot, era anche un modo per far scatenare la sua parte emotiva incatenata; (cambia tono) nel 1945 aveva 17 anni e visse un altro dramma spaventoso: la morte, la paura, il doversi nascondere per sei mesi in una casa diroccata, con il fratello piccolo che gli portava da mangiare. C’erano lui e la foresta, perché era nascosto in una baita diroccata in montagna; (cambia ancora tono) durante gli spettacoli, nelle improvvisazioni, quando emetteva suoni o eseguiva movimenti strani, pure nel Grammelot, le persone scoppiavano a ridere perché papà era come se rappresentasse un archetipo tragico, ma rovesciandolo. Se uno isola quel grido, quel movimento, è un attimo di follia, di fuga, di negazione della realtà; per comprendere tutto questo ho guardato i pezzi di mio padre al rallentatore, fotogramma per fotogramma, per capire dove il pubblico si esaltava.
Cosa è uscito fuori?
Resta il mistero. Il mistero di dove e perché ridono proprio in punti specifici. L’unica spiegazione è che in quel momento mio padre è alle prese con un movimento, un’espressione non normali. Da pazzo. E per riuscirci doveva entrare in comunicazione con la parte più profonda, più nascosta, più dolorosa di se stesso. Quella parte che non era in grado di reagire alla violenza sulla moglie, perché credeva che nessuna reazione sarebbe stata opportuna, ma aveva il coraggio di farla emergere ogni sera sul palco. E da quel palco non voleva mai allontanarsi.
(Canta Lucio Dalla: “Balla alla luce di mille sigarette e di una luna. Che ti illumina a giorno, balla il mistero. Di questo mondo che brucia in fretta quello che ieri era vero”).@A_Ferucci