Ma mi faccia

Prima e dopo la cura. “Calenda: un risultato mai visto prima” (Corriere della sera, 5.10). E non hai ancora visto dopo.

Fauna acquatica. “Se il governo è forte resiste anche alle difficoltà interne ai partiti: se c’è burrasca dipende dal mezzo che utilizzi quando sei in mare, se c’hai un canotto o un gommone scadente, soffri le onde. Ma Conte è uno yacht di lusso, per l’Italia Conte è oggettivamente l’uomo che sta mettendo in sicurezza i conti… Ehm, volevo dire Draghi! Non mi permetterei mai di dire che Conte e Salvini sono un canotto” (Matteo Renzi, leader Iv, Tagadà, La7, 1.10). Ha parlato il plancton.

Il vizietto. “Antonio, poi ti coinvolgiamo, però le cose a tre più tardi, adesso facciamo le cose a due, non è il momento” (Matteo Salvini, leader Lega, ad Antonio Tajani, vicepresidente FI, dopo aver preso in braccio Giorgia Meloni a Spinaceto, Corriere.it, 1.10). Morisi aveva da fare.

Sinonimi. “Calenda e Bassolino sono due ‘sconfitti vincenti’” (Francesco Merlo, Repubblica, 8.10). Praticamente trombati.

Scenari. “Scenari interessanti a livello nazionale da questi risultati. È possibile uno schieramento competitivo di centrosinistra al netto dei Cinque stelle” (Bobo Craxi, capolista Psi a Roma a sostegno di Gualtieri sindaco, Corriere della sera, 7.10). Lui, per dire, ha preso 364 preferenze.

L’ombelico del mondo. “Il miglior risultato che Draghi poteva desiderare” (Domani, 5.10). “Sembra aver vinto la lealtà nei confronti del governo Draghi” (Massimo Franco, Corriere della sera, 5.10). “Il test che rafforza Draghi” (Messaggero, 5.10). “Le elezioni comunali hanno un solo vincitore: Draghi” (Piero Sansonetti, Riformista, 5.10). E senza neppure il fastidio di candidarsi.

Le vite parallele. “Ilda e l’amore segreto. Ora esalta la passione che contestò al Cav. Nel suo libro la Boccassini rivela il legame con Falcone” (Paolo Guzzanti, Giornale, 8.10). Quindi Ilda sta a Falcone come Ruby stava Berlusconi. Che fosse maggiorenne e non fosse pagata sono solo due piccoli dettagli: non per nulla Guzzanti è l’ex presidente della Commissione Mitrokhin.

La marcia trionfale. “Abbiamo vinto al primo turno da Muggia a Bernalda, da Codogno a Melfi, da Nardò a Villorba” (Matteo Salvini, Tg1, 4.10). Mica pizza e fichi.

La mosca cocchiera. “Calenda può convincere quel 50 per cento che non ha votato” (Marco Bentivogli, ex segretario Fim, Foglio, 8.10). Solo il 50 per cento? Minimalista.

Exit da Italexit. “Italexit tre iscritti o quattro? Ti faccio vedere a Milano quanto prendo! Ti confermo che sono un fuoriclasse, fra un po’ ci sono le elezioni a Milano e io sono candidato sindaco. Ci vediamo dopo lo spoglio, vedrai la bella sorpresa che ti ritrovi! Dovrai scriverlo sul tuo giornale!” (Gianluigi Paragone, ex Lega Nord, ex M5S, ora Italexit, a Fabrizio Roncone del Corriere della sera, Piazzapulita, La7, 23.9). Poi è stato di parola: a Milano ha preso il 2,99% e non è neppure entrato in Consiglio comunale. Che fuoriclasse, che bella sorpresa.

Minzolingua. “Simboli di un cambio di stagione: si dissolve nell’opinione pubblica il grillismo, malattia infantile del giustizialismo, e quei magistrati, o ex-magistrati, che ne sono stati gli eroi finiscono sul banco degli imputati. Piercamillo Davigo e Fabio De Pasquale…” (Augusto Minzolini, Giornale, 9.10). Poi ci sono i pregiudicato per peculato continuato: cioè i Minzolini.

Balle a rotelle. “110.000 banchi a rotelle inutilizzati perché non in regola con l’antincendio. Chi pagherà? Che vergogna! Perché dire no alla commissione d’inchiesta? Siamo orgogliosi di aver mandato a casa Conte e Arcuri: con Draghi e Figliuolo abbiamo detto basta anche allo scandalo dei banchi a rotelle” (Matteo Renzi, leader Iv, Twitter e Facebook, 4.10). I banchi in questione non furono approvati da Arcuri, ma da una commissione esterna al Commissariato; quelli contestati dai dirigenti scolastici (perché troppo larghi, non perché infiammabili) non sono 110 mila, ma 6 mila sui 37 mila consegnati; non sono a rotelle, ma banchi monoposto tradizionali; e furono subito sostituiti da Arcuri dopo la disdetta del contratto con la ditta portoghese inadempiente. Complimenti: quattro cazzate in tre righe.

Il titolo della settimana/1. “Buzzi e il pub ‘Mafia Capitale’: ‘Verrà a suonare Bobo Craxi’” (Stampa, 8.10). Sono soddisfazioni.

Il titolo della settimana/2. “Draghi: pandemia quasi finita” (Repubblica, 9.10). Abbiamo appena 1.200 morti al mese, che sarà mai.

Il titolo della settimana/3. “Renzi, Calenda e tutti i bulli un po’ piacioni che rompono le regole” (Francesco Cundari, Foglio, 9.10). Ah, ora si chiamano regole?

“Era ora”: Leo torna sul set e la Nicchiarelli si vota alla Santa

Cate Blanchett interpreterà da protagonista il nuovo film di Pedro Almodóvar A Manual for Cleaning Women, tratto dall’omonima raccolta di racconti di Lucia Berlin e realizzato grazie a una coproduzione tra Spagna, Francia e Stati Uniti. La 52enne attrice australiana recita intanto a New York nel breve ruolo di Maryanne Trump, sorella dell’ex presidente Usa Donald, in Armageddon Time, il nuovo film di James Gray interpretato da Oscar Isaac, Robert De Niro, Anne Hathaway e Donald Sutherland e ispirato all’adolescenza trascorsa dal regista negli anni 80 presso la “Few Forest School” nel quartiere Queens.

Dopo due film ancora inediti di cui è stato sia il regista sia il protagonista (Lasciarsi un giorno a Roma e Non sono quello che sono), Edoardo Leo girerà da domani a Roma Era ora, un’originale e bizzarra commedia romantica, di cui sarà l’interprete principale con Barbara Ronchi. Diretto da Alessandro Aronadio per Bim, Palomar e Vision Distribution, il film racconterà la storia di Dante, un uomo che ha una bellissima relazione con la fidanzata Alice, ma vive un rapporto davvero pessimo con il tempo. Assorbito da mille impegni, arriva sempre in ritardo e ha l’impressione che la sua vita stia scorrendo troppo velocemente. Il giorno in cui compie 40 anni quell’impressione diventa incredibilmente realtà e da quel momento Dante si ritrova a saltare in avanti di anno in anno, senza avere più controllo della sua vita.

Susanna Nicchiarelli dirigerà da fine ottobre Chiara, un nuovo biopic incentrato su Santa Chiara d’Assisi, interpretato da Margherita Mazzucco (L’Amica geniale) e Andrea Carpenzano. Prodotto da Vivo Film con Rai Cinema e la società belga Tarantola, il progetto concluderà la trilogia di biografie femminili della regista romana iniziata con Nico, 1988 e proseguita con Miss Marx.

“Parola”a Caccamo, un puzzle con Battiato, Patti e Jesse Smith, Pasolini e Liliana Segre

Il Che era tornato dall’Africa, provato ma non domo. “Rientrò a Cuba travestito da anziano”, racconta Giovanni Caccamo. “Sua figlia Aleida conserva il ricordo nitido di quell’unico incontro. Non sapeva che il vecchio fosse suo padre. Ma l’uomo prese la sua piccola mano e lei si addormentò”. La Guevara è una delle figure straordinarie che hanno partecipato al progetto discografico di Caccamo, Parola.
“Aleida ha declamato per me la lettera-testamento che il Che aveva indirizzato dalla Bolivia ai propri bambini. Del papà conserva la tenacia rivoluzionaria, smussata da una femminile tenerezza, sulla necessità dell’unione fra Occidente e Terzo mondo. ‘Il caffè più buono lo bevi a Napoli, ma con i chicchi del Sudamerica’, mi disse”.

Parola è un album incentrato “sull’urgenza di un nuovo dialogo intergenerazionale per riflettere in maniera meno frettolosa sul valore di ciò che diciamo e scriviamo”, spiega il cantautore. Sette canzoni precedute da intro strumentali corredate da pensieri (firmati da Bufalino, Pasolini, Sgalambro & Battiato) per le voci recitanti di Patti e Jesse Smith, Willem Defoe, Liliana Segre, Michele Placido, Beppe Fiorello. Più la Guevara e la registrazione – la scintilla da cui è scaturito il lavoro – di un “appello ai giovani” di Andrea Camilleri: “Le parole sono pietre, possono trasformarsi in pallottole”. Caccamo lo ha trasformato in un concept che dallo studio (dove tornerà con nuovi camei) è approdato in location museali per tre eventi-benefit: le Gallerie d’Arte di Milano, Palazzo Vecchio a Firenze e domani il Maxxi di Roma, dove Caccamo potrà contare su Patti & Jesse Smith, che con lui eseguiranno live People Have the Power e Imagine.

“Nel mio puzzle creativo, ogni ospite ha lasciato segni luminosi: Jesse Smith ha scritto un testo per mamma Patti, una metafora del rapporto lacerato tra umanità e natura. Liliana Segre era titubante, si sentiva un pesce fuor d’acqua. Si convinse dopo un nostro incontro a Milano, al Parco Sempione. Mi confidò di quando il padre Alberto, rinchiuso a San Vittore, le aveva chiesto scusa per averla messa al mondo in un tempo d’orrore. Cercai l’empatia con la bimba Liliana, lei mi chiese di parlarle di mia madre”. E Defoe? “L’avevo conosciuto anni prima a casa Battiato. Un’ora dopo aver ricevuto la mia mail di proposta mi rispose: ‘Ti mando tre prove. Sono ok? Altrimenti le rifaccio”’.

Su tutta l’opera aleggia lo spirito benedicente di Battiato, mentore di Giovanni. “La sua eredità più preziosa è un consiglio: ‘Impara a scardinare l’arte dal fine, fai in modo che sia sempre lo specchio di ciò che sei, allontanati dai falsi sentieri del successo’”. Il giorno dell’addio, Caccamo era lì: “Prima del funerale notai dei segni: un’ombra sul muro che pareva il suo profilo, un lampione intermittente. Al pomeriggio mi sedetti in riva al mare e ripensai all’omelia di padre Guidalberto: ‘Franco era legato a un’iconografia della morte cara a San Carlo Borromeo, l’angelo con la chiave che apre i nostri cuori’. Guardai nell’acqua e trasalii: nascosta tra gli scogli luccicava una chiave”.

“Zanzotto, il mio ansiolitico contro la pochezza di oggi”

La rivista online “Quaderni veneti” ospita un omaggio
ad Andrea Zanzotto con un intervento anche di Patrizia Valduga, che qui anticipiamo

Soligo trapunto a piccoli cieli-meli-steli. Quando sono stata la prima volta a Pieve di Soligo? L’ho annotato nel quaderno del 1976: mercoledì 24 novembre, pomeriggio. Avevo fatto avere una lettera a Zanzotto tramite una sua ex allieva e ottenuto un appuntamento alla stazione di Conegliano. Arrivo in treno da Venezia: l’aspirante poetessa che non conosce la riconosce subito da lontano, e mi viene incontro. In auto verso Pieve dice che sono “cerea”, “imbullonata”… E domanda a se stesso: “Ma perché non viene mai da me una giovane sana e allegra?”. E io, un po’ risentita: “E perché mai una giovane sana e allegra dovrebbe venire da lei?”. Si volta verso di me, e mi guarda per qualche secondo: uno sguardo fiammeggiante, e profondo come un colpo di sonda, come una radiografia del mio cervello. Poi, con gli occhi di nuovo sulla strada: “Vero anca questo”. In quel momento, io così piccola mi sono sentita accolta da lui così grande.

O memoria con meco t’incammini. Ogni volta arrivo a Conegliano con un carico di angosce, che gli scarico addosso. I problemi fisici, psichici, sessuali, affettivi mi vengono fuori come da uno psicoanalista. Che bene mi fanno le sue parole: illuminazioni, vertigini, sprazzi di gioia. Mi dice di non fumare: “Il fumo fa male, soprattutto a me”… E l’Ipersonetto del Galateo in bosco, quanto ci ho messo a impadronirmene, nutrirmene? Pochissimo: nel ’79 comincio a metter su la mia sonetteria come si mette su una baracca, una baracca abusiva della “metropoli Zanzotto”. I materiali li prendo da lui, li assemblo meglio che posso: è la mia seconda vita che comincia.

Dimmi che cosa ho perduto. Negli anni 80 Andrea vuol dare le dimissioni dalla letteratura: “Son proprio stomegà”. E negli anni 90: “Ieri sono uscito abbastanza felicemente senza beccarmi niente di nuovo”. L’autore ideale di Adelphi si chiama “Cioranetti”: Cioran + Ceronetti, epitome del catastrofismo sentenzioso… “Aria di fessura, aria di sepoltura”, dico timidamente a chi guida in una giornata caldissima e abbassa un po’ il finestrino; e lui, definitivamente: “Aria di finestra, colpo di balestra”. Il finestrino viene chiuso all’istante.

Per carità/ esci dalla virtualità. Gli dico al telefono che passo, cupa e ossessiva, intere giornate in internet per cercare un fidanzato. Esclama: “No, non devi!: lì ci sono solo i rimasugli”. La parola “rimasugli” mi distoglie d’un colpo da quella occupazione disperata: l’ossessione svanisce, mi sento quasi allegra, e mi fidanzo persino, poco dopo, anche se per poco, molto poco; perché non viene mai meno il potere terapeutico delle sue parole.

Nell’anno dei vermi/ dei vermi dei vermi e dei vermi. Zanzotto il mio ansiolitico, il mio antidepressivo? Anche. È soprattutto un distributore di energia psichica, e non soltanto per me, ma per tutti quanti, oltre che una potente medicina morale contro le ignavie e le infamie che infettano il nostro oggi. Sono fiera di aver bussato alla sua porta, sono piena di gratitudine perché l’ha aperta e mi ha fatto entrare. Oggi per stare con lui sto con i suoi versi, e quando sto con i suoi versi è come se lo pregassi: Andrea, affàcciati dal bordo del tuo cielo, rimetti in circolo il sangue della mia ultima vita.

Nessun tempo è mai passato/ ogni tempo – unicamente – verrà.

“Dario, incazzoso e caotico: al ritiro del Nobel rischiò di rimanere in mutande”

Quella che segue è la seconda parte dell’intervista a Jacopo Fo per i cinque anni dalla morte del padre Dario (13 ottobre). È possibile leggere la prima parte sul Fattoquotidiano.it

Gli attori come si rapportavano a lui?

Nessuno riusciva a tenerlo, solo mamma, solo lei poteva dirgli ‘basta Dario, stai esagerando’.

Lavia spiega: “Mi dedico al teatro perché amo il post-spettacolo”.

No, mio padre si rompeva i coglioni. Andavano al ristorante in un’orda di persone, quindi passavano decine e decine di minuti prima che arrivasse qualcosa da mangiare; (sorride) dopo aver varcato la soglia del locale, si toglieva il cappotto ed entrava direttamente in cucina. Nessuno protestava perché era Dario Fo. Allora recuperava un piatto e si serviva direttamente dalle pentole; (silenzio) il bello è che assaggiava e se qualcosa non gli tornava criticava lo chef.

Non si offendevano?

La sua risposta? ‘Se lo chef non è idiota le critiche gli servono’; poi con il piatto pieno si sedeva al tavolo, mangiava, finiva e se ne andava. Ah, la liturgia veniva mantenuta pure se quella sera, con il gruppo, c’era il sindaco o qualche parlamentare.

Sua madre sopperiva?

Neanche tanto, non sono stati bravi a mantenere le relazioni, tanto che non hanno mai ottenuto alcun finanziamento pubblico per il teatro.

Mai?

In sessant’anni neanche una volta, eppure erano primi per incasso, superati solo dalla Rivista.

Neppure dopo il Nobel?

Nulla, nemmeno mai nominati direttori di qualche teatro, o direttori artistici di qualcosa, un cavalierato del lavoro o che ne so. Niente. Non esiste un solo premio, un solo riconoscimento dedicato a loro; (ci pensa) stessa storia con il Pci: nessun appoggio neanche quando lasciarono il circuito ufficiale dei teatri per crearne uno alternativo con l’Arci e il palcoscenico smontabile.

Cosa accadde?

Gli fecero saltare la tournée, a quel punto mia madre si presentò a Roma da Berlinguer, mentre gli fumava in faccia un intero pacchetto di sigarette… (silenzio, ride) Le sigarette erano di Berlinguer: da sempre penso a quanto mi sarebbe piaciuto avere un video di quel confronto, perché so come si poneva mamma, so della sua energia e sorrido a immaginarla davanti a Berlinguer mentre lo fa a pezzi e gliene dice di tutti i colori.

Come finisce?

Che Berlinguer alza il telefono e ordina di ripristinare le serate: erano saltate 35 piazze. Ed è stata la prima e unica volta dell’intervento di un politico a favore dei miei, ma era solo per sanare un sabotaggio di un altro gruppo di politici.

Sua mamma ha salvato la carriera a un ministro democristiano.

Era dotata di un intuito formidabile. Non ricordo dov’era, credo a una festa, comunque entra in un bagno, si chiude dentro e per caso ascolta il dialogo di due donne. Capisce che parlano di un ministro, di un suo imminente viaggio a Città del Messico, e una delle due spiega come lo avrebbero incastrato: ‘Troverà una ragazza bellissima nella hall, colpo di fulmine, camera da letto e telecamere piazzate’.

E sua mamma?

Il giorno dopo trova il numero del segretario: ‘Sono Franca Rame, se per caso il ministro ha in programma un viaggio a Città del Messico, mi chiami’. Dopo pochi minuti ecco il ministro: ‘Come fa a saperlo? È un segreto’. Mamma gli spiega tutto. Da quell’anno, e negli anni a seguire, a Natale ci arrivava un incredibile pacco regalo. Sempre anonimo.

Davvero non conosce il nome del fortunato?

Mai rivelato; come non so il nome del dirigente del Pd che la fece infuriare e la portò alle dimissioni da senatrice.

Come?

Lei iniziò a parlargli dell’uranio impoverito, ma si rese conto che in realtà quello fingeva di ascoltarla, così cambiò discorso: ‘Sai, ho appena accoltellato mio figlio, l’ho fatto a pezzi e ora ho una sua mano nella borsetta. Sta sanguinando in giro. Pure qui in Senato. Cosa ne pensi?’. E lui: ‘Brava Franca, brava’.

In carriera quante recite ha saltato suo padre?

I miei sono andati in scena pure lo stesso giorno della morte delle loro madri e sarebbe stato una vergogna rinunciare; (pausa) fa parte dell’onore dei teatranti: il pubblico è sacro, non puoi deluderlo; sono persone che hanno indossato il cappotto, sono uscite di casa, hanno speso soldi solo per vederti. Io stesso ho recitato in condizioni assurde: ho collassato all’esordio del primo spettacolo con i miei genitori.

Ed è salito sul palco?

Teatro Nazionale di Milano, 1.200 spettatori più le riprese televisive; non ricordo nulla della mia performance: non solo non ho sbagliato una battuta, ma alla fine, mentre me ne andavo, ho sculettato come un selvaggio della Papuasia.

Davvero non ricorda nulla?

Zero, ogni tanto rivedo il video della serata perché lì non ero io ma la “belva”. E questo è il teatro; (sorride) succedeva anche alle manifestazioni: siccome ero un cagasotto, al primo momento di pericolo, sistematicamente, mi arrivava una colica renale. Istantanea. Poi continuavo il corteo, piegato in due, con i miei amici consapevoli ma allucinati; quando poi partivano i lacrimogeni scattava in me una sorta di anestesia totale: mi alzavo ed ero pronto allo scontro.

Suo padre alla “Festa del Fatto” era in forte difficoltà nei movimenti. Sul palco diventò un’altra persona.

Non vedeva nulla! Quando abbiamo realizzato con la Cortellesi le riprese della Callas , in apparenza era perfetto, in realtà era cieco; (ride) papà scrisse la sceneggiatura per un dialogo tra lui e Paola che doveva diventare lo spot dello spettacolo. Prima della stesura finale ci incontriamo con lei a pranzo per una lettura. Papà prende i fogli. Alla fine Paola lo guarda e sentenzia: “No Dario, non va proprio bene”. Io sbianco. Dario è sempre stato uno incazzoso.

E invece?

È scattato l’effetto-Franca: Paola era riuscita a pronunciare un “no” esattamente con il tono e i modi di mia madre e papà era entusiasta. Da lì in poi l’ha amata in maniera pazzesca, perché lei gli diceva la verità, motivandola e con un istinto teatrale straordinario.

Lei era d’accordo con la Cortellesi?

Assolutamente! Però quando ero io a esprimere un giudizio, s’incazzava. E se avevo ragione dovevo dimostrarglielo con il sangue; ricordo le discussioni sulle date nei suoi monologhi: ‘Papà, se è 1720 perché devi dire 1760? Sei un premio Nobel’. E lui: ‘Chi se ne frega! Che importanza ha? Sei noioso’.

Al Nobel c’è stato un rischio…

Nooooo (il noooo è prolungato, sofferto e divertito). È stata una situazione tremenda. Attimi di terrore. E non se n’è accorto nessuno; aveva preso in prestito uno smoking dal suo amico Ferrè, ma sul palco gli sono saltate le bretelle e ha rischiato di restare in mutande come a Pordenone (mentre chiedeva le indicazioni a una passante). Secondo me, in quegli attimi, le nonne si sono riunite per tenergli su le braghe.

Sua nonna aveva predetto il Nobel…

In famiglia ero l’unico pronto a discutere il mistero della vita, argomento vietato in casa, in quanto comunisti; insomma, nonna da bambina, da contadinella, mentre raccoglieva l’insalata nel campo, ha visto una luce, ha visto Dio ed è cascata a terra svenuta. Era convinta di aver vissuto un’esperienza mistica. Dopo tre giorni, nel paesino, è arrivato un indovino e in cambio di quattro uova le ha letto la mano: ‘Avrai un figlio che sarà famoso in tutto il mondo’. Frase che sicuramente ripeteva a tutte.

E…

Mia nonna, per anni, ha massacrato di botte mio padre e il fratello perché non sapeva chi dei due fosse “l’eletto”: proibiva tutto per paura gli capitasse qualcosa. Perché lei ne era certa e lo ripeteva di continuo.

Non scherzava.

Nonna non scherzava quasi mai; una volta ero da lei, caddi in terra e si staccò la pelle del gomito. Un pezzo grosso. Arrivò, mi portò alla fontanella, sputò sulla ferita e riattaccò la pelle. Basta. Finito. Ho ancora una cicatrice allucinante.

Più efficace lo sputo di nonna o il celebre beverone energetico di Jannacci?

Quella di Enzo era quasi magia nera: se una persona normale beveva quella roba e dopo non organizzava qualcosa di pazzesco rischiava l’ospedale; (ride) una volta lo ha provato Paolo Rossi ed è andato avanti tutta la notte a recitare, anche dopo la fine del suo spettacolo e nonostante il teatro fosse chiuso. Alle sei del mattino lo hanno portato in ospedale e sono stati costretti ad anestetizzarlo.

Non è leggenda.

Tutto vero. Con la celebre battuta di Paolo: ‘Enzo si è sbagliato: io sono piccolo, e mi ha dato una dose da grande’.

Suo padre l’ha provato?

Mai. Neanche beveva. Prima dello spettacolo camminava e basta.

Dario Fo sosteneva: “Rubare è da geni, copiare è da coglioni”.

È vero, infatti sono rimasto disgustato per quanto successo a Luttazzi e l’accusa di plagio: Daniele, rispetto al teatro, è uno degli artisti più coraggiosi, e questo coraggio lo ha pagato e lo paga carissimo.

Si è goduto i suoi?

Mi sono divertito come un pazzo. E mi sono sempre ritenuto un uomo fortunato.

Nonostante le chiusure emotive di suo padre.

Rispetto alla manifestazione dei sentimenti viveva una forte difficoltà. (Pausa) Nella sua arte c’è tutto un aspetto di fuga dalla realtà e in parte è la sua grandiosità; creava mondi fantastici, poi nella vita quotidiana c’erano pezzi che non registrava, non si rendeva conto. (Silenzio) Di certe vicende non abbiamo mai parlato: ripenso al rapimento di mia madre, e forse in alcuni momenti avrei avuto bisogno di sfogarmi con lui.

Indole o vita?

Una volta, una sola volta, quando avevo cinquant’anni, mi raccontò una storia terribile: era in treno durante il più grosso bombardamento su Milano e vide una strage, con le persone che gli esplodevano davanti. Lui illeso. In questo ricordo ho avvertito una carica spaventosa di dolore, come se lui avesse subito un trauma primario che l’ha portato a chiudere le porte emotive. Per questo mi spiego certi atteggiamenti, come nel caso di mia madre.

E nella sua arte?

La sua comicità incredibile, il grammelot, era anche un modo per far scatenare la sua parte emotiva incatenata; (cambia tono) nel 1945 aveva 17 anni e visse un altro dramma spaventoso: la morte, la paura, il doversi nascondere per sei mesi in una casa diroccata, con il fratello piccolo che gli portava da mangiare. C’erano lui e la foresta, perché era nascosto in una baita diroccata in montagna; (cambia ancora tono) durante gli spettacoli, nelle improvvisazioni, quando emetteva suoni o eseguiva movimenti strani, pure nel Grammelot, le persone scoppiavano a ridere perché papà era come se rappresentasse un archetipo tragico, ma rovesciandolo. Se uno isola quel grido, quel movimento, è un attimo di follia, di fuga, di negazione della realtà; per comprendere tutto questo ho guardato i pezzi di mio padre al rallentatore, fotogramma per fotogramma, per capire dove il pubblico si esaltava.

Cosa è uscito fuori?

Resta il mistero. Il mistero di dove e perché ridono proprio in punti specifici. L’unica spiegazione è che in quel momento mio padre è alle prese con un movimento, un’espressione non normali. Da pazzo. E per riuscirci doveva entrare in comunicazione con la parte più profonda, più nascosta, più dolorosa di se stesso. Quella parte che non era in grado di reagire alla violenza sulla moglie, perché credeva che nessuna reazione sarebbe stata opportuna, ma aveva il coraggio di farla emergere ogni sera sul palco. E da quel palco non voleva mai allontanarsi.

(Canta Lucio Dalla: “Balla alla luce di mille sigarette e di una luna. Che ti illumina a giorno, balla il mistero. Di questo mondo che brucia in fretta quello che ieri era vero”).@A_Ferucci

Che stile morir dal ridere come un bue tibetano!

Le persone transgender sono diventate parte della conversazione nazionale. Siamo la pausa imbarazzata.

Alison Grillo

ELEMENTI DI STILISTICA COMICA

Lo stile, che è l’accordo fra i vari elementi espressivi, amplifica il piacere delle parole, dei concetti, dei gesti; ed è, forse, la parte più difficile dell’arte comica: insopportabile se pare ricercato, diventa mirabile quando è come un prodotto spontaneo della natura. Ci sono regole per quando si parla, per quando si scrive, per quando si agisce: disattenderle è una fonte sicura di comicità anche per gli antichi (cfr. Qc #28-42), dato che parlare e agire sono sempre fuori luogo se non sono motivati dalla necessità, e ciò che è fuori luogo fa ridere. D’altra parte, la comicità, che procede per eccessi, richiede per sé misura, in modo che i suoi stratagemmi non siano né esibiti, né così frequenti da risultare prevedibili. La grazia di un comico cresce quando non dà l’impressione di voler ottenere il riso: spesso un’azione richiede di essere compiuta seriamente, al fine di conciliarlo. Non è sempre necessario essere spiritosi nell’aspetto, nelle smorfie e nei gesti: una certa asciuttezza, a volte, favorisce la comicità, come dimostrano Peter Sellers e Bill Murray. Il ridicolo si trova ovunque: evito di esaminare tutti gli accidenti possibili per non incorrere in due inconvenienti, di dire troppo e tuttavia non tutto. Evitate le battute inopportune, comunque, se non volete gelare l’uditorio: magari ci fosse, un manuale che insegnasse a valutare ogni volta le circostanze in modo utile!

Lo stile di una gag (linguistica, visiva, fisica, sonora) è l’arte di disporre le unità più divertenti possibili nell’ordine più divertente possibile. “Indossava un tailleur, ed era così sexy che la gente si voltava a guardarla” fa meno ridere di “Indossava una minigonna e un golfino attillato, e la sua figura descriveva una serie di parabole che potevano causare l’arresto cardiaco a un bue tibetano” (Woody Allen).

IL CONTRASTO

Principio compositivo fondamentale della comicità, il contrasto va creato fra le scene; fra le situazioni in una scena; fra i personaggi, le azioni, i discorsi, e il contesto; fra i personaggi, come contrasto sia di caratteri, che di aspetto; fra i momenti emotivi; fra le azioni; fra le azioni e i discorsi; fra le parti del discorso; fra lo stile e il contenuto (come fanno spesso Elio e le Storie Tese, per esempio terminando Il vitello dai piedi di balsa, in apparenza una filastrocca per bambini, con la frase “Mi presento: son l’orsetto ricchione, e come avrai intuito adesso t’inculo”). Gesto, voce e sentimenti, di solito, vanno d’accordo: per questo farebbe ridere chi, commentando un affare del tutto insignificante, ricorresse alla confessione di Cicerone: “Non solo sono turbato nell’animo, ma rabbrividisco in tutto il corpo.” In modo analogo, sarebbe del tutto ridicolo chi trattasse un vescovo come fosse un giardiniere, una gag usata da Buñuel ne Il fascino discreto della borghesia; chi, in una situazione di pericolo, si allarmasse impiegando uno stile ornato di concettini, come fa Louis De Funès nei panni di un preside di liceo che, in volo su un aereo da turismo, quando questo comincia a precipitare intima al pilota: “Si aderga! Si aderga!” (Le grandi vacanze, 1967); o chi reagisse alle tragedie con risate irrefrenabili, come fa nei cartoni animati di Penelope Pistop (Hanna & Barbera, 1969) Yak Yak, uno dei sette gangster nani che la salvano ogni volta dai tiri dell’Artiglio Incappucciato (la gag della risata irrefrenabile nel dramma fu riutilizzata per la cameriera svampita di Louis De Funès in Jo e il gazebo, 1971).

IL SUONO DELLE UNITÀ LINGUISTICHE

Che il suono delle parole procuri all’ascoltatore effetti emotivi lo notavano già Cicerone e Quintiliano, invitando l’allievo a farne un uso sapiente. Fonte di divertimento che precede, nell’infanzia, l’acquisizione della competenza verbale, il suono delle unità linguistiche è riportato in primo piano da calembour, pun (paronomasie, allitterazioni, assonanze, onomatopee, segmentazioni fonico-morfologiche, mimesi verbali), rime e ritmi. Il suono di un’unità linguistica dà allegria, quando viene ripetuta: se ne apprezza l’esagerazione virtuosistica, come nei testi scioglilingua delle operette di Gilbert & Sullivan (“I am the very model of a modern Major-General / I’ve information vegetable, animal, and mineral / I know the kings of England, and I quote the fights historical / From Marathon to Waterloo, in order categorical / I’m very well acquainted, too, with matters mathematical / I understand equations, both the simple and quadratical / About binomial theorem I’m teeming with a lot o’ news (lot of news) / With many cheerful facts about the square of the hypotenuse.” Qui la trovate completa: bit.ly/3m3HAhU); ma fanno premio anche l’eleganza sobria, come nei limerick, filastrocche in cinque versi anapestici (l’ultimo dei quali riprende il primo), con schema rimario AABBA, resi celebri dal Book of Nonsense (1846) di Edward Lear (questo è di Gianni Rodari: “Una volta un dottore di Ferrara / voleva levare le tonsille a una zanzara. / L’insetto si rivoltò / e il naso puncicò / a quel tonsillifico dottore di Ferrara”); e l’allusione scurrile da avanspettacolo cantata da Aldo Fabrizi: “Taci dunque, dunque taci / Taci dunque, taci tu” (per ’tacci tu’, ovvero mortacci tua). La rima divertente risulta tanto più pregiata quanto più le parole baciate sono semanticamente distanti, come in espresso/guess so di On An Evening in Roma, un successo di Dean Martin (bit.ly/3kSrGYi).

L’allitterazione, cioè la ripetizione di suoni uguali o simili, dona energia e memorabilità ai sintagmi. I comici la usano di consueto per i nomi dei propri personaggi: Groucho Marx, per esempio, fu Rufus T. Firefly, Otis B. Driftwood, Quincy Adams Wagstaff, Hugo Z. Hackenbush, J. Cheever Loophole, S. Quentin Quale, Wolf J. Flywheel, Lionel Q. Deveraux, Emile J. Keck e Ronald Kornblow. “Il tempo vola come una freccia, la frutta vola come una banana” (Groucho Marx).

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Centrali elettriche ko. Black-out Libano: la crisi spegne tutto il Paese

Il baratro della crisi in cui è sprofondato da mesi il Libano è divenuto letteralmente un buco nero: l’intero Paese è in black-out. È finita l’energia elettrica e l’emergenza, riferiscono anonime fonti del governo citate dai media locali, potrebbe durare giorni. Gli interruttori nelle case dei libanesi non funzioneranno almeno fino a lunedì prossimo: è un pericoloso déjà vu vissuto dalla popolazione – già abituata ad avere corrente solo poche ore al giorno – in agosto, quando negozi, aziende, e perfino ospedali, furono costretti alla chiusura completa.

La rete elettrica del Paese dei cedri è stata messa fuori uso quando Al-Zahrani e Deir Ammar, due dei principali impianti del Paese, hanno finito il carburante e la produzione è precipitata sotto i 200 megawatt. Adesso i cittadini aspettano che risolva le cose Électricité du Liban, compagnia elettrica statale, la cui sede centrale di controllo è andata però distrutta nell’esplosione che ha devastato il porto della Capitale nell’agosto 2020. L’azienda ieri ha reso noto che adesso sta “effettuando le operazioni pertinenti manualmente”. Se le autorità non dovessero agire in fretta, il governo teme che i cittadini, anche a causa della catastrofe del sistema bancario e infrastrutturale, possano di nuovo mettere a ferro e fuoco le strade come è successo ripetutamente negli ultimi anni.

Il buio calato in Libano è reale e metaforico: assomiglia al colore del futuro del Paese, trafitto da una profondissima crisi economica, in attesa degli aiuti di salvataggio dal Fondo monetario internazionale da quando ha dichiarato default nel marzo 2020. La delegazione incaricata dei negoziati è stata già creata dal premier Najib Mikati, il miliardario arrivato a capo del Paese proprio alla fine dell’agosto scorso, dopo 13 lunghi mesi di trattative per la formazione di un esecutivo. Ieri Beirut avrebbe ottenuto garanzie su forniture di energia (elettrica e gas) per i prossimi mesi da Egitto, Giordania e Siria.

Bolivia, l’oro salato carburante del futuro nelle mani di Pechino

La Paz (Bolivia)

A Uyuni, nel lago di sale più grande al mondo, il carbonato di litio viene prodotto in un piccolo impianto-pilota. È un capannone al cui interno macchine rudimentali, ma efficaci, consentono agli ingegneri e agli operai della YLB (Yacimientos de Litio de Bolivia) di estrarre dalla salamoia che si trova sotto la crosta del “Salar” di Uyuni, l’oro del XXI secolo. L’oro bianco. Le batterie dei computer, dei cellulari e delle auto elettriche altro non sono che accumulatori agli ioni di litio. Il litio sarà la benzina dei prossimi due secoli e non a caso, proprio per lo sviluppo delle batterie elettriche, è stato assegnato ai chimici Whittingham, Yoshino e Goodenough il Nobel del 2019. La Bolivia – con 21 milioni di tonnellate stimate solo a Uyuni – è il primo Paese al mondo per riserve di litio. Uno dei paesi più poveri dell’America latina custodisce la ricchezza del futuro e anche per questo, un paio di anni fa, Washington ha sostenuto il cambio di governo sperando che con Evo Morales e il suo Movimento per il Socialismo fuori dal potere fosse cancellata la nazionalizzazione delle risorse. Con il ritorno al potere dei socialisti, le politiche sovraniste (i sovranisti in Europa nulla hanno a che vedere col vero sovranismo) son state rafforzate così come le relazioni tra Bolivia e Cina.

Nel lago di sale di Uyuni lo stabilimento di Llipi continua a espandersi anche grazie al supporto cinese. L’impianto che permette la produzione di cloruro di potassio è moderno, efficiente ed è stato realizzato dalla China Camce Engineering Co., che realizza impianti “chiavi in mano” in ogni angolo del pianeta. Sempre la Camce sta costruendo lo stabilimento industriale di carbonato di litio, che sostituirà presto l’impianto pilota aumentando la produzione dell’oro bianco. Dalla Cina oltre a macchinari, materiali e know-how arrivano anche gli operai. Boliviani e cinesi lavorano insieme, ma mangiano e dormono separati. I boliviani divorano patate e carne secca di lama, gli operai cinesi mangiano spaghetti importati e carne di maiale e manzo che loro stessi fanno essiccare al sole del Salar appendendo grandi pezzi a fili di nylon tra i prefabbricati dove dormono. Una volta consegnato l’impianto torneranno in patria prima di essere spediti in altri cantieri africani o sudamericani come pionieri dell’espansione cinese. La Cina, così come gli Usa negli ultimi 70 anni, si espande, “colonizza”. Ma non lo fa con le bombe.

Il 15 luglio scorso, a Lima, pochi giorni prima delle elezioni presidenziali l’allora candidato socialista Castillo, oggi presidente del Perù, ha incontrato Liang Yu, ambasciatore cinese “per dare priorità ai nostri rapporti di amicizia e cooperazioni”, ha detto Castillo. Il mondo sta cambiando. L’America latina sta cambiando. L’egemonia statunitense è in pericolo. Anche per questo prima Trump e poi Biden hanno deciso di abbandonare scenari di guerra dispendiosi e non più prioritari. L’Afghanistan è tornato in mano ai talebani, in Iraq verrà assegnato all’Italia il comando della nuova operazione di peace keeping. Il tutto mentre la Cina permette alla Bolivia di estrarre tonnellate di litio garantendosi un canale di acquisto privilegiato. I tesori custoditi nel Salar di Uyuni fanno gola a Pechino. Non solo il litio. La Cina già acquista il cloruro di potassio grazie al quale viene prodotto uno dei fertilizzanti più usati in agricoltura.

Tuttavia la legge boliviana fa sì che la maggioranza degli introiti realizzati grazie alle risorse del sottosuolo restino al popolo boliviano. L’YLB, l’unica società responsabile del Paese è, ripeto, 100% pubblica. Può avvalersi per l’estrazione mineraria o per la trasformazione industriale di società miste purché il 51% della proprietà di ogni impresa resti in mano pubblica. Questo è il modello scelto dal governo Morales anni fa e oggi implementato dal presidente Arce, ex ministro dell’Economia di Evo. Un modello contrastato dagli Usa che vorrebbero tornare agli anni in cui le multinazionali straniere dominavano gli altipiani andini. Occorre capire come si muoverà Washington: in passato ha sempre reagito violentemente alle politiche di nazionalizzazione. A Venezuela e Iran (rispettivamente 1° e 4° riserve petrolifera al mondo) hanno imposto sanzioni durissime. Nel 1954, Jacobo Arbenz, presidente del Guatemala, venne deposto con un colpo di Stato organizzato dalla Cia perché aveva osato distribuire i terreni incolti della Chiquita ai contadini senza terra. L’anno prima, in Iran, il premier Mossadeq venne cacciato a seguito di un golpe organizzato ancora dalla Cia e dai servizi segreti britannici. Mossadeq aveva nazionalizzato l’Anglo-Iranian Oil Company (l’odierna BP) nonché la raffineria di Abadan, all’epoca la più grande al mondo.

Si tentò anche di rovesciare il governo Castro reo di aver nazionalizzato le banche statunitensi che appartenevano ai Rockefeller e la West Indies Sugar, l’impresa che controllava la gran parte della produzione di zucchero dell’isola il cui numero uno era Herbert Walker Jr., zio di Bush padre e prozio di Bush figlio. L’invasione della Baia dei Porci fallì e da quel giorno Cuba è sotto embargo. Anche Salvador Allende subì un colpo di Stato e anche a lui inglesi e americani non perdonarono una nazionalizzazione: quella della produzione del rame. Allora a Washington si opponeva l’Urss forte militarmente, ma debole geo-politicamente.

La Cina porta avanti altre strategie. Nel Salar di Uyuni, 88 pozzi pompano centinaia di migliaia di chilolitri di salamoia nelle enormi piscine di evaporazione dove il sole e l’intervento umano permettono la separazione e la produzione di sodio, magnesio, potassio e litio. Eric Laurent in “La verità nascosta sul petrolio scrisse: ““Il mondo del petrolio è dello stesso colore del liquido tanto ricercato: nero, come le tendenze più oscure della natura umana. Suscita bramosie, accende passioni, provoca tradimenti e conflitti omicidi, porta alle manipolazioni più scandalose”. Vedremo come sarà il mondo del litio. Se sarà bianco come i deserti di sale boliviani o il candore altro non sarà che un abbaglio. Quel che è certo è che mentre Usa e Cina muovono le loro pedine, l’Europa (salvo, in parte, la Germania) resta immobile come quei turisti che si scattano foto sul Salar alla ricerca di uno stravagante effetto ottico. Stravagante proprio come il Vecchio continente: potrebbe contare, ma conta sempre meno. Incapace di difendere i propri interessi, incapace di disobbedire dagli Usa. Incapace di fare strategia. Un continente restato in gran parte anch’esso un effetto ottico.

Talib-Usa: vertice a Doha: “Non è un riconoscimento”

A capo della delegazione americana, arrivata a Doha per il primo faccia a faccia di due giorni con i rappresentanti del regime talebano dopo il caotico ritiro e la riconquista di Kabul, non c’è più Zalmay Khalizad. Si tratta del noto diplomatico di origine afghana che era stato incaricato nel 2018 dall’ex presidente Trump di condurre i negoziati. Secondo fonti interne alla Casa Bianca, Khalizad non è più ritenuto presentabile per l’Amministrazione Biden, che lo ha accusato di avere sovrastimato la capacità dell’esercito afghano e, soprattutto, di avere avuto troppa fiducia nelle promesse di rinnovamento e svolta moderata dei talib, se non, addirittura, di esserne stato in qualche modo complice. Insomma, il veterano della diplomazia Usa è diventato il volto della débâcle, o l’agnello sacrificale. Al suo posto c’è il vicedirettore della Cia, David Cohen, per discutere di terrorismo a due giorni dallo spaventoso attacco kamikaze – circa 80 le vittime per ora – avvenuto in una moschea sciita di Kunduz e rivendicato dall’Isis-K. Lo Stato Islamico in salsa afghana si teme abbia ancora legami con la rete Haqqani, parte dell’ala più integralista dei talebani, che al di là delle apparenze non sono così compatti. C’è anche il vice rappresentante speciale per la riconciliazione con l’Afghanistan, Tom West, e rappresentanti dell’Agenzia per lo sviluppo internazionale, Usaid. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price ha detto durante un briefing giornalistico giovedì scorso che l’agenzia è in contatto anche con “dozzine di americani ed ex collaboratori locali che ancora si trovano in Afghanistan e desiderano andarsene”, ma ha aggiunto che è difficile dare un numero preciso. Durante gli incontri nella capitale qatarina, gli Stati Uniti oltre a negoziare la fuoriuscita degli ultimi rimasti nel Paese, cercheranno di convincere i talebani a mantenere l’impegno a non consentire ai terroristi di utilizzare il suolo afghano per minacciare la sicurezza dell’America o dei suoi alleati. “Questo incontro è una continuazione degli impegni pragmatici con i talebani su questioni di vitale interesse nazionale per gli Stati Uniti”, ha detto Price alla stampa. Gli Stati Uniti intendono anche spingere i talebani a rispettare i diritti di tutti gli afghani, comprese donne e ragazze, e a formare un governo inclusivo con ampio sostegno. “Poiché l’Afghanistan deve affrontare la prospettiva di una grave contrazione economica e di una possibile crisi umanitaria, faremo pressione anche sui talebani per consentire alle agenzie umanitarie il libero accesso alle aree di bisogno”, ha affermato il portavoce. Il funzionario ha detto alla Cnn che l’incontro con i rappresentanti talebani “non riguarda la concessione di riconoscimenti o il conferimento di legittimità”.

Programma verde: Johnson in ritardo tra Brexit e riforme

Premessa: la transizione ecologica è nell’agenda politica del Regno Unito in modo bipartisan. Era al centro del programma laburista nel 2017: i successivi governi conservatori ci lavorano da almeno un decennio, con una roadmap di intesa con le aziende già dettagliato nel 2011, ai tempi della coalizione fra il premier David Cameron e i Lib-Dem. Per Boris Johnson la lotta al cambiamento climatico è uno dei pilastri della sua strategia di rilancio economico e politico, del paese post-Brexit, con la sua ambizione di creare centinaia di migliaia di posti di lavoro proprio nella riconversione sostenibile dell’economia. Una sfida che si intreccia con quella del levelling up, cioè del recupero delle regioni disagiate, a cui Boris affida la sua eredità politica. E la popolazione sembra sensibile: già nell’ottobre 2019, secondo i sondaggi, la lotta al climate change era determinante nelle intenzioni di voto della maggioranza degli elettori, con quasi i due terzi convinti che fosse la questione più grave per il futuro dell’umanità e il 63% a favore del Green Deal, l’ambizioso piano di riforme necessarie ad affrontare il problema su scala globale.

Il governo Johnson si è assunto impegni coerenti con questa temperie politica e culturale: nel giugno 2019 il Regno Unito è stata la prima fra le economie più industrializzate ad adottare il target Net zero, zero emissioni fossili entro il 2050. Significa liberarsi completamente delle fonti di energia fossile: non solo il carbone tanto intrecciato allo sviluppo industriale del paese, ma anche benzina, diesel e gas, a un costo che il Committee on Climate Change, l’ente governativo di consulenti sul clima, calcola nell’1-2% del Pil annuale. La volontà politica è chiara: la prassi meno efficace. I problemi sorgono quando impegni ambiziosi atterrano in distretti elettorali in estrema difficoltà, per ragioni strutturali e per il doppio cappio Covid e Brexit. Uno dei settori più inquinanti è il riscaldamento, oggi prevalentemente a gas, per la cui fornitura Uk dipende dall’estero: quanti incentivi servono per convincere elettori che già stentano a pagare bollette in vertiginoso aumento, a sostituire caldaie obsolete con le efficienti pompe di calore, o a insulare le case?

O l’elettricità: Johnson si è impegnato a rendere il sistema carbon free entro il 2035: un programma destinato a fallire a meno di uno sviluppo rapidissimo di tecnologie low-carb ancora non disponibili su larga scala, oltre a un incremento esponenziale della produzione di energia eolica onshore e offshore allo stato progettuale. La relazione al Parlamento del Committee on Cllmate Change è di netta condanna: “Il governo britannico ha fatto promesse storiche, ma si è mostrato troppo lento nell’adottare le misure indispensabili per realizzarle. Ogni mese di ritardo rende più difficile per il Regno Unito mantenere la tabella di marcia”. Questo ritardo ha ripercussioni anche sugli impegni di lotta globale al climate change, perché fra venti giorni il governo ospiterà Cop26, la conferenza mondiale sul cambiamento climatico a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre: un’occasione imperdibile per convincere paesi meno virtuosi come Cina e India ad adottare una strategia comune. È un obiettivo geopolitico fondamentale per riconfermare Londra nel tradizionale ruolo di leader globale, almeno nel soft power. Ma per essere credibile, Johnson deve dimostrare che a essere virtuoso è per primo il Paese guida, ed è già troppo tardi. Quello in cui è riuscito, invece, è garantirsi la repressione del dissenso ambientalista: il Policing Bill, concepito per annullare le tecniche di protesta di Extinction Rebellion, consegna alla polizia poteri speciali per vietare ogni manifestazione.