Amatrice & C.: “Con la riforma Cartabia rischio prescrizione”

“Sono talmente tante le stragi in Italia che non si ricordano tutte”. È l’amara considerazione di uno dei partecipanti al sit-in di ieri in piazza Santissimi Apostoli, nel centro di Roma, del comitato “Noi, 9 ottobre” composto dai tanti familiari delle vittime delle stragi, proprio nella “Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali” istituita nell’anniversario della strage del Vajont, quella che i manifestanti hanno definito “la madre di tutte le stragi” avvenuta nel 1963. Una giornata che segna “per la prima volta la nascita del coordinamento di tutte le associazioni di parenti, ma non solo, che non si rassegnano alle disgrazie impunite” avvenute in Italia ai danni di innocenti per incuria e mancanza di sicurezza. Si definiscono “sopravvissuti ma soprattutto persone che dopo aver subito una calamità vengono abbandonate dallo Stato”. In piazza erano rappresentate oltre 50 anni di stragi: dal Vajont a Rigopiano, dal ponte di Genova al terremoto di Amatrice e del Centro Italia, dalle stragi ferroviarie di Viareggio e di Andria-Corato, al disastro aereo dell’Istituto Salvemini fino disastro della Moby Price e quella continua, ormai quotidiana, dei morti sul lavoro. Presenti anche Moni Ovadia e il senatore M5S, Sergio Romagnoli.

I parenti, gli amici e le associazioni dei tanti morti sono scesi in piazza per rivendicare il bisogno di giustizia. E a loro dire la nuova legge Cartabia “non fa giustizia per nessuno e mette a rischio prescrizione molti processi”, come ad esempio quello di Rigopiano o dell’incidente ferroviario di Andria e Corato, o dei tanti processi per l’amianto o gli incidenti sul lavoro. “I politici così facendo – hanno spiegato le associazioni – credono che si accorcino i processi, ma la realtà è che bisogna assumere cancellieri e magistrati”. Oltre alla riforma delle norme che regolano i tempi della prescrizione per i disastri ambientali e sul lavoro, chiedono, tra l’altro, la modifica delle norme del Codice penale sul reato di disastro, la creazione di una Procura nazionale unica specializzata per i disastri che riguardano reati sulla sicurezza del lavoro, ambientali, calamitosi e anche alimentari e di modificare la legge n.101/2011 che “minimizza le responsabilità”.

Straordinari, ferie e contratti: ormai all’ex Ilva è una giungla

Straordinari non pagati, ferie trasformate in cassa integrazione, contratti più leggeri e rischio sicurezza. È la giungla nella quale da qualche tempo lottano gli operai dell’ex Ilva di Taranto, gestita oggi da Acciaierie d’Italia, la joint venture tra il colosso Arcelor Mittal e lo Stato italiano attraverso Invitalia. Nella fabbrica ionica accade un po’ di tutto. Non solo lavoratori licenziati per i post su Facebook. Il Fatto ha scoperto che spesso per i lavoratori ormai l’apertura della busta paga è una sorta di scommessa. Che vince sempre l’azienda.

Innanzitutto la busta paga è troppo spesso più “leggera” delle attese: non sono spesso calcolate le ore di straordinario che i lavoratori effettuano. Può accadere infatti che al termine della giornata di lavoro ci sia il “mancato cambio” cioè dell’improvvisa assenza di qualcuno nel turno successivo. “In quel caso il responsabile dell’impianto – ha spiegato al Fatto Francesco Brigati di Fiom Cgil – impone a uno dei lavoratori di restare al lavoro per non lasciare l’impianto incustodito: quello straordinario, però, non era ovviamente programmato e quindi l’azienda non lo riconosce in busta paga”.

Il sindacato ha denunciato la questione già da diverso tempo e l’azienda ha dichiarato più volte di voler risolvere la questione, ma al momento è una partita ancora aperta. Ma la brutta sorpresa capita anche in altri casi. Soprattutto ai lavoratori di pronto intervento o di manutenzione.

“In quel caso lo straordinario dovrebbe essere autorizzato addirittura dal direttore dello stabilimento – ha precisato il sindacalista – ma se si tratta di emergenze come si può essere autorizzati preventivamente? Gli operai tuttavia sono obbligati a rimanere: se andassero via rischierebbero una sanzione disciplinare fino al licenziamento. È mai possibile che una multinazionale e, ora, anche lo Stato non riconoscano tutte le ore di lavoro ai dipendenti?”

Ma c’è di più. Nella buste paga arrivate nei mesi estivi, infatti, diversi lavoratori hanno segnalato che alcuni giorni erano calcolati come cassa integrazione: un sistema che permette all’azienda di scaricare sullo Stato i costi di quelle ferie come se fossero ammortizzatori sociali. “Ci sono stati episodi di ferie estive di tre settimane in cui una era diventata di cassa integrazione. È una scelta fatta arbitrariamente dall’impresa. Abbiamo posto un quesito all’Inps, che ci ha fatto presente che la questione riguarda l’ispettorato del lavoro: abbiamo quindi allertato l’ispettorato territoriale di Taranto, ma non abbiamo mai avuto risposte”.

Ma è l’ultima la più clamorosa fra le denunce fatte dalla Fiom Cgil riguardanti l’indotto ex Ilva. Le ditte dell’appalto, infatti, per abbattere i costi e aggiudicarsi i servizi sono state costrette in questi anni a ridurre drasticamente il costo del servizio: per farlo assumono personale con un contratto “multiservizi” e non più con quello da metalmeccanico. Il contratto multiservizi è infatti decisamente meno “pesante” di quello da metalmeccanico: ogni lavoratore costa mediamente 500 euro in meno al mese. La seconda ragione è legata alla mansione: ai lavoratori con contratto da multiservizi vengono assegnate mansioni che vanno da quelle di produzione fino a quelle delle pulizie industriali. L’ultimo vantaggio per l’impresa è quella del minor numero di ore di formazione richieste dal contratto multiservizi. “Questo aspetto – ha chiarito Brigati – è il più pericoloso: mandare un lavoratore poco formato al lavoro sugli impianti siderurgici è un rischio inaccettabile. L’esempio più lampante è la morte di Giacomo Campo, operaio deceduto nel 2016 schiacciato da un nastro trasportatore. Se Giacomo avesse ricevuto la formazione che spetta a un operaio metalmeccanico quella tragedia probabilmente non sarebbe accaduta”. Nell’ex Ilva, oggi come ieri, una scarsa formazione vuol dire incidenti: non solo vite spezzate, ma anche danni economici che ricadono su Inail e Inps. Con contratto da multiservizi le assicurazioni e le retribuzioni pagate dall’impresa sono più basse: è chiaro che anche questo diventa un danno allo Stato. “Abbiamo informato l’Inail che a sua volta ha allertato l’Ispettorato del lavoro. È trascorso un anno, ma nessuno si è fatto vivo. Anche su questo punto l’Ispettorato non risponde neppure ai nostri solleciti. Abbiamo scritto al ministro del Lavoro Andrea Orlando e sono stato contattato dall’Ispettorato interregionale di Napoli: dovevano sentirmi, dovevamo incontrarci. Non si è mai più fatto vivo nessuno. È passato un altro anno”.

Global Tax, l’intesa piace solo a colossi e paradisi offshore

L’accordo fiscale globale sugli utili societari, raggiunto venerdì all’Ocse, piace agli Stati del G20 e alle grandi imprese, non ai Paesi poveri e alle Ong. Firmato da 136 nazioni che rappresentano il 90% dell’economia mondiale, prevede che le multinazionali che fatturano almeno 750 milioni di euro l’anno dovranno pagare un’aliquota minima sugli utili del 15% e saranno tassate nei Paesi in cui vendono beni o servizi anche se non vi hanno una presenza societaria. In sostanza, se uno Stato tasserà gli utili solo al 7%, il Paese di residenza della multinazionale potrà addebitare l’altro 8%. I profitti superiori al 10% dei ricavi potranno essere tassati al 25%. L’intesa è stata salutata da Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia come un successo contro il dumping fiscale che sposta utili e gettito nei paradisi fiscali.

L’Ocse stima che l’imposta minima genererà circa 130 miliardi di entrate globali aggiuntive l’anno e un rimpatrio di base imponibile per 108 miliardi. Alcune società Big Tech, note per ridurre al minimo il peso del Fisco, sono stranamente a favore dell’intesa. Per Nick Clegg, vicepresidente affari globali, “Facebook chiede da tempo una riforma delle regole fiscali globali anche se che ciò potrebbe significare pagare più tasse”. Secondo un portavoce, Amazon sostiene i “progressi verso una soluzione basata sul consenso per l’armonizzazione fiscale internazionale”. Ora l’accordo, che dovrebbe entrare in vigore dal 2023, dovrà essere ratificato dei ministri delle finanze del G20 a Washington il 13 ottobre e dai capi di governo a fine mese a Roma. Ma lo scoglio vero saranno i recepimenti nazionali, come negli Usa dove il presidente Joe Biden non controlla il Senato il cui voto è essenziale.

Kenya, Nigeria, Pakistan e Sri Lanka non hanno aderito, i Paesi poveri e le Ong criticano la mediazione al ribasso sull’aliquota del 15%, inferiore alla media attuale del 23,5% dei Paesi industrializzati. Per il ministro dell’Economia argentino Martin Guzman i Paesi in via di sviluppo sono stati costretti a scegliere tra “la padella o la brace”. Le Ong accusano il testo di agevolare i paradisi fiscali. “Il diavolo delle tasse è nei dettagli, inclusa una complessa rete di esenzioni”, dice Susana Ruiz, responsabile politiche fiscali di Oxfam. “All’ultimo minuto sono stati inseriti un colossale periodo di transizione di 10 anni e altre scappatoie che svuotano l’intesa. Alcune nazioni ricche la useranno come scusa per tagliare le aliquote sulle società, rischiando una nuova corsa al ribasso”. Alex Coham di Tax Justice Network critica l’Ocse per aver rinunciato alle “ambizioni originarie. Non c’è da meravigliarsi che l’Irlanda e altri paradisi offshore abbiano abbracciato l’accordo, dopo aver ottenuto varie concessioni. Così com’è, il testo non limiterà lo spostamento dei profitti e fornirà entrate maggiori solo a una manciata di Paesi”. Ian Gary, direttore della Coalizione per la responsabilità finanziaria e la trasparenza aziendale (Fact), sottolinea che l’annuncio arriva a pochi giorni dai Pandora Papers: “I Paesi in via di sviluppo chiedono di condividere in modo più equo le entrate: se non li si ascolta, l’intesa rischia di saltare”. Per l’economista Thomas Piketty l’imposta è irrisoria e “formalizza una vera licenza di frode per gli attori economici più potenti”.

P.a., privacy abolita per decreto. Esperti in allarme: “Gravissimo”

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando vuole sa cosa dire a governo e Parlamento: nel settembre 2020, firmando il decreto Semplificazioni, aveva redarguito tutti: “Ho proceduto alla promulgazione soprattutto in considerazione della rilevanza del provvedimento nella difficile congiuntura economica e sociale. Invito tuttavia il governo a vigilare affinché nel corso dell’esame parlamentare dei decreti legge non vengano inserite norme palesemente eterogenee rispetto all’oggetto e alle finalità dei provvedimenti d’urgenza”. Lo stesso copione a luglio di quest’anno, con il Sostegni bis quando ha sollecitato che fossero “rispettati i limiti di contenuto dei provvedimenti d’urgenza”.

Eppure, omogeneità e urgenza sembrano entrambi assenti nel decreto sulle riaperture approvato giovedì in Cdm, che mette insieme le effettivamente urgenti disposizioni “per l’accesso alle attività culturali, sportive e ricreative” con quelle “in materia di protezione dei dati personali” che di urgente e coerente hanno poco e che per portata sulla privacy dei cittadini avrebbero avuto invece bisogno di una profonda discussione visto che di fatto lasciano libertà alla Pa di fare con i nostri dati ciò che le è più utile. “È difficile ravvisare l’urgenza – spiega Vincenzo Tiani, avvocato a Bruxelles specializzato in privacy e diritto delle nuove tecnologie –. Consentirà alla Pa di decidere in piena autonomia e se e come comunicare i dati a terzi e al pubblico. Il tutto depotenziando il Garante della Privacy e togliendogli il potere di stabilire dei paletti quando quelle scelte rappresentino rischi elevati per i diritti e le libertà fondamentali”. La norma, secondo l’avvocato esperto di protezione dei dati personali, Enrico Ferraris, andrebbe rivista in fase di conversione. “Credo che i modi e l’indeterminatezza della previsione siano totalmente inaccettabili. La non meglio precisata necessità e urgenza e l’inserimento della modifica in un dl che regola tutt’altro non depongono a favore dell’esecutivo. La delega ‘in bianco’ alla discrezionalità amministrativa, per appare pericolosa e di dubbia compatibilità con il diritto Ue”.

Formalmente, sostiene invece Fulvio Sarzana, avvocato specializzato in diritto dell’informatica a delle telecomunicazione, sarebbe stato rispettato il Gdpr, il regolamento Ue sui dati, che prevede che una legge dello Stato possa regolare questo aspetto. “Però viene introdotta anche la possibilità di comunicare i dati a terzi con un meccanismo discrezionale, in nome del pubblico interesse: anche ai privati”. Secondo Sarzana, se l’obiettivo era favorire la lotta all’evasione si sarebbe potuto circoscrivere l’intervento a quella specifica missione. Senza contare che già nel 2018 il legislatore ha eliminato le conseguenze penali sul trattamento dei dati da parte della Pa. “Con oggi siamo di fronte all’azzeramento della protezione e anche il reato di abuso di ufficio che dovesse concretizzarsi con i dati rischia di essere neutralizzato”.

Carlo Blengino è invece avvocato e fellow del Nexa Center For Internet & Society al Politecnico di Torino. Identifica tre conseguenze: “Di fatto, essendo espressamente autorizzata la comunicazione tra titolari del trattamento e finanche la diffusione dei dati nell’ambito di trattamenti auto-determinati dalle singole agenzie statuali, si genererà una sorta di enorme data lake , grandi archivi di dati di varia tipologia e di diversa provenienza (nel loro formato nativo destinati ad elaborazione) acquisiti e trattati dalla Pa e dalle controllate, indipendentemente dalle originarie finalità del trattamento e dalle informative fornite”. La trasparenza (e la sorveglianza) del cittadino, spiega, sarà totale nelle sue più disparate articolazioni, ma nel contempo il cittadino non saprà chi concretamente tratterà i dati e per quali fini, né sulla base di quali informazioni saranno prese le decisioni della Pa. “Esempio perfetto di trasparenza asimmetrica”. Sarà poi difficilissimo verificare il rispetto dei principi di minimizzazione e di limitazione delle finalità e di conservazione: “Ci sarà sempre un ente pubblico interessato a trattare quei dati per finalità auto-determinate e insindacabili”. Infine, senza la vigilanza preventiva del Garante si ridurrà la sicurezza informatica delle reti della Pa. “Le prescrizioni su integrità e riservatezza finora imposte dal Garante sono state forse l’unico reale presidio a difesa di una cybersicurezza in cui oggettivamente gli enti pubblici non eccellono. Ma d’altra parte la cybersicurezza non sembra preoccupare il governo, che ha anche inspiegabilmente eliminato ogni cautela di riservatezza, integrità e cancellazione nel delicatissimo settore dei metadati detenuti dai fornitori di comunicazioni elettroniche. Un corposo regalo alle Telco (la sicurezza costa), di cui non si comprende ragione a meno di non esser malpensanti”.

Milano, Sala presenta la nuova giunta. Al Bilancio c’è un salernitano fan di Craxi

Sei uomini e sei donne, due under 30 alla guida di altrettanti assessorati, i Verdi all’Ambiente. Quattro giorni dopo le elezioni, Milano ha già la sua nuova giunta. Ad annunciare i 12 assessori scelti per i prossimi cinque anni è stato il sindaco Beppe Sala, rieletto con oltre il 57% delle preferenze nello scorso weekend elettorale. L’ex manager di Expo aveva già comunicato la sua vice, che resta Anna Scavuzzo: avrà anche la delega all’Istruzione e ai rapporti con il Consiglio comunale. Insomma “Milano sempre più Milano!”. E, invece, sembrerebbe proprio no. Il portafoglio di Palazzo Marino è stato infatti affidato al civico Emmanuel Conte, nato e cresciuto a Eboli, in provincia di Salerno, che diventa assessore al Bilancio. Conte è il capolista della lista del sindaco ed era l’ex presidente proprio della commissione Bilancio. Curioso, però, che a tenere i cordoni della borsa della più ricca città d’Italia sia stato scelto un fan di Craxi. L’intervento più memorabile in consiglio comunale di Conte è stato quello per chiedere di dedicare a Bettino Craxi una via (di Milano, non di Salerno). Emmanuel Conte è cresciuto a pane e politica: è figlio di quel Carmelo Conte che ai bei tempi di Tangentopoli era uno dei “quattro viceré di Napoli”, insieme a Paolo Cirino Pomicino, Giulio Di Donato e Francesco De Lorenzo, con cui si spartiva il potere in Campania e a Roma. Già nel 2016 Carmelo è salito di persona a Milano per dare una mano al figlio in campagna elettorale (ne ha fatte tante, è un super esperto) e anche questa volta pare sia prodigo di consigli e sostegni. A destare qualche perplessità è anche un’altra nomina: quella di Tommaso Sacchi, il nuovo assessore alla Cultura. Il 38enne questa volta è sì milanese di nascita, ma dal curriculum vitae assai particolare: per sedere a Palazzo Marino dovrà lasciare Firenze, dove ricopre il ruolo di assessore alla Cultura, moda, design e relazioni internazionali. Il sindaco renziano Dario Nardella ha dato subito il suo benestare. La carriera politica di Sacchi è iniziata al Comune di Milano dove, dal 2011 al 2013, ha diretto l’ufficio progettuale dell’Assessorato alla Cultura, moda, expo e design durante il mandato dell’assessore Stefano Boeri, con il cui studio ha continuato a collaborare. Per poi, però, scappare a Firenze fino alla nuova chiamata per il Sala bis.

Cuffaro, De Luca e incubo astensione: la Sicilia al voto

È tutto pronto per la Sicilia al voto. Oggi e domani, 568 mila siciliani in 42 Comuni si recheranno alle urne, per scegliere i sindaci ed eleggere 606 consiglieri comunali.

Ai nastri di partenza c’è soprattutto il timore di un possibile astensionismo, visto il trend negativo su scala nazionale. Tutti i big scesi nell’isola – l’ultimo è stato l’ex premier pentastellato Giuseppe Conte – hanno provato a sensibilizzare gli elettori a non disertare le urne. I dati però, se guardiamo i flussi delle precedenti elezioni, non sono confortanti: oltre al flop delle Europee del 2019 che segnava solo il 37,6% di affluenza, alle Amministrative del 2019 ci si è fermati a 58%, mentre alle Comunali dello scorso anno al 59%.

Sono una decina i Comuni in cui i sindaci cercheranno la riconferma, e tre di questi (Porto Empedocle, Grammichele e Alcamo) sono amministrati dal M5S, che però non è riuscito a strappare l’alleanza nazionale con il Pd. I giallorosa corrono uniti in cinque città (Adrano, Caltagirone, Lentini, San Cataldo e Favara), che potrebbero essere il termometro per valutare lo stato di salute dell’alleanza.

Al voto non ci saranno i capoluoghi di Provincia, anche se sono ben cinque i Comuni con più di 30 mila abitanti. A partire dai 61 mila di Vittoria (Ragusa), che torna alle urne dopo tre anni di commissariamento per mafia, e vedrà in campo Francesco Aiello (Pd), Salvo Sallemi (centrodestra), Pietro Gurrieri (M5S) e Salvatore Di Falco (lista civica).

La sfida più interessante potrebbe essere quella di Caltagirone, 38 mila abitanti circa, che metterà a confronto da una parte il centrodestra unito a sostegno di Sergio Gruttadauria, e dall’altra Pd-M5S per Fabio Roccuzzo. In corsa anche Roberto Gravina e Giuseppa Aliotta, appoggiati da liste civiche. Ad Adrano (35 mila abitanti), nel Catanese, è corsa a cinque: Pd-M5S sostengono Vincenzo Calambrogio, contro Carmelo Pellegriti del centrodestra e le liste civiche di Gaetano Birtolo, Fabio Mancuso e Agostino Perni. Invece nel Trapanese, ad Alcamo (45 mila abitanti), il sindaco uscente 5S Domenico Surdi correrà da solo con il simbolo del Movimento, provando a mantenere la fascia contro Giusy Bosco sostenuta da Pd-Udc, Alessandro Fundarò (FdI) e Massimo Cassarà (centrodestra).

Nell’isola dove tutto cambia per non cambiare nulla, bisognerà capire il peso elettorale di due outsider: l’ex governatore Salvatore Cuffaro e il sindaco di Messina Cateno De Luca. “Totò Vasa Vasa”, dopo aver scontato 7 anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio nel processo “talpe alla Dda” a Palermo, torna con la Democrazia Cristina, alleata di Forza Italia. Mentre l’esuberante De Luca proverà a testare il suo partito Sicilia Vera.

Sullo sfondo, dopo la débâcle nazionale, il centrodestra viaggi su due binari separati, da una parte la coppia FI-Lega, con quest’ultimi reduci da una campagna acquisti di rilievo, vedi l’ex renziano e deputato regionale Luca Sammartino. Dall’altra il governatore Nello Musumeci al fianco di Giorgia Meloni.

Da segnalare due piccoli casi interni al M5S. Il primo a Rosolini (Siracusa), Comune della deputata nazionale Maria Marzana che non ha presentato la lista del Movimento. L’altro a Favara (Agrigento), in cui il sindaco M5S uscente ha scelto di non candidarsi: per questo i 5 stelle appoggiano una lista civica, ma senza simbolo del Movimento. E pensare che Favara non era stata neppure inserita nell’elenco del tour dell’ex premier Conte sceso in Sicilia proprio per le elezioni. La tappa è stata aggiunta solo in extremis.

Infine, la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Nicola Morra dopo aver setacciato gli elenchi degli 837 candidati di sei Comuni già sciolti per mafia (Mistretta Pachino, San Biagio Platani, San Cataldo, San Cipirello, Vittoria), ha segnalato due impresentabili. Il primo è l’ex deputato regionale ed europeo del centrodestra, Sebastiano Sanzarello, candidato sindaco a Mistretta (Messina), sotto accusa per concussione. “Non sono impresentabile e potevo candidarmi”, ha replicato Sanzarello a La Sicilia.

L’altro è Sebastiano Malandrino, candidato a Pachino (Siracusa) in una lista civica, già condannato in via definitiva a 2 anni per detenzione illecita di stupefacenti.

Mossa di Michetti in fuga. “Bertolaso commissario”

E ora il centrodestra a Roma si attacca a San Guido, come aveva già fatto in Lombardia quando la Regione, causa tandem micidiale Fontana-Gallera, era stata travolta dall’emergenza coronavirus: Enrico Michetti in vista del ballottaggio di domenica prossima che incoronerà il nuovo sindaco della Capitale, mette sul tavolo la carta di Guido Bertolaso. Nel tentativo disperato di recuperare gli elettori di Carlo Calenda che, facendo breccia tra gli elettori di centrodestra, aveva indicato come suo vice proprio l’ex capo della Protezione civile: “Mi piacerebbe che Bertolaso assumesse un ruolo commissariale per contribuire a risolvere i problemi di Roma, così come fece con il governo Berlusconi per risolvere l’emergenza rifiuti a Napoli e con il sindaco Rutelli e il governo Prodi per organizzare il Giubileo del 2000” ha detto ieri Michetti, che appena un mese fa aveva invece stoppato le indiscrezioni su un coinvolgimento di Bertolaso che, non è un mistero, Forza Italia e Lega avrebbero voluto candidare al suo posto salvo trovarselo corteggiato dal leader di Azione.

Ora pur di recuperare il tesoretto di voti di Calenda che vale oro per la contesa contro il dem Roberto Gualtieri, Michetti promette di auto-commissariarsi: in caso di vittoria piazzerebbe Bertolaso a risolvere “i problemi della città”. L’ex capo della Protezione civile andrebbe a dirigere la macchina del Giubileo del 2025 e perché no, a occuparsi delle emergenze di Roma. A partire dalla monnezza su cui Bertolaso ha già pronta la ricetta: realizzare nell’area nord est della Capitale (ossia sulla Salaria “dove sta un aeroporto dove atterrano tre aerei al giorno”) un termovalorizzatore o un impianto di gassificazione. E, da subito, riaprire la discarica di Malagrotta facendo rientrare in gioco il ras dei rifiuti romani, Manlio Cerroni: “Finché c’è stato il re della spazzatura a Roma, Roma era pulita: da quando hanno iniziato a massacrarlo la città è diventata più sporca di Italia”, ha spiegato qualche giorno fa Bertolaso che conosce la città e i suoi protagonisti: la sua stella, del resto, aveva cominciato a risplendere con il sindaco di Roma, Francesco Rutelli, che lo aveva voluto per l’organizzazione del Giubileo del 2000. Era stato invece Romano Prodi, col sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Enrico Letta, nel 2006, a spedirlo in Campania a rimediare al disastro dei rifiuti in Campania, regione allora guidata da Antonio Bassolino con Rosa Russo Iervolino sindaco di Napoli. Poi Bertolaso era entrato progressivamente nell’orbita di Silvio Berlusconi che da premier lo aveva fatto sottosegretario alla Protezione civile europea e, di fatto, commissario a tutto: dai Grandi eventi al terremoto di L’Aquila fino al G8 della Maddalena, con tutta la scia di polemiche e inchieste giudiziarie durate un decennio che ne hanno offuscato l’immagine. Ora di nuovo in spolvero ché per il centrodestra (che pure in passato lo ha scaricato come era accaduto per la scelta del candidato sindaco di Roma nel 2016, per tacere del periodo buio dei processi) è una ciambella di salvataggio, mentre per Calenda e Matteo Renzi è l’uomo giusto per far venire le bolle al centrosinistra che lo ha rinnegato dopo averlo fatto grande. “Se Michetti dovesse vincere e fare una proposta al governo e se il presidente del Consiglio riterrà opportuno che io debba lavorare per la mia città, non mi tirerei certo indietro. Se vince Gualtieri nomineranno un altro commissario, qualcuno come Arcuri” ha commentato Bertolaso, che confida in Michetti e in un cenno di Mario Draghi.

Il grande polo riformista non esiste fuori dal Gra: Azione fa flop ovunque

Da una settimana sembra che il Pd –ma in fondo anche l’Italia intera – non possa sopravvivere senza Carlo Calenda: il competente, il riformista, colui che a Roma è arrivato terzo, ma è come se avesse vinto. Colui che insieme a Matteo Renzi creerà il grande centro, da preferire all’alleanza col Movimento 5 Stelle.

In questo racconto c’è però qualcosa che non torna. Non che il 19,81 per cento di Calenda a Roma sia da buttare, ma onestà intellettuale impone di ricordare che l’ex ministro fosse sostenuto da un’unica lista e dunque il voto non si è disperso tra civiche e partiti, come nel caso dei suoi rivali. Ma il dato che stride di più con le fanfare calendiane è un altro. E cioè la sostanziale irrilevanza della sua Azione fuori dal Grande raccordo anulare, in linea con sondaggi che da tempo accreditano al partito percentuali vicine al 3 per cento.

Nonostante Azione sia passata per la grande vincitrice delle Amministrative, Youtrend ha scoperto che il partito si presentava con il proprio nome e una propria lista soltanto in 13 Comuni. Nelle altre città, i candidati di Calenda si sono sparsi in civiche o in agglomerati centristi, togliendo il nome di Azione dalla scheda.

Tra i 13 Comuni in cui Calenda ha presentato il proprio simbolo, ci sono cinque capoluoghi di provincia: Caserta, Napoli, Novara, Rimini e Varese. E i risultati sono stati pessimi. A Napoli l’ex ministro ha sostenuto Antonio Bassolino, sfilandosi dall’intesa giallorosa su Gaetano Manfredi. Risultato: un disastroso 0,45 per cento (1.483 voti), dietro a due civiche del candidato sindaco. Nella vicina Caserta era lecito aspettarsi qualcosa in più, dato che Azione faceva parte della coalizione di Carlo Marino, la più votata. Anche qui, però, le cose non sono andate bene, tanto che Calenda ha raccolto un misero 1,63 per cento: ultimo, ben dietro ai molto meno sbandierati Socialisti Uniti.

La Caporetto prosegue al Nord. A Varese, Azione ha scelto la strada autonoma, presentando Alberto Coletto e sfidando centrodestra e centrosinistra. Con esiti piuttosto pallidi, se è vero che Coletto ha raccolto solo l’1,99 per cento. E a Novara? Anche qui Calenda ha puntato su un proprio candidato, Sergio De Stasio, senza accodarsi alle due coalizioni principali. La strategia non ha pagato: un malinconico 2,57 per cento – meno della metà del M5S – e neanche un consigliere comunale. Si capisce allora come mai il 3,58 per cento di Rimini sia da considerare un mezzo miracolo, oltreché motivo di giubilo.

Sul resto d’Italia, come detto, diventa difficile giudicare il risultato delle varie operazioni di camouflage del simbolo. Qualcosa in più si può però dire su Milano, dove Calenda e Renzi si sono spesi più volte in prima persona per sostenere la lista dei Riformisti, esperimento unitario di Iv, Azione, Più Europa, Marco Bentivogli e cespugli centristi. Pur con la grancassa mediatica e il traino di un Beppe Sala in trionfo (57 per cento), i Riformisti si sono però fermati al 4 per cento, ottenendo appena due seggi (i Verdi, per dire, ne hanno ottenuti tre).

Detto dei risultati elettorali, c’è poi da chiedersi se al Pd convenga riabbracciare un ex alleato che fino a pochi giorni fa considerava “inaffidabile” e “leader dei salotti” (il copyright è di Francesco Boccia). Emblematico il caso del seggio all’Europarlamento: nel 2018 Calenda aderisce al Pd, nel 2019 si candida coi dem alle Europee, a maggio viene eletto e tre mesi dopo lascia il partito, fondando poi Azione. Da quel momento, Calenda è molto duro col Pd e spesso non si lascia sfuggire l’occasione per ostacolarne la corsa. Nel 2020, per esempio, alle regionali in Puglia Azione candida insieme a Iv Ivan Scalfarotto, con una manovra che sulla carta potrebbe togliere voti al dem Michele Emiliano e spianare la strada alla destra di Raffaele Fitto (“dieci volte meglio” dell’attuale governatore, secondo Calenda). Per fortuna del Pd, Scalfarotto non supera l’1,6 per cento ed Emiliano ha gioco facile verso la riconferma. Portandosi a casa la prova che il presunto “grande polo riformista” non era affatto tale.

“Su Recovery e legalità porterò avanti il lavoro di Conte-Raggi”

“Il destino e il futuro di Roma sono più importanti delle divisioni tra forze politiche”. Roberto Gualtieri è all’ultima curva della campagna elettorale, prima del ballottaggio a Roma, domenica prossima. E mentre continua a girare per le piazze e le periferie, si trova nella complessa posizione di dover conquistare i voti sia di Raggi che di Calenda, per battere Michetti.

Non è un’impresa impossibile farsi votare sia dagli elettori della Raggi che da quelli di Calenda?

Io sono molto fiducioso, perché sento tanti dei loro elettori già orientati a sostenermi. Sento molta sintonia su una città che guardi all’Europa e sia protagonista di sfide come inclusività e sostenibilità ambientali. Al contrario, sento molta distanza nei confronti della destra di Michetti, Meloni e Salvini. Mi faccia aggiungere che l’assalto dell’estrema destra alla sede della Cgil è di una gravità inaudita, così come sono gravi le parole di Michetti sul ricordo della Shoah che echeggiano pericolosi pregiudizi antisemiti.

Sulla legalità elogia la sindaca uscente. Durante la campagna elettorale è stato durissimo sull’amministrazione della città. Perché i suoi elettori dovrebbero scegliere lei?

Non ho mai sferrato attacchi personali, ma ho condotto una campagna basata sulle idee e ho sempre dato atto all’impegno della Raggi sulla legalità che intendo proseguire e rilanciare. Ora gli elettori devono scegliere tra me e la destra di Michetti. Credo che sceglieranno me.

C’è qualcosa su cui proseguirà il lavoro della Giunta uscente?

Posso citare il Piano urbano della mobilità sostenibile, il Grab, l’iniziativa su Expo. Su diversi temi è stata fatta una pianificazione di qualità, ma la capacità realizzazione ha spesso lasciato a desiderare. La lotta alle mafie è una priorità, sul modello dello sgombero dei Moccia da Tor Bella Monaca. E poi porterò avanti il lavoro fatto con Giuseppe Conte per ottenere il Pnnr, che ora va attuato a Roma.

Si aspetta un endorsementda Conte?

Conte ha già detto parole molto chiare, spiegando che il M5S è altro rispetto alle destre. E poi ha usato affermazioni di stima su di me e apprezzato il mio lavoro quando ero ministro. Lo ringrazio per questo come per il lavoro condotto insieme nel governo, culminato nella svolta storica del Recovery.

C’è qualcuno dell’entourage Raggi che è pronto a votare per lei? O teme che la Raggi darà i suoi voti a Michetti?

Ho ascoltato attestati di stima da diversi esponenti del Movimento. Ma ho molto rispetto per il dibattito interno al M5S a Roma. Non mi permetto di entrarci. Spero che l’impegno di Conte per rilanciare il partito sulla base della collocazione progressista ed europeista abbia successo.

Calenda ha fatto sapere che vota per lei, però non fa altro che dare del trasformista a Conte. E ha detto che Di Maio in un Paese normale non farebbe il ministro, ma venderebbe i giornali. Condivide?

Ringrazio Calenda per aver detto che mi voterà. Non condivido i suoi giudizi su Conte e Di Maio con cui ho lavorato bene da ministro. Penso che il destino e il futuro di Roma siano più importanti delle differenze tra forze che comunque sostengono insieme Draghi.

Se fosse costretto a scegliere tra Raggi e Calenda?

Mi permetto di dire che sono loro a dover scegliere tra me e Michetti.

I risultati del primo turno dicono anche che ha preso meno voti di Giachetti 5 anni fa. E che nelle periferie non sfondate.

Io ho preso il 27%, lui il 24%. Nelle periferie abbiamo recuperato molto nei grandi quartieri popolari. E siamo andati meno bene in quelli fuori dal Gra. Saranno una delle priorità della mia amministrazione. Davvero come primo atto eventuale da sindaco pensa di sgomberare Casa Pound?

I primi atti riguarderanno la pulizia della città, i trasporti, i municipi. Su Casa Pound procederemo allo sgombero e al ripristino della legalità.

“Nessuna nostalgia, Jonghi Lavarini è solo un utile idiota della sinistra”

Giorgia Meloni sceglie il Corriere della Sera per rispondere all’inchiesta di Fanpage e per mettere una toppa alle immagini che mostrano una destra ancora esplicitamente fascista, che trova ospitalità nelle liste e negli ambienti di Fratelli d’Italia.

La leader di FdI per una volta pronuncia parole più chiare su questo tema: “Nel dna di Fratelli d’Italia non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c’è posto per nulla di tutto questo. C’è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro”. Resta la tentazione di bollare tutto come un complotto della stampa: “Il ‘pericolo nero’, guarda caso, arriva sempre in prossimità di una campagna elettorale”. Oppure – fa capire Meloni tra le righe – una strategia machiavellica degli avversari politici: “I nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato”. Sulla candidatura di Rachele Mussolini nessun passo indietro: “È una persona preparatissima, competente. E poi che strano, Alessandra Mussolini che sostiene il ddl Zan è bravissima”. Intanto il suo candidato sindaco a Roma, Enrico Michetti, torna nell’occhio del ciclone per un articolo del 2020, ripescato dal manifesto, dal sapore vagamente negazionista: “Ogni anno si girano e si finanziano 40 film sulla Shoah. Nulla di male. Ma mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe”. Per gli ebrei più pietà “perché avevano le banche”.