A Gerusalemme era la mattina del 24 novembre del 2003 e alle nove in punto Gianfranco Fini abbassò la testa e si sistemò una kippah di colore blu lucido con riflessi violetti. Sul Monte Herzl, il cimitero nazionale d’Israele, tre nuvole ingoiarono il sole e il cielo divenne nero. Quando caddero i primi goccioloni di pioggia, l’allora leader di Alleanza nazionale imboccò il piccolo ingresso dello Yad Vashem, dopo aver percorso il viale dei Giusti. La visita al mausoleo dell’Olocausto fu lenta. Le foto dei ghetti e dei forni, le teche con libri, documenti e vestiti recuperati dai lager, gli orridi fusti gialli con la scritta “Zyklon B”, il gas impiegato per sterminare gli ebrei. Sovente la faccia di Fini si allungò in una smorfia di stupore, accompagnata sempre dalla stessa esclamazione: “Mamma mia”.
La domanda imbeccata
In serata l’ex sostenitore missino del “Fascismo del 2000”, passato poi per il lavacro di Fiuggi con le insegne di An, tenne una confusa conferenza stampa. Chi scrive era lì per Il Riformista e dopo ritornò in albergo per fare l’articolo, dedicato quasi per intero alla visita allo Yad Vashem. Era sera. A un certo punto arrivarono le telefonate di quattro colleghi (autorevoli) inviati a Gerusalemme per altre testate. Tutti a fare la stessa domanda: “Ma che cos’è questa storia del fascismo male assoluto? Dall’Italia dicono che ci sono agenzie di Fini su questo, ma non abbiamo sentito nulla. E tu?”. “Neanche io”.
Andò così: nel corso della conferenza stampa, una giornalista di agenzia, imbeccata dai due spin doctor finiani, fece una domanda senza microfono. Per la serie: “Secondo lei le leggi razziali del 1938 fecero del fascismo il male assoluto?”. Fini si limitò a rispondere “sì”, aggiungendo una riflessione contorta e senza la famosa frase consegnata alla storia. In pratica, nessuno riuscì a sentire la domanda della collega e nessuno capì il senso della risposta di Fini. Fu solo disattenzione? Oppure un escamotage per non dirlo direttamente? Chi lo sa.
Fatto sta che il capo di An non pronunciò mai tecnicamente, diciamo così, la frase sul fascismo male assoluto. Certo, ne sostenne poi il peso della sostanza, ma appunto il male assoluto non uscì dalla sua bocca in quel giorno storico per la destra italiana. In seguito, Pierluigi Battista, all’epoca a Gerusalemme per La Stampa, è ritornato più volte sulla questione, parlando addirittura del fascismo male assoluto come di fake news.
Rauti, sorella d’italia
In ogni caso, la svolta gerosolimitana di Fini è stata riscoperta ieri da Giorgia Meloni in un’intervistona al Corriere della Sera, per difendersi e difendere Fratelli d’Italia dalle accuse di reducismo neofascista dopo la nota inchiesta di Fanpage amplificata da PiazzaPulita su La7. Ecco, la leader di FdI avrebbe potuto lei pronunciare la famosa frase, ma non l’ha fatto. Si è limitata a stabilire un filo di continuità tra An e il suo partito, in merito ai conti con il fascismo e con il suo dittatore Benito Mussolini.
Ma è una palla gigantesca. La continuità tra FdI e An è soltanto giuridica per una questione di soldi, tanti soldi: il patrimonio milionario di An, gestito da una fondazione in cui FdI è maggioranza. Per il resto il partito meloniano esploso dal 4 al 20 per cento in pochi anni incarna un vero e proprio ritorno alla casa del Padre, una sorta di rinascita missina dopo la fondazione di An e la svolta di Fiuggi avvenute nel biennio 1994-1995.
Le prove sono molteplici. Partiamo dallo stesso Fini, che nel 2014 stroncò così FdI: “Mi sembrano bambini cresciuti e viziati che rischiano di far piangere, di rabbia e non certo di commozione, chi venti anni fa era consapevole di quel che stava accadendo a destra, noi uscimmo dalla Casa del Padre con la certezza di non farvi più ritorno. A Fiuggi la destra mutò identità”. Identità, la parola chiave. Tra i parlamentari di Fratelli d’Italia oggi c’è Isabella Rauti. Il papà Pino fu fascista e fondò la Fiamma tricolore quando Fini sciolse il Msi.
Rauti ha spiegato così, quattro anni fa, il progetto di FdI: “FdI è nata con l’intento di mettere in sicurezza i valori della destra italiana, portando in Parlamento il simbolo della fiamma dell’Msi e radicando il partito sul territorio. Non aveva senso tenere nel simbolo An, sigla che rimanda a un’esperienza datata che, a mio avviso, ha fatto più danni che altro. E sono contenta di vedere nel simbolo la Fiamma, che invece rimanda a un’idea precisa e a una positiva percezione della destra”. La Fiamma, dunque. E An dimenticata per tornare al passato nero.
La fiamma nel simbolo
Giorgia Meloni non ha mai messo in discussione la Fiamma missina nel simbolo di FdI. Al contrario di quanto avvenne in An dove il problema si pose e lo pose Adolfo Urso, esponente ultraliberal dei finiani che guardavano al centro. Oggi Urso ha ritrovato un seggio in Parlamento grazie al sovranismo di FdI e la questione del simbolo l’ha rimossa. Altro esempio: Daniela Santanchè, volto di punta del melonismo. Nel 2007, la Pasionaria Pitonessa che accusò i colonnelli di An di avere le palle di velluto fondò con Francesco Storace la Destra, approdo partitico dello strappo storaciano all’indomani del viaggio finiano a Gerusalemme. Uno strappo consumato nel dicembre di quel 2003 all’Hilton di Roma. Storace esordì: “Cari amici…”. E dalla platea, in coro: “Non avere paura Francè, chiamaci camerati”. Tre anni dopo, al congresso della Destra, Santanchè era in prima fila ad applaudire l’arrivo di Silvio Berlusconi, mentre scorrevano le immagini di Mussolini trebbiatore di grano. I delegati gridarono: “Du-ce, du-ce, du-ce”. Si riferivano a entrambi: Benito e Silvio.
Giovani e neri con Giorgia
Fini completò l’antifascismo di An nel settembre del 2008, sull’onda di altre polemiche storico-politiche. Ignazio La Russa, ministro della Difesa e oggi braccio destro di Meloni, aveva onorato i combattenti di Salò nell’anniversario dell’Armistizio, l’Otto Settembre. Cinque giorni dopo Fini era sul palco della festa di Azione giovani a Roma, al Celio. Con lui Giorgia Meloni, ministro della Gioventù e capa di Ag. Il leader di An attaccò la destra che “non ha il coraggio di dire che si riconosce nei valori dell’antifascismo”. La reazione dei giovani fu un misto di gelo e caos. Meloni scappò via senza rispondere ai giornalisti. Rinviò tutti a un suo ambiguo intervento di qualche giorno prima: “Quando il Pd non sa cosa dire tira fuori il fascismo. Ma i ragazzi fascisti ammazzati negli anni di piombo li considero martiri”. Guarda caso lo stesso registro della risposta di ieri al Corsera, per la serie: la sinistra usa da sempre il fascismo. In quei giorni, sui giornali di allora, contro Fini si distinse una giovane amazzone meloniana, Augusta Montaruli: “Quello di Fini sui valori dell’antifascismo è un falso storico”. Oggi Montaruli è deputata e volto televisivo di FdI. La continuità con An e il fascismo male assoluto. Come no.
MIssini e almirantiani
Nei quasi dieci anni trascorsi dalla sua fondazione nel 2012, l’intera Fratelli d’Italia, non solo Meloni, ha cancellato i meriti di Fini, destinandoli a un oblio perpetuo. Quella di ieri sul Corsera è infatti la prima citazione riservata dalla leader di FdI all’ex presidente della Camera che si schiantò sulla casa di Montecarlo del cognato Tulliani. La rottura di questo embargo della memoria è semplice: l’uso strumentale del lavacro di Fiuggi e della svolta di Gerusalemme per ripulirsi in questa fase difficile di FdI. Ma la continuità con An è una palla. E a smentirla è finanche il sovranismo populista rivendicato da Giorgia “donna, madre, cristiana”. Il politologo Piero Ignazi spiegò così nel gennaio del 2014 a Charta Minuta (rivista diretta dal già citato Adolfo Urso) nel gennaio del 2014 il valore della leadership di Fini: “Berlusconi in realtà è un leader populista. An deve caratterizzarsi come destra moderna, conservatrice e moderata”. An anti-populista, quindi. L’esatto contrario di FdI.
Piuttosto Meloni ha ricordato più volte in questi anni la figura di Giorgio Almirante, ex repubblichino e storico capo dell’Msi. Quell’Almirante che a un certo punto della sua parabola, per accettare la democrazia, se ne uscì con uno storico slogan missino: “Non rinnegare, non restaurare”.
Sì, Meloni è tornata alla casa del Padre. Decisamente. Fratelli d’Italia è un Msi 2.0.