“Il problema non sono mica le camicie nere: è il cretinismo no vax”

“In Fratelli d’Italia e nella destra italiana ci sono alcune reminiscenze – chiamiamole così – legate a suggestioni e nostalgie del regime fascista. Ma non credo che sia una responsabilità di Giorgia Meloni, piuttosto mi pare che questo sentimento sia nella società. In settori residuali, più che nei quadri politici”. Domenico Fisichella è uno dei grandi intellettuali della destra italiana, l’uomo che ha traghettato la cultura post-fascista fuori dalla riserva ideologica del Movimento Sociale Italiano. L’ispiratore, alle spalle di Gianfranco Fini, di una destra “moderna”. Oggi coltiva più di una riserva sui leader del centrodestra, ma le ombre nere documentate nell’inchiesta di Fanpage non sembrano turbarlo più di tanto. “A me pare che in Fratelli d’Italia prevalgano gli aspetti di discontinuità, più che gli aspetti di nostalgia. Non credo sia questo il problema del partito”.

Non le pare che candidature come quelle di Carlo Fidanza e Chiara Valcepina siano la dimostrazione che Meloni non ha mai tagliato il cordone ombelicale con il passato nero?

Mi pare che Meloni, anche nell’ultima intervista al Corriere della Sera, sia stata sufficientemente chiara sul tema. Di sicuro c’è uno spazio di malessere e inquietudine all’interno dell’elettorato. E in alcune aree, probabilmente, ci sono ancora gli echi di una storia antica. Ma è una suggestione degli elettori, non della leadership. Onestamente non ce la vedo Giorgia Meloni a organizzare le squadre delle camicie nere o a promuovere un regime a partito unico.

Quando si mette in lista Rachele Mussolini (e risulta la candidata più votata) forse vuol dire che quelle “aree” a Meloni interessano eccome.

D’accordo, la Mussolini prende 8mila voti ed è la consigliera più votata di Roma. La domanda è: come mai? Il problema sono i cittadini che l’hanno scelta. Alle elezioni precedenti mi pare che di preferenze ne avesse prese 500, stavolta le ha moltiplicate per 10 e oltre. Vorrà dire che tra gli elettori ci sono ancora delle reminiscenze di una storia nazionale, che però è certamente irripetibile. E questo Meloni lo sa.

Meloni, a differenza di Gianfranco Fini, non ha mai fatto davvero, pubblicamente, i conti con la cultura fascista.

Certo, Fini ha fatto delle scelte chiare. Poi ha commesso degli errori personali, ma questo è un altro discorso. Io però non credo il problema sia la nostalgia fascista, glielo ripeto: faccio fatica a immaginare Meloni che organizza le squadracce. Sappiamo che ci sono dei gruppuscoli nostalgici, ma non credo che la politica italiana sia orientata da loro. Mi spaventa altro.

Cosa?

Mi preoccupano le scelte di alcuni partiti a proposito dei flussi migratori, oppure della vaccinazione, sono questi i problemi reali. E non sono legati alla nostalgia fascista. Oggi qualcuno dice che non si vuole vaccinare per odio verso l’autorità, ma lo fa perché anarchico, non perché fascista. La destra matura deve essere liberale, d’accordo. Le manifestazioni di oggi contro il Green pass sono manifestazioni di anarchia, non di libertà.

Anche sul Green pass Meloni e Fratelli d’Italia hanno fatto una campagna, nella migliore delle ipotesi, ambigua.

Difatti se ci sono titubanze sotto questo aspetto, le deploro nel modo più assoluto. So bene che c’è un “cretinismo” anche a destra. I no vax sono una pura manifestazione di “cretinismo”. Se la signora Meloni dovesse indulgere nella logica di incoraggiare o accarezzare questo sentimento, sarebbe anche da parte sua una manifestazione di “cretinismo”. Non di fascismo. Il fascismo è gerarchico, non anarchico. Questi gruppi agiscono contro il sapere scientifico, nel nome dell’irrazionalità.

Fascismo, Fini e Meloni: Maxi fake news a destra

A Gerusalemme era la mattina del 24 novembre del 2003 e alle nove in punto Gianfranco Fini abbassò la testa e si sistemò una kippah di colore blu lucido con riflessi violetti. Sul Monte Herzl, il cimitero nazionale d’Israele, tre nuvole ingoiarono il sole e il cielo divenne nero. Quando caddero i primi goccioloni di pioggia, l’allora leader di Alleanza nazionale imboccò il piccolo ingresso dello Yad Vashem, dopo aver percorso il viale dei Giusti. La visita al mausoleo dell’Olocausto fu lenta. Le foto dei ghetti e dei forni, le teche con libri, documenti e vestiti recuperati dai lager, gli orridi fusti gialli con la scritta “Zyklon B”, il gas impiegato per sterminare gli ebrei. Sovente la faccia di Fini si allungò in una smorfia di stupore, accompagnata sempre dalla stessa esclamazione: “Mamma mia”.

La domanda imbeccata

In serata l’ex sostenitore missino del “Fascismo del 2000”, passato poi per il lavacro di Fiuggi con le insegne di An, tenne una confusa conferenza stampa. Chi scrive era lì per Il Riformista e dopo ritornò in albergo per fare l’articolo, dedicato quasi per intero alla visita allo Yad Vashem. Era sera. A un certo punto arrivarono le telefonate di quattro colleghi (autorevoli) inviati a Gerusalemme per altre testate. Tutti a fare la stessa domanda: “Ma che cos’è questa storia del fascismo male assoluto? Dall’Italia dicono che ci sono agenzie di Fini su questo, ma non abbiamo sentito nulla. E tu?”. “Neanche io”.

Andò così: nel corso della conferenza stampa, una giornalista di agenzia, imbeccata dai due spin doctor finiani, fece una domanda senza microfono. Per la serie: “Secondo lei le leggi razziali del 1938 fecero del fascismo il male assoluto?”. Fini si limitò a rispondere “sì”, aggiungendo una riflessione contorta e senza la famosa frase consegnata alla storia. In pratica, nessuno riuscì a sentire la domanda della collega e nessuno capì il senso della risposta di Fini. Fu solo disattenzione? Oppure un escamotage per non dirlo direttamente? Chi lo sa.

Fatto sta che il capo di An non pronunciò mai tecnicamente, diciamo così, la frase sul fascismo male assoluto. Certo, ne sostenne poi il peso della sostanza, ma appunto il male assoluto non uscì dalla sua bocca in quel giorno storico per la destra italiana. In seguito, Pierluigi Battista, all’epoca a Gerusalemme per La Stampa, è ritornato più volte sulla questione, parlando addirittura del fascismo male assoluto come di fake news.

Rauti, sorella d’italia

In ogni caso, la svolta gerosolimitana di Fini è stata riscoperta ieri da Giorgia Meloni in un’intervistona al Corriere della Sera, per difendersi e difendere Fratelli d’Italia dalle accuse di reducismo neofascista dopo la nota inchiesta di Fanpage amplificata da PiazzaPulita su La7. Ecco, la leader di FdI avrebbe potuto lei pronunciare la famosa frase, ma non l’ha fatto. Si è limitata a stabilire un filo di continuità tra An e il suo partito, in merito ai conti con il fascismo e con il suo dittatore Benito Mussolini.

Ma è una palla gigantesca. La continuità tra FdI e An è soltanto giuridica per una questione di soldi, tanti soldi: il patrimonio milionario di An, gestito da una fondazione in cui FdI è maggioranza. Per il resto il partito meloniano esploso dal 4 al 20 per cento in pochi anni incarna un vero e proprio ritorno alla casa del Padre, una sorta di rinascita missina dopo la fondazione di An e la svolta di Fiuggi avvenute nel biennio 1994-1995.

Le prove sono molteplici. Partiamo dallo stesso Fini, che nel 2014 stroncò così FdI: “Mi sembrano bambini cresciuti e viziati che rischiano di far piangere, di rabbia e non certo di commozione, chi venti anni fa era consapevole di quel che stava accadendo a destra, noi uscimmo dalla Casa del Padre con la certezza di non farvi più ritorno. A Fiuggi la destra mutò identità”. Identità, la parola chiave. Tra i parlamentari di Fratelli d’Italia oggi c’è Isabella Rauti. Il papà Pino fu fascista e fondò la Fiamma tricolore quando Fini sciolse il Msi.

Rauti ha spiegato così, quattro anni fa, il progetto di FdI: “FdI è nata con l’intento di mettere in sicurezza i valori della destra italiana, portando in Parlamento il simbolo della fiamma dell’Msi e radicando il partito sul territorio. Non aveva senso tenere nel simbolo An, sigla che rimanda a un’esperienza datata che, a mio avviso, ha fatto più danni che altro. E sono contenta di vedere nel simbolo la Fiamma, che invece rimanda a un’idea precisa e a una positiva percezione della destra”. La Fiamma, dunque. E An dimenticata per tornare al passato nero.

La fiamma nel simbolo

Giorgia Meloni non ha mai messo in discussione la Fiamma missina nel simbolo di FdI. Al contrario di quanto avvenne in An dove il problema si pose e lo pose Adolfo Urso, esponente ultraliberal dei finiani che guardavano al centro. Oggi Urso ha ritrovato un seggio in Parlamento grazie al sovranismo di FdI e la questione del simbolo l’ha rimossa. Altro esempio: Daniela Santanchè, volto di punta del melonismo. Nel 2007, la Pasionaria Pitonessa che accusò i colonnelli di An di avere le palle di velluto fondò con Francesco Storace la Destra, approdo partitico dello strappo storaciano all’indomani del viaggio finiano a Gerusalemme. Uno strappo consumato nel dicembre di quel 2003 all’Hilton di Roma. Storace esordì: “Cari amici…”. E dalla platea, in coro: “Non avere paura Francè, chiamaci camerati”. Tre anni dopo, al congresso della Destra, Santanchè era in prima fila ad applaudire l’arrivo di Silvio Berlusconi, mentre scorrevano le immagini di Mussolini trebbiatore di grano. I delegati gridarono: “Du-ce, du-ce, du-ce”. Si riferivano a entrambi: Benito e Silvio.

Giovani e neri con Giorgia

Fini completò l’antifascismo di An nel settembre del 2008, sull’onda di altre polemiche storico-politiche. Ignazio La Russa, ministro della Difesa e oggi braccio destro di Meloni, aveva onorato i combattenti di Salò nell’anniversario dell’Armistizio, l’Otto Settembre. Cinque giorni dopo Fini era sul palco della festa di Azione giovani a Roma, al Celio. Con lui Giorgia Meloni, ministro della Gioventù e capa di Ag. Il leader di An attaccò la destra che “non ha il coraggio di dire che si riconosce nei valori dell’antifascismo”. La reazione dei giovani fu un misto di gelo e caos. Meloni scappò via senza rispondere ai giornalisti. Rinviò tutti a un suo ambiguo intervento di qualche giorno prima: “Quando il Pd non sa cosa dire tira fuori il fascismo. Ma i ragazzi fascisti ammazzati negli anni di piombo li considero martiri”. Guarda caso lo stesso registro della risposta di ieri al Corsera, per la serie: la sinistra usa da sempre il fascismo. In quei giorni, sui giornali di allora, contro Fini si distinse una giovane amazzone meloniana, Augusta Montaruli: “Quello di Fini sui valori dell’antifascismo è un falso storico”. Oggi Montaruli è deputata e volto televisivo di FdI. La continuità con An e il fascismo male assoluto. Come no.

MIssini e almirantiani

Nei quasi dieci anni trascorsi dalla sua fondazione nel 2012, l’intera Fratelli d’Italia, non solo Meloni, ha cancellato i meriti di Fini, destinandoli a un oblio perpetuo. Quella di ieri sul Corsera è infatti la prima citazione riservata dalla leader di FdI all’ex presidente della Camera che si schiantò sulla casa di Montecarlo del cognato Tulliani. La rottura di questo embargo della memoria è semplice: l’uso strumentale del lavacro di Fiuggi e della svolta di Gerusalemme per ripulirsi in questa fase difficile di FdI. Ma la continuità con An è una palla. E a smentirla è finanche il sovranismo populista rivendicato da Giorgia “donna, madre, cristiana”. Il politologo Piero Ignazi spiegò così nel gennaio del 2014 a Charta Minuta (rivista diretta dal già citato Adolfo Urso) nel gennaio del 2014 il valore della leadership di Fini: “Berlusconi in realtà è un leader populista. An deve caratterizzarsi come destra moderna, conservatrice e moderata”. An anti-populista, quindi. L’esatto contrario di FdI.

Piuttosto Meloni ha ricordato più volte in questi anni la figura di Giorgio Almirante, ex repubblichino e storico capo dell’Msi. Quell’Almirante che a un certo punto della sua parabola, per accettare la democrazia, se ne uscì con uno storico slogan missino: “Non rinnegare, non restaurare”.

Sì, Meloni è tornata alla casa del Padre. Decisamente. Fratelli d’Italia è un Msi 2.0.

Zenga “offshore”. Anche il portiere nella lista ma non per la “Gazzetta”

Dopo i “gemelli del gol” Roberto Mancini e Gianluca Vialli, un altro calciatore è spuntato nella lista dei Pandora papers: Walter Zenga, ex portiere dell’Inter e della Nazionale e oggi allenatore, così come ha rivelato L’Espresso nei documenti legati ai Pandora Papers. Il settimanale, che partecipa all’inchiesta giornalistica dell’Icij, l’International Consortium of Investigative Journalists, sta velando le ricchezze nascoste nei paradisi fiscali degli italiani, come quelle di Zenga che avrebbe costruito la sua ragnatela finanziaria a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dove ha fissato la sua residenza e ha allenato alcune squadre tra il 2011 e il 2016. A Dubai, scrive L’Espresso, ha anche sede il Rawasawa Trust, il cui fondatore è lo stesso Zenga che al trust ha trasferito la proprietà dei suoi beni perché vengano gestiti da un fiduciario. Tra i beneficiari, oltre allo stesso Zenga, ci sono anche la moglie e i due figli che abitano in una villa a Palm Jumeirah, l’isola nota per i suoi alberghi di lusso tra i quali il Burj al-Arab. Tra gli atti, compare anche un versamento fatto a Zenga per 260mila dollari nel 2017 che è stato utilizzato per delle ristrutturazioni nella casa di Dubai. “Sono questioni che attengono alla sfera privata, personale e familiare di Walter Zenga, che in ogni caso ha sempre agito nel pieno rispetto delle normative rilevanti per ciascuna giurisdizione”, è stata la risposta a L’Espresso del legale che assiste Zenga, Pier Filippo Capello.

Intanto chi avrebbe potuto chiedere a Walter Zenga della sua società offshore è ancora una volta la Gazzetta dello Sport che, tuttavia, non solo continua a non dare la notizia dell’inchiesta ai suoi lettori. Ma ieri mattina, durante l’evento al “Festival dello Sport” a Trento, dove sul palco era presente l’ex portiere per presentare il suo libro Ero l’uomo ragno. La vita, il calcio, l’amore, non ha rivolto nessuna domanda all’ex portiere offshore.

La normalità non torna: archivi e biblioteche mettono ancora in quarantena libri e testi

Ricordate quando, nella primavera 2020, all’esplodere dell’epidemia da Covid-19, con conoscenza quasi nulla del virus, si sanificavano i marciapiedi, vigeva l’obbligo di portare i guanti al supermercato, si mettevano i libri in quarantena nelle biblioteche? Tutte pratiche di estrema precauzione, man mano dismesse da quando è noto che il virus si trasmette per via aerea. Tutte tranne una: sembrerà incredibile a chi non li frequenta abitualmente, ma negli archivi e nelle biblioteche libri e documenti continuano, secondo le linee guida ministeriali del maggio 2020, a dover essere messi in quarantena dopo ogni consultazione. L’Istituto centrale per la patologia degli archivi e del libro un anno e mezzo fa ha infatti imposto che “in assenza di altri studi e dei tempi necessari a verificare” la permanenza del virus sui materiali archivistici e librari, era possibile abbreviare la quarantena richiesta per il materiale dai 10 giorni precedentemente indicati a 7. Un’indicazione già allora criticata dagli addetti ai lavori: l’Associazione italiana biblioteche scriveva in una nota che, dato che “i coronavirus non sono parassiti della carta o di altri materiali inanimati e che la loro eventuale presenza su oggetti inanimati, compresi quelli facenti parte del patrimonio archivistico o bibliografico, è di durata limitata nel tempo” sarebbe stato opportuno ridurre a 72 le ore di quarantena. Non è accaduto né allora né nei mesi successivi, nonostante le indicazioni europee non parlino di quarantena e nuove linee guida ufficiali sull’isolamento di libri e documenti non sono mai state pubblicate. La conseguenza è che oggi vige il caos: chi mette in quarantena per 7 giorni ciò che va in prestito o anche solo in consultazione, chi per 72 ore o anche meno, chi lascia lo scaffale aperto, chi riceve solo su appuntamento, il tutto nel silenzio degli uffici centrali. Come spesso capita, sono archivi e biblioteche nazionali quelli dove le norme dettate dal centro sono maggiormente rispettate, con chiari disagi per gli utenti – quelli rimasti –, che dopo quasi due anni trovano ostacoli ormai ingiustificabili, che si uniscono alla riduzione della capienza e, in troppi casi, degli orari. Sembra che, senza alcuna evidenza scientifica, per questo governo il virus corra sui libri, ma non su tutti: solo quelli che non si possono comprare.

Benevento, cade da piattaforma: muore un operaio

È morto uno dei due operai caduti venerdì da un cestello sospeso per aria, a Benevento. A perdere la vita un 28enne originario della vicina Faicchio, mentre le condizioni del collega, un 37enne di San Lorenzello, sono gravi ma rimangono stabili. La piattaforma sulla quale si trovavano i due era tenuta in piedi, come da prassi, da una gru; per cause ancora da chiarire, il mezzo si sarebbe ribaltato all’improvviso, provocando la caduta degli operai a più di cinque metri di altezza. Entrambi sono stati trasportati d’urgenza all’ospedale San Pio, ma per il più giovane dei due, dopo una notte di sofferenze, non c’è stato niente da fare. La Procura di Benevento, coordinata dal pm Giulio Barbato, ha immediatamente aperto un’indagine per chiarire le cause dell’incidente. Si tratta dell’ennesima tragedia sul lavoro in pochi giorni, avvenuta peraltro nel settore edile, quello dove ci sono state più morti. A fine settembre c’è stato un incontro fra il governo e i sindacati per prevedere norme più severe, incontrando però con le resistenze di Confindustria.

Pressing di Toti sull’Ad di Aspi: “Ora devi chiudere i cantieri”

“Sblocchiamo le gallerie, teniamo le paratie, non lo so. Devi dare indicazioni rapide per diminuire i cantieri, quelli che non sono obbligatori, quelli che ritieni che non siano, come dire… sensibili per la Procura…”.

A fine 2019la Liguria è soffocata dal traffico. Le code sono provocate dai cantieri imposti dal ministero delle Infrastrutture sui viadotti a “rischio crollo”. Ed è questa situazione, soprattutto la perdita di consenso che potrebbe derivarne, a spingere il governatore Giovanni Toti a chiamare Roberto Tomasi, da pochi mesi nuovo amministratore delegato di Autostrade per l’Italia (Aspi). Né Toti né Tomasi sono indagati. È una strana telefonata, nonostante la confidenza, i due si danno del tu, in alcuni momenti il tono di Toti, nelle cui competenze non rientra la valutazione della sicurezza autostradale, si fa perentorio: “Incolpano la Regione, non il Mit… – dice Toti – Certo, la gente paga il casello dopo 4 ore di coda e viaggia nella mia regione, qui lo prendiamo nel culo io e te…”. Questa conversazione, fino a oggi inedita, viene intercettata il 27 dicembre 2019 dalla Guardia di Finanza. La Procura di Genova da oltre un anno sta indagando sul crollo del Ponte Morandi (43 morti), e su un fascicolo bis che ipotizza la falsificazione sistematica dei report sulla sicurezza. I magistrati hanno scoperchiato una sorta di vaso di Pandora: non solo il viadotto Polcevera, ma buona parte delle opere autostradali italiane casca a pezzi, nonostante valutazioni per anni rassicuranti. Per questo, dopo anni di inerzia, il Mit ha nominato un commissario, Placido Migliorino, incaricato di censire le situazioni più allarmanti. L’effetto dei suoi controlli è però devastante: chiusure immediate di viadotti a “rischio crollo” e chilometri di autostrade disseminati interruzioni. Con il fiato sul collo del super ispettore i voti sulla gravità del degrado dei viadotti sono aumentati del 328%. A Toti però sembra importare di più dell’impopolarità delle code, alla vigilia di Capodanno: “Non reggiamo, ci vengono a prendere con i forconi – si lamenta –. La gente non ha la percezione che il vero colpevole è il Mit, cosa di cui non mi devi convincere… mia mamma non sa di che cazzo parliamo, sa che è in autostrada, che paga profumatamente, che sta 5 ore in coda, che c’è uno stronzo di governatore che sta qua a dire quanto è bella la Liguria, mentre io ho i figli che piangevano e dovevano pisciare alla corsia d’emergenza”.

Sarà anche il Mitil “vero colpevole” e Migliorino, di suo, non gode di grande popolarità presso Aspi, dove alcuni dirigenti lo definiscono con scherno “il mastino”. Fatto sta che il tempismo non è molto favorevole alle esternazioni del governatore: tre giorni dopo, il 30 dicembre 2019, sulla tratta ligure crolla la volta della galleria Berté, sulla A26, in pieno giorno. L’incidente, definito nelle prime ore da Autostrade come una caduta di “calcinacci”, si rivelerà ben più serio: dal soffitto della galleria sono precipitate due tonnellate e mezzo di cemento. Solo per un caso non ci sono nuovi morti. Certo è che l’evento sembra rafforzare l’opinione di chi – come i magistrati e lo stesso Migliorino – sta sollecitando un cambio di passo sulla sicurezza. Infatti il caso porta all’apertura di una nuova indagine sulle gallerie.

Nel corso del colloquio, Toti e Tomasi si scambiano opinioni anche sui pm. Il presidente della Regione spiega di aver avuto un incontro con l’allora procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi: “Ieri ho parlato a lungo anche con Cozzi, che mi dice: ‘In assenza totale del Mit, non è che io ho chiesto di bloccare la Liguria con tutti i cantieri domani mattina… Dico semplicemente cosa esce dalle nostre risultanze e do delle indicazioni’. Poi la scelta, come dire, è di Autostrade, vostra e politica… però il tema vero è che qua dobbiamo alleggerire la situazione…”. Tomasi: “Dài domani ti spiego, non è proprio così… perché lui è una persona di assoluto equilibrio, e io lo riconosco, i suoi sostituti un po’ meno. Quando il direttore di Tronco è andato a parlare, gli ha detto: ‘Se tu non chiudi tutto entro il 7 io ti sequestro tutte le barriere’”. E Toti, ancora: “Teniamole aperte ’ste cazzo di paravento”.

Il riferimento è alle barriere fonoassorbenti, una vicenda che, un anno più tardi, porterà all’arresto dell’ex Ad di Aspi e Atlantia, Giovanni Castellucci. Erano infatti “attaccate con il Vinavil”, per citare uno dei tecnici intercettati, correvano cioè il pericolo di colpire gli automobilisti quando il vento tirava troppo forte. La soluzione posticcia trovata da Aspi era stata appunto quella di “aprirle”, per abbassarne l’attrito, ma in quel modo non assolvevano più al loro compito, cioè assorbire il rumore. Il direttore del Tronco di Genova, Mirko Nanni, è stato iscritto sul registro degli indagati dal pm Walter Cotugno, titolare delle indagini sui falsi. Mentre Massimo Terrile coordina l’inchiesta sul disastro del Morandi, che il prossimo venerdì approderà all’udienza preliminare. “Quando siamo andati dal pm – prosegue Tomasi – abbiamo detto: ‘Guarda, stiamo gestendo col massimo equilibrio. Mettiamo una procedura al vento’. Ma lui ha detto: ‘Non mi fido’. E ora?”. “Checché ne dica Cozzi, ovviamente io non posso pretendere che tu non li faccia, ci mancherebbe altro – dice ancora Toti – ne va della tua sopravvivenza in vita. E ne abbiamo già… come dire… non vorrei trovarmi altri interlocutori…”. Il riferimento è alle dimissioni di Castellucci, nel settembre del 2019, proprio a seguito dello scandalo sui falsi report: “Ogni tanto ci penso – ride Tomasi – e dico, cazzo, potrebbe essere una soluzione, perché mi sono rotto…”.

Toti era incappato in un’altra occasione nelle intercettazioni dell’inchiesta sul Morandi, nell’autunno del 2018, mentre parlava proprio con Castellucci, in quel momento ancora Ad di Aspi. Castellucci chiedeva a Toti di intercedere con la Lega, allora al governo, per scongiurare la revoca della concessione, in cambio di un intervento di Autostrade per salvare la zoppicante Banca Carige.

Corsa al test rapido, novemila farmacie rischiano il collasso

In Friuli-Venezia Giulia, dove il tasso di non vaccinati in rapporto alla popolazione over 12 è del 17,3%, le prenotazioni in una sola settimana tra la fine di settembre e i primi di ottobre sono raddoppiate. In Veneto tante farmacie che inizialmente non avevano aderito al protocollo regionale per l’esecuzione dei tamponi rapidi, di fronte all’impennata della domanda hanno fatto dietrofront. Stessa storia in Lombardia, mentre in Sicilia molti farmacisti hanno riorganizzato il servizio, prevedendo giornate dedicate a effettuare i test.

“Dalla seconda metà di settembre in poi in alcune regioni le prenotazioni sono aumentate anche del 50%, ormai un terzo dei tamponi rapidi viene fatto in farmacia”, dice Roberto Tobia, segretario generale dell’associazione di categoria Federfarma. L’effetto dell’obbligo del Green pass, a partire dal 15 ottobre, per tutti i lavoratori pubblici e privati che, in assenza di vaccinazione, devono eseguire il tampone per ottenere il certificato verde. Con quello rapido antigenico hanno il via libera per 48 ore. Validità che sale a tre giorni con il test molecolare, che però non può essere eseguito in farmacia.

Ed è sul test antigenico rapido che è scattata la rincorsa. Prima di tutto perché è offerto a un prezzo calmierato (8 euro per i bambini e i ragazzi dai 12 ai 18 anni, 15 euro per i maggiorenni). Solo in seconda battuta perché è veloce, dato che l’esito arriva in 12-15 minuti. “Il telefono squilla tutto il giorno e abbiamo ampliato l’orario di servizio, soprattutto nel fine settimana”, conferma Claudia Pietropoli, presidente di Federfarma Rovigo e titolare di una farmacia a tre chilometri dalla città veneta. L’identikit del cittadino che prenota è più o meno sempre lo stesso in tutte le regioni. “Persone in età lavorativa, prevalentemente tra i 30 e i 55 anni – spiega Pietropoli –. Anche se non parliamo sempre di no vax decisi, tanti hanno semplicemente paura del vaccino. E allora noi cerchiamo anche di convincerli a farlo”. Il Veneto, per percentuale di non vaccinati, è in linea con la media nazionale (15,5% contro il 15,4%). Non è così in Sicilia, prima nel Paese per irriducibili o indecisi: qui non ha fatto nemmeno la prima dose il 22,8% della popolazione over 12. “L’ingorgo c’è quasi sempre tra il venerdì, il sabato e la domenica”, dice Salvatore Cassisi, farmacista di Palizzi Generosa, in provincia di Palermo. “L’aumento della domanda è notevole – prosegue Cassisi – e per cercare di rispondere alle esigenze abbiamo riorganizzato il servizio, raggruppando gli appuntamenti in determinate ore della giornata e prevedendo slot specifici per i lavoratori. Poi di fronte a tante richieste è aumentato anche il numero di farmacie che aderiscono all’accordo con la Regione”. In realtà la corsa era già partita il 6 agosto, quando era scattato l’obbligo del Green pass per accedere a ristoranti al chiuso, per partecipare a eventi, per entrare nei musei. “In un solo mese, da allora, nelle farmacie italiane sono stati fatti oltre 10 milioni di tamponi antigenici rapidi”, dice Francesco Rastrelli, delegato alla Lombardia della Fofi, la federazione degli Ordini dei farmacisti. Allora le farmacie che avevano aderito alle intese regionali seguite al protocollo nazionale siglato con il governo erano più di 7 mila. Oggi sono circa 9 mila.

“Così non funziona”: la Lega si ricompatta sul “ni” al Green pass

Era stato il pomo della discordia che li aveva fatti arrivare quasi alla rottura. Ora proprio sul Green pass Matteo Salvini e i presidenti di Regione del Nord, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, si ricompattano. Chiedendo al governo un passo indietro sull’obbligo nei luoghi di lavoro che entrerà in vigore dal 15 ottobre. Se a metà settembre i governatori del Carroccio avevano spinto il proprio leader ad accettare l’estensione del certificato per i lavoratori, oggi, a 5 giorni dal via, improvvisamente cambiano idea: nelle ultime ore Zaia e Fedriga hanno lanciato l’allarme chiedendo ripetutamente al governo di allungare la validità dei tamponi da 48 a 72 ore e di autorizzare le aziende a fare test nasali fai-da-te per poter lavorare. Una richiesta condivisa anche da Salvini a cui ora non sembra vero che i suoi avversari interni gli diano ragione: “Allungare la durata minima del Green pass da 48 a 72 ore è possibile e anzi doveroso – ha twittato il leader della Lega – Evitare caos, blocchi e licenziamenti il 15 ottobre è fondamentale”. Da Palazzo Chigi però sembrano non sentirci: Draghi per ora non ha intenzione di fare passi indietro sull’obbligo del pass per i lavoratori proprio ora che ha evocato la “fine della pandemia” e aumentato la capienza di musei, cinema, teatri, stadi e discoteche. Un ripensamento sarebbe anche una sconfitta politica per il premier e non può permetterselo a quattro mesi dalle elezioni per il Quirinale.

Cosa chiede la lega

I primi allarmi sono partiti nei giorni scorsi da Confindustria Emilia Romagna e da Assoindustria Veneto temendo contraccolpi per le aziende da venerdì. Ancora oggi in molte Regioni del Nord rimane uno zoccolo duro di lavoratori non vaccinati che per ottenere il Green pass e andare a lavorare devono tamponarsi ogni due giorni. Un’esigenza sproporzionata rispetto alla capacità delle Regioni e delle farmacie di fare tamponi. In Veneto, per esempio, si stimano 300 mila lavoratori non vaccinati a fronte di una capacità di 50 mila tamponi ogni 24 ore. In Friuli-Venezia Giulia i lavoratori non vaccinati sono 60 mila, ma la media regionale è di 10 mila test quotidiani. Da qui l’allarme di Zaia e Fedriga che chiedono di allungare i tempi di validità dei tamponi da 48 a 72 ore e di autorizzare i test nasali fai-da-te nelle imprese. Altrimenti, sostengono governatori e imprese, il rischio è che i datori di lavoro perdano molti dipendenti. “In Veneto ci sono 590 mila no-vax e una parte non si vaccinerà – ammette Zaia a Repubblica – o cambia il decreto o molti perderanno il lavoro”. Fedriga, con La Stampa, parla di rischio “caos” e chiede di “non penalizzare gli imprenditori”.

Confindustria spaccata

Anche Confindustria però è spaccata. Il presidente Carlo Bonomi, contrario alla proposta leghista, non controlla alcune delle succursali regionali. Se in estate era disposto persino a far entrare l’obbligo nei protocolli anti-Covid, ora Assoindustria Venetocentro chiede un rinvio; contrario invece il presidente della Confindustria regionale Enrico Carraro. Il suo omologo in Emilia Romagna, Valter Caiumi, invece suggerisce 15 giorni di posticipo. Anche nei sindacati c’è il timore del caos: “Zaia si è svegliato – dice Christian Ferrari, segretario Cgil Veneto – ma l’ingestibilità era chiara da subito”. “Da noi la situazione è variegata – spiega il segretario Cgil Friuli, Villiam Pezzetta – qualche azienda paga i tamponi, con altre si discute”.

Caos nel centrodestra

La nuova battaglia di Salvini nel governo da una parte ricompatta la Lega, ma dall’altra spacca il centrodestra. Il deputato Claudio Borghi, fervente no pass, esulta: “I governatori ora si sono accorti che l’obbligo per i lavoratori pone grossi problemi pratici – dice al Fatto – sono contento. Scordiamoci il passato: più siamo a combattere questa battaglia e meglio è”. Ma Forza Italia, con la capogruppo al Senato Anna Maria Bernini, dice no. E si smarca dagli alleati con una posizione opposta: “Per evitare il caos e tutelare l’economia Draghi valuti l’introduzione dell’obbligo vaccinale”. Anche il Pd è contrario a modificare il decreto: dal Nazareno fanno sapere che le norme “vanno rispettate”.

Piazze piene contro il pass. Assalto di Forza Nuova: occupata la sede della Cgil

Non erano bastati gli idranti e nemmeno le prime cariche. I manifestanti indietreggiavano un po’ risalendo l’inizio di via del Tritone e poi ricominciavano i lanci di oggetti contro la polizia, tirando indietro i lacrimogeni che appestavano l’aria. Avanti e indietro per due ore, fino a sera, fino alla carica più decisa e altre ancora nelle stradine tra piazza Colonna e piazza San Silvestro. Barricate in via del Corso, fumo denso, ancora idranti in azione, diversi fermi, feriti. Palazzo Chigi letteralmente assediato per ore da migliaia di persone.

“No green pass, no green pass”, gridavano. C’erano i fascisti, certo, gli esperti della guerriglia di piazza col cappuccio sono andati aumentando col trascorrere del tempo, insieme ai fumogeni e alle bombe carta. Ma prima soprattutto c’era gente comune, donne, uomini di mezza età e ragazzi per lo più a volto scoperto, tutti senza mascherina ma molti anche vaccinati e a volte pronti a farsi male in piazza. “Siamo contro la dittatura, scrivilo, per la libertà, siamo italiani, altro che fascisti e Forza Nuova”, dicono, quando non ti insultano e non ti spintonano perché fai il giornalista. Complottisti, arrabbiati, contrari ai “vaccini sperimentali che non sono vaccini”. “I numeri del Covid sono falsi, sono solo un algoritmo, me l’ha detto il capo dell’intelligenza artificiale di Sogei”, giura una signora 50enne che potresti incontrare sull’autobus o sulle scale di casa, nemmeno negazionista.

La polizia, che ieri è stata colta di sorpresa perché immaginava l’ennesimo flop, è rimasta per ore chiusa in piazza Colonna. E a metà pomeriggio c’era stato l’assalto brutale, organizzato, alla sede nazionale della Cgil in Corso Italia, che era vuota perché il sabato non c’è nemmeno un usciere, solo un pugno di poliziotti all’esterno che sono stati travolti. Lì c’erano volti noti del neofascismo romano, ragazzotti tatuati, ultras e militanti di Forza Nuova, che con il sorvegliato speciale Giuliano Castellino ha dato a questa piazza un leader, un “condottiero” come lo chiamavano dal palco di piazza del Popolo dove tutto è cominciato, con una partecipazione ben più consistente che è destinata a crescere ancora in vista dell’entrata in vigore del green pass per lavorare venerdì 15. “Squadrismo fascista”, ha detto il segretario Maurizio Landini. L’assalto ha colpito perché era premeditato ed è stato ben gestito. Per prima cosa hanno sfasciato la telecamera di sicurezza, poi hanno forzato la porta col tricolore in mano, all’interno hanno fatto danni. Solidarietà al sindacato e a Landini da tutta la politica, l’hanno chiamato anche il presidente Sergio Mattarella e il capo del governo Mario Draghi. Oggi la Cgil fa un incontro pubblico davanti alla sede. Perfino Matteo Salvini ha dovuto dire che “la violenza non è mai giustificata”, pur difendendo “le richieste ragionevoli di chi vuole tutelare salute, diritti, libertà e lavoro”. Poi se l’è presa con il ministro Luciana Lamorgese per la gestione, discutibile, dell’ordine pubblico; a tarda ora anche “solidarietà alla Cgil”. Giorgia Meloni invece ha espresso “la totale vicinanza alle forze dell’ordine, solidarietà al segretario dalla Cgil, Maurizio Landini” ma “anche a migliaia di manifestanti scesi in piazza per protestare legittimamente”. Manifestazione e incidenti anche a Milano: erano poche centinaia e sono diventati cinquemila, corteo non preavvisato fino a sera, cariche vicino alla Stazione centrale. Stavolta a Roma erano in tanti, all’inizio 15-20 mila, certo non 100 o 500 mila come gridavano al microfono e sui social, che in piazza del Popolo neppure c’entrano, ma più dei 10 mila indicati dalla polizia. Dalla Capitale ma anche da fuori, più dal Nord che dal Sud. E come sempre c’era anche gente di sinistra, che cantava “ora e sempre resistenza” dall’altro lato della piazza proprio mentre Castellino riceveva un’ovazione tra i saluti romani. “Ho votato Gualtieri, sono contro il green pass. Non mi fido dei vaccini”, spiegava un romano. Un altro di sinistra: “La puntura me la dovrò fare per lavorare, ma sono contrario”. Dal palco hanno detto “seguite Giuliano quando finisce di parlare” e una parte della manifestazione è andata a “sfidare” il contingente della Guardia di finanza che chiudeva via del Babuino, come le altre vie del tridente che vanno verso il centro e i palazzi della politica. Ci si è messa anche la polizia, il contingente ha retto. Ma forse è stato un caso, forse una manovra diversiva. Perché intanto migliaia di persone sono salite su per il Pincio e Villa Borghese, poi la Cgil e di nuovo nel centro di Roma.

Green pagliacci

Quando Confindustria ordinò lo sblocco dei licenziamenti e Draghi obbedì, le aziende iniziarono a licenziare a manetta, anche via email o sms. E Letta furente definì la cosa “inaccettabile”, chiedendo (al suo ministro Orlando!) di richiudere la stalla quando i buoi erano fuggiti. Naturalmente la norma restò. E tutti i licenziati si domandarono: ma di che si meravigliano questi tartufi se, sbloccati i licenziamenti, i padroni ci licenziano? È la stessa ipocrisia di quando viene scarcerato anzitempo qualcuno che non sia ricco e famoso: tipo il maggiordomo filippino che ammazzò la contessa Filo della Torre, condannato a 16 anni e uscito dopo 10. Che un assassino se la cavi con 16 anni virtuali e 10 reali è uno scandalo, ma questo possiamo dirlo noi che denunciamo da sempre il Paese dell’indulgenza e dell’impunità: non chi dipinge l’Italia come il regno della forca e da trent’anni invoca meno carcere, pene più basse, più attenuanti, amnistie, indulti, condoni, depenalizzazioni, sanzioni alternative per lorsignori e poi s’indigna se se ne approfittano pure i poveracci.

Ora la fiera del tartufo s’è trasferita in zona Green pass: un mese fa, quando Draghi si smentì sull’obbligo vaccinale e impose la tessera verde per lavorare dal 15 ottobre, Landini ripeteva ciò che tutti sapevano: oltre 5 milioni di lavoratori non vaccinati rischiavano il posto. Noi aggiungemmo che privare milioni di italiani del diritto su cui si fonda la Repubblica – il lavoro – per aver esercitato un altro diritto riconosciuto dallo Stato – non vaccinarsi – suonava vagamente ingiusto (infatti nessun Paese europeo, ma neppure extraeuropeo a parte l’Arabia Saudita, si sogna di farlo). E che una misura tanto drastica e discriminatoria contraddiceva la propaganda draghiana sulla miglior campagna vaccinale dell’universo. Ci fu risposto che eravamo dei biechi No Vax (con doppia dose) e che l’“effetto Green pass” con la sola imposizione delle mani di Draghi&Figliuolo avrebbe indotto ipso facto i renitenti al vaccino a farsi inoculare in massa. Poi c’erano quelli che ancora credono a Figliuolo, che il 25 maggio aveva giurato: “Entro settembre saremo tutti vaccinati”. Ora, a cinque giorni dall’entrata in vigore del decreto, se ne sono accorti pure Zaia e Fedriga, leghisti draghiani e quindi buoni, rimpiangendo di non aver dato retta a Landini (e pure a Salvini) per leccare i tacchi a Bonomi: aiuto – piagnucolano – venerdì 5 milioni di lavoratori resteranno a casa! E La Stampa, dopo una dozzina di titoli sul mitico “effetto Green pass”, scopre che i “5 milioni senza vaccino”, ergo “il sistema non è pronto”. Ma va? Manca ancora che ripetano con noi che questo non è il governo dei migliori, ma prima o poi ce la possono fare.