Oltre la cultura del complotto, tenendosi stretto l’elogio del sospetto

Propone un punto di vista originale, Donatella Di Cesare a proposito del complotto e del complottismo. Fenomenologia del potere al tempo della globalizzazione, il complottismo, quell’intelligenza collettiva che origina da masse informi aggregate (il francese complot) va compreso attraverso la grande crisi del “soggetto”, l’umana propensione a porsi al centro di ogni cosa e che invece è sempre più smarrita, persa nel caos, in preda a un mondo illeggibile.

Il complottismo è così un forte processo di depoliticizzazione, anzi ne è il prodotto e ancora una volta certifica il bisogno di mito, di immaginario e di sogno che ha però animato la politica moderna. Senza un “potente immaginario” cosa sarebbe stata la politica nell’età moderna e in particolare nel XX secolo? La “macchina mitologica” di cui parla Furio Jesi è sempre pronta a svolgere una funzione di esplicazione della realtà e di decodificazione dei processi.

E poi il risentimento che grazie alla depoliticizzazione crescente ha preso il posto della politica. Il “Popolo del Rancore” nutre i nazionalismi, i sovranismi e quel populismo che semplifica la realtà, ma che nell’élite scorge facilmente la genesi di ogni complotto.

Ma il complottismo non va liquidato altrettanto semplicisticamente. Polemizzando a distanza con Umberto Eco, che ne vedeva l’antidoto solo nella ragione progressista, Di Cesare teme che si possa “azzittire ogni critica”, ad esempio liquidando quel postmodernismo che ha fatto tesoro dell’elogio del sospetto, in particolare nella corrente filosofica dell’ermeneutica. Sapendo che il complottismo “nasce dalla paura e dall’isolamento del cittadino” escluso dallo spazio pubblico. L’antidoto è dunque di nuovo la politica, la cura della comunità interpretativa e, ovviamente, una sana dose di sospetto.

 

Il complotto al potere

Donatella Di Cesare

Pagine: 114

Prezzo: 12

Editore: Einaudi

“L’America mi suscita un’ansia apocalittica”

Basta scorrere i titoli dei suoi saggi – Come restare soli; Più lontano ancora; La fine della fine della terra – per intuire che il sessantaduenne Jonathan Franzen non sia proprio il tipo che, a bussare alla porta della sua villetta a Santa Cruz in California, ti accolga a braccia aperte. Del resto se è impegnato nella scrittura probabile che non senta il campanello, abituato a stare chino sul computer con i tappi alle orecchie e la stanza in penombra. Se è fuori casa tocca braccarlo nel fitto di un bosco mentre rimira uccelli selvatici con il suo binocolo. La passione per il birdwatching è lo scarto eccentrico di uno scrittore allergico ai social media (“Twitter è stupido e crea dipendenza”) e che ama affettare snobismo: “Il fatto che gli americani guardino tantissima Tv e leggano poco Henry James mi provoca un’angoscia apocalittica”.

Eppure il volto di Franzen è finito sulla copertina più prestigiosa del pianeta, incorniciato dal profilo rosso della rivista Time sotto la pomposa investitura di “Great American Novelist”. C’è poco da fuggire i riflettori quando sei stato la lettura da spiaggia del presidente Obama e se persino Michiko Kakutani, la critica letteraria più temuta oltreoceano, ha intonato peana: “Gli basta appoggiare le dita sulla tastiera per evocare mondi interi”.

Dopo due romanzi trascurabili e un matrimonio a pezzi in curriculum, il destino di Franzen inverte la rotta quando due aerei di linea abbattono le Torri Gemelle. Le correzioni, nell’autunno del 2001, macina recensioni agiografiche e va in testa alle classifiche. Il merito è della famiglia Lambert. Padre col cervello in pappa, madre perfettina e tre figli inquieti: un bancario depresso, una chef con pulsioni lesbiche, un professore disoccupato dopo scappatella con un’allieva. In questa “tragedia scritta sotto forma di farsa” il dito è puntato contro la società di massa che cannibalizza l’individuo: “Alfred sapeva cosa si aspettava da lui la modernità. La modernità si aspettava che andasse in un grosso discount a sostituire le luci guaste… La modernità si aspettava quella designazione e Alfred vi si opponeva”. Franzen, in virtù del suo sguardo allenato a seguire le traiettorie dei volatili, guarda la realtà Usa con la stessa pazienza e non c’è dettaglio che possa sfuggirgli, dalla crisi economica alle storture del web, dal disastro climatico alla corruzione dei costumi. La sua impronta stilistica è presto detta: una volta acciuffata la velocità che attraversa il mondo contemporaneo la restituisce con la lentezza tipica del romanzo tradizionale. È come se raccontasse l’America profonda di oggi a bordo di una locomotiva del vecchio West. Uno scrittore del nostro tempo ma anche fuori dal tempo.

Le sue epopee si rincorrono sul filo di una drammaturgia sempre pronta a cogliere le crepe della società attraverso famiglie esplose. Da Libertà – dove va in scena uno scontro generazionale tra un padre progressista e un figlio che abbraccia la fede repubblicana – a Purity che ruota attorno a Pip, ragazza alla ricerca del padre e Andreas, una sorta di Assange con uno scheletro nell’armadio. In Zona disagio Franzen confessa: “Mia madre mi sembrava orribilmente conformista e inguaribilmente ossessionata dal denaro e dalle apparenze; mio padre mi sembrava allergico a qualunque tipo di divertimento”.

L’immaginazione attinge sempre a un risvolto autobiografico. Ne è debitore anche il nuovo Crossroads, primo di una trilogia, uscito in questi giorni per Einaudi. La famiglia Hildebrandt, immortalata lungo il 1971, abita queste seicento pagine tentando di nascondere dietro ogni riga segreti inconfessabili. Dal padre pastore di una chiesa locale in odore di adulterio alla madre con un passato di cui disfarsi, ai tre figli che tentano un’emancipazione ostile: Clem che sogna il fronte del Vietnam, Becky che flirta con l’avversario “spirituale” del padre, Perry che si lascia irretire dalla droga. A tenerli tutti sotto scacco il senso di colpa di una fede cristiana che impregna ogni fibra della loro coscienza. Vale la pena richiamare Franco Cordelli: “Alla fine, da qualunque parte si sia, non si scappa dalla condanna di Dio. È Dio il motore del mondo: cioè l’invidia per chi ne ha un atomo, il disprezzo per chi non ne ha”.

L’anaconda vomita teste mozzate: atto terzo del lato oscuro del veltronismo

Il giallista Walter Veltroni ha una marcata predilezione per le teste mozzate. Dopo quelle di Assassinio a Villa Borghese, che due anni fa segnò il suo brillante nonché sorprendente esordio noir, adesso ce n’è una nel rettilario del Bioparco di Roma. La scena è per stomaci forti. Nella teca dell’anaconda, un mostro di sei metri, c’è il cadavere nudo e decapitato di un uomo, sulle gambe ha residui di sperma. Il poveretto è stato stritolato dal serpentone che ha ingoiato pure la testa mozzata dall’assassino armato di accetta. La polizia però non può aspettare che l’anaconda defechi la testa e così viene indotto (l’anaconda è sostantivo maschile) a vomitarla, ricoperta di succhi gastrici.

Comincia così la terza inchiesta romana del commissario cinquantenne Giovanni Buonvino, che dopo un passato tormentato ha trovato l’Eden dei poliziotti a Villa Borghese, dove è a capo di una squadra capace e affiatata e in cui c’è anche la sua futura sposa, Veronica Viganò. Il cadavere del Bioparco, grazie al tatuaggio di una data, ha un nome e cognome. Anzi due. Uno vero e uno falso. Una doppia identità che maschera una turpe e criminale attività di usuraio e di spacciatore. E tra chi lavora al Bioparco ci sono almeno due persone che lo vorrebbero vedere morto. Per stessa ammissione di Veltroni stavolta Buonvino conduce un’indagine christiana in senso stretto, con i sospettati riuniti alla fine nella stessa stanza. Non a caso, rispetto ai primi due gialli, questo ha una trama più statica, in cui l’ex sindaco di Roma e tante altre cose conferma il suo talento nel confondere il lettore e a spiazzarlo. E l’ultima scena (che fa venire in mente una storica puntata di Profiling) mostra tutto il lato oscuro e sadico del veltronismo noir.

 

C’è un cadavere al Bioparco

Walter Veltroni

Pagine: 223

Prezzo: 14

Editore: Marsilio

 

Mariana, sedotta e abbandonata come un maglione

Durante un’estate di molti anni fa, seduto sul tetto del suo palazzo a Cambridge, nel Massachusetts, André Aciman lesse lo scandaloso (per l’epoca, apparse a Parigi nel 1669) Lettere di una monaca portoghese. In quei mesi divorò anche le memorie del cardinale di Retz, tutto di Madame de LaFayette, Racine, Pascal, La Rochefoucauld, ma nulla lo folgorò come quel volumetto di cinque struggenti epistole che, pare, una religiosa portoghese disonorata, tale Mariana, aveva scritto a un ufficiale francese tornato in Francia dopo averla sedotta e abbandonata.

Desideroso da tempo di scrivere un racconto ispirato a quel testo – il tema delle missive firmate da donne ai propri amanti infedeli non è tuttavia una novità, basti pensare alle Eroidi di Ovidio e all’Elegia di Madonna Fiammetta di Boccaccio –, Aciman coglie l’occasione quando di recente consegna l’opera al seminario per dottorandi (insegna letteratura comparata a New York) e la rilegge ancora, restandone nuovamente incantato. Il risultato è Mariana con cui lo scrittore (il 17 ottobre ospite al Salone di Torino) propone il monologo di una giovane americana, in Italia per un periodo di studio all’accademia d’arte, schiacciata e ossessionata dalla passione per un pittore incontrato a un ricevimento che la desidera un mese e poi prende a sparire e ricomparire e a frequentare nel mentre altre donne.

Mariana confessa, rivolgendosi direttamente a lui, il coinvolgimento maniacale che la consuma mettendone così a parte anche il lettore. “Certi giorni penso che tu mi abbia sempre ingannato, se avessi smascherato le tue bugie anche solo in minima parte, poi saresti scappato e mi sarei ritrovata come adesso: sola in una domenica pomeriggio ad ammonticchiare reliquie scovate nella memoria, come un monaco che conserva gli stracci e le ossa di chi un giorno magari verrà santificato… A una parte di me piace avere il cuore infranto”. Dei loro incontri conserva talloncini, scontrini del bar, ingressi per il teatro, biglietti del traghetto, perfino una ricetta del condimento per l’insalata. Rosa dall’idea di essere gettata via come carta straccia, tanto che gli si concede subito per paura che lui cambi idea, si paragona a maglioni di cachemire che dopo esser stati indossati qualche volta si riempiono di pallini. Come a dire: sembrano il meglio ma non sono poi granché. Autostima zero. Sa che la storia è destinata al naufragio e che elemosinare attenzione è mortificante, ma non riesce a salvarsi. Dinamica invero tristemente diffusa.

Essere testimoni della gabbia di sentimenti disallineati che non sa sbrogliare né ammansire, ma dentro cui s’intrappola da sola, irrita non poco, ma dalla postfazione di Aciman – che pur mantenendo il tema amoroso come asse portante non ha più scritto niente di paragonabile al suo esordio, l’ormai celeberrimo Chiamami col tuo nome – emerge prezioso insegnamento: “Quello che spesso ci risulta difficile da perdonare non è che qualcuno ci abbia eventualmente ingannato, è che siamo stati noi stessi a invocare l’inganno, ci siamo cibati di esso e l’abbiamo voluto a ogni costo, perché senza saremmo tornati a essere quello che sapevamo d’essere: non amati”. Quando crediamo che qualcuno ci stia liberando dalla nostra solitudine dovremmo chiederci a che prezzo lo stiamo facendo, sempre.

 

Mariana

André Aciman

Pagine: 128

Prezzo: 14

Editore: Guanda

“Resurrezione”: Santa Cecilia riparte con una Sinfonia per niente Mahler

“From darkness to lightness”: così in una recente intervista il ceco Jakub Hruša, primo direttore ospite dell’Orchestra di Santa Cecilia, ha descritto il movimento sotteso alla II Sinfonia di Mahler, eseguita giovedì al Parco della Musica in apertura della stagione 2021-2022 dell’Accademia (repliche fino a stasera). Non so se la frase soffra di un errore d’inglese, ma nel caso è certo una felix culpa: non solo luce (“light”), infatti, ma anche molta leggerezza si ravvisa nella sua esecuzione, così densa da lasciarlo a lungo esausto sul podio dopo il lunghissimo Finale, mentre le due voci femminili (Rachel Willis-Sørensen e Wiebke Lemkuhl) non trattengono le lacrime di commozione dinanzi alla solenne e mistica proclamazione conclusiva della Auferstehung, della “Resurrezione” che dà il nome a tutta l’opera.

Quella di Hruša, già distintosi in una premiatissima incisione della IV, è una leggerezza mai languida, particolarmente riuscita nel “ventre molle” (i movimenti centrali più brevi, anzitutto lo scherzo del III) di una sinfonia-mondo tra le più eterogenee e discusse del compositore austriaco (Debussy abbandonò la sala durante la prima esecuzione parigina; Adorno la riteneva ancora prigioniera di schemi primitivi). Già solo la sua esecuzione (per un organico, tra orchestra e coro, di oltre 160 elementi, distanziati a modo) è un segnale di “rinascita” dopo la pandemia: il teso silenzio prima del coro e dopo il canto di flauto e ottavino nel Finale (la natura che recede? gli uccelli della morte? il gioco dei fiati “lontani” riesce bene agli orchestrali romani) mostra che il pubblico – quello che all’epoca di Mahler non sempre capiva (“tutto quello che suono è troppo nuovo!” deplorava il Maestro) – è partecipe del momento.

Se dunque Hruša non ha fatto rimpiangere il direttore stabile Pappano (impegnato oltreoceano nei Maestri Cantori del Metropolitan), vieppiù lo si attende nel prossimo giugno (9-11) alla prova della Sinfonia Glagolitica del suo conterraneo Janácek, un monumento raramente eseguito da noi, che sarà abbinato al non meno ceco Nuovo Mondo di Dvorak.

 

Questi fantasmi nell’“Edificio 3”

“È strano l’uomo…”. “Quale uomo?”. La sintesi di Edificio 3 di Claudio Tolcachir è forse questo breve scambio di battute: da un lato, i massimi sistemi, l’eco addirittura dell’Antigone di Sofocle (“Molte sono le cose straordinarie, eppure nulla di più straordinario dell’uomo esiste”); dall’altro, la demolizione sorniona della tradizione e di qualsiasi pretesa o postura intellettuale.

Tolcachir, argentino classe 1975, è uomo – appunto – di palcoscenico, attore, regista, drammaturgo; sa che il teatro non vive di idee o sbruffonaggini accademiche: per questo il suo Edificio 3 – Storia di un intento assurdo è una commedia deliziosa, onesta e pensosa, di ottima fattura artigianale (cast eccellente, anche quando improvvisa) quanto spessore emotivo. Genuinamente contemporanea, parla di tutti noi, ma non se la tira affatto. Lo spettacolo ha aperto la nuova stagione del Piccolo Teatro di Milano, dopo travagliata gestazione nei mesi più difficili della pandemia: è un buon vento per ricominciare la navigazione.

Rappresentata per la prima volta a Buenos Aires nel 2008, la pièce è ambientata nell’Edificio 3 del titolo, un non luogo, disordinato e spoglio, dove lavorano – o fanno finta di farlo – tre impiegati statali: Monica, Sandra ed Ettore. Tra faldoni e scartoffie, non c’è nulla che funzioni: l’atmosfera è cupa e surreale; ascensori rotti, luci che saltano, sedie sparite, macchinette del caffè fuori uso, colleghi spostati in altri capannoni, telefoni a singhiozzo e persino un morto suicida in un altro ufficio… Lo stesso inquietante palazzo diventa poi la casa di due fidanzati in crisi, Sofia e Manuel; il bar dove incontrare amici e amanti; lo studio medico in cui sottoporsi ad analisi della fertilità: l’Edificio 3 è insomma la trama che lega e tiene insieme i cinque bizzarri personaggi, tutti logorroici benché parlino di niente, celando gli uni agli altri i propri desideri, bisogni e paure.

Recita il sottotitolo che questa è la “storia di un intento assurdo”, l’intento, ovvero il mostro interno invisibile che anima e rode i protagonisti a vario titolo. Questi fantasmi nell’Edificio 3, il terzo edificio come un terzo mondo: c’è chi lavora ma in realtà non ha niente da fare, e chissà forse sarà licenziato; c’è chi ha perso casa e smania per i pettegolezzi; chi tenta di rimanere incinta senza un partner; chi segue di nascosto il fidanzato scavezzacollo; chi ha sepolto la madre e sogna una vera relazione d’amore, a costo di snaturarsi con le tinte per capelli e i giubbotti fluorescenti. I legami sono tossici: in ufficio e a casa, tra parenti come tra estranei, tra donne e uomini ma anche tra uomini e uomini.

Tolcachir, qui autore e direttore, ha il merito di aver scelto cinque interpreti notevoli, per tempismi, autoironia e affiatamento: Stella Piccioni, Giorgia Senesi, Emanuele Turetta e gli spassosissimi mattatori Rosario Lisma e Valentina Picello. “Mi reputo fortunato a poter tornare, un anno dopo, a godere di questa esperienza – dichiara il regista –. È come se avessi ottenuto dalla vita un ‘bonus’ di allegria e di gioco”.

E davvero allegria e gioco dona questo Edificio 3, nonostante la fragilità e la tristezza dei suoi personaggi: sul palco si piange, in platea di ride. Ma il dubbio è lo stesso per chiunque: “Come fanno gli altri? Com’è che fanno tutti gli altri?”. A vivere in questo squallido edificio-mondo senza buttarsi giù.

 

Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 7 novembre

Edificio 3 – Storia di un intento assurdo

Claudio Tolcachir

“Belgravia”: fogliettone amoroso degno di Dickens

C’erano una volta “i gentiluomini che non si guadagnano le case ma le ereditano” così come le gentildonne che “tengono ben distinto l’amore dal matrimonio, che è una faccenda economica”.

Ecco arrivato sugli schermi di Sky e in streaming su Now il nuovo feuilleton che accompagnerà i tè pomeridiani (o i dopocena) delle signore contemporanee, specie quelle che si sono nutrite di annate stagionali di Downton Abbey. Perché a firmare la miniserie Belgravia è sempre lui, Julian Fellowes, il più esperto scrittore e sceneggiatore contemporaneo di costumi aristocratici della vecchia Inghilterra che non poco fatica a diventare “nuova”.

Se Downton Abbey raccoglieva una nobile famiglia (e i suoi domestici) in una dimora divenuta simbolo dell’ingresso nel secolo breve assurgendo la Prima guerra mondiale quale linea di demarcazione, Belgravia fa un passo indietro nella Storia, catapultando due famiglie tra la Bruxelles “britannica” del 1815 alla vigilia di Waterloo e il 1840, nel lussuoso quartiere londinese di Belgravia, da cui il titolo della serie e del romanzo dello stesso Fellowes del 2016 da cui è adattata.

Al di là dei sapienti intrighi e beffardi intrecci tra i membri familiari protagonisti della vicenda corale, Belgravia porta in essere due valori. Il primo riferisce alla precisa eredità del romanzo vittoriano (Dickens su tutti, ma non solo) così come è passato alla storia, con i suoi personaggi polarizzati tra buoni e cattivi, tutti più o meno affaccendati a non farsi travolgere da un destino dettato dalle regole del tempo. Il secondo è la capacità, tutta di Fellowes, di esaltare i cambiamenti epocali che sottendono il racconto, in questo caso concentrati sull’urbanizzazione di Londra (il quartiere Belgravia fu “disegnato” in quel periodo), a cui fa specchio l’inevitabile mutazione del paradigma sociale dettato dall’esplosiva Rivoluzione industriale.

Va detto, però, che la mini-serie Belgravia non offre la vastità, profondità e la perfezione narrativa della super-serie Downton Abbey, rimanendovi sulla scia con uno sguardo seducente e fascinoso solo perché ancorato al mistero di amore & morte con una love story breve ma ardente.

“Caveman”, l’arte e l’ego finiscono 650 m sottoterra

Non tutti i film col buco riescono. O, meglio, non tutti riescono allo stesso modo: l’ultima Mostra di Venezia ha messo in Concorso Il buco di Michelangelo Frammartino, dedicato all’esplorazione nel 1961 dell’abisso del Bifurto nel Pollino e premiato dalla Giuria di Bong Joon-ho, ma se n’è perso un altro, francamente più interessante, più profondo.

Approdato alle Notti veneziane delle Giornate degli Autori, de facto un non luogo, inquadra un altro abisso, stavolta nelle Alpi Apuane, ma alla speleologia preferisce l’umano, sin dal titolo: Caveman, documentario dell’esordiente Tommaso Landucci. Classe 1989, già assistente alla regia per Claudio Giovannesi (Alì ha gli occhi azzurri) e Luca Guadagnino (A Bigger Splash), protégé di James Ivory, ha seguito per tre anni lo scultore fiorentino Filippo Dobrilla, cresciuto a marmo e Cellini, bisessuale (il suo estimatore Vittorio Sgarbi invero lo definiva pansessuale, addebitandogli copule con le capre, anzi, i caproni), due figli da due donne, l’eremitaggio artistico per condizione esistenziale.

La sua opera più ardita è sottoterra, a 650 metri di profondità, nella spelonca che custodì l’amore eroico e omoerotico, à la Achille e Patroclo, di gioventù: è un gigante di quattro metri, forse l’opera d’arte più inaccessibile al mondo, epitome del narcisismo a scomparsa di Dobrilla, rifugio dal mondo e per la vita di quest’uomo delle caverne. Landucci lo tallona con empatica ostinazione, indugia sul suo magnetismo, la vulnerabilità, l’autostima precaria, l’art pour l’art quale grado zero dell’esistenza, fino a trovare una perfetta, straniante e perfino lancinante corrispondenza tra le sue sculture, il suo corpo (che sovente trasformavano) e il suo destino, ovvero il cancro che l’ha portato via a soli 51 anni nel 2019.

Un viaggio al termine non della notte, ma dell’oscurità intima della grotta che apre al mistero, senza elegia né superfetazioni, aderendo alla cronaca, alla materia, alla pietra, il marmo, la cera di un artista che seppe farsi uomo e animale insieme, il corpo snello e poi smunto, i piedi nudi perennemente in campo quale testimonianza terragna e congedo terreno.

Avrebbe meritato ben altri riflettori in Laguna – specifichiamo: Orizzonti – ma non ogni speranza è persa, anzi: Caveman passerà da altri festival autunnali e merita senz’altro la distribuzione in sala. Oltre a illuminare un talento in fieri, quello di Tommaso Landucci, che dimostra perizia nell’uso dell’archivio e controllo nell’estasi (la statua dell’abbraccio che se ne va nella polvere), il documentario cerca di sensibilizzarci, financo appassionarci, alla vita di un uomo non illustre ma esemplare, capace di trascendere orgoglio (suo) e pregiudizio (nostro), di chiedere (una residenza artistica e una cattedra nella Sutri di cui Sgarbi fu sindaco) e insieme non chiedere mai, di manifestarsi fuggendo, di conquistare ritirandosi. Portatecelo in sala.

 

Il “Paradiso” di Germano è proprio dentro al canto XXXIII

Uno spettacolo immersivo, immaginifico, divulgativo ma non didascalico, sperimentale, polivalente, tra musica e visioni, parole e installazioni, evocazioni e ricordi. Uno show teatrale che omaggia “l’irraccontabile”, creato sull’emozione luminosa che solo il Paradiso può veicolare, almeno nell’eredità immaginaria che Dante ci ha regalato. Elio Germano torna sulle terzine del Canto XXXIII della terza cantica della Divina Commedia dopo la lettura proposta in apertura dell’anno dantesco davanti al presidente Sergio Mattarella. “Perché non poteva esaurirsi lì, Dante lo impone”. Così, accompagnato dalla “drammaturgia musicale” dell’amico e sodale Teho Teardo, si mette in scena nei panni (ma non abiti) di Dante con Paradiso XXXIII su propria drammaturgia, ma per la regia del duo Simone Ferrari & Lulu Helbæk, noti creativi di eventi che vanno dal Cirque du Soleil alle cerimonie olimpiche. Un omaggio che vuole liberare Dante dalla prigionia dell’insegnamento scolastico per aprirsi al “dispiegamento” del suo verbo, celebrando “l’assenza di ogni spiegazione, perché del sommo poeta serve fidarsi anche quando non lo si capisce”. Allo stesso modo conviene dunque fidarsi (senza poterne ancora godere..) del talento creativo messo in campo in questo progetto che, a detta di Germano, “mette il simbolo e la meraviglia del teatro a servizio del sacrificio, dello sforzo dantesco, che la società contemporanea si ostina a volerci rimuovere. Del resto, per raggiungere delle soddisfazioni è necessaria la fatica”. Il debutto è previsto l’11 ottobre al Teatro Alighieri nel contesto del Ravenna Festival, che produce lo spettacolo insieme a Pierfrancesco Pisani, Fondazione Teatro della Toscana, Teatro Franco Parenti, Fondazione Teatro Comunale di Ferrara Claudio Abbado, Teatro Amintore Galli di Rimini.

Politica, donne, giornali e il Papa: tutto fa Scalfari

“Giornalista, editore, politico, scrittore, ti definisci anche filosofo e poeta, in più amico del Papa: abbastanza per fare di te un monumento, abbastanza anche per demolirlo”. Parlano Donata ed Enrica, al padre Eugenio hanno dedicato il documentario Scalfari A Sentimental Journey. Firmato con Anna Migotto, diretto da Michele Mally, premette che “a essere figli di Scalfari, ingombrante, narciso, superprotettivo, ci si abitua”, ma l’adorazione non è esclusiva, il culto aperto ai non consanguinei: “Non detto, io creo”, vuole il novantasettenne demiurgo. La sostanza non si discute, ci si può chiedere se sia Divo o Dio: la prima è tendenza Paolo Sorrentino, che accostandolo nel film omonimo a Giulio Andreotti trova “due titani che non parlano la stessa lingua, due anime diverse nel ragionare e nel potere”; la seconda Roberto Benigni, che al cospetto del Fondatore tende il dito da novello Adamo della Cappella Sistina. Scalfari è immanente, non teme la morte che chiama “la Regina”, ha nell’interesse per il presente “il grande psicofarmaco che lo tiene sveglio” (Bernardo Valli) e un singolare excursus tra lettino e letto: un’unica volta dallo psicanalista (l’angoscia abbandonica che gli attribuisce Massimo Recalcati ribadisce la bontà della scelta), più volte con la fidanzata di Federico Fellini, che rese cornuto con personale soddisfazione e altrui – Italo Calvino – scorno. Simonetta e Serena, “sotto il segno del triangolo si è scandita la mia vita, ma – assicura – io non ero al vertice”. Omnia vincit amor proprio, e Aspesi assolve colui che volle farsi Noè: “Non puoi vivere con un uomo come Scalfari e rinunciarci per gelosia”. Il modus operandi sarebbe oggi tacciato di patriarcato e mansplaining, da “Un maschio vuole un figlio maschio” alle rose che mandava alla stessa Aspesi, dal corso di dattilografia e – geniale – la manifestazione femminista imposta alle figlie alle “frizioni” e nulla più concesse a Lucia Annunziata, ché con Eugenio non si può litigare. Tutto il resto è giornalismo, ovvero politica: “Repubblica è meno e più di un partito”; Scalfari “un direttore scettico e passionale” (Valli); “la sinistra non so se liberata di tutti gli errori e gli orrori” (Ezio Mauro); di Eugenio “la spinta a uscire dai vecchi recinti con un’evoluzione riformista, libera da ideologie” (Walter Veltroni, nell’assenza di altri politici presumibilmente interpellato quale giornalista e/o regista). Dal biliardo, sulla scorta di Ugo La Malfa, mutuò “il gioco di sponda per impallare l’avversario”, da una cosa pubblica inadeguata una diversa casacca giornalistica, “da supplente dei politici”. Passi a due: il principe Caracciolo, “non fu coppia ma tandem”; Silvio Berlusconi, “un avversario molto forte e ricco, un avversario politico, che ci attaccò e ridusse a pezzi”; Papa Francesco, “lo scoop mondiale ha espanso ulteriormente il suo ego, quella telefonata è valsa più di una flebo di vitamine” (le figlie). Targato Rai Documentari e 3D Produzioni, in cartellone alla Festa del Cinema di Roma il 21 ottobre e in onda su Rai3 il 23 alle 17.45, Scalfari A Sentimental Journey è insieme manuale di identità, album di famiglia e diario di bordo in prima persona maiestatica. Ha un momento esilarante, allorché l’ateo Eugenio rivendica di non aver provato a convertire il Papa, e uno rivelatore: “La vostra madr… mia moglie”. Ed è francamente godibile, a prendere in parola il Sentimental Journey di Laurence Sterne: “Ove il cuore precorra l’intelletto, libera sempre da mille travagli il giudizio”.