Nobel per la Pace ai reporter (nel nome di Politkovskaja)

 

Maria Ressa (Filippine)

Non solo Duterte, i social sono il vero dittatore

“Oh mio Dio! Sono senza parole! grazie di cuore!”. Poiché Maria Ressa è infaticabile nell’impegno per la libertà di stampa, quando riceve la telefonata da Oslo che le annuncia di aver vinto il premio Nobel per la Pace, è in diretta con altri giornalisti al webinair Press in distress – stampa in difficoltà: riuscirà il giornalismo indipendente a sopravvivere nel sud-est Asia? La si vede prendere la telefonata dalla scrivania del salotto di casa che chi la segue conosce bene, restare in ascolto per lunghi secondi, poi sgranare gli occhi per la sorpresa. Quando riattacca, mentre i colleghi si congratulano, la voce che a 58 anni è ancora da bambina, si spezza: “È un riconoscimento di quanto è dura fare i giornalisti oggi, continuare a fare quello che facciamo. Ma anche, speriamo… il riconoscimento del fatto che…. vinceremo la battaglia per la verità. La battaglia per i fatti. We hold the line. Resistiamo”. We hold the line è una delle frasi che Ressa ripete spesso ed è anche un documentario del 2020 sulla sua esperienza di opposizione al presidente filippino Duterte, condivisa con i colleghi della piattaforma digitale Rappler di cui oggi è Ceo. La motivazione ufficiale del Nobel si sofferma su come Ressa sfrutti la libertà di espressione per denunciare l’abuso di potere, l’uso della violenza, l’autoritarismo crescente del governo filippino e il ruolo dei social media, specie di Facebook che nelle Filippine è quasi sinonimo di Internet, nel farsi veicolo di disinformazione, oppressione degli avversari politici e manipolazione del dibattito pubblico. Di fatto, la sua biografia la fa uscire dai confini filippini: nata a Manila, è cresciuta fra le Filippine e gli Usa dove, dopo una laurea in Biologia molecolare, si interessa al giornalismo, fino a diventare prima reporter specializzata in reti terroristiche, e poi capo dell’ufficio di corrispondenza della Cnn a Jakarta. Nel 2004 passa a guidare le news di Abs-Cbn, gruppo mediatico delle Filippine, e nel 2012 con un pugno di colleghi fonda Rappler che nasce paradossalmente come pagina Facebook. Ressa comprende dall’interno i meccanismi del social e ne vede in anticipo i pericoli. Il focus social si intreccia con la denuncia dei crimini della polizia, che sparge il terrore nelle Filippine su mandato del presidente Duterte: è Rappler a scoprire l’esistenza di un braccio social del regime, un ‘esercito di troll’ che manipola la narrazione dei fatti orientandola a favore del governo. Nel 2017 riesce a incontrare Mark Zuckerberg, convinta che non sia al corrente, ma quando gli spiega i rischi dello strapotere della sua creatura in un Paese in cui il 97% dei filippini è su Facebook, si sente rispondere: “E l’altro 3%?”

Paga la propria integrità con minacce di morte e, presto, con la pressione giudiziaria: nel 2018 iniziano le denunce da parte delle autorità per diffamazione e reati fiscali, fino a un primo breve arresto nel febbraio 2015 e alla condanna per diffamazione online nel giugno 2019, fino a 6 anni di carcere, a cui ha fatto appello. Il profilo internazionale la protegge, in parte, ma dipende dall’arbitrio della Corte per lasciare il Paese, accettare i molti inviti a eventi sulla libertà d’espressione; perfino, ed è uno dei maggiori motivi di sofferenza, andare a trovare la madre malata negli Usa. Non molla, anzi rilancia: nel 2020 diventa uno dei membri più esposti del Real Facebook Oversight Board, gruppo internazionale d’esperti e attivisti che monitorano lo strapotere di Facebook. Ha imparato la lezione dall’esperimento filippino. “Se non facciamo qualcosa per proteggere i fatti” denuncia “rischiamo di perdere le nostre democrazie, perché la democrazia frana nei Paesi dominati dalle dittature digitali, in cui i social media manipolano la verità”. Inclusi gli Usa.

Sabrina Provenzani

 

Dmitry Muratov (Russia)

Dall’Armata rossa al pc comprato da Gorbaciov

Yury Shchekochikhin, Igor Domnikov, Anna Politkovskaja, Anastasia Baburova, Stanislav Markelov, Natalya Estemirova. Queste persone hanno ricevuto oggi il premio Nobel”. I nomi dei sei giornalisti della Novaya Gazeta, ammazzati mentre facevano il loro lavoro, sono state le prime parole pronunciate da Dmitry Muratov, redattore capo del quotidiano russo, quando ha saputo di aver vinto il premio Nobel per la Pace 2021. Quando ieri il suo telefono ha cominciato a squillare, il giornalista non ha subito risposto alla chiamata in arrivo dalla Norvegia: stava litigando con Elena Milashina, corrispondente del giornale che ha contribuito a fondare nel 1993. Alla fine è stata Nadya Prusenkova, segretaria di redazione, che lo ha avvertito mentre era negli uffici di Anna Politkovskaja, proprio nei giorni del 15° anniversario della sua morte. Quando Muratov due giorni fa ha inaugurato il museo “Stanza 307” in memoria della collega e amica, a quanti erano venuti ad onorarla, ha detto: “Io so per chi voterei. Il Nobel lo darei a quello su cui scommettono gli allibratori: Aleksej Navalny, ma lui ha tutta la vita davanti”. Il 59enne che “ha difeso per decadi la libertà di parola in Russia, in condizioni sempre più difficili” – secondo le parole di Berit Reiss-Anderson, capo del comitato norvegese che designa i vincitori –, è nato a Samara, quando la città si chiamava ancora Kuibyshev, ha studiato filologia, ha servito nell’Armata rossa fino al 1985 e ha cominciato a firmare i suoi primi articoli sulla Komsomolskaya Pravda. I ribelli di quel giornale, organo del partito comunista, si faranno subito chiamare “giornalisti del sesto piano”: saranno quei reporter dissidenti, contrari alla linea editoriale filo-governativa, a fondare la leggendaria Novaya nel 1993.

Già insignito della medaglia dal Cpj, Comitato protezione giornalisti, e con la Legione d’onore da Parigi, è stato corrispondente di guerra in Cecenia durante il primo conflitto, redattore fino al 2017 ed è a capo della redazione da due anni. È un monumento a Mosca. Sia per la statura professionale che per la corporatura da atleta. Ama in maniera viscerale lo sport preferito della maggior parte dei russi, Putin compreso: l’hockey. Lo pratica sporadicamente con le star per destinare in beneficenza i proventi delle partite e farà lo stesso anche con la metà dei soldi del premio Nobel, che andranno al “Krug Dobra”, associazione per bambini affetti da malattie rare. Su come verrà spesa l’altra metà ci sarà una riunione di redazione in un giornale che alla sua nascita fu finanziato proprio dalla vincita di un altro Nobel per la Pace: quello di Michail Gorbaciov. Quando gli fu assegnato lo stesso riconoscimento nel 1990, l’ultimo segretario del Pcus destinò parte dei fondi all’acquisto dei computer dei primi giornalisti della Novaya.

Alla Tass, una delle agenzie di stampa del Cremlino, Muratov ha dichiarato: “Questo premio non va a me, ma a quelli che sono morti difendendo la libertà di parola”. Con la schiettezza che lo contraddistingue e ha sempre mostrato sia in tv che alla radio, a chi gli ha chiesto se ha paura di ritirare la medaglia ad Oslo, ha risposto: “Non sono mica Pasternak”, lo scrittore sovietico a cui fu assegnato il Nobel per la letteratura nel 1958, ma che tristemente fu costretto a rinunciare perché tacciato di essere un “nemico del popolo”. Perfino il governo Putin, autore delle ultime leggi “sugli agenti stranieri” che hanno costretto alla chiusura o silenziato la maggior parte delle testate libere di Mosca, si è congratulato con il “coraggioso e talentuoso” giornalista, un uomo “devoto ai suoi ideali”, proprio lui, Dmitry Muratov, a capo di quell’ultimo giornale indipendente che ogni giorno continua ad arrivare nelle edicole russe per sfidare il potere del Cremlino onnipotente.

Michela A. G. Iaccarino

Unione spaccata dal Muro contro i migranti: ma c’è l’ok di Bruxelles

“Gli Stati membri hanno il diritto e la responsabilità di costruire queste recinzioni”. La frase della commissaria Ue agli affari interni, Ylva Johansson, non poteva essere più chiara e dà il via al dibattito politico all’interno dei Paesi membri, Italia naturalmente compresa. È la risposta alla lettera dei 12 Stati inviata alla Commissione per chiedere più controlli alle frontiere esterne e la possibilità di erigere muri o barriere contro i flussi migratori. “Se uno Stato membro ritiene necessario costruire una recinzione lo può fare e io non ho nulla da obiettare. Usare finanziamenti Ue è un altro paio di maniche”, ha ribadito Johansson nella conferenza stampa dopo il Consiglio Ue dei ministri dell’Interno. “Bisogna rafforzare la protezione dei nostri confini esterni, alcuni Stati membri hanno costruito alcune strutture di protezione – ha continuato –. Ho presentato varie proposte per proteggere meglio i confini esterni, per monitorarli, nel Patto Ue per la migrazione e l’asilo, fa parte dell’approccio della gestione della migrazione, abbiamo già trovato accordo su passi importanti per proteggere meglio i confini attraverso l’interoperabilità. Siamo già abbastanza avanti, ci sono molte cose sul tavolo che devono essere attuate meglio per proteggere i confini esterni”, escludendo così che sia l’Unione a sopportare i costi delle barriere. Dello stesso parere il ministro sloveno, Ales Hojs, che non si capiva bene se parlasse a titolo della presidenza di turno del Consiglio Ue o a nome del suo Paese. “Credo che dobbiamo proteggere i confini esterni, se necessario anche con barriere fisiche”.

In Italia la discussione è declinata per dimostrare l’appartenenza a una parte politica: favorevoli naturalmente i “sovranisti-populisti” identificabili in Lega e Fratelli d’Italia; da nettamente contrari a contrari i pareri partendo dalla sinistra per arrivare ai 5Stelle.

Iraq, il voto è per stranieri. I giovani boicottano le urne

Non sarà un appuntamento elettorale cruciale per i cittadini iracheni, ma per il resto del mondo sì, quello di domani. Eppure le consultazioni legislative anticipate – le quinte dopo l’intervento armato statunitense del 2003 – erano tra le richieste del movimento noto come Tishrin, che in arabo significa ottobre, dal mese in cui due anni fa soprattutto i giovani iniziarono a protestare in migliaia nelle piazze di Baghdad e di molte altre città con l’obiettivo di far dimettere il premier Abdul Mahdi e porre fine al sistema etnico-confessionale per la spartizione delle cariche politiche.

Ma anche se il premier è stato sostituito, le quote settarie non sono state abolite e ai manifestanti, da tempo rientrati nelle proprie case o nascosti per sfuggire alle sparatorie, omicidi mirati e rapimenti delle varie milizie sciite legate ad alcuni partiti e finanziate dal potente vicino Iran, non basta il fatto che non si votino più le liste ma i singoli candidati e che i distretti siano aumentati per rompere i blocchi politici. E non basta neanche che dai sondaggi sia data per vincente la coalizione guidata dall’ambiguo e corrotto religioso sciita Moqtada al-Sadr, che tenta la scalata definitiva promettendo la fine dell’ingerenza di Teheran nella vita politica irachena. I giovani sanno che pur essendo la maggior parte degli sciiti iracheni fedele al grande ayatollah locale Ali al-Sistani, contrario all’aggressività del regime sciita iraniano in ambito estero, l’ambizioso e spietato al-Sadr potrebbe tradirlo e dietro le quinte tenersi buono l’Iran, non solo. Chi ha chiesto le elezioni anticipate ha visto durante l’estate che due ospedali per malati di Covid sono andati in fumo perché non erano stati previsti sistemi antincendio. Tutti sanno che a gestire la mala sanità pubblica sono i funzionari voluti da Moqtada.

“Non andrò a votare, è la solita farsa, i rappresentanti dei nostri partiti non hanno alcuna possibilità di ottenere posti di rilievo e quindi il mio voto è il boicottaggio”, ci dice Leyla, una studentessa di medicina che aveva partecipato alle proteste in cui furono uccisi 700 manifestanti dalle milizie e parte delle forze dell’ordine complici. La pensa allo stesso modo una sua amica che studia Legge, Zeineb: “I soliti partiti hanno tentato di barare mettendo facce nuove che sappiamo essere solo delle teste di legno. Non hanno alcuna intenzione di cambiare le cose, di darci dei servizi decenti, dei salari migliori e lavoro. Pensano solo a spartirsi i proventi del petrolio e riempirsi le tasche”.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti invece queste tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento è importante anche se l’amministrazione Biden ha deciso che richiamerà le truppe alla fine dell’anno.

La Casa Bianca crede che Moqtada al-Sadr, colui che durante la guerra creò “l’esercito del Mahdi” per combattere gli invasori americani, nonché noto per le brutalità perpetrate dai suoi uomini, sia il meno peggio e l’unico in grado di opporsi alla presenza delle milizie iraniane contrastate in parte anche dal primo ministro Mustafa al-Khadimi. Anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha appena fatto visita ad al-Kadhimi, spera che a vincere sia la coalizione di Moqtada per indebolire l’Iran e per vedere confermato il primo ministro che, come lui, non vuole vedere rafforzarsi la corrente curda dei Talebani, nella regione autonoma del nord, legata all’Iran. Gli Stati del Golfo, Qatar a parte, la pensano allo stesso modo e vorrebbero che il premier venisse confermato. Il fatto che gli elettori non avranno voce in capitolo sul nome del prossimo primo ministro scoraggerà invece l’affluenza alle urne che nel 2018 era stata già bassa: 44 per cento.

Roma guarda con maggiore attenzione a queste elezioni non solo perché l’Iraq è uno dei principali fornitori di petrolio, ma anche perché l’Italia ha il prossimo comando della missione Nato in Iraq. Il nostro Paese ha voluto e ottenuto l’incarico visti gli interessi strategici rilevanti, di sicurezza ed economici. Per il 2021 si prevede un dispiegamento massimo di oltre 1.100 soldati sul territorio iracheno. Si tratta di una missione di consulenza, addestramento e sviluppo delle capacità, non di combattimento. L’Italia la guiderà dal prossimo maggio. Non sarà facile mantenere l’equilibrio tra le varie forze che infiltrano l’esercito regolare e le milizie. Il cielo sopra Baghdad difficilmente si rischiarerà e c’è chi prevede già nuove elezioni perché sarà complicato, se non impossibile, formare un governo.

Mail Box

 

A Roma non ci saranno più cinghiali (forse)

Sono quasi convinto che d’ora in avanti non ci saranno più gli autobus di Roma che si incendiano (per autocombustione), non si parlerà più di “monnezza”, non ci saranno più i cinghiali che gironzolano per la Capitale e come per incanto spariranno le buche e tutte le strade saranno lisce come il velluto, anche dove ci sono i sampietrini. Concordo con l’articolo di Massimo Fini: nonostante l’accanimento mediatico verso la Raggi, alle Amministrative ha raggiunto un buon 19%: ricordo, ad esempio, il giornalista che alcune settimane fa, accusando la Raggi, parlò dei cinghiali che circolavano a Sacrofano, comune fuori Roma.

Domenico Moscatelli

 

Il Movimento non deve farsi fagocitare dal Pd

Va bene accettare il fatto che il Movimento si deve organizzare e radicarsi nei territori per avere possibilità alle Amministrative, a maggior ragione alle Politiche, e va bene darsi una struttura in cui si capisca chi fa cosa. Ma se questo fa perdere la ragione principale dell’essersi proposti all’elettorato, il finale non può che essere la scomparsa o il fallimento. Mi auguro che Conte riesca a raddrizzare il M5S senza rinunciare o annacquare i temi che hanno determinato la loro nascita (che restano attualissimi e purtroppo irrisolti) e che non si facciano fagocitare da un Pd che anche con Letta cerca di assemblare alleanze con l’innominabile (che li tradirà alla prima occasione) e con un Calenda che con la sua arroganza ed inaffidabilità non sarà mai un utile e serio compagno di compagine.

Leonardo Gentile

 

Ndakasi, la gorilla morta fra le braccia del ranger

La foto accanto dovrebbe vincere un premio internazionale. La gorilla Ndakasi morente, fra le braccia del ranger che l’ha curata per dieci anni nel parco dei Virunghi in Congo dopo averla trovata da piccola aggrappata al corpo senza vita della madre, vittima dei bracconieri. È l’immagine della forza dell’amore e della solidarietà fra esseri umani e animali. Quello sguardo spento, rassegnato di fronte alla morte ma anche sereno nell’abbraccio di chi l’ha adottata e curata per tutta la vita. Persino con i piedi la gorilla vuole sentire il contatto con il suo amico e custode. Mi ha particolarmente colpita perché anni fa, quando dovetti affrontare un momento difficilissimo di salute nella mia vita, decisi per “tornare a sentirmi viva”, con il sentimento di “o la va o la spacca” di fare un viaggio per vedere i gorilla di montagna in Uganda. I medici la considerarono una follia ma lo feci comunque. Fu un’esperienza indimenticabile. Quando li vidi, dopo una fatica indicibile per trovarli nella foresta più profonda, capii cosa mi aveva spinta ad andare fino a lì. Vidi nello sguardo dei gorilla quella dignità e quello spirito di comprensione che negli umani non esiste più. Provai un senso di appartenenza a questo mondo che non avevo mai provato. E soprattutto provai un sentimento di serenità nell’affrontare il peggio e di riappacificazione con il mondo. La paura che ci attanaglia quotidianamente, anche quando non ce ne accorgiamo, era scomparsa. Ecco cosa vedo negli occhi di Ndakasi. Mi ha ricordato la compassione nello sguardo dei gorilla nei miei confronti quando li incontrai. E mi ha commossa vedere la stessa compassione nell’abbraccio di questa foto.

Manuela Repetti

 

Cechov, anche a 123 anni di distanza, resta attuale

Rileggendo alcuni racconti di Anton Cechov, mi sono imbattuto in questo passo dal racconto Un caso di pratica medica, scritto nel 1898, vale a dire 123 anni fa. Nel racconto il dottor Korolev scruta i capannoni della fabbrica dei ricchi Ljalikov: “Guardando gli edifici e le baracche degli operai, Korolev pensò di nuovo a ciò a cui pensava sempre quando vedeva una fabbrica. Per quanto ci fossero spettacoli per gli operai, lanterne magiche, medici di fabbrica e vari miglioramenti, gli operai che aveva incontrato la sera innanzi per la strada non differivano in nulla da quelli da lui veduti nella sua infanzia, quando non c’erano per loro né spettacoli né miglioramenti […]. Ogni miglioramento nei riguardi degli operai delle fabbriche non era, secondo lui, superfluo, ma paragonabile alla cura delle malattie incurabili”.

Mario Dentone

 

Un Nobel che conferma l’eccellenza italiana

Decisamente è l’anno dell’Italia. Alle tante vittorie sportive è seguito un successo di altra e maggior natura che tutte le supera. Giorgio Parisi ha vinto il premio Nobel per la regina delle scienze. In proposito, è bene precisare che egli non ha vinto un terzo del premio ma la metà, poiché gli altri due scienziati ne hanno vinto l’altra metà congiuntamente. Si conferma l’eccellenza della scuola di fisica italiana e io ne ho grande piacere. Ricordo con forte emozione le lezioni di Fisica alla Sapienza di Roma quando frequentavo il biennio propedeutico alla facoltà di Ingegneria. Il titolare della cattedra era all’epoca Edoardo Amaldi, uno dei “ragazzi di via Panisperna” il piccolo, superbo gruppo d’ingegni che produsse due premi Nobel per la Fisica, Fermi e Segrè. Lo avrebbe meritato anche Amaldi, ma non lo ebbe perché scelse di restare in Italia a ricostruire nel dopoguerra la scuola di fisica del nostro Paese. È riuscito invece a vincerlo Giorgio Parisi che, a parte alcuni brevi periodi all’estero, vive e lavora in Italia, a Roma, dove è nato. Confesso che la notizia mi ha commosso profondamente.

Giampiero Bonazzi

Da una nipote. “Ciao nonna adorata: mi hai insegnato a studiare e sognare”

Buongiorno, mi chiamo Valentina Fresolone e sono una ragazza di Torino. Vi sembrerà strano che scriva questa lettera al Fatto Quotidiano, ma per me, come suppongo per molte persone, voi siete come un rifugio e rappresentate quel poco di speranza che è rimasta forse a una generazione ormai demoralizzata.

È da poco stata la Festa dei nonni, ricorrenza che, nonostante la mia età, è sempre stata per me momento di gratitudine per avere nella mia vita una nonna straordinaria che era il pilastro della mia vita.

Il 4 luglio di quest’anno, purtroppo, un brutto incidente stradale mi ha strappato questo amore. Non c’è stata una preparazione, non c’è stata un’accettazione, ma solo un dolore immenso e improvviso. Mi sono sempre chiesta cosa provassero i parenti delle vittime di incidenti stradali: rabbia e immaginavo totale impotenza, ma era nulla in confronto al calvario che si prova realmente.

Sono passati tre mesi e non c’è giorno che io non mi chieda “perché”.

Tralascio le solite polemiche sul fatto che il codice delle strada ha regole ben precise che puntualmente non vengono rispettate, che avere a che fare con le assicurazioni aumenta lo stato di frustrazione e di dolore. Nessun risarcimento potrà mai ridare o minimamente compensare il dolore dallo strappo di una persona amata.

Scrivo questa lettera per celebrare Lei… che a ben 92 anni non si perdeva mai un intervento di Marco Travaglio… che nonostante avesse frequentato solo la prima elementare aveva una preparazione e una voglia di conoscere più elevata della mia, che aveva la speranza che finalmente questo Paese potesse cambiare e che mi ha insegnato a sognare.

Ecco, nonna adorata, questa è per te.

Valentina Fresolone

I miopi signori della necessità

Lo ha proclamato Carlo Bonomi, pochi giorni prima delle amministrative, ed è probabile ne sia ancor più convinto dopo il primo turno di lunedì: questo non è tempo di sperimentazioni, di politiche del possibile, di populismi e sovranismi. Tanto meno di rivoluzioni e assalti ai Palazzi del potere.

Urge–ha specificato nell’ultima assemblea di Confindustria orchestrando la smaniosa ovazione che ha incensato Mario Draghi prima ancora che questi aprisse bocca– “un terzo tipo di uomini: gli Uomini della Necessità”.

Nel regno della Necessità la storia si chiude, la scelta è obbligata, lo scrutinio universale è un esercizio irrilevante, le astensioni al voto diventano addirittura una risorsa (come scrive Travaglio), e il tecnico sostituisce il politico perché l’obiettivo non è scegliere tra linee diverse su cui il popolo si è espresso ma di applicare l’unica legge (economica, finanziaria, climatica etc) rivelatasi universalmente valida. Rigore e produttività, crescita e stabilità: nel quadrangolo perfetto indicato da Bonomi non figurano né la giustizia sociale né il superamento delle disuguaglianze abnormemente dilatate, non sia mai detto che dal quadrangolo si passi a geometrie più complesse e gradite.

La sovranità è un capitolo a parte: solo porsi la questione di chi ha il potere di decidere e a quale livello (nazionale, europeo, Alleanza Atlantica su guerra e pace) ti tramuta in idra sovranista. Quando sono interrogati, gli uomini della Necessità ammiccano benevoli, assicurano che naturalmente ci pensano tanto: alla giustizia sociale, ai costi sociali della transizione ecologica. Ma dirlo spontaneamente meglio no, e farlo non sia mai. Quanto alla sovranità, è materia incandescente che non si nomina. “Un ange passe”, dicono i francesi: pare passi un angelo muto, ma è imbarazzo d’un attimo.

Nasce così la vulgata secondo cui le ammnistrative avrebbero sgominato populisti e sovranisti: due termini imprecisi escogitati per screditare chiunque si prefigga di dar voce e rappresentanza alle classi popolari, al loro scontento, alla loro rabbia, e soprattutto alle loro attese; o si proponga di sollevare il problema della sovranità, cruciale in tempi di globalizzazione, pandemie, disastri ambientali. C’è molto compiacimento nella cerimonia nera che dichiara moribondi i Cinque Stelle e tramontato il sovranismo inaccuratamente usato da Salvini, anche se Fratelli d’Italia sta prendendo il posto della Lega.

È un compiacimento chimerico, come sempre accade quando si proclama la prevalenza del regno della necessità su quello della libertà. Non si calcolano i milioni di cittadini che avevano puntato sul Possibile– l’assalto al Palazzo evocato da Giuseppe Conte, “che inizialmente non si può fare col fioretto”– e che non smettono di immaginare scommesse anche quando disertano la gara.

Gli astensionisti oltrepassano nelle grandi metropoli il 50%, Bologna esclusa: sono soprattutto elettori delle periferie, delle zone colpite dalle crisi del 2008 e del Covid. Stando all’Istituto Cattaneo sono voti sottratti non tanto a Cinque Stelle e al Sud, stavolta, ma al Nord e alla Lega, che subisce un’emorragia compensata a stento da Giorgia Meloni (un’eccezione è il Veneto di Zaia, sempre in disaccordo con Salvini sul Covid). Gli astensionisti sono tutti coloro che non si sentono rappresentati nel quadrangolo di Bonomi. Chiedevano giustizia sociale e non l’ottengono. Chiedevano forze politiche che osassero il cambiamento, e per questo avevano votato Cinque Stelle nel 2018. Si sono trovati con partiti afoni, dediti alla schiavitù volontaria, messi ai margini come inutili rimasugli dall’Uomo della Necessità che è l’attuale Presidente del Consiglio attorniato da una cerchia di tecnici/consiglieri e sorretto–tramite il ministro del Tesoro Daniele Franco–dalla Banca d’Italia (divenuta, non improvvisamente, attore politico italiano di primo piano).

Draghi non aspirava forse a tanto. Si limita a contemplare le peripezie così spesso suicide dei partiti. Nel frattempo ha fatto capire che le decisioni intende prenderle lui, in una maggioranza spuria, presumendo che i vari partiti e specie i più riottosi si sbriciolino. A forza di ribadire tale intenzione, e di darle l’approssimativo nome di pragmatismo (o realismo, o moderatismo), l’elettore lo ha preso sul serio e ha concluso che il suffragio universale è roba che non vale la fatica, almeno per ora.

Il Partito Democratico di Enrico Letta ha avuto buoni risultati, soprattutto a Napoli e Bologna. A Roma e Torino si vedrà. A Torino è sceso rispetto alle elezioni europee (16,4% invece di 19,8%), e il suo candidato ha ottenuto il 43,8% grazie a molti elettori Cinque Stelle (e perfino a un certo numero di leghisti). Lo stesso a Napoli, dove l’apporto di Cinque Stelle all’elezione di Gaetano Manfredi, fortemente voluto dal suo ex premier Conte, è stato consistente. In attesa del secondo turno si comincia a discutere del rapporto di forze fra Partito Democratico e Cinque Stelle. L’egemonia sembra esser passata al Pd, ma non si sa ancora in vista di quale alleanza strategica, una volta appurato che da solo il Pd va a sbattere. Letta lo sa ma brancola ancora nel buio, perché vorrebbe mettere insieme Calenda, renziani, Bersani, Conte e 5 Stelle, sempre in nome del pragmatismo e delle sue necessità.

Questi tuttavia non sono i tempi del pragmatismo e della Necessità descritti da Bonomi. Sono tempi di trasformazione, di tormenti sociali enormi, di indispensabile ritorno dello Stato nell’economia, dunque della ricerca di uomini del Possibile. Sono tempi in cui occorrerà rivoluzionare le vecchie certezze economiche e i parametri che per mezzo secolo esse hanno imposto.

Per questo fa bene Conte a sottolineare, ogni volta che lo interpellano, che lui non è affatto moderato come viene generalmente descritto ma uno statista con ambizioni radicali di cambiamento.

Chi dà per morto il populismo – cioè il bisogno di rappresentare le classi popolari, oggi in gran parte astensioniste–è come un signore molto miope che per vanità o supponenza si rifiuta di inforcare gli occhiali. Non vedendo la società che ha davanti, dunque non vedendo la realtà, dichiara l’una e l’altra irrilevanti, anzi inesistenti (come Margaret Thatcher nell’87).

La società che ha davanti resta però quella che è: anche se non vota, proprio perché non vota, è un “mondo di sotto” abitato da classi popolari e ceti medi impoveriti che non scompaiono per il solo fatto che per rabbia, stanchezza o noia (spesso è la stessa cosa) non votano più 5 Stelle o non votano più Lega.

 

Angela ha passato il testimone o no?

L’amore,si sa, può far vedere la vita in rosa, ma il rapporto dei media con la figura del presidente del Consiglio è già ben oltre l’amore, sfiora l’idolatria e attenta ormai alla lincolniana “ultima misura di devozione”. Giovedì, per dire, il nostro ha incontrato Angela Merkel, la Cancelliera con cui strinse un patto di ferro ai tempi della Bce. I due, fatta salva la stima personale, sono oggi su fronti differenti e la tedesca ha fatto di tutto per spiegarlo al colto e all’inclita. Il Recovery perpetuo che propone Draghi? “Un’unione di trasferimenti finanziari non sarebbe un bene per l’Ue. In futuro ci saranno ancora i fondi strutturali, ma ci deve essere razionalità: mutualizzare le finanze, togliere la sovranità finanziaria ai singoli Stati non riuscirà”. Sarà il premier italiano ora la guida politica d’Europa? “L’Italia resterà l’Italia, la Germania resterà la Germania. Ognuno rappresenterà il proprio Paese. Noi siamo una grande economia, la più grande dell’Unione, e dalla nostra voce dipendono un po’ di cose…”. Cosa hanno visto invece i giornali italiani nella loro infinita fede? Quel che segue. “La Merkel a Roma passa il testimone: Mario garante Ue”, titola Il Messaggero, che poi spiega: “L’investitura della Merkel a Draghi come super-protagonista dell’Europa del post Covid non poteva essere più esplicita”. “Merkel spinge Draghi: Hai salvato l’euro ma c’è ancora da fare”, spara Repubblica, per cui senz’altro “la visita segna un passaggio del testimone”. La Stampa, storicamente più moderata, ritiene invece che segni “quasi un passaggio di testimone”, eventualità – questa del testimone – negata anche dal Giornale: “Una staffetta (…) Un cambio della guardia (…) Quasi un’incoronazione (…) Ma non è, non è ancora, un passaggio di testimone”. Libero, dal canto suo, torna alla via regale già scelta dal Messaggero: “È una sorta di investitura al premier che non riguarda tanto il passato, quanto il suo presente a Palazzo Chigi e il suo futuro nell’Ue”. Niente di male: tutti svolgono un ruolo e anche il culto mariano nelle redazioni ha il suo. D’altronde “l’arte del governo è l’organizzazione dell’idolatria”, scrisse George Bernard Shaw, che non specificò “idolatria ben meritata” solo perché per sua sfortuna non conobbe Draghi.

Via D’Amelio: le condanne sono certe, ma non tutto è chiarito

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo di Salvatore Madonia e di Vittorio Tutino per la strage di via D’Amelio, in cui perirono il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta, e quella per calunnia nei confronti di Francesco Andriotta e di Calogero Pulci, attribuendo definitività alla pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di Vincenzo Scarantino (due calunnie). Si tratta di un punto d’arrivo del travagliato iter processuale iniziato subito dopo la strage, lucidamente attuato con la creazione di prove false, che hanno portato alla condanna di sette innocenti, poi assolti. A seguito del fondamentale ausilio di più collaboratori di giustizia partecipi all’eccidio, sono stati comminati decine di ergastoli, con plurimi verdetti della Corte di Cassazione, ed è certa la paternità mafiosa dell’attentato, il coinvolgimento nell’ideazione e deliberazione dei componenti degli organi di vertice di Cosa Nostra (la commissione provinciale di Palermo e la commissione regionale) e nell’esecuzione di uomini d’onore appartenenti alle famiglie mafiose di San Lorenzo, di Porta Nuova, di Brancaccio, di Corso dei Mille e della Noce. Sono state individuate le ragioni dell’eccidio: la vendetta nei confronti di un acerrimo nemico di Cosa Nostra; preventive, in relazione alla possibilità che Borsellino divenisse capo della Procura Antimafia (ricevendo il testimone del giudice Falcone) e derivanti dal pericolo per quanto stava facendo e avrebbe potuto effettuare, che hanno comportato un’accelerazione dell’esecuzione e il congelamento di altro attentato. La destabilizzazione terroristico-eversiva è insita nella modalità della consumazione e nell’inserimento nel più ampio progetto criminale aperto attuato nel triennio 1992-94. La pronuncia della Corte deve, però, rappresentare un punto di partenza per proseguire nella ricerca della verità. Permangono zone d’ombra e interrogativi rimasti senza risposta. Gli stessi riposano nelle ragioni dell’accelerazione della strage, nelle finalità del depistaggio preparato dalla collaborazione di Francesco Andriotta (un ergastolano mai coinvolto in indagini di mafia), iniziata il 14 settembre 1993, attuato da Vincenzo Scarantino, non appartenente a Cosa Nostra, nel giugno del 1994 e, in seguito, da Salvatore Candura (ai quali si è aggiunto Calogero Pulci), con la partecipazione verosimile di esponenti delle istituzioni. Occorre verificare se vi sia stata una finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato. È, poi, necessario identificare la persona indicata da Gaspare Spatuzza come presente al momento della consegna della Fiat 126 nel garage di via Villasevaglios. Non si conosce: la provenienza dell’esplosivo utilizzato per imbottire la 126 e chi azionò il telecomando che fece esplodere l’autobomba. Su tale ultimo aspetto l’esecutore materiale Fabio Tranchina ha riferito un’indicazione: Giuseppe Graviano gli aveva chiesto di procurargli un appartamento nelle vicinanze di via D’Amelio, per poi dirgli che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto per azionare il telecomando. Non sappiamo se ciò accadde. Non sono state chiarite le modalità della sparizione dell’agenda rossa del magistrato che non fu opera di Cosa Nostra. È rimasto enigmatico il contenuto dell’intercettazione del dialogo di Mario Santo Di Matteo con la moglie sugli infiltrati in via D’Amelio. Vi è poi il dato per cui i vertici di Cosa Nostra ricevettero, nel corso del 1992, un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa con uomini dello Stato, senza alcuna delega da parte dei magistrati titolari delle indagini che, nella prospettiva dei mafiosi, suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali. Perciò si impone di continuare a indagare, vigilando sul rischio concreto di nuovi depistaggi.

 

La “razza padrona” va ancora all’assalto dell’informazione

 

“Sono un giornalista, il mio mestiere consiste nel fare domande”.

(da Indipendenza di Javier Cercas – Guanda, 2021 – pag. 138)

 

Che cosa può spingere due imprenditori della ristorazione, collettiva e commerciale, “presenti in scuole, università, ospedali, ministeri, Forze dell’ordine, Forze armate, Enti pubblici in genere” come si legge testualmente nel loro sito aziendale, ad avventurarsi sul terreno minato dell’informazione per cercare d’impadronirsi di uno storico quotidiano come La Gazzetta del Mezzogiorno, il più diffuso in Puglia e Basilicata? E perché altri due imprenditori: l’uno, Vito Miccolis, autobus, lavori portuali, bonifiche e smaltimento dei rifiuti; l’altro, Antonio Albanese, smaltimento e trasformazione energetica dei rifiuti, contendono la proprietà della testata alla prima coppia formata dai fratelli Vito e Sebastiano Ladisa? Per completezza dell’informazione, va detto che al momento Albanese risulta indagato dalla Procura di Lecce per “traffico di rifiuti” e dalla Procura di Taranto per altri reati ambientali.

Escluse le ipotesi della filantropia o del mecenatismo culturale, quali sono dunque le motivazioni che possono aver indotto due coppie di imprenditori pugliesi a ingaggiare una guerra di carta bollata intorno al quotidiano della loro regione e della vicina Basilicata, un giornale con 134 anni di storia alle spalle? E quali titoli, a parte le risorse economiche, vantano i quattro apprendisti editori? La risposta si può sintetizzare in due parole: appalti pubblici. Vale a dire contratti, autorizzazioni, concessioni, licenze. E quindi, grandi affari. Tutt’altro che l’editoria intesa come attività di produzione e diffusione di notizie, opinioni, commenti, cultura e servizio ai cittadini, ma piuttosto come strumento di potere o di pressione.

In seguito al fallimento dell’editore siciliano Mario Ciancio, negli ultimi anni la Gazzetta è entrata in un vortice giudiziario di offerte e controfferte, sentenze e ricorsi, che ha provocato dal 1° agosto l’interruzione delle pubblicazioni. Ora con l’omologa della proposta di concordato Miccolis-Albanese da parte del Tribunale di Bari, contro cui i fratelli Ladisa presumibilmente ricorreranno in Corte d’Appello, si apre uno spiraglio che potrebbe far tornare il quotidiano in edicola. Ma si tratterà di vedere come, con quali garanzie professionali e occupazionali, con quale progetto editoriale.

Non è un mistero che oggi la maggior parte dei giornali si trova in mano a gruppi industriali o finanziari, una “razza padrona” o “padroncina” in conflitto d’interessi e in affari con l’Amministrazione pubblica: sanità, trasporti, edilizia, strade e autostrade, automobili, telecomunicazioni, energia, rifiuti. Un assalto alla diligenza a mezzo stampa; un’emergenza democratica che compromette l’autonomia e l’indipendenza dell’informazione. E perciò resta sospesa la domanda: perché i redattori della Gazzetta hanno rinunciato alla cooperativa che loro stessi avevano costituito e che avrebbe avuto accesso anche alle provvidenze statali?

In attesa di quello “Statuto dell’impresa editoriale” che la Federazione della stampa invoca da tempo, sarebbe opportuno approvare la proposta di legge presentata dal senatore Primo Di Nicola (M5S), per limitare al 10 per cento la partecipazione azionaria dei “soggetti che svolgono, in settori diversi da quello editoriale, attività economiche con fatturato eccedente 1.000.000 di euro annui”. Nel contempo, in difesa della concorrenza e del pluralismo, l’Autorità sulle comunicazioni e l’Antitrust farebbero bene a esigere l’elenco degli appalti pubblici che si aggiudicano i titolari delle aziende editoriali “ibride”, spesso con la mediazione o l’intervento della politica, a livello nazionale e territoriale.

 

L’Isis è il nemico numero 1 dei Talebani: capito, Onu?

Alla buon’ora. C’è stato bisogno dell’attentato Isis alla moschea sciita Eidgah di Kabul dove si teneva la cerimonia funebre della madre di Zabihullah Mujahed, capo della Commissione culturale del nuovo governo afghano, perché anche i media e i politici occidentali capissero quello che sto scrivendo da anni: e cioè che Talebani e Isis non solo sono due cose diverse, i primi indipendentisti, i secondi terroristi internazionali, che non sono sovrapponibili nella galassia del radicalismo islamico e soprattutto che si combattono da sei anni da quando Isis ha provato a entrare in Afghanistan. In fondo, anche senza essere sul campo, bastava che ci si prendesse la briga di leggere i documenti. Il 16 giugno 2015 il Mullah Omar inviava ad Al-Baghdadi una lettera aperta in cui gli intimava di non entrare in Afghanistan dicendo sostanzialmente noi stiamo facendo una guerra di indipendenza che non ha nulla a che fare con i tuoi deliri geopolitici. La lettera è firmata da Mansur che era il suo storico numero due (mentre Baradar, indicato oggi impropriamente come co-fondatore del movimento talebano, era solo uno dei collaboratori più stretti di Omar, adibito alla logistica). Comunque a parte le dichiarazioni di principio, sono sei anni che Talebani e Isis si combattono in Afghanistan. Innumerevoli sono stati gli scontri regolarmente ignorati dalla stampa nostrana. Solo che i Talebani dovendo combattere contemporaneamente anche gli occupanti occidentali hanno fatto fatica a contenere Isis. Ora che hanno le mani libere lo spazzeranno via facilmente. Con i loro metodi che, legittimati dalla contro-guerriglia Isis, non sono esattamente quelli di una democrazia occidentale. Quando nel 1996 il Mullah Omar prese il potere cacciando dall’Afghanistan i signori della guerra, il Paese era infestato da bande di briganti che in queste situazioni trovano il loro brodo di coltura. Omar ordinò di arrestarne un manipolo e ne fece impiccare i componenti in una pubblica piazza. Fine dei briganti. La stessa sorte toccherà agli Isis ancora presenti in Afghanistan. In un articolo per Il Fatto (Afghanistan. Le verità che nessuno osa dire, 21.08) dicevo che fra coloro che più rischiavano per la vittoria dei Talebani c’era proprio l’Isis.

Nei giorni scorsi un alto esponente della politica americana, mi pare Antony Blinken, esprimeva la preoccupazione che il disordine che c’è attualmente in Afghanistan avrebbe potuto portare ad attentati jihadisti negli Stati Uniti. Niente di più inverosimile. Se c’è un posto in cui l’Isis non ha possibilità né interesse a restare è proprio l’Afghanistan. Starebbe più al sicuro in Italia. È molto più probabile che gli jihadisti cerchino rifugio in Tagikistan dove sono scappati gli uomini del fu Massoud che hanno il dente avvelenato con i Talebani per essere stati da loro sconfitti due volte. È quindi casomai il Tagikistan e non l’Afghanistan che deve essere “monitorato” in senso anti-jihadista.

Dopo vent’anni di guerra la situazione economica e sociale dell’Afghanistan è ovviamente disastrosa. Gli Stati Uniti hanno congelato 9,5 miliardi di dollari che la Banca centrale afghana, la Da Afghan Bank, aveva depositato nelle banche Usa. Un provvedimento al limite della legalità, o forse del tutto illegale perché questi dollari appartenevano allo Stato afghano e nulla dovrebbe contare il fatto che in Afghanistan è cambiato il governo. Uno Stato esiste a tre condizioni: che abbia un governo, un territorio, una popolazione e queste condizioni lo Stato afghano le ha tutte. Da questo embargo economico, e non dal governo talebano, derivano tutte le difficoltà che affrontano oggi i cittadini afghani: le banche non possono dare più di 200 dollari alla settimana, molti conti sono semplicemente bloccati, difficoltà nel dare i salari ai dipendenti. E questo stato di cose paralizza l’intera società afghana. Gli occidentali avendo perso nel modo più ignominioso la guerra con l’Afghanistan talebano cercano ora di rifarsi strangolandolo economicamente. Non sappiamo far guerre se non economiche. Del resto l’usanza non è nuova. È stata utilizzata con l’Iran, con il Venezuela e con tutti gli Stati e i popoli che non sono allineati con l’Occidente.

La cosa più ragionevole sarebbe che allo Stato afghano-talebano sia riconosciuto un seggio all’Onu e che all’Onu possano essere presenti anche i rappresentanti afghani. Cosa che i Talebani hanno già chiesto ricevendone però un niet. Se l’ottusità ideologica dell’Occidente continua sarà fatale che i Talebani si rivolgano alla Cina, che non li ha aggrediti, e anche alla Russia, che dopo la disastrosa impresa dell’invasione 1979-1989 è stata la prima a cercare di avere buoni rapporti con i Talebani. Già cinque anni fa Putin aveva riconosciuto ai Talebani lo status di movimento “politico e militare non terrorista”. Putin è un delinquente ma è un uomo di Stato intelligente. Non so se la stessa cosa si possa dire di Biden, Macron e compagnia cantante.