Maria Ressa (Filippine)
Non solo Duterte, i social sono il vero dittatore
“Oh mio Dio! Sono senza parole! grazie di cuore!”. Poiché Maria Ressa è infaticabile nell’impegno per la libertà di stampa, quando riceve la telefonata da Oslo che le annuncia di aver vinto il premio Nobel per la Pace, è in diretta con altri giornalisti al webinair Press in distress – stampa in difficoltà: riuscirà il giornalismo indipendente a sopravvivere nel sud-est Asia? La si vede prendere la telefonata dalla scrivania del salotto di casa che chi la segue conosce bene, restare in ascolto per lunghi secondi, poi sgranare gli occhi per la sorpresa. Quando riattacca, mentre i colleghi si congratulano, la voce che a 58 anni è ancora da bambina, si spezza: “È un riconoscimento di quanto è dura fare i giornalisti oggi, continuare a fare quello che facciamo. Ma anche, speriamo… il riconoscimento del fatto che…. vinceremo la battaglia per la verità. La battaglia per i fatti. We hold the line. Resistiamo”. We hold the line è una delle frasi che Ressa ripete spesso ed è anche un documentario del 2020 sulla sua esperienza di opposizione al presidente filippino Duterte, condivisa con i colleghi della piattaforma digitale Rappler di cui oggi è Ceo. La motivazione ufficiale del Nobel si sofferma su come Ressa sfrutti la libertà di espressione per denunciare l’abuso di potere, l’uso della violenza, l’autoritarismo crescente del governo filippino e il ruolo dei social media, specie di Facebook che nelle Filippine è quasi sinonimo di Internet, nel farsi veicolo di disinformazione, oppressione degli avversari politici e manipolazione del dibattito pubblico. Di fatto, la sua biografia la fa uscire dai confini filippini: nata a Manila, è cresciuta fra le Filippine e gli Usa dove, dopo una laurea in Biologia molecolare, si interessa al giornalismo, fino a diventare prima reporter specializzata in reti terroristiche, e poi capo dell’ufficio di corrispondenza della Cnn a Jakarta. Nel 2004 passa a guidare le news di Abs-Cbn, gruppo mediatico delle Filippine, e nel 2012 con un pugno di colleghi fonda Rappler che nasce paradossalmente come pagina Facebook. Ressa comprende dall’interno i meccanismi del social e ne vede in anticipo i pericoli. Il focus social si intreccia con la denuncia dei crimini della polizia, che sparge il terrore nelle Filippine su mandato del presidente Duterte: è Rappler a scoprire l’esistenza di un braccio social del regime, un ‘esercito di troll’ che manipola la narrazione dei fatti orientandola a favore del governo. Nel 2017 riesce a incontrare Mark Zuckerberg, convinta che non sia al corrente, ma quando gli spiega i rischi dello strapotere della sua creatura in un Paese in cui il 97% dei filippini è su Facebook, si sente rispondere: “E l’altro 3%?”
Paga la propria integrità con minacce di morte e, presto, con la pressione giudiziaria: nel 2018 iniziano le denunce da parte delle autorità per diffamazione e reati fiscali, fino a un primo breve arresto nel febbraio 2015 e alla condanna per diffamazione online nel giugno 2019, fino a 6 anni di carcere, a cui ha fatto appello. Il profilo internazionale la protegge, in parte, ma dipende dall’arbitrio della Corte per lasciare il Paese, accettare i molti inviti a eventi sulla libertà d’espressione; perfino, ed è uno dei maggiori motivi di sofferenza, andare a trovare la madre malata negli Usa. Non molla, anzi rilancia: nel 2020 diventa uno dei membri più esposti del Real Facebook Oversight Board, gruppo internazionale d’esperti e attivisti che monitorano lo strapotere di Facebook. Ha imparato la lezione dall’esperimento filippino. “Se non facciamo qualcosa per proteggere i fatti” denuncia “rischiamo di perdere le nostre democrazie, perché la democrazia frana nei Paesi dominati dalle dittature digitali, in cui i social media manipolano la verità”. Inclusi gli Usa.
Sabrina Provenzani
Dmitry Muratov (Russia)
Dall’Armata rossa al pc comprato da Gorbaciov
Yury Shchekochikhin, Igor Domnikov, Anna Politkovskaja, Anastasia Baburova, Stanislav Markelov, Natalya Estemirova. Queste persone hanno ricevuto oggi il premio Nobel”. I nomi dei sei giornalisti della Novaya Gazeta, ammazzati mentre facevano il loro lavoro, sono state le prime parole pronunciate da Dmitry Muratov, redattore capo del quotidiano russo, quando ha saputo di aver vinto il premio Nobel per la Pace 2021. Quando ieri il suo telefono ha cominciato a squillare, il giornalista non ha subito risposto alla chiamata in arrivo dalla Norvegia: stava litigando con Elena Milashina, corrispondente del giornale che ha contribuito a fondare nel 1993. Alla fine è stata Nadya Prusenkova, segretaria di redazione, che lo ha avvertito mentre era negli uffici di Anna Politkovskaja, proprio nei giorni del 15° anniversario della sua morte. Quando Muratov due giorni fa ha inaugurato il museo “Stanza 307” in memoria della collega e amica, a quanti erano venuti ad onorarla, ha detto: “Io so per chi voterei. Il Nobel lo darei a quello su cui scommettono gli allibratori: Aleksej Navalny, ma lui ha tutta la vita davanti”. Il 59enne che “ha difeso per decadi la libertà di parola in Russia, in condizioni sempre più difficili” – secondo le parole di Berit Reiss-Anderson, capo del comitato norvegese che designa i vincitori –, è nato a Samara, quando la città si chiamava ancora Kuibyshev, ha studiato filologia, ha servito nell’Armata rossa fino al 1985 e ha cominciato a firmare i suoi primi articoli sulla Komsomolskaya Pravda. I ribelli di quel giornale, organo del partito comunista, si faranno subito chiamare “giornalisti del sesto piano”: saranno quei reporter dissidenti, contrari alla linea editoriale filo-governativa, a fondare la leggendaria Novaya nel 1993.
Già insignito della medaglia dal Cpj, Comitato protezione giornalisti, e con la Legione d’onore da Parigi, è stato corrispondente di guerra in Cecenia durante il primo conflitto, redattore fino al 2017 ed è a capo della redazione da due anni. È un monumento a Mosca. Sia per la statura professionale che per la corporatura da atleta. Ama in maniera viscerale lo sport preferito della maggior parte dei russi, Putin compreso: l’hockey. Lo pratica sporadicamente con le star per destinare in beneficenza i proventi delle partite e farà lo stesso anche con la metà dei soldi del premio Nobel, che andranno al “Krug Dobra”, associazione per bambini affetti da malattie rare. Su come verrà spesa l’altra metà ci sarà una riunione di redazione in un giornale che alla sua nascita fu finanziato proprio dalla vincita di un altro Nobel per la Pace: quello di Michail Gorbaciov. Quando gli fu assegnato lo stesso riconoscimento nel 1990, l’ultimo segretario del Pcus destinò parte dei fondi all’acquisto dei computer dei primi giornalisti della Novaya.
Alla Tass, una delle agenzie di stampa del Cremlino, Muratov ha dichiarato: “Questo premio non va a me, ma a quelli che sono morti difendendo la libertà di parola”. Con la schiettezza che lo contraddistingue e ha sempre mostrato sia in tv che alla radio, a chi gli ha chiesto se ha paura di ritirare la medaglia ad Oslo, ha risposto: “Non sono mica Pasternak”, lo scrittore sovietico a cui fu assegnato il Nobel per la letteratura nel 1958, ma che tristemente fu costretto a rinunciare perché tacciato di essere un “nemico del popolo”. Perfino il governo Putin, autore delle ultime leggi “sugli agenti stranieri” che hanno costretto alla chiusura o silenziato la maggior parte delle testate libere di Mosca, si è congratulato con il “coraggioso e talentuoso” giornalista, un uomo “devoto ai suoi ideali”, proprio lui, Dmitry Muratov, a capo di quell’ultimo giornale indipendente che ogni giorno continua ad arrivare nelle edicole russe per sfidare il potere del Cremlino onnipotente.
Michela A. G. Iaccarino