I fascioleghisti nelle urne: boom di voti da Nord a Sud

Sembrano macchiette, ma non lo sono. Perché a volte un saluto romano, un post per inneggiare al Duce e un tatuaggio nazista possono fare la differenza per ottenere il seggio: alle ultime Amministrative non solo Lega e Fratelli d’Italia hanno candidato molti neo-fascisti nelle proprie liste ma questi, a risultati consolidati, hanno fatto anche il pieno nelle urne. Molti di loro sono stati eletti nei consigli comunali dalle Alpi alla Calabria. Una commistione emersa nei giorni scorsi anche grazie alle due puntate dell’inchiesta di Fanpage che ha mostrato i legami tra i neofascisti milanesi e i partiti di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Ieri la procura di Milano ha acquisito i filmati della seconda parte dell’inchiesta sui rapporti tra fascisti e Lega. Il vicesegretario leghista Andrea Crippa ha detto: “Mi pare tutta una cazzata”.

Partiamo da Milano. Qui con Fratelli d’Italia hanno fatto il botto Chiara Valcepina e Francesco Rocca, entrambi ripresi da Fanpage ed entrambi eletti in consiglio comunale. La prima, ripresa a fare il saluto romano con il “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini e a fare battute sulle barche dei migranti da far esplodere, è stata la terza eletta di FdI per numero di voti: 903 in tutto. Al quinto posto è arrivato Rocca con 606 preferenze: all’aperitivo elettorale con Jonghi Lavarini finisce il suo discorso con il più classico “Boia chi molla!”. Nella Lega invece è stata eletta l’europarlamentare Silvia Sardone, regina delle preferenze in città con 3.585 (la più votata del centrodestra): Fanpage la indica come “riferimento” a Milano di Lealtà e Azione, movimento di ispirazione neo-nazista. Anche Stefano Pavesi, appena rieletto nel consiglio di zona 8, viene da quel mondo: con il giornalista infiltrato si definisce “fascista”. Risultato deludente per l’altro riferimento di LeA Massimiliano Bastoni che ha raccolto 700 preferenze senza essere eletto. Nessun dramma: resterà consigliere regionale.

Anche a Roma i nostalgici hanno ottenuto ottimi risultati nelle urne. Basti pensare che la più votata nella Capitale con FdI è stata Rachele Mussolini, nipote del Duce, che ha ottenuto 8.264 preferenze. Nelle ultime ore è scoppiata la polemica per una sua foto con un cartello: “Io il 25 aprile festeggio solo san Marco”. Se vincerà Michetti al ballottaggio, in assemblea capitolina sarà eletto con FdI anche Francesco Cuomo che ha raccolto 1.407 preferenze: ultras della Lazio, ritratto in diverse fotografie tra saluti romani, è diventato famoso per il suo tatuaggio sull’avambraccio – tre teschi – simbolo della resistenza neonazista. Nella Lega invece ha ottime probabilità di essere eletto Maurizio Politi, trait d’union tra l’estrema destra e il Carroccio: ha fatto una battaglia per intitolare una via ad Almirante. Nei municipi al ballottaggio va Andrea Signorini, scelto da Claudio Durigon per la presidenza del XIV. Nel 2016 era finito al centro delle polemiche perché commentò così una foto di Renato Zero che sembrava fare il braccio teso: “Uno di noi”.

Ma i neo-fascisti hanno ottenuto buoni risultati un po’ in tutta Italia. Oltre a Roma e Milano è al Nord che fanno il pieno. A Torino Massimo Robella, eletto consigliere della circoscrizione 6 con FdI, ha ringraziato “i tanti camerati” che hanno contribuito a farlo rieleggere. Ieri il coordinatore di FdI Fabrizio Comba ha annunciato la sua “espulsione”. Anche a Trieste un meloniano si è fatto notare: Corrado Tremul è stato eletto in consiglio con 350 voti ma subito dopo è uscita una sua foto accanto al busto del Duce in cui saluta con il braccio teso. Al Sud il caso più emblematico è a Nardò (Lecce) dove è stato rieletto a furor di popolo Pippi Mellone, sostenuto da Lega e FdI e vicino a Casapound, con il 70%. Era appoggiato anche dal governatore Michele Emiliano che gli ha chiesto pubblicamente di definirsi antifascista. Ma Mellone si è rifiutato: “Antifascista? No, sono categorie del passato”.

Mancini in cattedra, Spataro lascia Pavia

Armando Spataro si dimette da docente dell’Università di Pavia, dopo la lezione sul segreto di Stato tenuta nello stesso ateneo il 7 ottobre dall’ex agente segreto, Marco Mancini. Spataro è stato procuratore aggiunto a Milano e poi procuratore della Repubblica a Torino. Nel 2005 era uno dei pm (insieme a Ferdinando Pomarici) che indagarono sul rapimento dell’imam Abu Omar, sequestrato a Milano nel 2003 da un gruppo di americani della Cia con l’aiuto dal Sismi, il servizio segreto militare italiano. Mancini era il capo della Divisione controspionaggio del Sismi, il braccio operativo del direttore del servizio, il generale Nicolò Pollari. Per quel sequestro di persona fu arrestato, il 5 marzo 2005, poi condannato in appello a 9 anni, infine salvato dal segreto di Stato, confermato dai governi italiani che si sono succeduti in quegli anni e appositamente ampliato da una pronuncia della Corte costituzionale. I due, l’inquirente e l’indagato, si sono ritrovati ora, dopo 16 anni, nelle stesse aule universitarie.

Spataro è professore a contratto nel dipartimento di Giurisprudenza, dove insegna Tecniche di intervento operativo per la tutela della sicurezza interna ed esterna. Mancini è stato invitato dal professor Alessandro Venturi, docente di Diritto amministrativo e Diritto pubblico comparato nel dipartimento di Scienze politiche, a tenere una lezione sul segreto di Stato, quel segreto di Stato che lo ha salvato due volte: nel processo sul sequestro di Abu Omar e in quello sui dossier illegali Telecom.

Spataro ha inviato ieri una lettera al rettore dell’Università di Pavia, al prorettore e alla direttrice del dipartimento di Giurisprudenza, in cui spiega che rispetta l’autonomia d’insegnamento di ogni docente dell’ateneo, ma non se la sente più di continuare a insegnare nella stessa università dove ha potuto salire in cattedra Mancini.

La stessa università in cui ha a lungo insegnato Diritto il professor Vittorio Grevi, che Spataro considera suo maestro e che criticò con fermezza, con sottigliezza giuridica e con preoccupazione democratica l’estensione del segreto di Stato che forzò le norme prima vigenti e premise il proscioglimento di Mancini e del suo direttore al Sismi, Nicolò Pollari (che prima era stato condannato a 10 anni, sempre per sequestro di persona). Grevi, ricorda Spataro, anticipò con le sue analisi critiche la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu) che nel 2016 – proprio in relazione al caso Abu Omar – condannò l’Italia per la violazione di cinque diritti sanciti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo: la proibizione di trattamenti umani degradanti, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il diritto a effettivi rimedi giudiziari, il diritto al rispetto della vita familiare. E scrisse: “Le autorità italiane erano a conoscenza che Abu Omar era stato vittima di un’operazione di extraordinary rendition cominciata con il suo rapimento in Italia e continuata con il suo trasferimento all’estero”; nonostante ciò, “l’Italia ha applicato il legittimo principio del segreto di Stato in modo improprio e tale da assicurare che i responsabili del rapimento, della detenzione illegale e dei maltrattamenti ad Abu Omar non dovessero rispondere delle loro azioni”.

“Storari agì fuori da regole. Davigo violò i suoi doveri”

La Procura di Brescia conclude l’inchiesta sul procuratore di Milano Francesco Greco e chiede l’archiviazione della sua posizione. Invece, con la prospettiva di chiedere che vadano a processo, chiude le indagini su tre magistrati della Procura milanese, Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Paolo Storari, e sull’ex membro del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo.

Il procuratore Greco era indagato per omissione di atti d’ufficio, in relazione ai contrasti che si erano manifestati nella sua Procura dopo le dichiarazioni dell’avvocato esterno di Eni Piero Amara, che aveva rivelato l’esistenza della presunta loggia segreta Ungheria. Dopo tre mesi d’indagine, la Procura bresciana chiede l’archiviazione poiché non spettava a Greco procedere con le iscrizioni sul registro degli indagati, poi effettuate a maggio 2020, sul caso Amara, seguito dal procuratore aggiunto Pedio e dal pm Storari.

Chiuse le indagini anche per Davigo e Storari (per rivelazione di segreto, per aver divulgato i verbali di Amara) e per De Pasquale e Spadaro (per rifiuto d’atti d’ufficio, nell’ipotesi che abbiano sottovalutato elementi d’indagine su Eni favorevoli alla compagnia petrolifera, omettendo di depositarli alle difese a poche settimane dalla sentenza che ha assolto tutti gli imputati). Storari, consegnando copia dei verbali di Amara a Davigo, si sarebbe mosso “al di fuori di ogni procedura formale”. Avrebbe agito, a suo dire, per “segnalare un asserito ritardo nelle iscrizioni e nell’avvio delle indagini” sulla loggia Ungheria, ma “comunque in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo”. Così il pm avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni” e abusato della “sua qualità”.

Davigo avrebbe rassicurato Storari “di essere autorizzato a ricevere copia” dei verbali e dicendogli che “il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto componente del Csm”. Avrebbe così “rafforzato il proposito criminoso di Storari” e sarebbe entrato “in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo”, fuori da ogni “procedura formale”. Avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni” e abusato “della sua qualità di componente del Csm”. Pur avendo “l’obbligo giuridico e istituzionale” di impedire “l’ulteriore diffusione” dei verbali, ne “rivelava il contenuto a terzi”. Non contestata la comunicazione al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Ma quella al consigliere del Csm Giuseppe Marra, “al solo scopo di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita”. Al consigliere Ilaria Pepe, per “suggerirle di prendere le distanze” da Ardita. Li avrebbe fatti leggere anche al consigliere Giuseppe Cascini per “ottenere un giudizio sull’attendibilità” di Amara. Ne avrebbe parlato al presidente dell’Antimafia Nicola Morra. Li avrebbe consegnati anche al vicepresidente del Csm David Ermini che “ritenendo irricevibili quegli atti”, “immediatamente distruggeva” le carte ricevute. Infine, avrebbe riferito il contenuto di quegli atti segreti alle sue collaboratrici al Csm, Giulia Befera e Marcella Contrafatto.

Il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, titolari del fascicolo Eni-Nigeria sono invece accusati di rifiuto di atti d’ufficio. Il cuore della vicenda riguarda l’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna (poi assolto come tutti gli imputati), ritenuto dall’accusa in parte attendibile, nella sua doppia veste di imputato e accusatore. Storari aveva inviato a De Pasquale e Spadaro, nel febbraio scorso, a tre giorni dall’ultima udienza (poi rinviata), comunicazioni che riguardavano Armanna e alcune condotte scoperte nelle sue indagini, che secondo Storari e la Procura di Brescia ne minavano la credibilità. Storari invia una bozza d’informativa della Guardia di finanza nella quale apparivano alcuni messaggi telefonici attraverso i quali si scopre che Armanna aveva pagato un teste nigeriano per avere un video che provava le sue accuse. De Pasquale e Spadaro non avrebbero depositato alle difese Eni la copia forense (tuttora coperta dal segreto istruttorio) del telefono di Armanna. Altra contestazione riguarda un video (già in possesso dell’Eni) nel quale Armanna faceva dichiarazioni livorose nei riguardi di Eni, che secondo la Procura di Brescia non fu depositato tempestivamente.

Caporalato e sfruttamento dei lavoratori, commissariato il colosso ortofrutta Spreafico

Il gestore delle cooperative “ci ha sempre comandati come un dittatore, se avevamo qualche lamentela da riferire la risposta era sempre che o accettavamo quella situazione o avremmo finito di lavorare”. A parlare è uno dei tanti lavoratori della Spreafico, il colosso nel settore del commercio all’ingrosso di frutta e verdura da 350 milioni di fatturato all’anno che, dopo le denunce sulla grave “situazione di sfruttamento”, ha portato la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano a commissariare per un anno l’azienda con l’accusa di caporalato e a un sequestro da 6 milioni per reati fiscali. A seguire l’inchiesta la Guardia di Finanza di Lecco e il pm di Milano Paolo Storari, che già ha chiuso le indagini per caporalato sui rider per le consegne di cibo a domicilio. Secondo quanto accertato finora, alcuni consorzi e cooperative in rapporti con la Spreafico avrebbero impiegato e sfruttato lavoratori di origine straniera e in stato di bisogno, sottopagandoli. In aggiunta avrebbero evaso le tasse attraverso l’emissione di fatture false determinando così benefici fiscali sia per le stesse cooperative sia per la Spreafico. Queste cooperative avrebbero dunque agito in regime di concorrenza sleale: i lavoratori passavano da una coop all’altra garantendo così quella manodopera sottopagata che consentiva di massimizzare i profitti a discapito dei diritti dei lavoratori. Dall’inchiesta sarebbero tra l’altro emerse anche alcune intimidazioni fatte nei confronti dei braccianti, che in alcune circostanze avevano protestato per chiedere il rispetto degli accordi siglati con i sindacati. “Capitava di lavorare anche 260 ore al mese, ma prendevo 1.300 euro al mese – ha raccontato un’operaia – I riposi non venivano pagati, le ferie dal 2007 al 2017 non mi sono mai state pagate. Ci trattano come animali perché si approfittano di noi stranieri che abbiamo bisogno di lavorare e non capiamo bene l’italiano. Circa sette mesi fa il signor Zenel Edmond (gestore delle cooperative, ndr) insieme a un’altra persona di nazionalità albanese – ha raccontato un’operaia – ha picchiato un lavoratore”. La Spreafico ha fatto sapere che “l’azienda non è stata commissariata, ma è stato nominato un amministratore giudiziale per verificare i rapporti con cooperative di logistica che collaborano con il gruppo”. E che la Spreafico “non è stata accusata di caporalato: il procedimento penale è stato invece avviato contro gli esponenti delle società cooperative con le quali non collabora più”. Sul fronte del sequestro preventivo, l’importo “non sarebbe di 6 milioni di euro, ma di circa 3”.

“Facevamo sesso sotto stupefacenti ma mai violenze”

“Sono schiavo della droga, per me era normale fare sesso con persone sotto l’effetto di droga”. Per questo “non ho mai percepito di aver usato violenza”. Interrogato per tre ore dal procuratore aggiunto Letizia Mannella e dai pm Rosa Stagnaro e Paolo Fillippini, Alberto Genovese ha ribadito la propria linea difensiva. L’imprenditore, arrestato il 6 novembre 2020 per violenza sessuale e sequestro di persona e da luglio ai domiciliari in una comunità del Varesotto per disintossicarsi dalla cocaina, ha raccontato di aver passato 4 anni di dipendenza da droghe “particolarmente psicotrope” e che tutto il suo entourage ne faceva uso. È in questo contesto che sarebbero avvenuti i rapporti, nel corso di una festa il 10 ottobre 2020 con una 18enne, e il 10 luglio 2020 durante una vacanza a Ibiza con una 23enne. In quell’occasione alle violenze avrebbe partecipato anche l’ex fidanzata, Sarah B., indagata in concorso. Ora la Procura potrebbe avanzare richiesta di rinvio a giudizio e Genovese chiedere il rito abbreviato, che consente lo sconto di un terzo della pena.

Eitan, “l’Italia ha colpa della morte dei miei familiari”

“L’Italia è responsabile della morte di mio padre, mia figlia e mio nipote. Non possono prendere anche Eitan”. Si sfoga così Ester Coen Peleg, la nonna materna del piccolo di 6 anni sopravvissuto alla strage del Mottarone, appena fuori dal Tribunale per la Famiglia di Tel Aviv dove si dovrà decidere se applicare o meno la Convenzione dell’Aia sui bambini portati illecitamente all’estero. Dopo la tragedia della funivia, Eitan, italiano dal lato del padre e israeliano da quello della madre, aveva vissuto in provincia di Pavia insieme alla zia paterna, indicata dal tribunale come tutrice legale del bambino. L’11 settembre il piccolo era stato portato fuori dall’Italia dal nonno materno con cui ha preso un aereo da Lugano a Tel Aviv, dove adesso si deciderà il futuro di Eitan. Il Tribunale israeliano si riunirà anche oggi e domenica; dopodiché si deciderà se il bambino rientrerà in Italia. “Cosa mi è rimasto, lo capite?” ha aggiunto la nonna, criticando la decisione della giudice di non ammetterla al dibattimento in aula.

Inchiesta su Di Donna, tra gli indagati c’è anche il socio di Chiara Ferragni

C’è un imprenditore, molto giovane e molto lanciato tra gli indagati dell’inchiesta della Procura di Roma su Luca Di Donna e altri. Si tratta di Paolo Barletta – accusato dai pm di traffico di influenze illecite – 35 anni e già fra i giovani uomini d’affari in ascesa, con partecipazioni e ruoli in ben 23 società. Fra queste spicca la Fenice srl, impresa di cui condivide la proprietà delle quote con Chiara Ferragni (totalmente estranea all’indagine): il primo è il presidente del Cda e la nota influencer amministratore delegato. Fenice è il rebranding di Serendipity, l’azienda che gestisce Chiara Ferragni Collection, il marchio d’abbigliamento che – si legge su Milano Finanza – nel 2025 punta a un fatturato di 15,4 milioni di euro. “Paolo Barletta fu il primo, 8 anni fa, a investire sulla linea di abbigliamento di Ferragni”, scriveva proprio Forbes a giugno 2020. L’altra grande intuizione di Barletta è stata U-First, l’app “saltafila” divenuta virale durante il lockdown dello scorso anno, impiegata da alcune regioni anche come piattaforma di prenotazione dei vaccini anti-Covid. Sia Fenice sia U-First hanno alle spalle Alchimia Spa, altra società della galassia Barletta, nel cui cda siede Lucrezia Bisignani, 30 anni, anche lei imprenditrice in rampa di lancio e figlia di Luigi Bisignani. Sia Lucrezia che Luigi Bisignani sono completamente estranei all’inchiesta romana, che vede oggi coinvolto Barletta in merito ai suoi rapporti con Gianluca Esposito, avvocato indagato insieme a Di Donna e ad altri per associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze illecite. Secondo i pm, Esposito si sarebbe fatto “retribuire dal gruppo Barletta, interessato a finanziamenti pubblici (si parla di circa 30/40 milioni di euro) da Invitalia per la realizzazione di un progetto di ristrutturazione di una struttura alberghiera di lusso in Maratea” (Potenza). Esposito, per i pm, avrebbe ricevuto dunque “utilità sotto forma di un contratto di consulenza quale remunerazione indebita della sua mediazione indebita”. Il legale di Barletta, Carlo Bonzano, spiega al Fatto: “Non è stato chiesto nemmeno un euro a Invitalia, né sono state erogate somme a Esposito. Esisteva un rapporto professionale nato da una proposta arrivata proprio da Esposito. Al disinteresse manifestato dal gruppo Barletta, il professionista ha esibito una parcella di 60mila euro, che gli è stata contestata”. Per questo “la vicenda è già sfociata in un contenzioso civile”.

Bellucci, Raiola e gli altri coi soldi coperti all’estero

Dopo ministri e capi di Stato, il turno è di calciatori e procuratori, attrici e modelle, imprenditori rampanti e un finanziere accusato di aver spolpato il Vaticano. Una società offshore non se la fa mancare nessuno. Ci sono Monica Bellucci e Alessandra Ambrosio, Carlo Ancelotti e Mino Raiola, Bernie Ecclestone e Flavio Briatore nella seconda puntata dell’inchiesta condotta da L’Espresso insieme al consorzio di giornalismo investigativo Icij.

Un veicolo anonimo alle Cayman o alle British Virgin Islands è perfetto per star internazionali che guadagnano con i diritti d’immagine, perché la tassazione è zero. E infatti nei Pandora Papers – 3 terabyte di documenti di 14 studi internazionali specializzati nella creazione di strutture fiscali a tassazione zero o poco più – ci sono Claudia Schiffer, Monica Bellucci e Alessandra Ambrosio. Le loro scatole offshore hanno acquistato i diritti d’immagine, che sono stati poi dati in concessione nel mondo. Non pagare tasse su questi introiti, per una star internazionale può essere questione di milioni di euro. L’italo-brasiliana Alessandra Ambrosio, per anni testimonial di Victoria’s Secret, dal 2008 al 2018 è stata beneficiaria di una offshore delle Bvi, la Brava Assets Management. Claudia Schiffer ha fatto molto di più. Controlla almeno sei offshore delle British Virgin Islands, tutte usate per incassare i compensi delle pubblicità: “La signora Schiffer è in regola con le leggi fiscali del Regno Unito, dove vive con il marito, e non è mai stata accusata di alcuna evasione ed elusione delle tasse”, la risposta degli avvocati al consorzio Icij. Monica Bellucci, che vive e risiede in Francia da anni, è identificata nei documenti come beneficiaria della Kloraine Limited, una società delle Bvi che serve per gestire i suoi diritti d’immagine. Tramite i suoi avvocati, l’attrice ha detto di essere in regola con il Fisco, sia in Francia che all’estero, senza spiegare se per quei redditi percepiti in passato dalla Kloraine Limited, chiusa nel 2015, ha dovuto mai pagare tasse.

È invece finito sicuramente nei guai per i diritti d’immagine Carlo Ancelotti, da poco tornato sulla panchina del Real Madrid. Si sapeva che l’allenatore era indagato per evasione fiscale in Spagna e che da poco l’Agencia Tributaria gli ha sequestrato 1,4 milioni di euro. I Pandora Papers raccontano la rete di società offshore a cui Ancelotti ha trasferito per 10 anni i suoi diritti d’immagine, incassando 25 milioni di euro.

Nei documenti ci sono poi l’agente di calciatori Mino Raiola (due società alle Bvi), l’ex portiere Walter Zenga (un trust a Dubai, dove risiede) e Flavio Briatore. Presente in quasi tutti i leak di questo tipo, da Panama Papers ai Malta Files, questa volta Briatore è in compagnia di Bernie Ecclestone per l’acquisto della squadra inglese Queen Park Rangers avvenuto nel 2007 per 28,2 milioni di dollari. I documenti dicono che l’affare fu fatto attraverso una società delle Bvi.

Il caso più documentato non riguarda però una celebrità, ma un banchiere discreto, finito recentemente nel grande processo finanziario in corso in Vaticano: Enrico Crasso, l’uomo che per 27 anni ha gestito il patrimonio riservato della Segreteria di Stato della Santa Sede. Dai Pandora Papers viene fuori che Crasso aveva tre società offshore registrate alle Bvi. La notizia s’inserisce nel processo contro di lui e il cardinale Becciu, ex capo della Segreteria di Stato. Insieme ad altri presunti complici, come i finanzieri Gianluigi Torzi e Raffaele Mincione, sono tutti accusati di aver depredato le finanze della Santa Sede attraverso una ragnatela di società offshore. I documenti citati da L’Espresso raccontano che due delle tre società delle Bvi sarebbero state usate per incassare i soldi ottenuti truffando il Vaticano, come nel caso di 7 milioni di dollari investiti dalla Segreteria di Stato in obbligazioni della Hp Miami, riconducibile a Crasso. Con l’altra società offshore nel 2007, il finanziere romano con residenza svizzera si è comprato un appartamento a Miami da 2,2 milioni di dollari.

Fatti un trust offshore anche tu: ecco come

Prima regola del “Black Club”: non parlare mai del “Black Club”. Seconda regola: mai parlare del “Black Club”. Ma, se serve, qualche esperto c’è. D’altronde il “nero” è uno sport nazionale: ogni anno in Italia l’economia sommersa fattura centinaia di miliardi. Tutti nascosti sotto il materasso? Nient’affatto, se ne occupa uno stuolo di professionisti. Il contante è delizia e croce: mai commettere l’errore di farlo transitare in banca o di frazionare le operazioni allo sportello perché nulla sfugge a database e segnalazioni di operazione sospetta di riciclaggio. Nemmeno le cassette di sicurezza: gli istituti registrano se vi si accede. Come metterlo al sicuro e poterlo spendere senza risultarne titolari? Come farsi un bel trust oltremare come i vip dei Pandora Papers, tra cui Roberto Mancini e Gianluca Vialli? Ecco come gira il fumo (sempre che uno abbia abbastanza fumo da far girare: mica a tutti conviene l’offshore…).

Gli spalloni. Nei doppifondi delle auto, a volte ipertecnologici, dentro zaini di montagna, nei pannolini dei bambini, mutande e panciere, addirittura nelle borracce dei ciclisti: tutti i casi citati sono reali perché la fantasia degli italiani e dei loro aiutanti non ha limiti quando si tratta di esportare il cash. Ma occhio ai costi: per ogni trasbordo i professionisti chiedono intorno il 2% del valore al Nord, il 3 al Sud. Di solito gli spalloni sono gente irreprensibile – niente di peggio che fregare i clienti: chi ci prova finisce spesso male perché rovina “la ditta” – e lavorano in gruppo. Alcune banche svizzere avevano reti di servizio “a domicilio”: concordati luogo e ora, mandavano addetti a prendere i soldi, li portavano fuori o li riportavano al cliente. A San Marino, per le grosse somme, ti offrivano pure la scorta. Ma dopo gli scudi fiscali e la voluntary disclosure le operazioni di “esfiltrazione” ormai sono quasi impossibili ai privati: le banche estere non hanno più convenienza ad aprire conti anonimi o a gestire il “nero”, specie per piccole somme. Restano le fiduciarie, ma quelle poche che lo fanno ancora chiedono commissioni annue micidiali. Capita anche che qualche intermediario si appropri del denaro esportato illegalmente: per riprenderlo va portato in tribunale. Sicuri di volervi autodenunciare? Come dimostrerete che è vostro?

Il “back to back”. Per evitare i problemi quando si spostano da e per l’estero grandi o piccole somme, una soluzione esiste: non muoverle. Sembra un paradosso, ma non lo è. Immaginiamo che il cliente A voglia spostare all’estero la somma X e il cliente B (da solo o con altri) voglia riportare la stessa somma in Italia: l’intermediario di B lo mette in contatto con A, al quale girerà il conto estero di B, mentre B (da solo o con altri) riceverà direttamente i contanti da A. All’intermediario andrà una commissione pagata da A e B. Così i soldi andranno e torneranno dall’estero senza spostarsi.

Diamanti, oro, arte. Per le grandi somme, invece di mazzette di banconote si possono esportare oro, diamanti, tele. Il back to back funziona benissimo anche con questi strumenti. Basta depositarli in un porto franco, farsi rilasciare un titolo di deposito e una polizza e oplà, non servirà spostarli: il titolo e la polizza passeranno di mano a fronte di contanti.

Criptovalute. Cosa c’è di più anonimo di un token che vale migliaia o decine di migliaia di euro, è stoccato su memorie Usb, viaggia sulla blockchain o dentro un pc? Vai a capire chi sono i detentori dei file e dei relativi wallet. Se si vuol fare il salto di qualità, si possono fondare società che emettono criptovalute e ricevono in cambio milioni. Non a caso, reti di “specialisti” in passato hanno battuto palmo a palmo l’Italia in cerca di chi avesse milioni da riciclare o far emergere, offrendo “chiavi in mano” l’emissione di nuove cripto in Ticino o nel Cantone di Zugo.

Specialisti e fiduciari. Basta un giro sul web: sono migliaia i professionisti dell’“escapologia fiscale” a portata di un click. Singoli o in studi associati, avvocati, consulenti, ex bancari, fiduciari offrono per centina o qualche migliaio di euro l’anno la costituzione di società anonime, l’apertura di conti bancari intestati a queste, carte di credito e a volte pure il passaporto nei paradisi fiscali.

Le imprese. Esportare capitali? Un paio di storie vere: un prosciuttificio vende merce in Russia per 3 milioni, ma dichiara di non essere stato pagato. In realtà si fa accreditare il denaro sul conto di una società anonima e spesa la perdita a bilancio ottenendo pure benefici fiscali. Una cava di marmo esporta negli Emirati un carico da 20 milioni ma ne fattura 5: il resto finisce su un conto emiratino.

Le società offshore. Per questo ricorriamo a Gian Gaetano Bellavia, esperto di diritto penale dell’economia e consulente di numerose Procure. Secondo lui, la situazione oggi è peggiore che mai ed è questa: “L’esportazione di capitali non si è fermata: i soldi in nero o sporchi dal Nord Italia vanno ancora in Svizzera, quelli del Sud a Malta. Basta impacchettarli in qualche società o fondo e si muovono ancora nelle banche svizzere, rigidissime solo verso le persone fisiche, ma che se arriva una società lussemburghese non si fanno problemi. Poi magari la scatola lussemburghese è controllata da una ‘buca delle lettere’ olandese, questa da un veicolo alle Antille… Il denaro va nei Paesi dell’anonimato bancario e finanziario, da lì in Lussemburgo, nel Regno Unito con il suo Commonwealth che comprende Cayman, British Virgin Island, Isole del Canale, negli Usa con il Delaware, Nevada, South Dakota e da lì rientra in Europa. Alle società con il ‘nero’ servono scatole in Paesi con un sistema finanziario e una ‘specialità’: l’Irlanda ha la tassazione di vantaggio sui redditi d’impresa, l’Olanda le società di comodo e le regole di diritto societario, il Lussemburgo non tassa i dividendi e registra società costituite da veicoli offshore. Un ruolo fondamentale negli schemi fiscali ce l’hanno i network globali della consulenza aziendale. I contanti per la criminalità organizzata sono riciclati e rientrano soprattutto dall’Europa dell’Est, dai Paesi baltici alla Romania, da Montenegro, ex Jugoslavia, Albania. Invece per chi vuol movimentare o rimpatriare grandi somme evase o frutto di attività illecite i veicoli migliori sono i fondi di investimento privati collocati in Paesi con sistemi bancari laschi che accettano denaro di provenienza ignota. Sarà un caso che a Milano alcune grandi operazioni immobiliari sono effettuate da fondi di private equity degli Emirati, il nuovo centro del riciclaggio internazionale? Come mai i fondi privati sono interessati a comprare squadre di calcio italiane, nonostante la crisi del settore e le voragini nei bilanci?”.

Fedez, esperimento live: obiettivo serata al 100%

C’è già un primo via libera del Comitato tecnico scientifico, è in corso il confronto con il Garante della privacy. Poi bisognerà vedere se i nuovi limiti di capienza fissati dal governo, che per ora si fermano al 50 per cento per le discoteche al chiuso, non renderanno superflua l’iniziativa, come molti in realtà si augurano. L’idea è di Fedez, ma sul palco saliranno anche altri artisti. Sponsor, il ministero della Salute, innanzitutto il sottosegretario Pierpaolo Sileri, che ha preso in mano la proposta e l’ha trasmessa al Cts e al direttore della Prevenzione, Gianni Rezza, grande appassionato di musica. Sono tutti d’accordo, dal ministro Roberto Speranza in giù. Si tratta anche di togliere alla Lega la bandiera delle riaperture, facendolo però dopo un’attenta valutazione dei rischi e con tutti i crismi della scientificità.

Sarà un concerto a fine ottobre in una prestigiosa location al chiuso, probabilmente un noto locale di Milano. Duemila o forse tremila partecipanti ammessi, cioè il 100 per cento della capienza. Green pass obbligatorio naturalmente, mascherina chirurgica almeno quando non si balla – come dice il decreto in via di emanazione che assimila le danze all’attività sportiva con questo “leva e metti” un po’ singolare – ma niente distanziamento. E tamponi molecolari per tutti: prima di entrare e cinque giorni dopo la serata. Sarà selezionata una platea di circa 4.000 persone: circa metà, individuati casualmente, non parteciperanno all’evento, ma faranno anche loro i tamponi e nel frattempo condurranno la loro vita di tutti i giorni. Saranno insomma il “gruppo di controllo” di uno studio randomizzato sugli effetti di un simile evento di massa in termini di contagi. Otterranno anche l’accesso a un successivo concerto a fine ricerca.

Oltre al ministero della Salute e al Cts è coinvolto anche l’istituto Spallanzani di Roma, mentre il San Raffaele di Milano – dove Sileri andrà a fare il chirurgo e il professore a fine mandato – si è offerto di somministrare e analizzare i tamponi. Il Cts ne ha discusso lo scorso 27 settembre, pur senza disporre di tutti i dettagli: il comitato, si legge a verbale, “ritiene certamente apprezzabile l’iniziativa e ne incoraggia la realizzazione”. Sarà un esperimento simile a quello condotto la scorsa primavera a Barcellona con risultati incoraggianti, ricordato anche nel verbale del Cts. Ce ne sono stati anche altri ad Amsterdam e a Liverpool. E altre proposte di questo genere circolano a livello locale: in Emilia-Romagna c’è un analogo progetto di Cosmo.

In attesa della pubblicazione del decreto approvato giovedì dal governo, che è andato un po’ al di là delle raccomandazioni del Cts su pressione del ministro Dario Franceschini e della Lega, da lunedì le nuove regole dovrebbero essere queste: 100 per cento di capienza anche al chiuso per cinema, teatri e sale da concerto con posti a sedere pre-assegnati e distanza interpersonale di un metro in zona bianca (tutta l’Italia, anche la Sicilia dovrebbe lasciare il giallo) e al 50 per cento in zona gialla; sempre in zona bianca al 75 per cento per gli stadi e 60% per i palazzetti al chiuso; discoteche e locali assimilati 50 per cento al chiuso e 75 per cento all’aperto.