Privacy, la mano libera della Pa sui nostri dati nel decreto Riaperture

Dovrebbe essere il decreto capienze ma, con una pratica tutta opinabile di infilarci qualsiasi cosa, incluse le norme sul revenge porn, nello schema che circolava ieri (e che pure Mattarella dovrà firmare) non solo si oltrepassa la contingenza delle capienze, ma si arriva pure a mettere in crisi il diritto alla privacy dei cittadini quando a maneggiarlo è lo Stato. Praticamente, senza giri di parole ma al tempo stesso con articoli che riescono a essere vaghi e mal scritti, si lascia alla Pubblica amministrazione la libertà di fare quello che le pare con le informazioni dei cittadini se di mezzo c’è non la sicurezza nazionale, ma il semplice “pubblico interesse”, fosse pure la gestione del traffico. Niente parametri, niente indicazioni, pura discrezionalità nata con la scusa della lotta all’evasione, finita per essere una norma onnicomprensiva. Ecco come.

All’articolo 9 si legge: “Al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (che introduce il codice della Privacy, ndr) è aggiunto il seguente: “1-bis. Il trattamento dei dati personali da parte di un’amministrazione pubblica… ivi comprese le Autorità indipendenti… nonché da parte di una società a controllo pubblico… di un organismo di diritto pubblico è sempre consentito se necessario per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti. La finalità del trattamento, se non espressamente prevista da una norma di legge o di regolamento, è indicata dall’amministrazione… in coerenza al compito svolto o al potere esercitato”.

Parallelamente si legittima la comunicazione di dati tra le amministrazioni (esclusi i particolari e i giudiziari) sempre in nome dell’interesse pubblico così come si sblocca la comunicazione anche a soggetti terzi e per altre finalità: basta siano necessarie per l’adempimento. Infine, si priva il Garante della Privacy della possibilità di prescrivere misure preventive a garanzia del cittadino nel caso di trattamenti che, seppur nell’interesse pubblico, presentino “rischi elevati”. Anche sulla durata della conservazione dei dati il Garante potrebbe non avere più voce in capitolo, mentre viene dato tempo 30 giorni per eventuali pareri sui progetti del Pnrr. Una sintesi brutale è a questo punto necessaria quanto più in linea con la brutalità della norma: in pratica, sulla base di quanto si legge, la Pa può progettare con i dati dei cittadini ciò che le viene utile e in tutta tranquillità, perché lo prevede la legge e non ci sarà il garante della Privacy a mettere i bastoni tra le ruote. Esempio: se per un obiettivo della Pa dovesse essere utile monitorare gli spostamenti dei cittadini in tempo reale, potrebbe mettere in piedi un sistema per farlo senza chiedere il parere al garante della Privacy e in nome del pubblico interesse, che siano la sburocratizzazione, la sicurezza, l’efficienza, il risparmio e così via. Poco importa se la ratio imminente sia combattere l’evasione fiscale e il fatto che in vista della delega c’era bisogno di scendere a patti con la privacy per spulciare i conti dei cittadini: oggi la portata è più ampia se si pensa anche solo ai progetti sul cloud nella Pa, catastrofica se in futuro ci fosse mano libera su videocamere e dati biometrici.

Problema/2: la norma, inoltre, non annulla le altre garanzie generali sulla privacy ma attacca le funzioni del Garante, spostando il suo intervento da certo prima a eventuale dopo. L’Authority quindi dovrà sempre controllare che, nel rispetto del Gdpr (il regolamento europeo), i dati utilizzati dall’ente riguardino solo le sue competenze e che ci si limiti a quelli necessari e in modo proporzionato agli obiettivi, mentre non è chiaro a chi debba essere destinata “l’indicazione” del loro utilizzo prevista dal decreto. Insomma, nella migliore prospettiva è un boomerang. Il garante potrà (non è obbligato) verificare – con un maggiore dispendio di energie e tempo – che tutto sia regolare solo all’avvio di iniziative che, nel caso non siano in regola (magari anche perché la normativa è poco chiara) potrebbero essere bloccate. Dopo aver in caso anche già violato la privacy dei cittadini. Altro che semplificazione ed efficienza.

Più di 8 milioni restano senza dosi. Il virus frena anche gli altri vaccini

Manca ormai meno di una settimana al d-day del Green pass, il fatidico 15 ottobre in cui il certificato sarà necessario anche per lavorare, ma nella campagna vaccinale ben poco si muove. Fatta eccezione per un lieve incremento negli ultimi sette giorni nella fascia over 80 (presumibilmente dovuto alla somministrazione delle prime terze dosi), i no vax più o meno duri e puri sono ancora 8.393.051, il 15,54% della popolazione over 12. Lo certifica il report settimanale sulle vaccinazioni della struttura del Commissario Figliuolo.

Di questi oltre otto milioni, circa tre sono ultracinquantenni, circa quattro hanno tra i 20 e i 49 anni, poco meno di un milione e mezzo tra i 12 e i 19 anni. Nello specifico, la fascia in cui è più alto il numero di no vax è quella 40-49 anni, 1.702.924 (19,38%). Tra i 20 e i 29 anni sono 914.671 (15,21%), 1.379.329 (20,30%) tra i 30 e i 39 anni. Tra gli over 50, la fascia più indietro è quella tra i 50 e i 59 anni (1.435.196, 14,87%), mentre gli ultrasessantenni senza prima dose sono 839.670 (11,12%), la fascia 70-79 483.149 (8,03%) e gli over 80 229.844 (5,04%). Quanto ai giovanissimi, tra i 4.627.514 adolescenti tra i 12 e i 19 anni, 1.435.196 non ha alcuna copertura, il 30,43%.

E se la campagna di vaccinazioni anti-Covid sembra da tempo aver raggiunto il plateau, a causa della pandemia hanno sofferto anche quelle tradizionali e obbligatorie. Un ruolo forte lo ha giocato la paura delle famiglie di accedere alle strutture sanitarie. Poi c’è stato il dirottamento del personale verso i reparti ospedalieri Covid, fino ad arrivare, in alcuni casi, alla chiusura dei centri vaccinali, con il risultato che nel 2020 la copertura di bambini e adolescenti per i dieci vaccini obbligatori è diminuita. Una flessione contenuta, in base ai dati del ministero della Salute, per l’esavalente (poliomielite, difterite, tetano, pertosse, epatite B, haemophilus influenzae di tipo B) e per la varicella, con percentuali che oscillano intorno all’1%.

Più accentuata la flessione per morbillo (2,7%), parotite (2,89) e rosolia (3,18). Mentre tra gli 11 e i 18 anni, per cui è previsto il richiamo contro pertosse, tetano, difterite e poliomielite e i sieri anti papillomavirus e meningite Acyw, la diminuzione ha superato l’8%.

Una conseguenza dell’emergenza sanitaria, soprattutto durante la prima ondata, che era stata ampiamente anticipata dalla Società Italiana di Pediatria, che aveva reso noto che un genitore su tre avrebbe rinviato la vaccinazione del proprio figlio, soprattutto al Sud (40%), nonostante la prima ondata abbia colpito il Settentrione: “Per la gravità della situazione, ci aspettavamo una perdita di copertura maggiore – dice Rocco Russo, responsabile del tavolo tecnico vaccinazioni della società scientifica –. Va detto che nella seconda parte dell’anno c’è stato un recupero e che sono notevoli le differenze regionali. Le criticità maggiori riguardano soprattutto la fase adolescenziale, i ragazzi sono lo zoccolo duro”.

È soprattutto in questa fascia d’età, in particolare tra i sedicenni, che si riscontra infatti il tasso più alto di defezioni.

La copertura contro la difterite è scesa dal 70,87% del 2019 al 62,49% dell’anno scorso. Per quanto riguarda i bambini, fino a 24 mesi hanno comunque superato una protezione superiore al 95% nove regioni (Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Campania, Lombardia, Piemonte, Veneto, Marche, Liguria e Friuli-Venezia Giulia), mentre sono sotto la soglia del 90% la Sicilia e soprattutto la Provincia autonoma di Bolzano. La diminuzione, rispetto al 2019, è stata rilevata in quasi tutte le Asl. Una tendenza confermata anche dalle coperture vaccinali a 36 mesi, vale a dire quelle dei nati nel 2017. “Un ritardo – spiegano dal ministero della Salute –, che espone i bimbi a un inutile rischio di malattie infettive, più frequenti e gravi nei primissimi anni di vita”. In calo anche le vaccinazioni in età prescolare, da effettuare a 5-6 anni, soprattutto per quanto riguarda la quarta dose di antipolio e per la seconda dose del vaccino contro il morbillo.

Brescia è in Ungheria

Non auguro a Piercamillo Davigo di finire sotto processo per rivelazione di segreto a Brescia, dove peraltro è un habitué. Però, da spettatore, non vedo l’ora di assistere a un processo che si annuncia meglio di uno spettacolo di cabaret. L’accusa, nell’avviso di conclusione delle indagini che prelude alla richiesta di giudizio, è nota: nell’aprile 2020 Davigo, allora al Csm, suggerì al pm milanese Paolo Storari di scrivere ai capi il suo dissenso per la mancata iscrizione dei reati emersi dai verbali dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria, datati dicembre 2019. Poi se ne fece consegnare una copia Word per segnalare il tutto al Csm, visto che Amara ne accusava due consiglieri. Cosa che fece a maggio, avvertendo il vicepresidente Ermini e gli altri due membri del Comitato di presidenza, Curzio e Salvi, cinque consiglieri, le sue due segretarie e il presidente dell’Antimafia (tutti tenuti al segreto d’ufficio, purtroppo violato – secondo l’accusa – da una delle segretarie).

In base a una circolare del Csm, Davigo ritiene che il segreto non sia opponibile ai membri del Csm e che trasmettere quelle carte per le vie ufficiali avrebbe significato avvisare tutti i consiglieri, compresi i due accusati da Amara. Infatti il Pg Salvi – titolare dell’azione disciplinare – non gli contestò alcuna violazione, anzi chiamò il procuratore di Milano, Greco, che iscrisse gl’indagati del caso Ungheria. Ora i pm bresciani accusano Davigo di aver violato il segreto insieme a Storari, ma solo un po’: non quando avvisò Curzio e Salvi; solo quando avvertì il terzo membro del Comitato di presidenza, Ermini, e tutti gli altri. Ma, se il segreto fosse intermittente, sarebbe un guaio pure per Ermini. Che corse ad avvertire Mattarella, presidente del Csm. E neppure Mattarella obiettò nulla, né il suo consigliere giuridico Erbani, che parlò della cosa con Davigo qualche settimana dopo. Se Davigo viola il segreto avvertendo Ermini, come fanno a non violarlo Ermini avvisando Mattarella e chi poi avvisa Erbani? Ermini, sentito a Brescia come testimone (ma non violò anche lui il segreto?), conferma che si fece pure consegnare da Davigo le copie dei verbali di Amara, ma poi le distrusse inorridito. E qui i pm dovrebbero sobbalzare: se quelle carte erano la prova del reato di Davigo, Ermini distruggendole commise favoreggiamento e andrebbe sentito come indagato, non come teste. Per molto meno (non aver iscritto Vannoni nell’inchiesta Consip), Woodcock finì davanti al Csm vicepresieduto da Ermini. Che ora potrebbe doversi occupare dei pm bresciani che non iscrissero Ermini indagando sui pm milanesi che non iscrissero il caso Amara. Non so voi, ma io per un processo così pagherei pure il biglietto.

Alfa Romeo e Lancia: bentornate sul mercato

“Alfa Romeo lancerà un nuovo modello ogni anno fino al 2026, a cominciare dalla sport utility Tonale in vendita dal 2022. E a partire dal 2027 tutte le nostre auto saranno elettriche”. A dirlo è stato il numero uno del Biscione, Jean-Philippe Imparato, parlando in settimana a un incontro coi concessionari italiani del brand. E pazienza se la Tonale sarebbe dovuta arrivare prima, alla fine di quest’anno in realtà: aspettare fino a giugno non sarà una tragedia, considerando che questa programmazione, se rispettata, probabilmente garantirà un futuro. E se Sparta prova a ridere, altrettanto sembra che faccia Atene. Ovvero Lancia, il cui capo, Luca Napolitano, ha detto di aver presentato un piano decennale per il suo rilancio all’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares. Piano che prevede l’espansione su altri mercati europei, Germania e Francia in primis, ma anche Paesi del Nord Europa. L’obiettivo è conquistare le grandi città, andando ad affiancare nell’offerta premium l’altro marchio fashion del gruppo, ovvero DS. Per farlo bisognerà aggiungere altro all’unico modello attualmente in listino, ovvero la Ypsilon, e puntare ovviamente sulla batteria, visto che anche Lancia venderà solo auto elettriche a partire dal 2026. Proprio in questa direzione vanno le parole di Napolitano (“voglio essere nella fascia alta del mercato, non abbandonando la Ypsilon, ma spingendo Lancia oltre”), che ha pure confermato l’arrivo di tre nuovi modelli entro il 2028. “Il marchio Lancia non ha storia all’estero e resterà solo in Italia” di marchionniana memoria sembra sempre più lontano.

Serie 2 Active Tourer, il monovolume c’è

Chi l’ha detto che le monovolume sono morte e sepolte, gettate nel dimenticatoio dal fenomeno suv? Magari le “multispazio” non sono più in voga come una volta, ma alcuni costruttori ancora continuano a scommetterci. Come BMW, che ha appena svelato la seconda edizione della Serie 2 Active Tourer, pronta al debutto commerciale a febbraio 2022.

Lunga 4,4 metri, la Serie 2 Active Tourer si distingue per un design più deciso che in passato. Ma il vero salto in avanti è all’interno, dove vince la causa del “minimalismo digitale”: via la maggior parte dei tasti fisici, rimpiazzati da un display lcd da 10,25” per la strumentazione abbinato a un touchscreen da 10,7” per il sistema infotelematico connesso.

Inoltre, sul bracciolo centrale c’è un inedito pannello di controllo da cui si gestisce il cambio, il sistema audio, le modalità di guida e l’avviamento. Numerosi i vani portaoggetti e comodo il sistema di ricarica per lo smartphone. A richiesta i sedili con funzione massaggiante.

Il vano di carico ha una una capacità che oscilla fra 470 a 1.455 litri per le versioni 218i e 218d e 415-1.405 litri per le varianti elettrificate 220i e 223i. Di serie l’apertura elettroattuata del portellone.

Veniamo ai propulsori: quelli dotati di tecnologia mild hybrid 48 V sono il 2 litri da 218 Cv della 223i e il tre cilindri 1.5 da 170 Cv della 220i. Segue la 218i con il tre cilindri 1.5 da 136 Cv, con logica di combustione migliorata, e chiude il lotto il turbodiesel della 218d, un 4 cilindri, 2 litri da 150 Cv. Tutte le versioni hanno cambio doppia frizione a sette rapporti. Nel corso del 2022 esordiranno due modelli ibridi plug-in a quattro ruote motrici, da 245 e 326 Cv di potenza, capaci di percorrere fino a 80 km in modalità di marcia 100% elettrica.

Fanno parte del corredo (di serie o a pagamento) dedicato alla sicurezza il cruise control adattivo, il sistema di mantenimento attivo della propria corsia di marcia, la frenata automatica di emergenza con riconoscimento dei pedoni e l’Head-Up display, che proietta le principali informazioni di guida sul parabrezza, nel campo visivo del guidatore.

Ioniq 5, Hyundai ora va alla conquista delle emissioni “zero”

La IONIQ 5 è la prima nata del nuovo brand di Hyundai dedicato ai veicoli elettrici. Una vera e propria famiglia di vetture per la mobilità del futuro, che sarà ampliata con l’arrivo della IONIQ 6 e della IONIQ 7. L’obiettivo della Casa coreana è chiaro: diventare il principale fornitore di mobilità a zero emissioni e le tappe sono già tracciate. Dal 2035 in Europa saranno vendute solo EV e nel 2045 sarà raggiunta la neutralità carbonica per tutta la filiera produttiva. In Italia la quota di mercato a fine settembre è del 2,9%, in crescita dello 0,3% rispetto all’anno scorso e, l’arrivo della IONIQ 5 getta le basi per un ulteriore crescita.

È anche la prima a nascere sulla piattaforma E-Gmp della Casa coreana per le auto a zero emissioni, con un design senza dubbio distintivo. Le linee sono pulite e le maniglie a scomparsa, ma quello che colpisce è il frontale con il cofano a conchiglia e le luci parametriche a effetto pixel, sia all’anteriore che al posteriore. Lunga 4,68 m, larga 1,89 m e alta 1,6 è un crossover di medie dimensioni che ha un passo di 3 m, il che garantisce lo spazio di un’auto di segmento D. Il bagagliaio ha una capacità di 527 litri che aumenta fino a 1.587, abbattendo i sedili posteriori. La vita a bordo assume una dimensione completamente diversa, a partire dalla qualità dei materiali, molti dei quali eco-compatibili. La plancia accoglie due display che catturano l’attenzione, entrambi da 12,3”, Le modalità di guida, gestibili dal cursore sulla parte sinistra del volante, sono tre: Eco, Normal e Sport. Disponibile in tre allestimenti, Progress, Innovation ed Evolution, con una potenza che va da 170 a 305 cv e due tipi di batterie, da 58 kWh o da 72,6 kWh, quest’ultima anche con trazione integrale.

Ci siamo messi al volante della IONIQ 5 Innovation da 217 cv e 350 Nm di coppia, con batteria da 72,6 kWh e trazione posteriore, che garantisce un’autonomia dichiarata di 481 km nel ciclo WLTP. Piacevole da guidare, con uno sterzo preciso e le sospensioni che assorbono bene le asperità del terreno nonché un’insonorizzazione convincente. I sistemi di assistenza consentono la guida autonoma di livello 2. La versione Evolution ha di serie l’head up display a realtà aumentata e anche la funzione V2L, che permette di ricaricare qualsiasi dispositivo elettrico, come biciclette o monopattini. IONIQ 5 offre di serie una capacità di ricarica a 800V, e consente anche la ricarica a 400V senza la necessità di componenti o adattatori aggiuntivi. Utilizzando un caricatore da 350 kW, si ottiene una ricarica dal 10% all’80% in appena 18 minuti, che si traduce in un tempo di 5 minuti per un’autonomia di 100 km. Ha un prezzo di partenza di 44.750 euro (incentivi esclusi).

Ecco Abdulrakaz Gurnah: “Io Nobel? È uno scherzo?”

Che il premio Nobel per la letteratura vada a uno semisconosciuto non è più una novità: l’Accademia Svedese ci ha ormai abituato a restare spiazzati e a uscire dalla nostra comoda comfort zone degli scrittori (a noi) noti. E così ieri ha assegnato il premio a uno scrittore tanzaniano dal nome impronunciabile, Abdulrazak Gurnah, “per la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino dei rifugiati nel divario tra culture e continenti”. Niente Murakami, niente Houllebecq, Margaret Atwood o Annie Ernaux, dati per favoriti dagli scommettitori. I 10 milioni di corone andranno a questo scrittore emigrato in Gran Bretagna, autore di una decina di romanzi (di cui solo uno tradotto in Italia da Garzanti, Il disertore), che combattono gli stereotipi sul continente africano mentre aprono lo sguardo, come ha detto il presidente del comitato, su un’Africa “culturalmente diversificata e sconosciuta a molti”. Gurnah ha dichiarato di aver creduto si trattasse di uno scherzo, meno sorpresa si è detta invece la sua editrice inglese, secondo cui Gurnah “è uno dei più grandi scrittori africani viventi, ma mai nessuno si è accorto di lui”. Non resta dunque che procurarsi i suoi romanzi in inglese e nel frattempo frenare la nostra ingenua aspettativa di vedere lo scrittore del cuore premiato col massimo dei riconoscimenti. Solo negli ultimi dieci anni, il Nobel è andato a scrittori ignoti al grande pubblico – da Tomas Tranströmer a Mo Yan, da Peter Handke a Svjatlana Aleksievic – col consueto seguito di proteste e polemiche. Ma forse proprio questo è il bello del Nobel letterario: imporci autori che mai avremmo incontrato. Che le motivazioni dell’Accademia Svedese possano essere a volte discutibili, poco importa. Prendiamolo come un utile esercizio contro il nostro ombelico letterario. Troppo spesso malato di etnocentrismo.

Da Leopardi a Chopin: omosessuali tra le righe

“Definire e definirsi è un atto essenziale” scrive Franco Buffoni in questo suo ultimo Vite negate, in libreria dal 12 ottobre per Fve. Ecco perché, dismessi i panni del poeta, ha deciso di soffiare via la polvere della mistificazione da tante, troppe biografie.

Buffoni, sulla scorta dei suoi Gender studies, è convinto che la negazione dell’omosessualità (“Lo stigma, il disdoro erano talmente profondi che persino con sé stessi si sentiva la necessità di mentire”) sia un’ombra da dissipare una volta per tutte. Non solo per risarcire il privato dei singoli ma per restituire verità là dove è stata manipolata.

L’autore varesino getta l’amo del suo outing dentro i secoli e riporta in superficie celebrità e anonimi lasciando sul fondo quella “patina di neutro grigiore eterosessuale” che ha disciplinato l’immaginario. Con l’acribia di un inquirente denuncia contraffazioni, ricompone testimonianze, scandaglia epistolari. Fedele a un’idea di metodo, richiamando le ambiguità di Pavese (“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità”), Buffoni formalizza che “se uno è eterosessuale le evidenze ci sono sempre, se uno è omosessuale fa di tutto perché non si capisca”.

La valutazione estetica non è in discussione ma capovolgere le declinazioni dal maschile al femminile ha cambiato decisamente volto a tante opere dell’ingegno artistico. Se Gadda ha distrutto tutto ciò che riguardava la sua sfera privata, Palazzeschi ha camuffato le sue pulsioni omoerotiche nei personaggi femminili dei suoi romanzi.

Se Gozzano e Rebora si sono acquattati dietro il conformismo, altri letterati hanno messo in atto strategie di nascondimento: Eliot si è smarrito in “un universo di reticenze e di negazioni velate di perbenismo e ipocrisia”, Pessoa ha mimetizzato “la sua genialità gay nelle multiformi pieghe caratteriali dei suoi eteronimi”.

Senza contare ciò che è stato adulterato a posteriori per “preservare l’immagine” di icone universali: dai Sonetti di Shakespeare alle Rime di Michelangelo. Sotto la lente di Buffoni – che già vi si era misurato in Silvia è un anagramma – Leopardi è un gay innamorato e non corrisposto di Ranieri, il quale si premura di distruggere tutta la corrispondenza inviata al poeta di Recanati ma non le lettere a lui indirizzate. Leopardi gli scrive frasi come: “Ti ripeto ch’io t’amo quanto si può amare in questa vita, e che ogni giorno, ogni ora, ti sospiro”.

Buffoni contesta la minimizzazione critica per la quale espressioni di questo tenore fossero correnti nelle amicizie virili dell’epoca. Stessa sorte per gli struggimenti di Schubert. Gli amori infelici, per una nobile e una cantante, del compositore austriaco, non furono che patetiche coperture. Il simbolo del Romanticismo era omosessuale come il collega polacco Chopin (pura facciata la sua relazione con la scrittrice francese George Sand): il suo epistolario è stato massacrato dai censori, si legge donna dov’era scritto uomo. Il censimento di Buffoni contempla decine di casi prelevati dalla storia, dalla cronaca, dallo sport.

Senza timori il suo scavo desacralizza la filosofia (la relazione tra Parmenide e Zenone), l’antica Roma (a Eliogabalo le parate servivano per selezionare gli amanti più prestanti, “tra le prime transgender o queer o gender fluid della storia e dunque, volendo, anche l’unica imperatrice dell’Impero Romano”), il Risorgimento (il rapporto ambiguo tra Mazzini e Mameli, autore dell’Inno nazionale).

Le vite annientate dalla cosmesi eterosessuale allignano anche tra gli sportivi (dal pugile americano Emile Griffith al pilota di Formula Uno Ayrton Senna). Una vicenda emblematica raccontata da Buffoni è quella di Pierre Seel, deportato omosessuale in un lager nazista che occulta il suo passato mettendo su famiglia (“cercare di dimenticare tacendo”) e che quando la verità diventa pubblica viene ripudiato dai figli.

Nemmeno ciò che è stato “canonizzato” è al riparo dagli agguati. Quando Macron si è proposto di tumulare insieme nel Pantheon Verlaine e Rimbaud, una pro-pronipote dell’autore di Una stagione all’inferno ha messo di mezzo gli avvocati e impedito il trasferimento. A distanza di secoli ancora un soprassalto di oscurantismo su una delle più travolgenti storie d’amore che la Francia dell’Ottocento ricordi. La lezione che nel passato come nel presente sembra sfuggire alla coscienza collettiva è messa nero su bianco da Buffoni: “Omosessuali non si nasce né si diventa. Omosessuali si è”.

Laschet pronto a lasciare la Cdu. Scholz procede con il governo

Armin Laschet è pronto a lasciare la guida del partito conservatore. Dalle elezioni di dodici giorni fa, il leader della Cdu è sotto pesanti attacchi dall’interno del partito. Il 26 settembre l’Unione ha raccolto il 25% dei voti, il peggior risultato di sempre. Laschet ripete dalla notte delle elezioni di essere in grado di formare un “governo Giamaica”, con liberali e verdi. Ma ieri è capitolato. Dopo un incontro con le varie correnti del partito, ha indetto una conferenza stampa: “Il grande progetto Giamaica non fallirà a causa delle persone”. Ma poche frasi dopo ha annunciato che guiderà la Cdu in un processo di rinnovamento. Secondo il quotidiano Bild, ci sono già le date per un congresso, a inizio dicembre. Quello di Laschet non è un vero e proprio passo indietro, ma i falchi del partito già si preparano. Il primo a commentare è stato Friedrich Merz, sfidante battuto per la guida del partito pochi mesi fa: “Armin Laschet apre la strada a un nuovo inizio oggi per la Cdu. Per questo merita rispetto e un ringraziamento. Farò del mio meglio per trovare un modo amichevole per farlo”. Tutto questo succede mentre Angela Merkel si trova a Roma, domani quando tornerà nel suo ufficio a Charlotteburg dovrà provare a ricucire le due anime del partito. La guerra civile tra i conservatori sembra dare luce verde per la “coalizione semaforo”.

Ieri sono iniziati i negoziati a tre tra socialdemocratici, verdi e liberali. Olaf Scholz, parlando alla stampa, ha detto: “Dopo i colloqui bilaterali con gli altri partiti, abbiamo deciso di proporre ai socialdemocratici e ai liberali di andare avanti insieme”. Oltre a riempire tutte le caselle dei dicasteri, i tre partiti devono scrivere un programma di governo congiunto. I temi controversi sul tavolo sono molti: salario minimo a 12 euro l’ora, crisi climatica, digitalizzazione, migrazioni, tassazione per le big-tech. Tra Verdi e socialdemocratici ci sono già diversi punti d’accordo, più freddi invece i liberali. Sono il partito più piccolo e con idee più conservatrici. In una colazione semaforo potrebbero essere costretti a fare molte concessioni, soprattutto in politica economica. La paura è quella di perdere identità e sparire alle prossime elezioni. Per non correre questo rischio Christian Lindner, presidente dell’Fdp, vorrebbe per sé il ministero delle Finanze. Così da garantirsi, in patria e in Europa, il ruolo di gestore del risparmio tedesco.

Politkovskaja: caso chiuso da 15 anni senza mandanti

Per il mondo che l’ha ammirata non abbastanza in vita e ha cominciato a farlo davvero solo dopo la sua morte, lei era “la Politkovskaja”. Negli uffici del suo quotidiano, la Novaya Gazeta, invece lei era Anna Stepanovna, con quel patronimico ereditato dal padre, diplomatico sovietico di stanza a New York quando lei è nata negli Stati Uniti nel 1958. In Russia non c’è ancora giustizia, ma c’è sempre memoria per la giornalista assassinata nel 2006, esattamente 15 anni fa, il 7 ottobre 2006. È una data che i russi ricordano: è il giorno del compleanno di Putin.

“La Novaya Gazeta era sinonimo di Anna Politkovskaja”. Questa frase che valeva anche letta al contrario la condividono veterani e giovanissimi giornalisti del quotidiano fondato nel 1993, che ha ora pubblicato il documentario Come hanno ucciso Anna. “Se in Russia fai il giornalista e non ti poni il compito di difendere i diritti umani, allora non sei giornalista. Questo era Anna”, dice la redattrice Anna Bobrova. “Non sono una corrispondente di guerra, ma una civile”. In alcune immagini inedite del filmato parla proprio Anna, prima che i suoi capelli diventassero bianchi, ma sempre dietro i suoi occhiali rettangolari. La donna che “rideva rumorosamente”, con i suoi lunghi orecchini d’argento che ciondolavano intorno al viso spigoloso, mentre correva da un incontro politico all’altro, si vede giocare col suo amatissimo cane nella sua casa sulla Frunzenskaya, dove verrà assassinata con quattro pallottole, una alla testa. Le scene delle telecamere di sorveglianza mostreranno un uomo con un cappello che si allontana velocemente da quel sangue, ma che nessuno identificherà mai. La corrispondente speciale della Novaya correva dove colavano pallottole, bombe, dolore nelle Repubbliche ribelli russe. C’era in Daghestan, in Inguscezia, ma soprattutto in Cecenia. Prima di morire stava per pubblicare un articolo sugli affari compiuti dal caudillo di Grozny, Kadyrov. In seguito la pista cecena si è allargata a dismisura e nel cerchio di quanti la volevano morta (ed erano in tanti), spuntò anche il nome di uno dei primi oligarchi russi: Boris Berezovsky, cardinale grigio responsabile dell’ascesa del presidente Eltsin, poi pigmalione di Putin, fautore delle sanguinose tregue cecene.

Chi l’ha chiamato “il padrino del Cremlino”, il giornalista Paul Klebnikov, ha condiviso il medesimo destino di Anna. Esiliato dallo stesso presidente che aveva creato, anche Berezovsky è morto: si è suicidato misteriosamente a Londra nel 2013. L’indagine complessa e lunghissima, “composta da una serie di fallimenti umani e politici”, narrata nei dettagli, senza dimenticare nessuna testimonianza falsata o depistaggio, ha condotto a un cerchio che non si è ancora chiuso. Sei persone sono state condannate per l’omicidio della giornalista, le sentenze hanno inflitto a organizzatori, intermediari, esecutori dell’omicidio condanne che vanno dagli 11 anni all’ergastolo. Tra loro c’è anche un colonnello degli Affari interni russi. Manca però il nome più importante: quello del mandante. “Siamo in un tupik, un vicolo cieco”, dice Serghey Sokolov, capo del settore inchieste del giornale. Dal 2000 sei giornalisti della Novaya sono morti: nel 2009, Natalia Estemirova, collega e amica di Anna, che aveva preso il suo posto in Cecenia, è stata rapita e poi uccisa.

Oggi la scrivania della Politkovskaja è un piccolo museo in una delle ultime redazioni indipendenti che in Russia non hanno ancora chiuso. Pochi giorni fa, in base all’art. 78 del codice penale russo, sono scaduti i termini di prescrizione delle indagini del suo assassinio. La redazione ha pubblicato un libro: Za sto, qualcosa che si può tradurre come “perché o per quale motivo”, domande che la reporter ha posto ai russi per tutta la vita. La redazione spera che queste pagine “servano a riaprire le indagini. Anna merita giustizia, noi meritiamo la verità”. Nel 2006, pochi giorni dopo la morte della giornalista, Putin promise: “Faremo tutto il necessario per trovare i criminali, la sua uccisione è un atto contro la Russia, la sua morte ha provocato più danni dei suoi articoli”. Più forti delle parole del presidente che 15 anni dopo si sono rivelate fallaci, sono state quelle profetiche scritte dalla reporter prima di morire: “Se vuoi fare il giornalista in Russia devi essere totalmente servile a Putin. Oppure ti aspetta una pallottola, il veleno, un processo o la morte”.