Nicolas-Philibert Desvernois, generale prima dei rivoluzionari e poi dell’Impero napoleonico, era così focoso e impaziente che in ogni battaglia partiva in quarta senza attendere gli ordini di Bonaparte, col pericolo di pregiudicarne le vittorie.
Per scansare i danni, Napoleone lo rimosse per excès d’entrépridité: eccesso d’intraprendenza. Temo che qualcosa del genere potrebbe capitare al ministro Brunetta che sta sfoderando sullo smart working un così debordante attivismo di esternazioni e decisioni da rischiare risultati controproducenti per tutta la Pubblica Amministrazione e creare problemi al guardingo tatticismo del suo presidente Draghi.
I dati relativi al lavoro agile nella Pubblica Amministrazione sono così sintetizzabili: su 3,2 milioni di dipendenti pubblici, 1,8 milioni (56,6%) erano in smart working nel marzo 2020, diventati 1,2 milioni (37,5%) nel maggio 2021. Applicando la quota del 15% voluta da Brunetta, il lavoro agile sarà consentito a un massimo di 500mila dipendenti.
Lo smart working è progresso ma, per adottarlo e coglierne i vantaggi, ci vuole coraggio. Invece, dietro l’irruenza con cui Brunetta lo sta affossando, si cela la sua paura della velocità e della radicalità con cui stanno cambiando sia le tecnologie che le scienze organizzative. Di qui il bisogno, per paura, di portare indietro le lancette della storia.
Per sua natura la PA è composta prevalentemente da impiegati e funzionari e il ministero ha avuto ben 19 mesi per censire quelli che svolgono mansioni telelavorabili e consentirne il lavoro lontano dall’ufficio. È questo che aveva avviato la precedente ministra Dadone, chiedendo a ciascuna amministrazione pubblica di redigere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, un Piano organizzativo del lavoro agile (POLA). Allo stato attuale il 33% di tutte le amministrazioni ha già un piano elaborato e approvato.
Ci vuole molto più coraggio per fare dello smart working il trampolino di lancio della modernizzazione della PA che per riportare tutti in ufficio, nella palude organizzativa di sempre. Tanto più che questa azione restauratrice non è condotta contro la classe operaia, ancora combattiva e intransigente, ma contro il ceto impiegatizio, da sempre arrendevole e mal sindacalizzato.
L’azione di Brunetta non richiede coraggio anche perché ricacciare tutti in ufficio riscuote il consenso dei tanti burocrati e dei tanti sindacalisti retrivi: quelli che negli anni passati hanno ostacolato lo smart working per perpetuare una forma arcaica di potere basata sul controllo fisico dei dipendenti. Il ritorno in ufficio risponde agli interessi privati di società immobiliari che hanno raddoppiato i loro profitti tenendo separati gli edifici in cui si lavora da quelli in cui si vive. Risponde agli interessi della Confcommercio, della Confesercenti, dei negozianti, dei venditori di veicoli e di carburanti, come ha sottolineato con compiacimento lo stesso Brunetta secondo cui il ritorno in ufficio, “gioverebbe ancor più ai settori del terziario urbano, come quello dell’horeca (hotel, ristoranti, bar), dell’abbigliamento e dei trasporti”. Dunque il penoso andirivieni quotidiano di milioni di pendolari è da incoraggiare affinché i lavoratori, ridotti a consumatori, siano costretti a contribuire alla ripresa pagando il doppio prezzo dell’esborso economico e dello squilibrio lavoro-vita, imposti dal pendolarismo. Intanto si tace che questo pendolarismo contribuisce all’inquinamento dell’ambiente e agli incidenti stradali: durante il lockdown del 2020 il biossido di carbonio ha subito una riduzione del 40% e l’emissione di CO2 una riduzione di circa il 7%. Rispetto ai dodici mesi del 2019, nei dodici mesi del 2020 gli incidenti stradali sono diminuiti del 31%, i morti del 24,5% e i feriti gravi del 20%.
Il ritorno coatto in ufficio, se piace ai capi retrogradi e giova a palazzinari, commercianti e petrolieri, cozza però con gli interessi di quei tanti dipendenti pubblici che, in questi 19 mesi, gettati improvvisamente allo sbaraglio del lavoro agile, tuttavia hanno fatto tesoro di questa inedita circostanza per migliorare le loro conoscenze digitali, ristrutturare il layout delle loro case, riorganizzare la loro vita familiare, creare inedite reti informatiche con capi, collaboratori e clienti, per poi vedere azzerata di colpo, senza ragione plausibile, tutta questa esperienza vissuta con generosità collaborativa, aumentando molto spesso la produttività.
Ogni mancanza di coraggio ha bisogno di pretesti. Brunetta pone alla base delle sue decisioni solo argomenti smaccatamente infondati. Sostiene, ad esempio, che durante questi 19 mesi il rallentamento degli uffici e le code agli sportelli sono state causate dallo smart working. Sostiene che la produttività è diminuita a causa dello smart working, anche se altrove ammette che “al momento non possediamo una panoramica completa delle informazioni relative all’andamento della produttività collegata al lavoro agile”. Sostiene che tutto il lavoro a distanza sperimentato in questi 19 mesi non è stato altro che una forma di lavoro domiciliare forzato, un modello regressivo e improvvisato, un self service working, un banale e certamente più comodo lavoro da casa.
Purtroppo, contrariamente a quanto Brunetta millanta, è molto probabile che, dopo il ritorno coatto in ufficio, la produttività diminuisca per almeno quattro buoni motivi. Le prestazioni in sede saranno rallentate dagli stessi sgangherati supporti tecnici e organizzativi che i lavoratori lamentavano prima della pandemia, peggiorati a causa di questi mesi di lockdown. I capi che prima della pandemia ostacolavano l’adozione dello smart working, ora considereranno il ritorno coatto in ufficio come un loro trionfo e lo gestiranno con rinnovata protervia. Quei lavoratori che in tutti questi mesi hanno svolto lavoro agile con soddisfazione ed efficienza, torneranno in ufficio controvoglia, demotivati e conflittuali. Poiché in ufficio il controllo esercitato dai capi sarà più stringente di quello subìto dai dipendenti durante questi mesi di lavoro a distanza, ciò provocherà quel fenomeno che i sociologi dell’organizzazione chiamano “circolo vizioso della burocrazia” per cui, quando aumentano i controlli cala la motivazione e, con essa, la produttività.
È significativo che il ministro, nelle numerose esternazioni e dichiarazioni di questi giorni, abbia più volte ribadito che lo smart working sarà consentito solo “in ragione di tre parametri: produttività, efficienza e customer satisfaction”. Il benessere dei lavoratori, dunque, non viene mai messo in conto. Del resto lo stesso Brunetta ha ribadito che “la PA non esiste in sé per dare uno stipendio a 3,2 milioni di dipendenti pubblici, ma esiste per fornire servizi a 60 milioni di italiani” senza capire che quei servizi saranno eccellenti solo se i 3,2 milioni di dipendenti pubblici, oltre a percepire degli stipendi, saranno trattati come persone, cioè stimati e incoraggiati dai loro capi e dal loro ministro, finalmente consapevoli che l’efficienza, l’ottimismo e la produttività non dipendono dal controllo ma dalla motivazione.
Secondo Douglas McGregor, dean della mitica MIT Sloan School of Management, coloro che sovrintendono al mondo del lavoro possono essere distinti in due categorie, che lui chiama “Teoria X” e “Teoria Y”. I primi inclinano a considerare i lavoratori tendenzialmente pigri, restii a identificarsi con l’azienda, inaffidabili, opportunisti, astuti, pronti a sfruttare qualsiasi occasione per scansare la fatica e le responsabilità. I secondi tendono a considerare i dipendenti come naturalmente motivati al proprio lavoro, inclini a un atteggiamento proattivo e leale, affidabili, impegnati, capaci di problem solving, disposti ad accollarsi responsabilità e a raggiungere autonomamente gli obiettivi che gli vengono assegnati. A vostro avviso, quale di queste due concezioni dei dipendenti pubblici nutre il ministro?