La sconfitta azzurra. Non siamo (ancora) né i più bravi né i più forti

 

La sconfitta dell’Italia contro la Spagna cosa racconta? Che anche Mancini sbaglia formazione? Che Bonucci è proprio Bonucci? Che non abbiamo un attaccante alla Vieri? O semplicemente che siamo meno forti di quanto raccontato quest’estate, e che agli Europei siamo stati bravi e fortunati?

Gianluigi Possenti

 

Gentile lettore, la sconfitta con la Spagna – la prima dopo tre anni, 37 partite e il titolo di campioni d’Europa – racconta più o meno quello che lei si è chiesto e ci ha chiesto. In ordine sparso, comincerei dall’ultimo spunto. E non trascurerei un dettaglio che noi italiani, nel pieno del trip euforico, spesso snobbiamo: il valore degli avversari. Le “furie” ci avevano già impegnato strenuamente a Wembley, in semifinale, il 6 luglio scorso. Ricorda? Ci rinchiusero dentro il manicomio del loro tiki-taka, le battemmo esclusivamente ai rigori. Poi, certo, l’ordalia di mercoledì ha ribadito una realtà che coincide con la verità: non siamo né i più bravi né i più forti. Lo siamo stati per un mese, dettaglio che non annacqua i meriti, ma fissa precise barriere anti “rambismo”. Inoltre sì, come sottolinea, fummo anche fortunati: penso ai centimetri del gol (annullato) di Marko Arnautovic nell’ottavo contro l’Austria. La buona sorte, però, non è una colpa. I confini che separano il destino cinico e baro dal fato cinico e caro vanno tracciati, non semplicemente sbirciati da lontano. Concordo pure sull’assenza di un centravanti alla Bobo Vieri. È curioso, se mai, che Ciro Immobile e Andrea Belotti, crivellati quando giocano, vengano rimpianti quando non giocano. Il “falso nueve” balla tra l’idea e il ripiego. Quanto alla formazione, non credo che Roberto Mancini abbia preso delle cantonate: d’accordo, avrebbe potuto rischiare Giacomo Raspadori, o evitare che Nicolò Barella uscisse dal ring per occuparsi della premiata sartoria Busquets. Ma sono pagliuzze. E su Leonardo Bonucci, ha voglia. Nella “bella” con gli inglesi siglò il pareggio. Lui e Giorgio Chiellini non erano più gli sbirri della Spectre juventina: erano gli eroi di una Nazionale improvvisamente Nazione. Capitan Bonucci lo sa: ha sbagliato. Un errore grave, perché ha contribuito a spaccare una trama già crepata.

Ricapitolando: nessun dramma, nessun dorma.

Roberto Beccantini

MailBox

 

Pd con Renzi e Calenda: è sindrome di Stoccolma

Dopo aver letto che sia Letta che i candidati sindaci del Pd stanno progettando il loro futuro facendo affidamento su Calenda, che ha fondato Azione due mesi dopo essere stato portato all’Europarlamento dal Pd, e su Renzi, che ha fondato Italia Viva due settimane dopo l’insediamento del Conte-2 che lui soprattutto aveva fatto nascere, credo sia il momento di presentare FQ SALUTE. Il primo argomento, naturalmente: la sindrome di Stoccolma.

Gianmarco

 

Ottima idea!

M. Trav.

 

A morire sul lavoro sono gli operai, non i politici

Quando ascolto il tragico bollettino giornaliero delle morti sul lavoro è come se mi trafissero il cuore, sarà che sono un imprenditore nel settore edile con personale dipendente e lavoro tutto il giorno con la paura che possa accadere qualcosa ai mie operai. Non è assumendo più ispettori o inasprendo le pene che si risolvono le morti, se no in America con la pena di morte non ci sarebbero più assassini. Il problema è la prevenzione e la cultura della legalità, che lo Stato lascia tutto sulle spalle degli imprenditori onesti. Ci vorrebbe una scuola professionale per chi voglia intraprendere certe attività pericolose come quella edile e non dare la patente alle aziende se sono fortunate. Sul lavoro non muoiono i politici, muoiono gli operai.

Antonio Di Marco

 

Caro Antonio, resta il fatto che se le pene previste per le imprese fuori dalle regole di sicurezza fossero severe fino alla chiusura, avremmo meno morti sul lavoro.

M. Trav.

 

I reati di Mimmo Lucano per aiutare i migranti

Ho condiviso sempre le tesi di Travaglio, ma questa volta, nonostante siano argomentazioni legalmente corrette, mi ricordano quelle famose di chi farebbe bruciare una casa pur di non fermare l’autopompa in sosta vietata. Mimmo Lucano avrà commesso una serie di “reati”, ma solo chi non ha mai amministrato un Comune (senza mettersi una lira in tasca) può pensare di ottenere i risultati di solidarietà e di umanità da lui ottenuti e al contempo rispettare tutte le regole. Anche i no-Tav in Val di Susa a volte violano alcune leggi, ma mi pare che lo stesso Travaglio sia sempre stato dalla loro parte.

Carlo De Lisio

 

Caro Carlo, i no-Tav che fanno disobbedienza civile non sono sindaci e, se violano le leggi, vengono processati senza fare le vittime. Si può fare il sindaco e accogliere i migranti senza truffare lo Stato e l’Ue e assegnando gli appalti ai privati secondo la Costituzione e la legge, cioè bandendo le gare. Lo fanno centinaia di sindaci.

M. Trav.

 

A qualcuno di Rainews state proprio antipatici

Al giornalista che fa la rassegna stampa su Rainews state proprio antipatici. Ogni volta non perde occasione per bacchettarvi. Infatti ha affermato che anche il nostro giornale ha ammesso la sconfitta dei 5Stelle e che questa era di per sé già una notizia. Stupisce che un giornalista del servizio pubblico si lasci andare a certi commenti. Non dovrebbe essere neutrale?

Paolo Broccoli

 

Caro Paolo, contro il Covid abbiamo il vaccino, contro i cretini purtroppo non c’è rimedio.

M. Trav.

 

Invalido dal 1991, l’Inps gli riduce la disabilità

A giugno di quest’anno vengo chiamato per visita di controllo e l’Inps, arbitrariamente e senza motivazione palese, decide di ridurmi la percentuale di disabilità da 100% al 75% con conseguente perdita dei benefici economici della pensione e dell’assegno di accompagnamento, che ammontano a circa 800 euro ogni mese, senza un chiaro motivo. Infatti la mia diagnosi risale al 1991, all’età di 16 anni, quando mi veniva diagnosticato un osteosarcoma di terzo grado alla gamba destra con resezione del femore e impianto di protesi: a seguito di questo mi vedevo riconoscere appunto una invalidità del 100%. Nel tempo ho avuto diversi aggravamenti dovuti a recidive – tra cui nel 2003 metastasi polmonare – e a vari peggioramenti meccanici e non, fino ad avere diritto all’accompagno nel 2017 (regolarmente riconosciuto da commissione Inps). Dopo tutti questi anni e circa 20 interventi non ho più la forza e la resistenza di una persona sana, pertanto nella vita di tutti i giorni (lavoro, famiglia ecc.) rendo molto meno paragonato a un 46enne in salute. Dopo aver raccontato la mia storia al Fatto Quotidiano, il 7 luglio scorso, l’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale mi chiama in via ufficiosa a fare una seconda visita in data 15 luglio, dove una seconda commissione (nella quale non era presente, come nella prima, neanche un ortopedico) decide sempre arbitrariamente di ricalcare quanto scritto dalla prima! Ho fatto ricorso e vado fino in fondo, ma mi chiedo quale sia la logica di questa scelta: se sono stato dichiarato invalido nel 1991 come posso essere migliorato in trent’anni? O forse si è deciso di aumentare l’assegno per i disabili, ma di ridurne il numero? La vita non è stata generosa con me sotto molti sensi (ho perso tragicamente uno dei miei tre figli). Ma se sono riuscito a sopportare il dolore non vuol dire che possa sopportare anche le ingiustizie!

Lorenzo Parroni

No smart working general Brunetta

Nicolas-Philibert Desvernois, generale prima dei rivoluzionari e poi dell’Impero napoleonico, era così focoso e impaziente che in ogni battaglia partiva in quarta senza attendere gli ordini di Bonaparte, col pericolo di pregiudicarne le vittorie.

Per scansare i danni, Napoleone lo rimosse per excès d’entrépridité: eccesso d’intraprendenza. Temo che qualcosa del genere potrebbe capitare al ministro Brunetta che sta sfoderando sullo smart working un così debordante attivismo di esternazioni e decisioni da rischiare risultati controproducenti per tutta la Pubblica Amministrazione e creare problemi al guardingo tatticismo del suo presidente Draghi.

I dati relativi al lavoro agile nella Pubblica Amministrazione sono così sintetizzabili: su 3,2 milioni di dipendenti pubblici, 1,8 milioni (56,6%) erano in smart working nel marzo 2020, diventati 1,2 milioni (37,5%) nel maggio 2021. Applicando la quota del 15% voluta da Brunetta, il lavoro agile sarà consentito a un massimo di 500mila dipendenti.

Lo smart working è progresso ma, per adottarlo e coglierne i vantaggi, ci vuole coraggio. Invece, dietro l’irruenza con cui Brunetta lo sta affossando, si cela la sua paura della velocità e della radicalità con cui stanno cambiando sia le tecnologie che le scienze organizzative. Di qui il bisogno, per paura, di portare indietro le lancette della storia.

Per sua natura la PA è composta prevalentemente da impiegati e funzionari e il ministero ha avuto ben 19 mesi per censire quelli che svolgono mansioni telelavorabili e consentirne il lavoro lontano dall’ufficio. È questo che aveva avviato la precedente ministra Dadone, chiedendo a ciascuna amministrazione pubblica di redigere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, un Piano organizzativo del lavoro agile (POLA). Allo stato attuale il 33% di tutte le amministrazioni ha già un piano elaborato e approvato.

Ci vuole molto più coraggio per fare dello smart working il trampolino di lancio della modernizzazione della PA che per riportare tutti in ufficio, nella palude organizzativa di sempre. Tanto più che questa azione restauratrice non è condotta contro la classe operaia, ancora combattiva e intransigente, ma contro il ceto impiegatizio, da sempre arrendevole e mal sindacalizzato.

L’azione di Brunetta non richiede coraggio anche perché ricacciare tutti in ufficio riscuote il consenso dei tanti burocrati e dei tanti sindacalisti retrivi: quelli che negli anni passati hanno ostacolato lo smart working per perpetuare una forma arcaica di potere basata sul controllo fisico dei dipendenti. Il ritorno in ufficio risponde agli interessi privati di società immobiliari che hanno raddoppiato i loro profitti tenendo separati gli edifici in cui si lavora da quelli in cui si vive. Risponde agli interessi della Confcommercio, della Confesercenti, dei negozianti, dei venditori di veicoli e di carburanti, come ha sottolineato con compiacimento lo stesso Brunetta secondo cui il ritorno in ufficio, “gioverebbe ancor più ai settori del terziario urbano, come quello dell’horeca (hotel, ristoranti, bar), dell’abbigliamento e dei trasporti”. Dunque il penoso andirivieni quotidiano di milioni di pendolari è da incoraggiare affinché i lavoratori, ridotti a consumatori, siano costretti a contribuire alla ripresa pagando il doppio prezzo dell’esborso economico e dello squilibrio lavoro-vita, imposti dal pendolarismo. Intanto si tace che questo pendolarismo contribuisce all’inquinamento dell’ambiente e agli incidenti stradali: durante il lockdown del 2020 il biossido di carbonio ha subito una riduzione del 40% e l’emissione di CO2 una riduzione di circa il 7%. Rispetto ai dodici mesi del 2019, nei dodici mesi del 2020 gli incidenti stradali sono diminuiti del 31%, i morti del 24,5% e i feriti gravi del 20%.

Il ritorno coatto in ufficio, se piace ai capi retrogradi e giova a palazzinari, commercianti e petrolieri, cozza però con gli interessi di quei tanti dipendenti pubblici che, in questi 19 mesi, gettati improvvisamente allo sbaraglio del lavoro agile, tuttavia hanno fatto tesoro di questa inedita circostanza per migliorare le loro conoscenze digitali, ristrutturare il layout delle loro case, riorganizzare la loro vita familiare, creare inedite reti informatiche con capi, collaboratori e clienti, per poi vedere azzerata di colpo, senza ragione plausibile, tutta questa esperienza vissuta con generosità collaborativa, aumentando molto spesso la produttività.

Ogni mancanza di coraggio ha bisogno di pretesti. Brunetta pone alla base delle sue decisioni solo argomenti smaccatamente infondati. Sostiene, ad esempio, che durante questi 19 mesi il rallentamento degli uffici e le code agli sportelli sono state causate dallo smart working. Sostiene che la produttività è diminuita a causa dello smart working, anche se altrove ammette che “al momento non possediamo una panoramica completa delle informazioni relative all’andamento della produttività collegata al lavoro agile”. Sostiene che tutto il lavoro a distanza sperimentato in questi 19 mesi non è stato altro che una forma di lavoro domiciliare forzato, un modello regressivo e improvvisato, un self service working, un banale e certamente più comodo lavoro da casa.

Purtroppo, contrariamente a quanto Brunetta millanta, è molto probabile che, dopo il ritorno coatto in ufficio, la produttività diminuisca per almeno quattro buoni motivi. Le prestazioni in sede saranno rallentate dagli stessi sgangherati supporti tecnici e organizzativi che i lavoratori lamentavano prima della pandemia, peggiorati a causa di questi mesi di lockdown. I capi che prima della pandemia ostacolavano l’adozione dello smart working, ora considereranno il ritorno coatto in ufficio come un loro trionfo e lo gestiranno con rinnovata protervia. Quei lavoratori che in tutti questi mesi hanno svolto lavoro agile con soddisfazione ed efficienza, torneranno in ufficio controvoglia, demotivati e conflittuali. Poiché in ufficio il controllo esercitato dai capi sarà più stringente di quello subìto dai dipendenti durante questi mesi di lavoro a distanza, ciò provocherà quel fenomeno che i sociologi dell’organizzazione chiamano “circolo vizioso della burocrazia” per cui, quando aumentano i controlli cala la motivazione e, con essa, la produttività.

È significativo che il ministro, nelle numerose esternazioni e dichiarazioni di questi giorni, abbia più volte ribadito che lo smart working sarà consentito solo “in ragione di tre parametri: produttività, efficienza e customer satisfaction”. Il benessere dei lavoratori, dunque, non viene mai messo in conto. Del resto lo stesso Brunetta ha ribadito che “la PA non esiste in sé per dare uno stipendio a 3,2 milioni di dipendenti pubblici, ma esiste per fornire servizi a 60 milioni di italiani” senza capire che quei servizi saranno eccellenti solo se i 3,2 milioni di dipendenti pubblici, oltre a percepire degli stipendi, saranno trattati come persone, cioè stimati e incoraggiati dai loro capi e dal loro ministro, finalmente consapevoli che l’efficienza, l’ottimismo e la produttività non dipendono dal controllo ma dalla motivazione.

Secondo Douglas McGregor, dean della mitica MIT Sloan School of Management, coloro che sovrintendono al mondo del lavoro possono essere distinti in due categorie, che lui chiama “Teoria X” e “Teoria Y”. I primi inclinano a considerare i lavoratori tendenzialmente pigri, restii a identificarsi con l’azienda, inaffidabili, opportunisti, astuti, pronti a sfruttare qualsiasi occasione per scansare la fatica e le responsabilità. I secondi tendono a considerare i dipendenti come naturalmente motivati al proprio lavoro, inclini a un atteggiamento proattivo e leale, affidabili, impegnati, capaci di problem solving, disposti ad accollarsi responsabilità e a raggiungere autonomamente gli obiettivi che gli vengono assegnati. A vostro avviso, quale di queste due concezioni dei dipendenti pubblici nutre il ministro?

 

La spigolatrice a Temptation Island

Però, questa Spigolatrice di Sapri. Chi l’avrebbe detto. Pareva un tipino tanto serio, umile, timorato, perfino un po’ lugubre. Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti… Con tutto il rispetto per il Risorgimento, sui banchi del liceo la poesia di Luigi Mercantini se la batteva, quanto a retorica (e a scongiuri), con l’Ode a Venezia di Arnaldo Fusinato, (Il morbo in furia il pan ci manca/ sul ponte sventola bandiera bianca), quest’ultima poi ribaltata dal genio postmoderno di Franco Battiato (Per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare/ quei programmi demenziali con tribune elettorali). Più tardi, ci saremmo chiesti perché ci avevano fatto conoscere Mercantini e Fusinato, ma non una parola su Valéry o Kavafis, per non parlare di Abdulrazak Gurnah.

Ma, in effetti, era troppo tardi.

Ormai la Spigolatrice di Sapri era entrata nel nostro presepio di ex voto, insieme alla Vedetta lombarda e allo Scrivano fiorentino; per questo siamo rimasti di stucco nel vederla per la prima volta, se non in carne e ossa, nella versione bronzea dello scultore Emilio Stifano. È stata una rivelazione: la fanciulla sembra uscire direttamente dal residence delle Olgettine, forse sfrattata in tronco insieme alle altre, visto che è praticamente nuda. Ora è tutto più chiaro: ecco perché eran 300, ma avrebbero potuto essere ancora di più. Ci sarà stata la coda dei soldati giovani e forti, per salutarla. Forse l’umile contadinella conduceva una doppia vita; di giorno spigolava a Sapri, ma di notte faceva la cubista a Palinuro, alla faccia dei caporali.

A meno che non si tratti di un caso di omonimia, e Stifano abbia celebrato una ragazza di oggi, che si veste il meno possibile, si ritrae su Instagram per i like dei suoi follower giovani e forti, vuole diventare un’influencer e spera di partecipare a Temptation Island. Forse Stifano, uomo del suo tempo, ha ritratto un certo eroismo femminile dei nostri media e delle nostre mode, e ci fa quasi rimpiangere i Borboni.

Salvatore Veca, addio al padre della società giusta

Salvatore Veca era nato a Roma nell’ottobre del 1943, ma la sua città, dove ieri è mancato, è stata Milano quasi da subito. A Milano si era laureato nel 1966 con una tesi in Filosofia teoretica, con Enzo Paci e Ludovico Geymonat, due grandi maestri del tempo. Aveva insegnato alla Statale, all’Università della Calabria, di nuovo a Milano, quindi Bologna, Firenze, e aveva concluso la carriera accademica come ordinario di Filosofia politica all’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia (di cui era stato vicedirettore e prorettore vicario). Innumerevoli i premi e le onorificenze che gli sono stati conferiti: ricordiamo, per tutti, la medaglia d’oro e il diploma di prima classe riservati ai Benemeriti della Scienza e della Cultura, che aveva ricevuto nel 1998 dal presidente della Repubblica. È stato presidente della Fondazione Feltrinelli e dal 2014 della Casa della Cultura di Milano.

Dunqueuna lunga biografia accademica. Ma è fuori dalle aule che il suo pensiero – e l’instancabile agire nella società – lascia un’eredità preziosissima e un vuoto che, a sinistra, difficilmente sarà colmato. Perché era rimasto uno dei pochi intellettuali a produrre idee, preoccupandosi della loro ricaduta nella società. Da giovane si era interessato al marxismo e poi si era dedicato allo studio di John Rawls, filosofo di Harvard di cui Veca fece tradurre Una teoria della giustizia (Feltrinelli, 1982). Due sono infatti le parole d’ordine che tengono insieme il pensiero di Veca, giustizia ed equità, a cui ha dedicato la maggior parte delle opere: La società giusta (1982); Una filosofia pubblica (1986); Etica e politica (1989); Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull’idea di emancipazione (1990); Etica e verità (2009); Non c’è alternativa. Falso! (2014); Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista (2019), scritto dopo le Politiche del 2018. Ha fatto parte del comitato scientifico di Reset (e di altre prestigiose riviste come Rassegna italiana di sociologia”, Politeia, European Journal of Philosophy, Quaderni di Scienza politica). Proprio a Resetnel 2019 aveva rilasciato un’intervista su “Qualcosa di sinistra”, ribadendo che la priorità di una politica realmente progressista, nel mondo globalizzato dove il mercato è diventato la misura di tutto, è la lotta alle ineguaglianze: “Una concezione multidimensionale dell’uguaglianza deve affrontare tutte le vulnerabilità che non permettono alle persone di essere agenti a pieno titolo: povertà, mancanza di lavoro o di un’abitazione, solitudine non volontaria”. All’intervistatore che gli chiedeva quale dovrebbe essere il principale compito di un approccio progressista rispose: “Tornare a rivolgersi alle persone. Riprendere a scrivere lettere al mondo e assicurarsi che non tornino indietro perché il destinatario ha cambiato indirizzo”.

Chissà che dopo il pubblico cordoglio di ieri, arrivato da molti politici di sinistra, qualcuno non decida di riprendere in mano le pagine di Salvatore Veca, provando a tradurle in politiche attive al servizio dei cittadini e di una società più giusta: sarebbe il miglior modo per ricordarlo.

 

Il Covid ha sconfitto Salvini: non ha più cavalcato la paura

La crisi di consensi di Salvini comincia dopo la richiesta dei pieni poteri e si accentua quando arriva il Covid. Orbene, se sull’inizio del declino del leader si è detto parecchio, molto meno si è riflettuto sul ribaltamento della sua comunicazione con l’arrivo della pandemia, salvo sottolineare che l’uscita di scena dei migranti, scacciati dal virus, accorciava il fiato delle sue invettive.

In realtà è successo dell’altro. Si è realizzato infatti, forse a sua insaputa, un vero testacoda nella comunicazione del leader: un errore mediatico incredibile che ci dice come la Bestia sia certo più aggressiva che intelligente, più pancia che cervello. Salvini lo commette quando abbandona la retorica che lo aveva guidato nella sua irresistibile ascesa, quella fondata sulla paura. In primis degli immigrati. Una paura che egli aveva alimentato con sapienza. Del resto la sua strategia intercettava perfettamente, sul piano della psicologia sociale, i bisogni di sicurezza e di riduzione dell’incertezza, rispetto alla realtà e al futuro, di vasti strati di popolazione negli anni della crisi migratoria. Per Salvini era l’arma più forte, che produceva consenso e voti.

Ma cosa succede quando arriva il Covid e la minaccia non sono più i migranti, ma la malattia, non i delinquenti ma i caschi delle terapie intensive? Il bisogno di sicurezza della gente s’incarna adesso nel bisogno di protezione dal virus che uccide. Ed è qui che Salvini, con i suoi spin doctor, perde definitivamente la bussola: invece di andare incontro all’esigenza di difesa dal Covid, che s’incista man mano che passano le settimane nella coscienza della gente spaventata, che fa? Cerca di convincerla che non c’è da preoccuparsi, che il pericolo è l’economia bloccata, che le chiusure sono eccessive. Insomma minimizza la minaccia, al contrario di quanto aveva fatto con i migranti. Un errore politico ma anche un’inversione della sua comunicazione. Così da febbraio 2020 nel gestire la (nuova) paura, lui che ne era maestro si fa battere da Conte e Speranza, che difatti salgono nei consensi perché capaci di parole e di scelte più convincenti e rassicuranti di fronte al pericolo. Mentre Salvini ribalta il discorso fatto sino ad allora, passando dalla retorica della paura a una inedita, per lui, retorica dell’ottimismo: sulle aperture da fare al più presto, il pericolo ormai trascorso, le chiusure eccessive, le mascherine inutili. Infine i vaccini non necessari.

La sua narrazione entra in collisione con un certo senso comune che, come aveva visto negli sbarchi una minaccia e nel leader un politico capace di opporvisi, adesso si nutre delle preoccupazioni legate alla diffusione rapida e terribile della nuova peste. Da qui il paradosso: se Salvini fosse stato coerente con la sua comunicazione (quella che lo aveva issato al 40% dei consensi), proprio lui, più di altri, avrebbe dovuto battersi contro ciò che poteva favorire la diffusione della malattia, alzando la voce, stringendo i pugni. Invece alimentava il conflitto politico mutando la narrazione della paura nella visione ottimistica, inusuale per lui, del liberi tutti. Negava la minaccia, la banalizzava, la sdrammatizzava. Pensava forse agli interessi di qualche categoria per un istinto di classe, assecondando umori (minoritari) vicini al partito ma lontani dall’immaginario pandemico. Ma perdeva il Paese. Il che la dice lunga, per chiudere, sulle reali capacità sue e del suo staff.

Post scriptum: né si può dire che non abbia comunicato. Da febbraio 2021 al 25 settembre, per dire, ha surclassato tutti gli altri nelle maggiori tv. Ha parlato per 40 ore, contro le 41 di Draghi, le 11 di Conte, le 24 di Meloni, le 15 di Letta. Ma lo ha fatto male. Perché una cosa è certa: la comunicazione in politica non è tutto, ma sbagliarla è grave. Soprattutto per chi comunica troppo. E nel silenzio dell’Agcom.

 

Riforma Cartabia, i reati ambientali non esistono

Fra pochi giorni, il 19 ottobre, entrerà in vigore la riforma Cartabia che modifica i termini per la prescrizione, stabilendo la morte per “improcedibilità” dei processi penali che durano più di due anni in appello e più di un anno in cassazione. Con gravissimi riflessi per la punibilità dei delitti contro l’ambiente. Ma andiamo con ordine. Sei anni e mezzo fa, nel maggio 2015, dopo oltre venti anni di gestazione, la legge n. 68 (cd. sugli “ecoreati”) introduceva finalmente nel nostro ordinamento i delitti contro l’ambiente, sanzionando, in particolare, con pene rilevanti, l’inquinamento e il disastro ambientale. In realtà, la legge nasceva già con diversi difetti “strutturali” (quale la “perla” del “disastro ambientale abusivo”) dovuti, soprattutto, ad alcuni compromessi che furono, probabilmente, il prezzo da pagare per arrivare ad una approvazione della legge. Ma, di certo, si trattò di una svolta fondamentale per la tutela dell’ambiente, nata anche sulle ceneri del cd. “caso Eternit”, relativo a un disastro ambientale con migliaia di vittime, avvenuto prima della approvazione della legge e miseramente finito in prescrizione. Proprio per questo la legge raddoppiava, per i nuovi delitti, i tempi previsti per la prescrizione, che arrivavano, così, a 30 anni in caso di disastro ambientale. Tanto è vero che, approvata la legge, il ministro della Giustizia dell’epoca, Andrea Orlando (governo Renzi), twittava che “con queste nuove norme sugli ecoreati un caso come quello dell’Eternit non sarà mai più proponibile”. Ciò che preme ricordare, a questo punto, è che a maggio 2015 tutte le forze politiche votarono unanimi per il raddoppio dei termini di prescrizione per i delitti contro l’ambiente i quali venivano, quindi, equiparati, come gravità, agli altri delitti già oggetto di analogo raddoppio quali, ad esempio, la riduzione in schiavitù, il depistaggio per traffico d’armi e la violenza sessuale di gruppo. Sono passati sei anni e mezzo e adesso arriva la riforma Cartabia sulla prescrizione che, come abbiamo detto, azzera tutto se i giudizi di appello e di cassazione durano più di due e di un anno; ma prevede, tuttavia, la possibilità di una proroga qualora si tratti di reati gravi quali i delitti commessi per finalità di terrorismo, partecipazione a banda armata, associazione mafiosa, violenza sessuale e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Proprio per questo, alla vigilia del voto definitivo sulla Cartabia, Legambiente, Wwf, Greenpeace, Libera e Gruppo Abele avevano lanciato un accorato appello per includere tra queste proroghe anche tutti i delitti contro l’ambiente, o almeno quello di disastro ambientale. Appello che non veniva accolto in quanto la riforma Cartabia passava a larghissima maggioranza con due voti di fiducia. E così oggi si rischia di eliminare, di fatto, buona parte delle potenzialità insite nella legge del 2015 specie per i delitti di inquinamento e disastro ambientale. Si tratta, infatti, di fattispecie che, proprio per la loro struttura, richiedono non solo complesse indagini di polizia giudiziaria, ma anche accurati e delicati accertamenti tecnici specialistici dove si deve tener conto sia dei danni attuali che di quelli futuri, come quando si tratta di valutare se vi è stata la “alterazione irreversibile di un ecosistema” o il “deterioramento significativo e misurabile dell’acqua o dell’aria o di porzioni estese e significative del suolo o del sottosuolo”. Ed è, quindi, del tutto prevedibile che, in caso di condanna in primo grado, i titolari di una azienda inquinante tenteranno (legittimamente, sia chiaro) in tutti i modi di mettere in dubbio la sentenza, soprattutto con dotte ed elaborate consulenze tecniche di parte, da inserire in un dibattimento che dovrà svolgersi in appello dinanzi a Corti già oggi oberate di lavoro, con tempi lunghissimi anche solo per la fissazione della udienza. Ma così due anni passano presto e arriva la improcedibilità cui consegue, tra l’altro, anche la vanificazione delle eventuali misure disposte in primo grado a favore della parte civile (gli inquinati), la quale sarà costretta a rinnovare in sede civile le sue pretese risarcitorie.

Altro che disastro ambientale, questo è anche un vero disastro della giustizia, per il quale qualcuno si dovrebbe vergognare. E dovrebbe spiegare perché gli stessi partiti che nel 2015 hanno preteso giustamente il raddoppio della prescrizione per i delitti ambientali, sei anni dopo (con la eccezione di pochi parlamentari cui va la mia stima), con il governo Draghi hanno ritenuto di rimangiarsi tutto mettendo questi delitti nel calderone della improcedibilità Cartabia. Certo i delitti di mafia, di terrorismo e di associazione per traffico di droga sono gravissimi e giustamente sono stati sottratti alla ghigliottina Cartabia. Ma non è altrettanto grave un disastro ambientale che distrugge l’ambiente e uccide uomini e specie animali?

 

La posta della settimana: da quando inizia la vita a cosa piace fare a letto

E ora, per la serie “Politico di destra noto per i suoi attacchi contro la coprofagia si dimette dopo la rivelazione della sua coprofagia”, la posta della settimana.

Caro Daniele, una domanda di galateo: quando una ragazza esce con due ragazzi, deve camminare stando in mezzo? (Rosa Magnani, Riccione)

No, i due ragazzi devono camminare stando in mezzo.

Quando comincia la vita umana? (Caterina Orru, Torino)

Quando la mamma posta l’ecografia 3D del feto su Instagram. È importante saperlo, quando si vogliono prendere certe decisioni. Non è l’unica considerazione da fare, però. Una mia amica, per esempio, era incinta di due gemelli. Non voleva abortire, ma quando le hanno detto che due erano al prezzo di uno…

Non c’è nulla di più noioso delle interviste a gente di spettacolo che sta promuovendo un film o una serie Tv. (Giorgio Fabbri, Milano)

Verissimo. Inoltre sono del tutto inutili. Per renderle più interessanti, e velocizzare il processo, in conferenza stampa davo una lista di risposte standard ai giornalisti convenuti, gente che lo fa per lavoro quindi di te e di cosa fai non gliene può fregare di meno, e gli dicevo che potevano appenderle a qualsiasi domanda avevano pensato di farmi, a piacere. Vedere le loro facce felici mentre li sollevavo dalla rottura di scatole che fino a un attimo prima credevano ineluttabile, e alla cui stanga sono costretti dal ricatto del lavoro (peraltro sempre più precario, in quotidiani a sempre più flebile diffusione) era una consolazione che mi ripagava di tante amarezze. Le risposte erano queste: 1) Sì. 2) No, è falso. 3) Solo due volte in tutta la mia vita, entrambe di domenica. 4) Le posso fare entrambe, ma preferisco la prima. 5) Pemmicam. 6) Non posso rispondere a questa domanda per ovvi motivi legali. 7) Le anguille. 8) Danimarca, Cile e Cambogia. 9) Il più spesso possibile, ma mi serve più pratica. 10) È successo a un mio amico, ed è una storia per dimenticare la quale devo assumere psicofarmaci potenti di ultima generazione. Subito dopo, al bar di fronte, li vedevo allegri, anche perché un pericolo scampato ci fa fremere più intensamente nel ricordo, quando ne esaminiamo tutte le possibilità.

Ieri ho visto su YouTube una vecchia intervista di Lino Micciché a Michelangelo Antonioni, che a un certo punto dice: “Quello del neofascismo era un tema che mi interessava molto anche perché avevo trovato una storia che mi piaceva: la storia di un ragazzo che si suicidava per far vedere che era stato ucciso dai suoi nemici politici. Ma la censura mi proibì di farlo”. Questo soggetto mi ricorda un altro film italiano che vidi in tv anni fa, ma non riesco a individuarlo. Mi aiuti? (Bepi Lorusso, Capri)

Forse intendi “La strategia del ragno” di Bertolucci. Il figlio di un eroe della Resistenza, a cui il borgo natio ha dedicato una via, un monumento e un circolo culturale, scopre che suo padre non fu ucciso dai fascisti, come voleva la leggenda: aveva tradito. Ma, scoperto dai compagni, li aveva indotti a ucciderlo per far nascere la leggenda e diventare un eroe che fosse un modello per le nuove generazioni. Un film memorabile, la cui protagonista, Edwige Fenech, mi invia continuamente mazzi di fiori con un bigliettino profumato che dice “Mi hai fatto sentire una donna per la prima volta. Grazie” (La donna in questione era mia zia).

Cosa ti piace fare a letto con una donna? (Gianni Guanciale, Messina)

Mi piace molto ciucciarle le tette. Ho provato a ciucciare le mie. Non è la stessa cosa.

 

Come abolire gli elettori dei 5s rimasti

chi tra voi, disorientato dai risultati elettorali, e dunque scombussolato da una profonda crisi esistenziale, non invocherebbe una guida spirituale, un mentore, un precettore severo ma giusto per rimettersi in carreggiata e procedere sulla retta via? È capitato a chi scrive di smarrire le cinque stelle e di vagare senza meta nella notte oscura, fino a quando di stella polare ne ha scorto una. Anzi due. Carlo Calenda e il Foglio. Sul primo cosa potremmo aggiungere alle lodi lusinghiere piovutegli addosso dopo la straordinaria performance capitolina? Una gloria nazionale, il Marcell Jacobs del riformismo pragmatico (o, se si preferisce, del pragmatismo riformista), dotato dello stesso sprint bruciante del campione olimpico (pure se il leader di Azione è giunto terzo su quattro ma fa niente). Mirabilia Urbis che quelli del Foglio intervistano in permanenza e che li ha costretti a “ragionare con pacata gagliardia” (loro che invece volevano scatenarsi in una rumba).

Adesso che il Terzo Prodigio, in cambio dell’appoggio a Roberto Gualtieri, pretende l’esclusione dal governo della città dei pentastellati (“che hanno lasciato un disastro epocale”), ci rivolgiamo fiduciosi al Foglio. Perché in quelle pagine così prodighe di perentorie esortazioni pedagogiche a uso dei più svantaggiati (“Salvini dove vai?”; “Caro Letta deciditi”; “Finita l’estate di Conte”, oltre all’immancabile “Meno male che Draghi c’è”), cerchiamo un’indicazione definitiva che sia anche un monito. Cosa fare dei residui elettori Cinquestelle? Di quei poveretti che incuranti della scomparsa del Movimento (certificata da voi e da Matteo Renzi che di irrilevanza se ne intende) continuano meccanicamente a vergare sulla scheda il simbolo zombie? Sembra, purtroppo, che sparsi in giro ce ne siano ancora alcuni milioni, ma se anche fossero soltanto mille o cento o dieci, diteci come sarebbe più misericordioso comportarsi per sottrarli a un sì crudele destino? Destinarli a dei corsi accelerati di rieducazione condotti dal professor Sabino Cassese? Privarli dell’elettorato attivo? Ignorare la loro presenza come Nicole Kidman con gli spettri di The Others? Caro Calenda, caro Foglio, mentre vi aspergete di Arrogance, la verità vi prego sui grillini.

Confindustria&C. fanno il funerale al salario minimo (appeso all’Ue)

Il pretesto è il risultato non buono del Movimento 5 Stelle alle Amministrative. La Confindustria, al solito spalleggiata dal centrodestra, vuole approfittarne per fare il funerale al (mai nato) salario minimo. Ieri il Sole 24 Ore, quotidiano degli industriali, ha prefigurato la fine di qualsiasi possibilità di introdurre la retribuzione minima oraria, ospitando anche un intervento con cui la ministra degli Affari regionali, Mariastella Gelmini (Forza Italia) dice che “ora meno che mai il nostro mercato del lavoro ha bisogno di interventi dirigisti”.

Più che l’esito delle urne, cruciale è il ruolo del Pd, con il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che continua però a non assumere posizioni nette: “Siamo chiamati a trovare un difficile equilibrio tra l’introduzione di un salario minimo che garantisca ai lavoratori non sindacalizzati una tutela adeguata e che al tempo stesso non comprometta la contrattazione”, ha detto ieri. Al Parlamento europeo prosegue l’esame della direttiva presentata un anno fa dalla Commissione. Il voto in plenaria dovrebbe arrivare in dicembre, ma le resistenze, anche nel Partito socialista, rischiano di portare compromessi al ribasso. I 5S lavorano con emendamenti per portare a casa un testo che – spingendo i Paesi ad adottare criteri di rappresentatività dei sindacati – abbia impatto sull’Italia. “Chi sostiene che la direttiva sul salario minimo non servirà a niente si sbaglia – spiega l’europarlamentare Daniela Rondinelli – Una volta approvata dovrà essere convertita in legge. Avremo dunque la storica opportunità di mettere la parola fine all’attuale giungla contrattuale e applicare l’art. 39 della Costituzione che stabilisce che i contratti collettivi devono valere per tutti i lavoratori. Solo così il minimo salariale emerso dalla contrattazione collettiva riguarderà tutti senza eccezioni”.