Stranieri e sfruttati. Nei musei a 4 euro a fare i “vigilantes”

“Non accetti queste condizioni? C’è la fila fuori” si sente spesso dire chi aspira a lavorare nei musei. E c’era un fondo di verità: laureati specializzati pronti ad accettare condizioni sempre peggiori, fino a portare le retribuzioni medie sotto i 7 euro orari. Eppure, a Milano, da qualche mese qualcosa sembra essersi inceppato. Nei musei civici (Castello Sforzesco, Museo del Novecento, Galleria d’Arte Moderna, Museo Archeologico e Acquario Civico) il declino è iniziato nel 2010, con il passaggio, per il servizio di guardiania, da un contratto Multiservizi (pensato per addetti alle pulizie e mense) a quello di portierato. Fino al 2018 con quello dei servizi fiduciari, per vigilantes: da 7 euro a meno di 5 all’ora. Così in 3 anni, oltre un quinto dei 150 dipendenti esternalizzati coinvolti, che dipendono dalle cooperative, ha abbandonato. Il ricambio, a quelle cifre, non è stato facile anche perché nonostante il contratto sia per la vigilanza, i lavoratori si occupano anche di accoglienza, gestione flussi, prima informazione. La soluzione non ha riservato sorprese e si è pensato di assumere personale non qualificato per ancor meno, a 4,2 euro lordi l’ora. Ad accettare è soprattutto chi ha urgenza di lavorare a ogni costo. La conseguenza, come spiegano alcuni lavoratori al Fatto, è che molti dei nuovi assunti, la maggior parte dei quali stranieri, hanno difficoltà a relazionarsi col pubblico, a mandare email o usare la radio: banalmente, perché non conoscono bene l’italiano.

Non è una novità, ma – spiegano fonti sindacali – negli ultimi mesi c’è stata un’accelerazione e per aggirare il problema i lavoratori iperqualificati rimasti si sono “concentrati” tutti nelle sale in cui c’è necessità di accogliere e dare informazioni mentre i lavoratori stranieri se ne stanno nelle sale lontane, in cui hanno meno a che fare col pubblico. Si crea un doppio binario di sfruttamento: i lavoratori qualificati devono fare di più, mentre quelli più ricattabili non solo accettano compensi inferiori, ma anche altre imposizioni. Come i giorni di reperibilità non pagata: “Significa che potresti avere un turno, d’urgenza, ma più probabilmente no. E se ti rifiutassi di essere reperibile, la settimana dopo potrebbero esserci conseguenze” racconta Giulia, lavoratrice che chiede l’anonimato, spiegando come queste dinamiche facciano più presa su lavoratori deboli, soprattutto stranieri. Il contratto per servizi fiduciari infatti è “a ore” e se per i ‘veterani’ c’è una certa stabilità, i contratti dei nuovi assunti spesso prevedono solo un monte ore a settimana, con turni (anche fino a 10 ore consecutive) comunicati di volta in volta, anche il giorno stesso.

Inoltre, non di rado saltano le pause, mancano spazi per i pasti e le divise devono essere acquistate in autonomia. E, ancora una volta, il volontariato viene visto come soluzione: ad accogliere il pubblico, da qualche mese, ci sono sempre più spesso volontari del Touring Club Italia, che ha stipulato una convenzione onerosa col Comune. Fino all’anno scorso se ne occupava il personale comunale o delle cooperative. “Nessuno dovrebbe lavorare con una retribuzione e condizioni simili, italiano, straniero, specializzato o meno” continua Giulia, sottolineando come il contratto per vigilanza non copra affatto tutte le mansioni svolte. I lavoratori, attraverso i sindacati, hanno chiesto un incontro al Comune. Il Fatto ieri ha provato a chiedere spiegazioni, che – è stata la risposta – verranno fornite il prima possibile ed è stato assicurato che almeno il personale dipendente direttamente dal Comune è qualificato, come richiede il concorso. “Non corrisponde al vero – secondo il direttore Marco Edoardo Minoja – che il personale del Touring sostituisce di fatto il personale dall’amministrazione: con la convenzione, conseguente peraltro a un regolare avviso pubblico, vengono aperti sedi e luoghi non altrimenti visitabili consentendo anche alle guide turistiche di ampliare il proprio raggio di attività”.

Lavoro, l’Onu ci condanna: “Condizioni inaccettabili”

Le Nazioni Unite hanno inviato per la prima volta in Italia una delegazione di esperti, presieduta da una figura indipendente, il docente di Legge, Syria Deva, per condurre un’indagine sul campo allo scopo di verificare l’effettivo impegno delle imprese per tutelare i diritti dei lavoratori. Al termine dell’inchiesta, che si è svolta in Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata e Puglia, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani ha presentato ieri i risultati preliminari. Il professor Deva si è detto sconcertato per le condizioni in cui i lavoratori si trovano costretti a svolgere la propria attività, specialmente nel settore della filiera dell’agroalimentare. “Si tratta di una situazione intollerabile ovunque, a maggior ragione in un Paese del G7”. Le visite si sono concentrate oltre che sul settore agroalimentare, sul tessile e logistico in cui è più violento l’impatto delle attività d’impresa sui diritti. La delegazione ha incontrato funzionari ministeriali, autorità regionali, società civile, sindacati, compresi quelli locali e imprese. Assieme al problema dello sfruttamento della manodopera, il working group ha valutato le problematiche legate all’inquinamento ambientale e all’emergenza climatica.

Ma è ciò che Deva e i colleghi hanno visto nella Val d’Agri, in Basilicata, nei campi di raccolta del Foggiano, nella zona dell’industria tessile di Prato e all’Ilva di Taranto, ad averli sorpresi molto negativamente. “Pur disponendo di un ampio quadro legislativo in diversi ambiti connessi alle imprese e ai diritti umani, che prevede una responsabilità diretta delle persone giuridiche per un elenco di reati commessi dai loro rappresentanti, le autorità italiane non fanno abbastanza affinché le leggi vengano applicate. C’è bisogno di più ispettori del lavoro, perché senza un monitoraggio serio e capillare, per esempio, la legge sul caporalato risulta un guscio vuoto, insufficiente a evitare che i lavoratori vengano di fatto ridotti in schiavitù”, sottolinea il docente di Hong Kong.

Dal rapporto emerge l’urgenza di creare un sistema di ispettorati nei settori del lavoro, della sanità e della salute e sicurezza sul lavoro. “Secondo i dati ufficiali, al 31 dicembre 2020, erano presenti solo 3mila ispettori pubblici in Italia. Sebbene per il 2021 fosse stata annunciata l’assunzione di altri 2mila ispettori, i numeri sono ancora troppo bassi se confrontati con la portata del problema dello sfruttamento”, si riporta nel testo dell’indagine preliminare che verrà presentata in forma definitiva l’anno prossimo. Sono state sollevate preoccupazioni anche sul coordinamento tra gli ispettorati di diverse istituzioni.

“Bisogna inoltre che gli immigrati ottengano uno status così da potersi difendere dallo sfruttamento immorale a cui sono sottoposti”, denuncia Deva, che accusa le imprese, come alcune griffe della moda, di subappaltare parte del lavoro in modo da non apparire responsabili per le tante ore extra di lavoro non pagate e per i luoghi di lavoro malsani e insicuri, indegni di un Paese civile.

Secondo le informazioni ricevute dal gruppo, tra il 2014 e il 2021 sono arrivati 700mila migranti, raggiungendo un picco nel 2016 con 181mila persone. Il numero stimato di migranti senza alcun status giuridico al 1° gennaio 2020 era pari a 517mila.

Il Gruppo di lavoro ha manifestato profonda preoccupazione anche per quanto riguarda la sicurezza, rimanendo impressionato nel constatare che solo tra gennaio e agosto 2021, 772 lavoratori hanno perso la vita in Italia e che nel 2020 si sono verificati 571mila infortuni. “Abbiamo appreso che numerosi lavoratori del settore agricolo non sono dotati di adeguati dispositivi di sicurezza durante l’utilizzo di pesticidi e prodotti chimici, esponendoli quindi a effetti nocivi. Inoltre, qualsiasi forma di molestia sessuale o di violenza di genere sul lavoro deve essere trattata come questione attinente alla salute e alla sicurezza sul lavoro e in tale contesto dovrebbe essere adottato un approccio di tolleranza zero”, si evidenzia nel report. Il quadro per gli ispettori delle Nazioni Unite è dunque sconfortante e al governo viene chiesto di fare molto di più.

Ora il working group dell’Onu dovrà analizzare più nel profondo i problemi dello sfruttamento in Italia.

Per comprendere il contesto e per valutare i risultati delle azioni messe in campo finora, tornano utili i dati sugli esiti della sanatoria 2020 e sui controlli dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Secondo l’Istat, è irregolare il 34,2% dei dipendenti in agricoltura. La regolarizzazione, fortemente voluta dall’ex ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, ha portato numeri esigui e per giunta gran parte dei permessi di soggiorno ottenuti si concentrano nel lavoro domestico: i requisiti molto stringenti, di fatto a discrezione dei datori di lavoro, hanno fatto sì che le domande totali fossero solo 230mila. Meno di 30mila riguardano braccianti. Quelle accolte per ora risultano 60mila. Solo 60 su 16mila a Roma, 2mila su 26mila a Milano, 641 su 17.500 a Napoli. Molto rari sono i casi di domande presentate direttamente dai lavoratori; anche questo intervento, in teoria umanitario, è in pratica soggetto a severi paletti. Su 13mila istanze, poco meno di 10mila sono state accolte: il tentativo di far emergere situazioni di irregolarità e sfruttamento non è stato centrato. Quanto al contrasto al caporalato da parte dell’Ispettorato, le azioni stanno migliorando, ma si resta ancora su un numero molto basso: nel 2020 sono stati deferiti 471 trasgressori (61 dei quali denunciati in stato di arresto) e mandato di tutelare 1.850 possibili vittime (119 extra-comunitari senza permesso). In agricoltura sono stati scoperti 37 lavoratori sfruttati ogni 100 aziende irregolari.

Intanto la legge approvata nel 2016 è stata un passo in avanti, ma rischia di rimanere inattuata nella parte repressiva per i pochi controlli e nella parte di prevenzione per i ritardi che negli anni si sono accumulati nei piani operativi, nonostante l’insistenza da parte della Flai Cgil che ha più volte denunciato la lentezza nell’apertura delle reti territoriali per il lavoro agricolo di qualità. Il governo Conte-2 aveva un po’ accelerato i lavori del tavolo Anticaporalato, che ha tenuto la riunione di insediamento nell’ottobre 2019 e ha approvato il piano triennale nel febbraio 2020. Un po’ la pandemia, un po’ l’ennesimo cambio di governo ha ulteriormente rallentato. L’obiettivo è portarlo a termine nel 2022.

Grande Fratello Ilva: “Segnalate chi parla male dell’azienda”

Proteggere l’azienda da danni economici e di immagine denunciando i colleghi. In forma anonima. È l’ultima comunicazione inviata ai lavoratori dai vertici di Acciaierie d’Italia, la joint venture tra ArcelorMittal e Stato italiano che gestisce l’ex Ilva di Taranto. Nella missiva, l’azienda ha chiesto ai dipendenti di segnalare “qualsiasi comportamento scorretto, irregolarità, frodi o violazioni anche potenziali del codice di condotta aziendale”. Insomma basta il sospetto. In cambio offre il massimo riserbo ai segnalanti per proteggerli “da qualsiasi forma di ritorsione”.

Le denunce anonime diventano un coltello alla gola dei lavoratori

Il sistema denominato whistleblowing, denunce di irregolarità, è adottato in numerose aziende e mira a tutelare i deboli di fronte ai soprusi dei forti all’interno dei luoghi di lavoro, ma tra le ciminiere e gli impianti della fabbrica di Taranto, lo stesso strumento è apparso immediatamente come il nuovo coltello alla gola dei lavoratori per via dei diversi provvedimenti disciplinari che la gestione Arcelor ha varato dal suo arrivo nel 2018. Una nemesi insomma.

Anche sui social la notizia è stata immediatamente bollata come il nuovo strumento in mano all’azienda per controllare gli operai ed evitare nuove bufere mediatiche. “Va a finire – scrive un utente tra i commenti – che le perdite economiche finanziarie dipendono dai post degli operai”. Alla mente di molti, infatti, è tornata la storia di Riccardo Cristello, 45enne impiegato tecnico, licenziato da ArcelorMittal dopo la pubblicazione di un post su Facebook ritenuto altamente lesivo dell’immagine aziendale. A reintegrarlo dopo 4 mesi, è stato il tribunale che ha accolto la tesi difensiva del suo avvocato e dell’Usb che lo ha accompagnato nella sua battaglia per ottenere nuovamente il suo lavoro. In quella occasione, ArcelorMittal aveva ritenuto un danno alla sua reputazione le parole del lavoratore che invitava i follower a guardare la fiction con Sabrina Ferilli che interpretava il ruolo di una madre in lotta contro una fabbrica le cui emissioni avevano fatto ammalare la piccola figlia. Per i giudici, però, quelle parole facevano riferimento alla precedente gestione targata Riva. Del resto, per tutta l’Italia, quella serie televisiva, era proprio il racconto romanzato del “caso Taranto”. Per i nuovi padroni dell’acciaio, però, non era così. Decisero di punire con la sanzione più alta il lavoratore e solo l’intervento della magistratura li ha costretti a reintegrarlo. Un’interpretazione, quindi, era bastata ai vertici aziendali per cacciare un dipendente. La paura di migliaia di famiglie, da ieri, è che le segnalazioni possano essere usate alla stessa maniera. “Ora l’Ilva sta cercando di fare in modo che queste persone non possano più fare una foto, altrimenti verrebbero segnalate dai propri colleghi”, ha commentato un altro utente. Una sorta di spionaggio tra poveri, insomma: un modo per insinuare il sospetto, dividere i lavoratori e controllare tutto. Ma sui social c’è anche chi pone interrogativi più pungenti: “E per le segnalazioni di non conformità delle macchine e della sicurezza sul lavoro? Si può segnalare?”. Non sono poche, infatti, le foto che dall’interno della fabbrica sono state inviate ai media per denunciare le condizioni in cui i lavoratori dell’acciaieria ionica sono costretti a lavorare.

L’allarme dei sindacati e la nuova tranche di cassa integrazione

Cosa accadrà a chi segnalerà abusi e scorrettezze imposte da capi e capetti in nome della produzione? Se lo chiedono anche i sindacati metalmeccanici, che da tempo denunciano una serie di criticità presenti su alcuni impianti che pregiudicano le condizioni di sicurezza dei lavoratori. E intanto, sul fronte sindacale, si è aperto per i metalmeccanici un nuovo fronte: nell’ex Ilva infatti da ieri è fermo l’Altoforno 4 con una previsione di inattività di 24-36 ore. Secondo fonti sindacali interpellate dall’Ansa, il fermo potrebbe essere causato da una mancanza temporanea di minerali. I sindacati prevedono che, dopo il primo turno, dovrebbe fermarsi anche l’Altoforno 1 fino alla giornata di sabato, giorno in cui potrebbe essere interessato da una fermata l’Afo2. Acciaierie d’Italia però ha smentito che le fermate temporanee degli altoforni dello stabilimento “siano dovute alla mancanza di materie prime” e ha precisato che “sono dovute solo a motivi impiantistici”. E sempre da ieri, infine, dalle aree ghisa e acciaierie sono partiti gli incontri per fare il punto sulla nuova tranche di cassa integrazione ordinaria che l’azienda ha fatto partire dallo scorso 27 settembre, per 13 settimane e un numero massimo di 3.500 lavoratori.

Mancini insegna quel segreto di Stato che lo salvò due volte

Paradossale la lezione sul segreto di Stato tenuta ieri da Marco Mancini all’università di Pavia. Parlando di corda in casa dell’impiccato, l’ex agente segreto Mancini ha citato istituzioni, codici, articoli e commi, senza mai fare alcun riferimento esplicito al sequestro di persona per cui è stato condannato a 9 anni da una Corte d’appello, per poi essere prosciolto dalla Cassazione proprio grazie al segreto di Stato. E poi di nuovo salvato, sempre dal segreto di Stato, per i dossieraggi illegali Telecom.

Mancini, l’uomo che fu salvato due volte (dal segreto di Stato), diventa professore di segreto di Stato. Come se Franco Freda (assolto per la strage di piazza Fontana) fosse chiamato all’università a far lezione su piazza Fontana. Nell’aula non è mai risuonato il nome della vittima, Abu Omar, sequestrato nel 2003 a Milano da un gruppo della Cia con l’appoggio di Mancini e del Sismi (il servizio segreto militare) di Niccolò Pollari e poi portato in Egitto dove fu per mesi torturato.

Il pensiero va a un illustre docente della stessa università di Pavia, il professor Vittorio Grevi, che fino alla fine della sua vita criticò, con raffinati argomenti giuridici, l’allargamento dei confini del segreto di Stato che salvò Pollari e Mancini. Ma nessuno li ha ricordati ieri.

Ecco allora almeno i fatti, dimenticati nella lezione-autodifesa dell’ex agente del Sismi e poi dirigente del Dis (l’agenzia che coordina i servizi di sicurezza per l’interno e per l’estero, andato in pensione dopo lo strano incontro segreto in autogrill con Matteo Renzi). Mancini è prosciolto, grazie al segreto di Stato, in primo grado e in appello dall’accusa di sequestro di persona. Svolta in Cassazione: proscioglimento annullato, perché il segreto di Stato non può mai coprire un fatto-reato. Così il nuovo processo d’appello nel 2013 condanna Mancini a 9 anni di reclusione e Pollari a 10. Ma intanto il segreto di Stato sul caso Abu Omar è confermato dai governi che si succedono (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi), che aprono conflitti d’attribuzione tra poteri dello Stato, ricorrendo alla Corte costituzionale contro pm e giudici.

La sentenza della Corte nel 2014 estende il segreto di Stato ai documenti del processo Abu Omar, sostenendo che copre non un fatto-reato, ma gli assetti interni dei servizi di sicurezza e i loro rapporti con la Cia. La Cassazione a questo punto non può che prendere atto della pronuncia della Consulta e annullare le condanne a Mancini, Pollari e altri tre agenti del Sismi: improcessabili per segreto di Stato.

Sarà la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu), nel 2016, a stabilire che l’Italia ha violato cinque diritti sanciti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo: la proibizione di trattamenti umani degradanti, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il diritto a effettivi rimedi giudiziari, il diritto al rispetto della vita familiare.

“Le autorità italiane erano a conoscenza che Abu Omar era stato vittima di un’operazione di extraordinary rendition cominciata con il suo rapimento in Italia e continuata con il suo trasferimento all’estero”, scrive la Cedu; nonostante ciò, “l’Italia ha applicato il legittimo principio del segreto di Stato in modo improprio e tale da assicurare che i responsabili del rapimento, della detenzione illegale e dei maltrattamenti ad Abu Omar non dovessero rispondere delle loro azioni”. La sentenza di Strasburgo riconosce il buon lavoro dei magistrati, i pm di Milano Ferdinando Pomarici e Armando Spataro e i giudici che hanno condannato: “Nonostante gli sforzi degli inquirenti e giudici italiani, che hanno identificato le persone responsabili e assicurato la loro condanna, questa è rimasta lettera morta a causa del comportamento dell’esecutivo”. Ma tutto ciò gli studenti del professor Alessandro Venturi, che ha invitato Mancini in cattedra, non lo hanno sentito. Hanno sentito disegnare una confusa e vecchia visione dello Stato panopticon (come il carcere di Santo Stefano, o meglio di Bentham) che tutto vede senza essere visto. Hanno sentito parlare di diritto alla difesa da garantire a tutti (anche ad Abu Omar torturato in Egitto?). Hanno sentito proclamare il divieto al testimone di violare il segreto di Stato (ma Mancini era imputato, non testimone, e la Costituzione garantisce sopra tutto il diritto alla difesa).

La cosa più insopportabile era l’atteggiamento vittimista che aleggiava nell’aula di Pavia: “Dobbiamo saper andare contro il pensiero unico, superare il mainstream e gli attacchi della stampa”, dicevano.

Davvero curioso, in bocca a chi, difeso da quasi tutta l’informazione, è saldamente al centro del potere – il potere vero, forte, intoccabile, armato, segreto – che lo ha due volte salvato incrinando delicatissimi equilibri istituzionali e obbedendo a fortissime alleanze internazionali. Alla fine, il panopticon ha vinto.

Indagine su Di Donna. L’incontro con lo 007 imbarazza il governo

Il governo ha preso molto seriamente la vicenda che riguarda Enrico Tedeschi, capo di gabinetto del servizio segreto militare italiano, l’Aise, interrogato dalla Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sull’avvocato romano Luca Di Donna e altri. Tedeschi non è indagato. Viene sentito dai magistrati capitolini come persona informata sui fatti perché avrebbe incontrato, secondo gli inquirenti, con Luca Di Donna, in uno studio legale, un imprenditore che stava per fornire alla struttura del Commissario per l’emergenza Covid un grande lotto di mascherine.

La notizia, e il nome di Tedeschi finito ieri sulla stampa, ha creato qualche imbarazzo e malumore interno, tanto che ora il governo e anche l’Aise stanno valutando la sua posizione. Dopo l’episodio di Marco Mancini, l’agente segreto tornato agli onori della cronaca per l’incontro con Matteo Renzi in un autogrill di Fiano Romano, la linea è: “Nessuno sconto”. Dopo esser stato travolto dalle critiche per questo appuntamento natalizio, con il raggiungimento dell’età pensionabile, Mancini a luglio ha lasciato il Dis (l’agenzia che si occupa di coordinare Aisi e Aise). Su Tedeschi – che nei Servizi arriva molti anni fa, all’epoca dell’ex capo del Sismi Niccolò Pollari – ora sono in corso valutazioni interne per capire se sia il caso di spostarlo dal ruolo che oggi ricopre. Certo il suo è un caso diverso perché non ha incontrato nessun politico e poi non è in nessun modo coinvolto nell’indagine romana, ragionano. In ogni modo una eventuale decisione non sarà a breve.

Come detto il suo nome finisce nelle carte dell’inchiesta su Luca Di Donna, l’avvocato che ha affittato lo studio legale che ospitò lo studio di Giuseppe Conte (di proprietà di una società terza, i due non lo hanno mai condiviso). Di Donna è indagato con il professor Gianluca Esposito e il legale Valerio De Luca, per associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze. Secondo i pm chiedevano soldi in cambio di consulenze per far ottenere commesse con la struttura del Commissario vantando entrature anche istituzionali.

L’incontro con lo 007 è stato raccontato ai magistrati da un imprenditore, Giovanni Buini. Secondo quanto scrivono gli inquirenti, dopo “aver dato esecuzione a una prima fornitura di mascherine con la struttura commissariale” contrattualizzata tra marzo e aprile 2020, Buini “era entrato in contatto con l’avvocato Esposito e con Di Donna, indicatagli dall’amico Mattia Fella (non indagato, ndr) quali soggetti in grado di assicurargli entrature presso la struttura commissariale”. Negli atti i pm parlano di un incontro del 30 aprile 2020 nello studio del professor Esposito, durante il quale gli avvocati Di Donna ed Esposito “avevano fatto sottoscrivere” all’imprenditore “Buini, senza rilasciargliene copia, un accordo per il riconoscimento in loro favore di somme di denaro, in percentuale sull’importo degli affidamenti che avrebbero ottenuto dalla struttura commissariale”. È scritto nel decreto di perquisizione dei giorni scorsi: “I due non avevano mancato di rimarcare la vicinanza di Di Donna con ambienti istituzionali governativi”. Negli atti poi si parla anche di un secondo incontro che sarebbe avvenuto il 5 maggio 2020 presso lo studio legale Alpa (assente ed estraneo alle indagini). “Il Di Donna – è scritto negli atti – si era fatto trovare in compagnia di un Generale della Guardia di Finanza, il quale aveva in precedenza rappresentato (al Di Donna) la necessità per la struttura di reperire dispositivi di protezione individuali”. Il Generale è Tedeschi, il quale in realtà da anni non presta servizio nella Finanza.

Alla fine, Buini, secondo quanto ricostruito dai pm, recede dall’accordo “concluso con l’Esposito e il Di Donna”.

Mesi fa, il capo di gabinetto dell’Aise Tedeschi è stato sentito come persona informata: ai pm avrebbe spiegato che nell’incontro del 5 maggio non si parlò di affidamenti e mascherine (anche Buini ha dichiarato a Repubblica che non si parlò di lavoro) e si è detto estraneo a tutta la vicenda. Che però ha creato qualche imbarazzo, con l’autorità delegata e l’Aise che ora sta analizzando la posizione dello 007.

Siena: arriva Montanari, rettore antifascista. E il sindaco salviniano diserta la cerimonia

Il rettore dell’Università per stranieri è orgogliosamente antifascista e, come primo atto ufficiale, ha intenzione di intitolare 12 aule agli altrettanti docenti che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo (a differenza di oltre 1.200 loro colleghi). Allora il sindaco che fa? Diserta la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico, prevista per oggi.

Ebbene sì, accade questo, in Italia, anno 2021, precisamente a Siena, dove oggi si insedia ufficialmente il nuovo rettore dell’Università per stranieri Tomaso Montanari, storico dell’arte che i lettori del Fatto Quotidiano conoscono bene. Il Comune di Siena, in una lettera indirizzata al rettore dell’Ateneo, Pietro Cataldi, ha infatti comunicato che non parteciperà alla cerimonia e non invierà nemmeno il gonfalone della città né le chiarine, le tradizionali trombe del Palio, che mai sono mancate – informa La Nazione – alle cerimonie accademiche.

Tomaso Montanari ha avuto recentemente la “colpa” di scrivere sul Fatto una cosa storiograficamente piuttosto ovvia, ossia che la destra neofascista italiana ha forzato la complessità della storia, sfruttando la memoria della tragedia delle Foibe per equiparare nazifascismo e antifascismo, un “pari e patta” per dire che tutti hanno avuto da qualche parte torto e che quindi tutti possono dire di aver avuto ragione, in nome di quella “pacificazione” – evocata anche dalla neo-supervotata consigliera comunale di Roma, Rachele Mussolini – che da sempre sa tanto di colpo di spugna.

Parole che la destra neofascista – e purtroppo non solo – ha definito “negazioniste delle Foibe”. Una sciocchezza – i massacri al confine italo-jugoslavo ai danni degli italiani alla fine della Seconda guerra mondiale furono una colossale tragedia – che al professor Montanari non è mai passata per la testa, ma la vulgata è partita da tempo e non si è più fermata. E così oggi il sindaco di Siena, il salviniano Luigi De Mossi, avvocato penalista eletto con una lista di centrodestra, diserterà l’insediamento del rettore. Forse, fanno sapere dal Comune, contattato dal Fatto, ci sarà il gonfalone, ma non si sa chi – e se qualcuno – rappresenterà la città.

“Sono e sarò istituzionale – è la replica di Montanari – e non ho intenzione di rispondere a nessuna polemica, convinto che le istituzioni debbano essere superiori a ogni interesse di parte”.

Rai, 4 nomine al femminile, solo una “importante”

Infornata di nuove nomine in Rai, l’ad Carlo Fuortes che ieri ha indicato 4 uomini e 4 donne, dopo le polemiche sulla prima tornata tutta al maschile, anche se l’unica vera direzione al femminile è quella di Paola Sciommeri alla guida della produzione tv, posto di grande responsabilità e potere. Per le altre si tratta solo incarichi, sotto altri direttori: Valeria Zibellini alla guida del centro produzione di Roma, Antonella Pisanelli al cerimoniale e Chiara Longo Bifano al timone del Prix Italia. Tutte reali, invece, le direzioni assegnate agli uomini: Andrea Sassano alle Teche, Alberto Longatti alla direzione risorse artistiche e televisive, Luca Mazzà alle relazioni istituzionali, Roberto Cecatto alle infrastrutture immobiliari e sedi locali. Nomine tutte aziendali e con personale interno, anche se il mosaico non è ancora completo. Per reti e tg si partirà a fine ottobre, quando andranno in scadenza le direzioni di Tg1, Tg2, Tgr e Raisport. Regole più stringenti, infine, per i collaboratori: nessuno potrà più entrare in azienda senza contratto.

Martina Rossi morì per fuggire a uno stupro

Martina Rossi non morì per una caduta accidentale, ma nel tentativo di sfuggire a uno stupro. Un tentativo di violenza sessuale per cui la Cassazione ieri ha condannato a tre anni Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, due coetanei di Arezzo appena conosciuti. I fatti risalgono al 3 agosto del 2011, a Palma di Maiorca, dove la studentessa genovese, 20 anni, era in vacanza. L’inchiesta, archiviata in Spagna come suicidio dalla polizia spagnola, era stata riaperta dalla Procura di Genova, e ha poi attraversato cinque gradi di giudizio. La condanna in primo grado era stata ribaltata in appello, cancellato a sua volta in Cassazione. Il secondo appello aveva confermato le condanne, ma uno dei reati, morte in conseguenza di altro reato, era ormai prescritto: “Nessuno può permettersi di far del male a una donna e passarla liscia – ha commentato ieri Bruno Rossi, padre della ragazza – Ora posso dire a Martina che il suo papà è triste perché lei non c’è più, ma soddisfatto perché il nostro Paese è riuscito a fare a giustizia”.

Casi Eni-Nigeria e Amara: chiuse indagini sui giudici De Pasquale, Storari e Davigo

La Procura di Brescia ha chiuso l’indagine sul procuratore aggiunto di Milano, Fabio De Pasquale, e il pubblico ministero, Sergio Spadaro. L’accusa è di rifiuto di atti d’ufficio e riguarda il ruolo che l’ex dirigente dell’Eni, Vincenzo Armanna, rivestiva – e tuttora riveste in appello – nel processo Eni Nigeria, nel quale è ritenuto in parte credibile dall’accusa.

Il pm Paolo Storari aveva inviato al collega De Pasquale e a Spadaro delle comunicazioni nelle quali asseriva che Armanna – assolto in primo grado come l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi dall’accusa di corruzione internazionale – aveva tenuto condotte che ne minavamo la credibilità. Parliamo di una bozza d’informativa della Guardia di Finanza nella quale apparivano alcuni messaggi telefonici attraverso i quali Vincenzo Armanna offriva soldi a un testimone (che poi ha smentito lo stesso Armanna) per avere in cambio un video che provava le sue accuse e un altro video nel quale lo stesso Armanna faceva dichiarazioni fortemente livorose nei riguardi di Eni.

Bozze di informative e di richieste di arresto nelle quali venivano citati documenti, non allegati da Storari, come la copia forense delle chat, tuttora coperta dal segreto istruttorio, che secondo l’accusa De Pasquale e Spadaro avrebbero dovuto depositare alle difese dei vertici Eni.

si avvia alla chiusura anche l’indagine che riguarda lo stesso Storari e l’ex componente del Csm e magistrato simbolo di Mani Pulite Piercamillo, Davigo accusati entrambi di rivelazione del segreto istruttorio. L’accusa riguarda la consegna dei Verbali di interrogatorio di Piero Amara – nei quali descriveva a Storari e alla procuratrice aggiunta Laura Pedio l’esistenza della presunta loggia massonica coperta Ungheria – che Storari affidò a Davigo, in qualità di componente del Csm, per tutelarsi, a suo dire, dalla inerzia investigativa dei suoi capi. Verbali poi sfuggiti dal controllo e inviati anonimamente – all’insaputa di Storari e Davigo – nelle redazioni del Fatto e di Repubblica e al consigliere del Csm Nino di Matteo.

L’aereo da 7 milioni di dollari e le società nell’arcipelago tax-free

Amici in Nazionale e anche offshore. I documenti di Pandora Papers raccontano che Roberto Mancini e Gianluca Vialli hanno una passione per le British Virgin Islands. Venticinquemila abitanti, radiocomandate a distanza dalla regina Elisabetta II, sono 60 isolette dei Caraibi che offrono un trio di vantaggi fiscali imbattili. Zero tasse sul reddito, capital gains, profitti societari. Zero. Uno degli storici paradisi fiscali del Regno Unito.

Il commissario tecnico della Nazionale e il suo collaboratore hanno investito soldi in due società registrate alle Bvi. Nei Pandora Papers, l’inchiesta internazionale del consorzio giornalistico Icij, di cui fa parte per l’Italia L’Espresso, è raccontata la storia di come i “Gemelli del gol” sono arrivati nell’arcipelago tax free di Londra. Il primo contatto è del 1998, quando Vialli era al Chelsea. Quell’anno viene aperta alle British Virgin Islands la Crewborne Holdings Limited, dietro la quale c’è il Gianluca Vialli Family Trust (Glv Trust). Per un po’, dal 2008 al 2013, i diritti di immagine di Vialli vanno alla Crewborne.

La società non fattura molto, ma comincia a ricevere prestiti, milioni di euro tra il 2009 e il 2012. Sono soldi del Gianluca Vialli Family Trust, che finiscono sui conti della offshore britannica. Alle domande de L’Espresso, Vialli ha detto che in quanto cittadino britannico i suoi “business investments”, sono “registrati e gestiti” secondo le regole imposte da Hmrc”, cioè il fisco locale. “Preferisco mantenere un certo livello di privacy rispetto a questa parte delle mie attività”, ha detto Vialli, “anche per rispetto degli altri shareholder”. Cioè degli ex azionisti della Crewborne, ormai liquidata, che in ultima istanza sono i beneficiari del Gianluca Vialli Family Trust. Più definita la storia offshore di Mancini. Il Ct che ha fatto vincere alla Nazionale gli Europei, ha investito ai Caraibi nel dicembre del 2008, quando diventa azionista della Bastian Asset Holdings Ltd.

Il mese prima, la società aveva comprato un Piaggio P180 Avanti, un aereo da 6-9 passeggeri, per 7 milioni di dollari. È il bene schermato dietro la scatola offshore. Il 3 dicembre 2009, quando sta per diventare allenatore del Manchester City, Mancini scrive alla sua fiduciaria per annunciare che vuole avvalersi dello scudo fiscale. È quello di Giulio Tremonti: si pagava il 5% del valore dei beni detenuti all’estero, in cambio della non punibilità dei reati tributari. L’Espresso ha scritto di non sapere se Mancini abbia effettivamente aderito allo scudo fiscale, l’allenatore non ha risposto alle domande del consorzio. Di sicuro la sua società offshore doveva essere messa in liquidazione dopo che Silvia Fortini, avvocato e moglie del Ct, nel 2010 si era impegnata a vendere l’aereo a un prezzo minimo di 6 milioni di euro. Non sarebbe comunque la prima volta di Mancini offshore. Nel novembre del 2008, all’interno dell’inchiesta internazionale Football Leaks, era stato rivelato che l’ex fantasista di Sampdoria e Lazio aveva aperto una società alle Mauritius.

È un altro pezzo della storia fiscale di Mancini, che avviene contemporaneamente alla richiesta di poter beneficiare dello scudo. Nel dicembre del 2009, proprio mentre scrive alla sua fiduciaria di voler regolarizzare l’aereo tax free, il tecnico di Jesi apre alle Mauritius la Sparkleglow Holdings Ltd. È il momento in cui inizia per lui l’avventura sulla panchina del Manchester City, la squadra inglese di proprietà dello sceicco di Abu Dhabi, Mansour bin Zayed al-Nahyan. I documenti di Football Leaks raccontano che la società delle Mauritius serviva, attraverso vari passaggi, per pagare a Mancini una parte dello stipendio come tecnico del City. Insomma, solo una parte del compenso gli veniva versata direttamente dal club inglese, l’altra veniva accreditata sui conti della società offshore di Mancini. Anche in quel caso l’allenatore non aveva dato spiegazioni alla stampa.