Vialli e Mancini offshore. Ma scatta il silenzio di Stato

Analisi tattiche sulla sconfitta contro la Spagna. Pronostici sulla finalina di domenica per un torneo, la Nations League, che non conta nulla. Grandi disamine sulle prospettive della Nazionale in vista dei prossimi Mondiali in Qatar. Ma neanche una parola, nemmeno un piccolo commento di sfuggita, sull’autogol di Roberto Mancini e Gianluca Vialli: simboli della Nazionale campione d’Europa, citati nell’inchiesta giornalistica Pandora Papers sui paradisi fiscali di statisti, politici e vip. Nelle carte pubblicate sono spuntati anche i nomi del Ct e del capodelegazione degli Azzurri: da gemelli del gol a gemelli dell’offshore il passo è breve, e non è certo una bella figura per il calcio italiano, che loro rappresentano oggi più che mai. Anche se, stando al silenzio di Stato calato sulla vicenda, sembra non essersene accorto nessuno.

Solo apparenza: nei corridoi del pallone lo scoop dell’Espresso e del consorzio Icij (International Consortium of Investigative Journalists) ha fatto ovviamente molto rumore. La notizia è girata di bocca in bocca per tutto il pomeriggio, mentre i dettagli della vicenda correvano nelle chat, insieme a qualche commento velenoso. Ma nessuno parla, almeno non ufficialmente. Tace il diretto interessato, colpito nell’immagine nel momento migliore della sua carriera. Ma i più critici nei confronti della presidenza di Gabriele Gravina sottolineano anche la posizione scomoda della Federazione, che a Mancini ha affidato il ruolo di vero e proprio simbolo della Nazionale, con un contratto pesante fino al 2026 (alla bellezza di circa 4 milioni di euro a stagione, si vocifera). Certo, si tratta di una vicenda personale e non sportiva, ma l’ombra sul passato del Ct si allunga inevitabilmente fino alla maglia azzurra, e quindi alla Federcalcio. Dalla Figc rispondono solo con un secco no comment, tanto più che i fatti risalgono al 2009, quando il mister non aveva alcun tipo di rapporto con la nazionale ma allenava in Inghilterra. E lo stesso vale per Gianluca Vialli, oggi capo delegazione degli Azzurri.

Nessuna presa di posizione nemmeno dalle altre istituzioni sportive. Neanche una battuta dal Coni: il presidente Malagò di solito non perde occasione per dire la sua sui più svariati temi del giorno, non stavolta. Ma del resto sarebbe stato sorprendente il contrario, considerato che Mancini è di casa al circolo Aniene, e la sua nomina a Ct fu fatta proprio durante il commissariamento della Figc da parte del Coni, scelta vincente più volte rivendicata dalle parti del Foro Italico. E che dire di Palazzo Chigi? Semplicemente nulla da dire, perché anche dall’ufficio della sottosegretaria allo Sport, Valentina Vezzali, non risultano commenti. Lo stesso silenzio che ha improvvisamente colpito i politici.

Eppure Mancini era e resta il volto della formazione campione d’Europa. Bello, bravo e vincente, benvoluto dalla critica, praticamente un santino azzurro. Rappresenta lo sport italiano nel mondo. Lo rappresenta nel migliore dei modi?

FdI diffida La7 a trasmettere video su Fidanza Meloni: “Killer”

Giorgia Meloni resta in trincea. La leader di Fratelli d’Italia ha rifiutato di partecipare ieri a Piazzapulita, dove Corrado Formigli l’aveva invitata per discutere dell’inchiesta di Fanpage sui presunti fondi neri al partito e sulla vicinanza di Carlo Fidanza e di altri suoi esponenti all’associazionismo fascista. E non solo: lo stesso Fidanza, attraverso il suo avvocato, ha diffidato La7 dal trasmettere le nuove puntate dell’inchiesta di anche solo di riproporre spezzoni del primo episodio; monito ignorato da Piazzapulita che ieri ha regolarmente trasmesso la seconda parte di “Lobby Nera”.

Per difendersi, la Meloni sceglie allora il salotto di Paolo Del Debbio, su Rete4. A Dritto e Rovescio il leit motiv è lo stesso proposto nell’ultima settimana: “Ho sospeso Fidanza perché sono una persona rigida, però c’è qualcosa che non va. Ho chiesto a Fanpage di vedere le 100 ore di girate, non capisco perché non mi si possa mostrare la verità. Quello non è giornalismo, è killeraggio politico”. La richiesta è stata più volte rigettata da Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, che ha però consegnato in Procura il materiale. I contenuti dell’inchiesta sono infatti oggetto di una indagine aperta dalla Procura di Milano, che ipotizza i reati di finanziamento illecito e di riciclaggio per Fidanza e per Roberto Jonghi Lavarini, punto di riferimento della destra neofascista milanese molto attivo durante l’ultima campagna elettorale in città. Meloni assicura che “in FdI non c’è spazio per atteggiamenti nostalgici del fascismo, per ipotesi di razzismo e antisemitismo”. Giura che “Fidanza ha contravvenuto alle indicazioni” e che, se le responsabilità fossero confermate, sarà “implacabile”. Intanto però FdI se la prende con la stampa. Enrico Giarda, il legale di Fidanza, ieri ha diffidato “La7, Piazzapulita, Fanpage e ogni altra testata interessata dal trasmettere nuovamente servizi contenenti spezzoni del girato attesto che tutto il materiale è sottoposto a segreto istruttorio e come tale non pubblicabile”. Essendoci un’inchiesta aperta, è la teoria, non si possono mostrare le immagini. Parole che non hanno avuto effetto: Formigli e la sua redazione hanno scelto di trasmettere la seconda parte dell’inchiesta.

“Volevano farci fuori? Figlia in Regione e nipote deputato”

Quarantanove anni in politica, quasi trentacinque in Regione Calabria. Stavolta Pino Gentile, 77 anni, storico esponente di Forza Italia a Cosenza e dintorni, ha deciso di non candidarsi, ma siamo sicuri abbia comunque stappato la bottiglia buona, potendo esibire con orgoglio i risultati di una delle più longeve Dinasty politiche del Sud Italia: nel Consiglio regionale calabrese andrà la figlia Katya, eletta con FI, e al tempo stesso il nipote Andrea entrerà in Parlamento per sostituire Roberto Occhiuto, appena diventato governatore.

Un capolavoro elettorale tutto in famiglia, se si pensa che anche il padre di Andrea – e fratello di Pino – è l’ex senatore forzista Antonio Gentile, già sottosegretario con Silvio Berlusconi, con Matteo Renzi e con Paolo Gentiloni.

E se non basta la politica a dar l’idea del peso dei Gentile, basti ricordare quanto denunciò nel 2014 Luciano Regolo, allora direttore della testata L’Ora della Calabria, secondo cui sia l’editore sia lo stampatore cercarono invano di far sparire dal giornale il resoconto di un’indagine su Andrea Gentile (poi archiviata); al suo rifiuto, nella notte gli era stata data notizia di un irreparabile guasto alle rotative che aveva impedito la stampa del quotidiano. Ma questa è un’altra storia: adesso è solo tempo di festeggiare.

Pino Gentile, la sua famiglia trionfa.

È una grande soddisfazione, significa che per la famiglia Gentile c’era e c’è ancora grande apprezzamento in Calabria. Molti detrattori pensavano di averci fatto fuori e invece non ce l’hanno fatta neanche questa volta a seppellirci.

Che effetto le fa vedere sua figlia in Regione?

Intanto sono contento per il centrodestra e per Forza Italia, che ha stravinto perché ha composto delle liste con grandi personalità: abbiamo trainato tutta la coalizione. E poi certo che sono contento per Katya, perché è una grande dirigente, non è mica una improvvisata.

Ha un buon maestro, lei è stato campione di preferenze.

Mia figlia è stata vicesindaca a Cosenza e ha fatto tante battaglie, sa amministrare e sa come muoversi nelle istituzioni. Per me è un’enorme soddisfazione, ha raccolto più di 8.000 preferenze e abbiamo pure dovuto fare una battaglia serrata nel partito. La verità è che c’è pieno di invidiosi nella nostra società. E tante persone del malaffare ci remano contro.

Anche suo nipote Andrea può brindare: era il primo dei non eletti alla Camera e diventerà deputato al posto di Occhiuto.

Pure Andrea è un bravo ragazzo, è un docente universitario di quelli capaci, un grande studioso. Per la Calabria sarà un grande vantaggio avere uno così a Roma. Tre anni fa era stato sfortunato, aveva preso parecchi voti già allora.

Mica passeranno per raccomandati, visto il curriculum suo e di Antonio?

Ma quali raccomandati? La nostra famiglia è sulla breccia da decenni e chiunque può testimoniare che abbiamo sempre lavorato per il bene delle istituzioni e non ci siamo mai fatti inquinare. Questo è il risultato di tanta serietà e coerenza.

Per la verità qualche guaio giudiziario lei l’ha passato ed è tuttora indagato per presunte irregolarità legate ad Aterp, la società delle case popolari.

Tutte cose inesistenti, ho il casellario giudiziario immacolato. Eppure dopo tanti anni nelle istituzioni uno sarebbe pure potuto incappare in qualcosa di pericoloso, invece io non ho mai avuto problemi, perché ho lavorato con grande serietà.

Con tutti questi parenti eletti, finirà che si ricandiderà anche lei?

No, no, non mi candido più.

Dopo quasi 50 anni le è passata la voglia?

Ma sì, l’esperienza è chiusa, è meglio lasciare spazio ai giovani.

Meglio se sono figli e nipoti suoi.

Sono molto bravi e preparati, speriamo facciano bene perché la Calabria ne ha bisogno. E poi la famiglia conta, ma guardi che Katya è una capace, è bravissima a tenere la piazza. Io questa volta me ne sto fuori: al massimo darò qualche consiglio.

Angela über alles: niente staffetta con SuperMario

“L’Italia sicuramente non sostituirà la Germania e la Germania resterà la Germania, non sarà rimpiazzata. Siamo una grande economia, la più grande dell’Ue”. Se qualcuno si aspettava una sorta di passaggio di testimone a Mario Draghi alla guida dell’Europa da parte di Angela Merkel, le parole della Cancelliera chiariscono che non è così. Nonostante il fatto che abbia scelto l’Italia come una delle sue ultime visite ufficiali. Per il commiato non solo da Draghi, ma anche dal Papa.

Nonostante il clima festoso che si respira, con tutto Palazzo Chigi affacciato durante il picchetto d’onore. Nonostante l’evidente calore tra i due, che insieme hanno portato avanti molte delle sfide più importanti degli ultimi anni. Accanto alla Cancelliera, imponente nel suo tailleur bianco, Draghi – che conosce metà del suo staff – pare più rilassato che accanto a molti dei suoi ministri. E la accoglie con un ringraziamento anche “personale” per il suo ruolo “nel ridisegnare il futuro dell’Europa”, ricordando quando – con lui alla guida della Bce – aveva sostenuto “l’integrità della moneta unica”. Davanti alle telecamere non pare tradire alcuna sorpresa davanti alla nettezza con cui lei chiarisce il primato della Germania. “L’Italia resta l’Italia, non può guidare da sola l’Europa”, dice, senza mai smettere di sorridere. Anche se il riconoscimento per il premier italiano è evidentemente molto forte (“sei stato il garante dell’euro”, dice), Angela ancora una volta mette prima gli interessi della Germania. Il socialdemocratico Olaf Scholz, destinato a essere il suo successore (nonché suo ex ministro delle Finanze), le suscita entusiasmi relativi, ma non è questo il dato prioritario. Peraltro, con Draghi, lontano dalle telecamere parla anche della formazione del governo patrio, assicurando che arriverà prima del previsto. Tema importante per il nostro Paese: tra i dossier urgenti c’è la “perennizzazione” del Next Generation Eu. Anche su questo, la Merkel è più che cauta: “Per quel che riguarda la mutualizzazione del debito dobbiamo avere autodeterminazione: abbiamo dei sistemi fiscali molto diversi”. “Necessitiamo di maggiore solidarietà” che si basa su alcune condizioni”. Per esempio, sul completamento dell’unione bancaria. Poi comunque si complimenta per “l’ottimo Pnnr” di Draghi. Nessun impegno, aperture generiche sul futuro. Draghi incassa: “Noi siamo quelli che hanno avuto la fetta maggiore, quindi anche quelli che hanno le maggiori responsabilità di spendere bene, in modo da contribuire a una crescita forte, sostenibile ed equa”. Solo dopo si potrà pensare ad andare oltre l’ “una tantum”. Fa parte del suo ruolo: nelle “regole d’ingaggio” a Palazzo Chigi c’è la garanzia che offre alle Cancellerie europee nell’utilizzo del piano. In fondo, è sulla visione comune dell’Europa che una sorta di passaggio di testimone tra i due è comunque nei fatti. È sulla Libia che la Merkel spezza una lancia a favore dell’Italia, quando dice che su quel paese si “ha molto da imparare” dal nostro. Un evidente riconoscimento a Draghi in chiave anti-Macron, viste le mire sul Mediterraneo della Francia. Draghi poi ci tiene a sottolineare: “Abbiamo concordato sul fatto che Italia e Germania debbano coordinare maggiormente le loro posizioni sulla gestione dei dossier ambientali ed energetici”.

La transizione ecologica con la nuova normativa proposta dalla Commissione (Fit for 55) è la nuova politica industriale dei prossimi anni: i due paesi sono obbligati ad accordarsi settore per settore, per non rimanerne schiacciati. In Italia, comunque, Angela assicura che ci tornerà da turista. I due pranzano al ristorante stellato dell’Hotel Eden. Dopodiché lei va al Colosseo per un’iniziativa con Bergoglio organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, lui declina l’invito. Ha il consiglio dei ministri e un appuntamento con Matteo Salvini. Più che la vetta del mondo, lo aspetta l’amara realtà.

Partiti sotto scacco: e ora arriva pure il ddl Concorrenza

La faccenda non è complicata, anche se rischia di non essere gradevole: al netto delle misure anti-Covid, Mario Draghi ha una sua agenda – che coincide in larga parte con le “Raccomandazioni” della Commissione Ue, ampiamente citate nel Pnrr – a cui non vuole, né può derogare. L’eventuale contrarietà dei partiti (e dei loro elettori) si dovrà inchinare a quell’agenda, assunta in toto col via libera al suo arrivo a capo del governo. La riforma del catasto che non piace alla Lega, il salario minimo o il cashback chiesti invano dal M5S sono solo un piccolo pezzo di una via crucis che proseguirà a un ritmo forsennato: “Sui testi abbiamo lavorato, ora è il momento di chiudere, i tempi cominciano a diventare corti”, ha spiegato ieri il premier confermando che di regola intende convocare due Consigli dei ministri a settimana. È “il pilota automatico” sulle riforme di cui parlò proprio Draghi dopo le Politiche del 2013.

La prossima tappa di questo viaggio nel dolore e nell’irrilevanza dei partiti sarà il ddl Concorrenza chiesto dall’Ue: atteso per luglio (nel Pnrr se ne promette uno l’anno fino al 2023), ora Draghi lo annuncia “entro ottobre”. Quali saranno i settori che il governo vuole aprire alla concorrenza? Questa è la trattativa che si apre ora, ma il risultato non sarà comunque indolore. Ieri, per dire, Draghi ha agitato davanti ai leghisti il drappo rosso delle concessioni balneari: “Stiamo pensando di intervenire, ma ci sono una serie di sentenze del Consiglio di Stato previste a breve ed è opportuno vedere queste sentenze cosa dicono”. Breve riassunto. Una vecchia direttiva Ue (la “Bolkestein”) ne prevede la messa a gara, ma finora non si è mai fatto: nel 2018 M5S e Lega prorogarono per l’ennesima volta le vecchie concessioni – da cui lo Stato incassa briciole – fino al 2034. I Tar, interessati da diversi ricorsi, hanno prodotto sentenze contrastanti – alcune a favore della proroga, altre contrarie – e la plenaria del Consiglio di Stato dirimerà la questione entro il 20 ottobre. L’argomento è complicato, come tutti quelli che seguiranno, ma al di là del merito per Salvini & C. la protezione dei balneari è stata per anni una battaglia identitaria e ora sarà la magistratura amministrativa a decidere quale tipo di boccone dovranno ingoiare i leghisti.

Se però i balneari possono anche salvarsi, di sicuro i servizi pubblici locali finiranno nel mirino di Palazzo Chigi (e d’altronde sono da anni in quello di Bruxelles): parliamo soprattutto di trasporti, gestione dei rifiuti e servizio idrico, il piatto forte di un mercato che nel 2018 – dice una recente delibera della Corte dei Conti – valeva 11 miliardi l’anno, l’86% dei quali assegnati attraverso affidamenti diretti a società pubbliche o para-pubbliche. Non che sia vietato, ma il governo e la Ue vogliono ridurre gli affidamenti in house: Draghi proverà a farlo attraverso “specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, anche attraverso opportune analisi econometriche (così il Pnrr). Di fatto i Comuni saranno così esposti a ricorsi preventivi sulla loro scelta e i singoli amministratori anche ai relativi rischi economici: è appena il caso di ricordare che il M5S è da sempre favorevole alla gestione pubblica e, quanto agli altri partiti, che i sindaci non gradiscono un intervento così duro.

E non è finita qui: in ballo, tra le altre cose, ci sono l’accelerazione della fine del mercato tutelato per elettricità e gas (osteggiata da grillini e parte del Pd), la revisione delle concessioni portuali e delle grandi dighe (quasi tutte al Nord, care alla Lega), la fine del canone Rai in bolletta voluto da Renzi, eccetera. Ci sarà da soffrire e ingoiare: d’altronde lo chiedono l’Europa e SuperMario.

Tregua tra Lega e Draghi: Salvini “sostituisce” Giorgetti al governo

Si sono chiariti perché nessuno può fare a meno dell’altro. Matteo Salvini non può uscire dal governo, perché avrebbe troppo da perdere in vista dell’elezione del Quirinale. Mario Draghi non può permettersi di rompere i rapporti col leader della Lega: a Palazzo Chigi hanno capito che il filo diretto tra il premier e Giancarlo Giorgetti non basta più, consci del fatto che i rapporti tra il segretario e il ministro dello Sviluppo sono ormai ai minimi e che il vicesegretario non ha la forza per tenere la Lega al governo. E così, dopo un’ora di incontro a Palazzo Chigi, la giornata si conclude con la pace dopo il non voto di martedì dei leghisti sulla delega fiscale: i ministri del Carroccio si presentano e votano a favore del decreto che permette dall’11 ottobre di riaprire le discoteche e di aumentare la capienza per stadi, musei, cinema e teatri.

Il premier concede a Salvini il “contentino” di aumentare la capienza delle discoteche: invece del 35% indicato dal Cts, 50% per le sale da ballo al chiuso e 75% all’aperto. L’incontro si conclude anche con un impegno: Draghi e Salvini si vedranno una volta a settimana per confrontarsi sull’agenda di governo. Una prassi che ai leghisti ricorda i caminetti del lunedì ad Arcore tra Berlusconi e Bossi. La richiesta è arrivata espressamente dal leader del Carroccio, che nel faccia a faccia con Draghi è stato esplicito: “Nella Lega comando io e non Giorgetti”. Come dire: se vuoi i voti della Lega devi parlare con me. Un modo, spiega una fonte leghista, per commissariare Giorgetti e fare da “quarto ministro” nel governo.

Anche se la giornata di Salvini era iniziata con toni aspri (“Serve l’impegno per iscritto di Draghi che non saranno aumentate le tasse”), nel pomeriggio il leader della Lega ha voluto serrare le file coi suoi avversari interni: nel suo ufficio in Senato ha incontrato per 40 minuti proprio Giorgetti e Massimiliano Fedriga, rappresentante dei governatori. Durante il vertice i tre hanno deciso la linea da tenere in vista del Cdm della sera, ma hanno anche siglato una tregua interna. Giorgetti e Fedriga hanno rassicurato il segretario che non hanno alcuna intenzione di prendere il suo posto e che, a loro dire, alcune polemiche sono “create ad arte per attaccare la tua leadership”, mentre Salvini ha replicato con una reprimenda: “Non posso girare per l’Italia a fare comizi e prendere voti e poi a prendere le decisioni a Roma ci siete voi”. Almeno fino ai ballottaggi, i governisti non apriranno nuove fratture. Dopo, si vedrà. “Votiamo il decreto sulle discoteche? Vediamo…”, dice Giorgetti uscito dall’incontro. C’è ancora da trattare. Così, subito dopo, Salvini va a Palazzo Chigi per incontrare il premier. Un vertice durato un’ora che il leader della Lega definisce “costruttivo e cordiale”. Stessa versione di Palazzo Chigi. Draghi rassicura il leghista che il governo non aumenterà le tasse, ma poi gli chiede di fare una scelta: “Non si può stare al governo e all’opposizione” è il senso della reprimenda del premier. Salvini risponde che non vuole “far cadere” l’esecutivo. Alla fine, sulle discoteche il premier concede al leghista il “contentino” di una riapertura più ampia mentre sulle tasse non si piega. In cambio Salvini ottiene la possibilità di incontrare Draghi una volta a settimana. Un trattamento che considera di favore rispetto agli altri leader. La visibilità, si sa, per lui è tutto. “È il solito teatrino stancante”, attacca Enrico Letta.

Fatto sta che i ministri leghisti votano sì al decreto in Cdm. Prevede, dall’11 ottobre, in zona bianca, la capienza piena per cinema, teatri e musei al 100%, un aumento per palazzetti e stadi (60% al chiuso e 75% all’aperto) mentre per le discoteche 50% al chiuso e 75% all’aperto. In questo caso però serviranno “impianti di aerazione” adeguati, resta l’obbligo della mascherina. Se in questi luoghi viene violata la capienza per due volte scatta la sanzione con la chiusura da uno a dieci giorni. “Bene le riaperture”, esulta Fedriga. Chissà quanto durerà la pace con Salvini.

“Conosco bene Gualtieri, a Roma voterei per lui”

A botta ancora calda Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo e veterano dei 5Stelle, cerca una strada per ripartire: “Giuseppe Conte ha fatto uno sforzo straordinario, ma era troppo presto per vedere gli effetti. Ora dobbiamo ripartire dai temi e serve una squadra che lo aiuti a declinarli. E dobbiamo anche essere più incisivi nel governo Draghi”.

Perché siete andati così male nonostante le piazze riempite da Conte?

Innanzitutto abbiamo scontato una debolezza strutturale. I territori sono rimasti soli, sul piano logistico ed economico. Anche per questo, non è la prima volta che nelle Amministrative non andiamo bene.

Questa volta le periferie non vi hanno votato.

Il nodo di fondo è che non abbiamo comunicato bene quanto abbiamo fatto. Il lavoro sulla legalità, e in particolare sui bandi e gli appalti, ha bisogno di tempo per dare i propri frutti ed essere percepito da tutti. Le persone evidentemente si aspettavano risultati più evidenti. Dopodiché ci voleva qualche personalismo in meno e più attenzione ai territori. Mi ha colpito il fatto che i presidenti di Municipio a Roma non siano stati fatti neanche salire sul palco del comizio finale. Per mantenere un albero forte devi coltivarne le radici.

L’effetto Conte però non si è visto. Preoccupante, no?

Era troppo presto, non gli si può addebitare questo risultato. Questo è il tempo della semina: Conte deve avere il tempo di riorganizzare tutto e di sviluppare i temi.

Intanto il Pd ha presentato il conto, proponendo una coalizione con dentro anche Matteo Renzi e Carlo Calenda. E Conte ha fatto muro: “Non vedo il M5S come ramo di un nuovo Ulivo”. Vi siete schiacciati troppo sui dem?

Conte fa bene a ribadire che le sfide di oggi non si giocano con gli schemi di ieri: siamo noi ad aver riportato nel dibattito politico temi come la sostenibilità e la transizione ecologica, che sono nostri valori identitari. Il M5S lo rivendica e vuole costruire a partire di questi un’intesa ambiziosa e coraggiosa da forza propulsiva, non a traino del retaggio del passato. Se si allarga troppo il campo poi si rischia di perdere di vista l’orizzonte e la coerenza degli obiettivi.

Lei sosterrebbe i candidati dem nei ballottaggi?

Come ha detto Conte, gli elettori non sono pacchi postali: non faremo accordi o apparentamenti. Però conosco bene Roberto Gualtieri, perché siamo stati colleghi nell’Europarlamento ed è stato un ottimo presidente della commissione Affari economici. Non voto a Roma, ma se potessi non avrei dubbi a scegliere lui rispetto al candidato del centrodestra Michetti, con cui non prenderei neppure un caffè.

Raggi lo prenderà con lui come con Gualtieri…

È una sua scelta, fatta forse per motivi istituzionali. Ma io di cosa dovrei parlare con Michetti, di storia romana?

Il governatore campano Vincenzo De Luca è tornato ad attaccare il M5S e Conte. Ma la sera della vittoria di Manfredi a Napoli si era fatto scattare una foto con lui, Di Maio e Fico.

Quell’immagine mi ha lasciato un po’ perplesso. De Luca ci ha sempre attaccato con toni violenti: una maggiore prudenza rispetto a quella foto non avrebbe guastato.

 

Gad, Fed, Artemide e Unione: quante vie infinite al tafazzismo

Prima avvertenza. Enrico Letta non sottovaluti il numero dei posti di governo nel vademecum per il Nuovo Ulivo che assembli gioiosamente Pd, M5S, Italia Viva, il calendismo di Azione, Articolo 1, + Europa e il Centro democratico di Bruno Tabacci, il Psi e il Maie, probabilmente i riformisti hard di Marco Bentivogli (Base Italia) e persino un pezzo di Forza Italia.

Giova allora ricordare in questi tempi di fulgido revanscismo prodiano – grazie anche alla pregna autobiografia del padre naturale dell’ulivismo – che il secondo e ultimo esecutivo del Professore (2006-2008) stabilì il record nazionale di poltronismo tuttora imbattuto: 102 tra ministri (26), viceministri (10) e sottosegretari (66). L’ultima mitologica casella fu riempita con il prodalemiano Giovanni Mongiello detto Gianni, tycoon dauno di TeleFoggia, che quando venne consacrato sottosegretario alle Politiche agricole in quota Dcu, Democratici cristiani uniti, disse commosso: “Sinora avevano fatto carriera solo i dc coinvolti in Tangentopoli, trattati come martiri. Io ho pagato la mia condizione di essere scampato alle inchieste. Ma è tutto finito”.

Insomma bisogna saper contare, altrimenti si rischia il gramo destino di Arturo Parisi, custode del pallottoliere prodiano, che il 9 ottobre 1998 (domani cade il ventitreesimo anniversario) fu spettatore impotente del crollo del Prodi I a causa di un solo voto alla Camera. Mai accaduto. La storia che si nutre sovente del Carneade di turno fu fatta da Silvio Liotta, deputato diniano di Rinnovamento Italiano che non votò la fiducia. Erano gli albori dell’Ulivo di governo, la cui fondazione tre anni prima fu particolarmente affollata, in nome delle tre culture politiche riunite: la socialdemocrazia dei postcomunisti; il cattolicesimo democristiano anti-berlusconiano; infine il liberalismo di sinistra. Il tavolo per riunirsi era abbastanza ampio (ecco perché adesso Enrico Letta comincia a parlare di “coalizione larga”) per far sedere: Pds, Movimento per l’Ulivo (i prodiani), Ppi, Socialisti italiani, Patto Segni, Alleanza democratica (non si può non citare Adornato, successivamente teorico del centrodestra), Federazione dei Verdi, Rete orlandiana, Pri, Federazione dei liberali (il sabaudo Valerio Zanone, massone in sonno di una loggia del Goi, Grande Oriente d’Italia), Federazione laburista (Valdo Spini), Movimento dei comunisti unitari, Cristiano sociali.

In seguito, fino all’Unione che vinse le elezioni nel 2006, le evoluzioni e le novità degli acronimi partitici furono molteplici: i Ds al posto del Pds; prodiani, popolari e diniani nella Margherita; l’Udeur cossighian-mastelliana; i repubblicani di Luciana Sbarbati; i socialisti dello Sdi; Rifondazione comunista di Bertinotti, vera artefice della caduta del Prodi I; il Partito dei comunisti italiani nato dalla scissione di Rc; la Rosa nel Pugno; l’Italia dei valori di Di Pietro; i Verdi, senza dimenticare lo scontato appoggio esterno delle forze regionaliste.

Il risultato però non cambiava mai: la durata dell’ulivismo dipendeva dall’inconciliabilità degli opposti: il Prodi II finì per Mastella e il trotzkista Turigliatto. E come dimenticare i ministri in piazza contro il proprio governo, vuoi per il pacifismo, vuoi per i lavoratori? Tutto e il contrario di tutto, incarnato dal fatidico programma di 281 pagine nel 2006. Già, il programma. Si fa presto a dire governo. L’epica ulivista gronda estenuanti sessioni fiume. Per la serie: prima il programma o le regole? E come si decide: a maggioranza relativa, assoluta o dei due terzi? Immaginate cosa accadrebbe con i 5S: migliaia di votazioni online per ogni singolo comma. In questo groviglio dialettico e masochista proliferarono tappe intermedie quali la Fed, la Gad (Grande alleanza democratica) e il gruppo super-riformista di Artemide per la trascendenza dell’Ulivo. Sempre che per il programma del Nuovo Ulivo non valga l’Agenda Draghi. Già nel 2013 un pezzo del Pd ci provò con quella di Monti. Le vie del tafazzismo sono infinite.

Conte: “M5S mai ramo dell’Ulivo” No al Pd pure dal “nano” Calenda

Alla fine l’avvocato lo ha dovuto dire dritto, ha dovuto mettere un paletto: “Non ce lo vedo il M5S a fare un ramo dell’Ulivo: noi la transizione ecologica l’abbiamo nel Dna e siamo un albero che dà ossigeno per proprio conto”. Tra una tappa e l’altra del suo tour in Sicilia, antico granaio di voti per il M5S che ne ha persi molti, Giuseppe Conte dice a Tagadà che no, l’idea del Pd di una coalizione larga, con dentro Matteo Renzi, Carlo Calenda e chissà quali altri “moderati” non può proprio andare: “Il vecchio Ulivo è un progetto che ha avuto una contestualizzazione storica precisa”.

Per l’ex premier “riproporre vecchie formule adesso non credo abbia molto senso”. Prova a difendere la trincea, il presidente del M5S che non è più “il fortissimo punto di riferimento dei progressisti” come aveva rimarcato il segretario dem Enrico Letta lunedì sera. Un modo per avvisare Conte che i tempi sono cambiati assieme ai numeri, con buona pace delle piazze riempite dall’avvocato. Per questo molti parlamentari in queste ore gli hanno chiesto anche con messaggi a iosa di rimettere una distanza con il Pd, con l’alleato che ora prova a ridurre i grillini a truppe meramente ausiliarie. E poi a provocare quella risposta provvede anche Carlo Calenda, che mercoledì l’ex premier aveva tacciato di “arroganza” e “percorso autoreferenziale”, un chiaro no alla sua entrata nella coalizione giallorosa.

In mattinata il capo di Azione gli replica così: “Considero Conte campione di qualunquismo e trasformismo”. Poi in giornata Calenda parla all’Huffington Post, dicendo no all’Ulivo proprio come Conte: “Per l’amor di Dio, l’Ulivo a cinque stelle proprio no, il Pd scelga tra riformismo pragmatico o massimalismo populista”. Ma l’onda lunga delle Comunali si rintraccia anche e soprattutto nelle parole del governatore dem della Campania, Vincenzo De Luca.

Lunedì sera si era messo in posa per quella chiacchieratissima foto con Luigi Di Maio e Roberto Fico, tutti assieme per celebrare il neo-sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi. Neanche 48 ore dopo, De Luca maramaldeggia così: “Da Conte un’invasione di campo a Napoli? No, l’ho visto come una conferma dell’attrattività turistica della Campania, e poi io sono caritatevole”. Poi un facile siluro: “Lunedì sera a Napoli avevamo più dirigenti dei 5Stelle che voti del M5S”. Certo, il governatore ostenta anche qualche carezza: “Considero Fico di grande qualità umana, così come ho apprezzato che Di Maio abbia cambiato la sua posizione sulla giustizia”. Però, alla fine, lui è De Luca: “Qualcuno mi ha sfottuto per una foto che mi vedeva insieme a tanti esponenti dei 5Stelle. Ma sono cambiati loro, io sto sempre là”. Non può sorprendere allora che quella immagine ingolfi di malumore le chat grilline. Come non può stupire l’affondo dell’anti-dem Alessandro Di Battista: “Ho letto le parole di De Luca e mi viene in mente il film Non ci resta che piangere: ‘Ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi”’. In questo scenario, Conte prova a dire che in fondo non è stato un disastro: “Parlate di crollo per aver letto qualche commento malevolo. Abbiamo ottenuto risultati importanti a Napoli e Bologna, mentre in Calabria dove non abbiamo mai avuto un consigliere regionale e mi risulta ce ne siano due e la possibilità di un terzo”. Nella Roma dei Palazzi, invece, cresce l’attenzione per la Virginia Raggi che prenderà un caffè con i due candidati Gualtieri e Michetti, senza dare indicazioni di voto.

In diversi sperano che lei, che ha corso contro il Pd, possa fare da contropotere rispetto a Conte, anche in nome del Beppe Grillo che l’ha voluta nel comitato di garanzia. Ma persone vicine alla sindaca uscente rimarcano il suo post di martedì: “Non è l’ora di dividerci, restiamo uniti più che mai”. Sarà il primo obiettivo di Conte, che ieri ha parlato della riapertura delle discoteche – “Ci sono le condizioni per lo stop al limite delle capienze di cinema e discoteche” – anche per ricordare che il Movimento 5 Stelle vuole dire la sua riguardo ai temi di governo. Di cui fa parte, e chissà se e quanto c’entra con certe batoste.

Carletto La Qualunque

Guardando Carlo Calenda che si limonava da solo a Otto e mezzo, abbiamo temuto per Giuseppe Conte. Con tutti i guai che ha coi 5Stelle gli mancava soltanto un benvenuto di Calenda nel “nuovo Ulivo”, che poi è la vecchia Unione prodiana da Mastella a Turigliatto, naufragata nel 2008 dans l’espace d’une année. Un endorsement di Calenda porta buono almeno quanto un endorsement di Ferrara, che infatti aveva endorsato Calenda. Ma Conte l’ha scampata: il noto frequentatore di se stesso l’ha riempito di insulti e annunciato che con i 5Stelle non si alleerà mai. Se Letta soffre della sindrome di Stoccolma, visto che si ripiglia due campioni di lealtà come Calenda e Renzi, Carletto Rolex è affetto dalla sindrome della mosca cocchiera, che si posa sul cavallo e si convince di essere lei a trainare il carro. Nessuno gli ha spiegato che Roma non è l’Italia, dove i sondaggi lo danno in zona Iv. Lì ha preso il 19,8% perché molti elettori di destra ridevano all’idea di Michetti sindaco. E han deciso giustamente che il vero candidato di destra era lui (ex Confindustria, ex Montezemolo, ex Monti, ex Renzi, autore col Pd di un furto con destrezza di voti da manuale: prendi il seggio europeo da 18mila euro al mese e scappa). Evento difficilmente ripetibile su scala nazionale, visto che a destra c’è già un discreto affollamento di leader, e purtroppo tutti più popolari di lui (persino B.). Una rondine non fa primavera e un Calenda non fa capoluogo.

Lui però se la sente calda: “Voto Gualtieri, ma la mia non è una dichiarazione di voto urbi et orbi” (testuale). Si definisce “socialista-democratico”, “liberalsocialista”, “liberaldemocratico”, “erede del Partito d’Azione” solo perché il suo partito si chiama Azione. Se gli domandano qualcosa di più preciso, dice “basta con fascismo e comunismo, berlusconismo e antiberlusconismo”, manco fossero la stessa cosa: un Cetto La Qualunque dei Parioli. E ora che fa? Un bel centrino con Renzi, Bentivogli e FI? “No, mi fa schifo”. Ah. E quindi? Una grande alleanza con i “popolari come la Carfagna” (sic) e pure con Fratoianni, “anche se dice un sacco di idiozie”. Ecco. Però, sia chiaro, “ho una pregiudiziale sui 5Stelle, populisti e trasformisti”: “Conte non so cos’è” e “ha governato con la Lega e col Pd”; e “Di Maio al Mise ha fatto un disastro epocale, in un Paese serio venderebbe i giornali”. Gli è forse sfuggito che Conte è il premier che ha gestito la pandemia e portato a casa il Recovery Fund. E Di Maio, al Mise, spuntò da Mittal molti meno esuberi di quelli avallati da lui. Quanto al trasformismo, lui è stato eletto nel Pd, i suoi tre parlamentari nel Pd, in FI e nel M5S, e Azione sostiene un governo con dentro M5S, Lega e Pd contemporaneamente. Quando arriva l’ambulanza?