Tra biografie e serie, Aldo Moro e il Papa: la Festa di Roma non sarà allegrissima

Roma nun fa’ la stupida, è seria, anzi, serie. Carlo Verdone con la serie autobiografica Vita da Carlo; Gabriele Muccino con la serie autoremake A casa tutti bene; Zerocalcare con la serie Netflix Strappare lungo i bordi; il pugile Muhammad Ali per l’omonima serie documentaria da otto ore; Stories of a Generation con Papa Francesco; JFK: Destiny Betrayed di Oliver Stone. Insomma, la XVI edizione della Festa, dal 14 al 24 ottobre prossimi, è la migliore che il defunto Roma Fiction Fest abbia mai avuto. Peccato che si voglia Festa di Cinema, e a fare i precisetti non ce n’è tantissimo, almeno associato ai grandi nomi: Quentin Tarantino e Tim Burton vengono senza film a ritirare un premio alla carriera; Marco Bellocchio darà solo qualche immagine della – aridaje – serie sul caso Moro Esterno Notte; i Manetti Bros. solo qualche immagine di Diabolik; Ligabue e Fabrizio Moro canteranno, pardon, parleranno e basta all’Auditorium, idem Luca Guadagnino e Alfonso Cuarón. Tra i protagonisti degli Incontri ravvicinati gli unici con un’opera al seguito saranno, oltre a Zerocalcare, Jessica Chastain interprete del – debole – film d’apertura The Eyes of Tammy Fay, Joe Wright regista del musical siciliano Cyrano e il fumettista Frank Miller cui è dedicato il doc American Genius. In cartellone anche E noi come stronzi rimanemmo a guardare di Pif, nella Selezione ufficiale c’è appena un italiano, L’Arminuta che Giuseppe Bonito ha tratto dal fortunato romanzo di Donatella Di Pietrantonio. Il direttore uscente Antonio Monda non se ne cruccia: “Non allargare ma selezionare l’offerta tricolore, altrimenti si rischia la riserva indiana”. Nessun ostacolo, però, alle biografie de noantri: Caterina Caselli di Renato De Maria; I fratelli De Filippo di Sergio Rubini; Marina Cicogna, la produttrice; Scalfari (sì, Eugenio). A Sentimental Journey; Fellini / Simenon di Giovanna Ventura per Rai Movie; The Photographs of Paolo Di Paolo di Bruce Weber; Vitti d’arte, Vitti d’amore di Fabrizio Corallo; Luigi Proietti detto Gigi di Edoardo Leo; Essere Giorgio Strehler; Onde radicali su Radio Radicale. Il presidente Laura Delli Colli elogia “la capacità di far rete di una Festa al contempo internazionale e per la città”, Monda “il fil rouge culturale senza distinzioni tra alto e basso, come piace negli Usa”, ma il vero interesse è per l’avvenire: chi dirigerà la diciassettesima edizione? L’offerta pressoché pubblica di acquisto della protetta e dinamica Alice nella Città, ovvero Fabia Bettini e Gianluca Giannelli sotto l’ombrello di un guest director, è questo avvenire?

Incontri, redazioni e addii: cronache “acide” di Verdelli

Se mi decido a scrivere questa recensione al libro di un amico – lo so che non bisognerebbe farlo – non è solo perché ci ho trovato davvero un notevole condensato di buon giornalismo. Ma anche perché leggere gli encomi tributati a Carlo Verdelli dal Corriere della Sera e da Repubblica, nei giorni scorsi, mi ha lasciato dentro un sapore acido.

Sì, Acido, proprio come il titolo del libro. Nel quale sono raccolte, spiega la copertina, Cronache italiane anche brutali. Appunto, pure la vicenda toccata in sorte nel 2020 a Carlo Verdelli contiene un elevato tasso di brutalità italiana. Sulla quale sembra calare però un velo d’imbarazzo, per quanto ricamato di sinceri complimenti: strano che i benevoli recensori abbiano preferito ignorarla, trattandosi di una componente imprescindibile del libro che si apre con un’analisi della crisi del nostro giornalismo e si chiude con la cronaca del licenziamento dell’autore.

Mi riferisco, lo avrete già capito, al siluramento di Verdelli, poche ore per sgombrare la scrivania, il giorno stesso in cui a Repubblica subentrava la nuova proprietà; quasi si trattasse di un direttore venuto meno ai suoi doveri professionali. E senza neppure curarsi del fatto che una campagna persecutoria pianificata contro di lui ne annunciasse la morte in quella stessa data. Da qui la sensazione acida che mi è rimasta, il senso di una ferita aperta. Mi ha aiutato a decifrarne la natura leggere questa antologia, solo all’apparenza disordinata, di fatti e personaggi visti in presa diretta e poi riassunti nell’esito delle loro vicende.

È il background di un cronista che diventerà direttore coltivando il bisogno di scoprire l’umanità che si trova di fronte. Di immedesimarsi in lui o in lei, con rara sensibilità oltre che con buona penna. Dove il dettaglio non è gratuito perché rivela il tutto. Ci puoi, ci devi arrivare incontrando la vittima di un errore giudiziario o il protagonista di un’impresa sportiva, addentrandoti nelle file per il pane o, meno spesso, negli ingranaggi del potere: il buon cercatore sa estrarre pepite dai giacimenti di normalità apparente.

Si spiega così l’insolita carriera di Carlo Verdelli, pervenuto a dirigere, sempre con successo di vendite, giornali fra loro diversissimi: quotidiani generalisti, settimanali d’attualità o spettacolo, la giungla dell’informazione Rai e, non certo ultima, la Gazzetta dello Sport.

Devo aggiungere che lo ha fatto nonostante una innata ombrosità, la propensione a mantenersi un passo indietro, da ragazzo di Quarto Oggiaro che si è impadronito dei segreti del marketing editoriale, ma non si trova a proprio agio nell’establishment. Che, difatti, pur attratto dal suo talento, l’ha continuato a sentire corpo estraneo.

Verdelli si è autoimposto la regola ferrea di non parlare mai di sé, del padre partigiano e della sua famiglia operaia. Unica malaugurata e inevitabile eccezione, la vicenda della scorta assegnatagli dal Viminale che ha valutato molto serie le minacce anonime di cui è stato oggetto.

Appassionanti sono i capitoli di Acido, dove troverete in fila Renato Vallanzasca e Mauro Rostagno, Patrick Zaki e Pietro Mennea, Enzo Biagi e Matteo Salvini, Marco Materazzi e la trans Antonia, fra tanti altri. Una galleria sorprendente dalla quale emergerà con chiarezza quali sono gli arnesi del mestiere di un cronista capace di trasformarsi in direttore senza snaturarsi. Perché la virtù del bravo direttore che ha fatto la gavetta in redazione è saper guidare gli altri con spirito di complicità. Gioire del successo dei colleghi anziché metterglisi davanti. Valorizzare le personalità di ciascuno perché l’orchestra suoni al suo meglio.

Se “l’albero della carta perde le foglie, investito da una specie di autunno perenne”, come esordisce Verdelli a proposito della crisi dell’editoria italiana (ho la fortuna di scriverlo su uno dei pochi giornali che oggi se la passano bene) è anche perché il sistema crede di poter fare a meno di persone libere come lui.

Quel trans che ispirò Battiato. La storia di “AlexanderPlatz”

“Tutti mi credono poliglotta”, raccontava sornione Battiato. “Cavolate! Quando volo all’estero compro in aeroporto quei manuali tipo Impara il tedesco in 5 ore o Parla subito il russo. Mi concentro su poche frasi e una volta a destinazione faccio bella figura”. Si divertiva, Franco, a svelare il trucchetto. “Raggiunsi Milva a Berlino. Mi vide e sospirò: ‘Meno male, sei arrivato. Portami ad Alexanderplatz, tu che conosci la lingua!’”.

La città divisa, la neve, la suggestione della libertà di là dal Muro. Era il 1982 quando il Maestro offrì alla Pantera di Goro il capolavoro di espressionismo pop firmato con Giusto Pio e Alfredo Cohen. Ma Alexanderplatz era stata generata da un’altra canzone, cinque anni prima. Battiato e Pio ne avevano scritta la musica, sostanzialmente identica, ma il testo originale era stato dedicato da Cohen a un transessuale quindicenne con cui condivideva molte cose, compresa la casa romana in via della Pace. “Valéry” era ed è Valérie Taccarelli, ritratta da Alfredo dietro i suoi “occhiali alla Minnelli” e l’indole di una giovane cui “piace di più lavare i piatti poi startene in disparte come vera principessa”. Una coloritura intimistica distante dalla rielaborazione da Guerra fredda di Alexanderplatz, cui era stato aggiunto un ritornello da Battiato. Valérie fu entusiasta della risciacquatura nello Sprea del “suo” pezzo da parte di Milva. Un brano confluiva nell’altro: Alexanderplatz conquistò il mondo mentre Valéry, confinato in un 45 giri, non aveva avuto successo.

In quel frangente Cohen era già determinato a prendere le distanze con il passato, l’alba degli anni 70 che lui, abruzzese di Lanciano (all’anagrafe Alfredo D’Aloisio, lo pseudonimo Cohen era un tributo a Leonard) aveva vissuto a Torino, operaio per pagarsi l’università. Qui si era legato al libraio Angelo Pezzana, protagonista della fondazione del F.U.O.R.I., il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano. Ricorda Pezzana: “Di Alfredo conservo il pensiero del soggiorno torinese, prima che si stabilisse a Roma per fare il regista e l’attore. Capivo il pericolo che avrebbe corso lì. Esagerava con il bicchiere. Era tornato a insegnare, ma da professore gay aveva poche chance”.

Anche scrivere “omosessuale” su un giornale era stato un tabù. “Per questo era nato il F.U.O.R.I.”, rievoca Pezzana. “Giangiacomo Feltrinelli aveva pubblicato il libraccio di uno psichiatra che illustrava terapie d’urto per far ‘tornare normalmente eterosessuale’ un ragazzo. Sulla Stampa comparve una recensione dal titolo L’infelice che ama l’immagine di se stesso. Era troppo. Con altri gay di Torino prememmo sul quotidiano per parlare della nostra realtà, ma il direttore Ronchey ci fece sapere che non era possibile. Ci decidemmo per uscire allo scoperto. A destra ci consideravano depravati, per la sinistra eravamo una sovrastruttura borghese. Nel Pci l’omofobia era rimasta quella di Togliatti che aveva ironizzato su Pietro Secchia, ‘La Secchia bucata’. Avremmo trovato accoglienza tra i radicali di Pannella”.

Il primo campo di battaglia del F.U.O.R.I. fu Sanremo, il 5 aprile 1972. “La definirono la Stonewall italiana, ma non ci furono tumulti come tre anni prima a New York contro polizia e mafia”, precisa Pezzana. “A Sanremo eravamo in venti, quasi tutti torinesi, a contestare le ‘teorie riparative dell’omosessualità’ di psicologi e psichiatri cattolici a convegno nel Casinò. Ma la lotta si sarebbe rivelata complessa”.

A Torino, in quel primo periodo, fece capolino Battiato. “Era venuto per conoscere Cohen, incuriosito dalle sue canzoni”, rivela Pezzana. “Tra loro c’era feeling creativo: Franco lavorò come arrangiatore e direttore artistico nell’unico album di Alfredo, Come barchette dentro un tram, interamente incentrato su tematiche gay, con copertina di Ugo Nespolo. Io ne ho curata, molto dopo, una riedizione con uno scritto di Fernanda Pivano”. In questa nuova uscita compariva pure Valéry. Ma Cohen era già fuori gioco. Morì nel 2014 in Tunisia, si disse “per cause naturali”. “Fu ucciso”, sostiene Pezzana. “Era andato ad Hammamet in vacanza, come altre volte. Trovarono il corpo in strada, senza un soldo, malgrado appena un paio di giorni prima fosse partito dall’Italia con in tasca tre mesi di anticipo sullo stipendio. Non ci fu autopsia. Se ne è andato in modo violento, il mio amico cantautore. Il mio amico poeta”.

Lucano e Muccioli, quando i sogni fanno i conti con la legge

Ci sono uomini il cui destino è quello di occuparsi degli ultimi, quando la storia non è ancora pronta a occuparsi di quegli ultimi. Dei reietti a cui nessuno sa dare un posto, di cui nessuno si vuole occupare perché occuparsene vuol dire fare i conti con coscienza e pragmatismo, essere decisionisti, sfidare i pregiudizi. Perché occuparsene vuole dire spiegare agli altri chi sono quegli ultimi che fanno paura. Pensavo a Vincenzo Muccioli, in questi giorni feroci dopo la condanna a Mimmo Lucano, a come anche lui in un contesto storico diverso, ha provato a fare là dove nessuno aveva mai fatto, a riuscire là dove gli altri – la chiesa, la politica, le comunità – avevano fallito. O forse non ci avevano mai neppure provato, perché quelli, i drogati, erano anime perse e a nessuno interessava guardarci dentro. Gli ultimi. I drogati negli anni 80, gli immigrati negli anni 2000. Vincenzo Muccioli e Mimmo Lucano.

Entrambi immensi e fallibili, la vita dedicata a una missione romantica e ciclopica che si è scontrata con vuoti legislativi, responsabilità che non voleva nessuno e un’ignoranza gretta, diffusa, secondo la quale “poteva non drogarsi, peggio per lui”, “poteva non salire su quel barcone, colpa sua”. I drogati che morivano sulle panchine, ritratti da qualche fotografo nella cronaca locale. Gli immigrati fotografati sulle panchine e poi sbattuti sulle pagine di politici nazionali. Certo, Muccioli fu un padre dispotico, usò violenza e coercizione, Mimmo Lucano ha praticato pace e inclusione, ma in fondo entrambi coltivavano lo stesso sogno di città utopica, in cui i drogati abbandonavano i loro demoni, gli immigrati i loro fantasmi. In cui si ripartiva dal lavoro, dall’artigianato, dall’atmosfera operosa che cura e reinserisce. “San Patrignano era un assembramento di naufraghi. Muccioli era Achab, poi perse il controllo”, ha detto Fabio Cantelli, la voce più lucida tra i sopravvissuti di San Patrignano. Ha usato proprio il termine “naufraghi” e naufraghi erano davvero tanti “ultimi” accolti a Riace, che nel frattempo diventava un modello, come “San Patrignano”. E mentre la politica corteggiava Muccioli e Lucano, mentre il mondo ammirava le città ideali in cui gli ultimi trovavano pace e riscatto in un’idea romantica di integrazione, “Achab perse il controllo”. Senso di onnipotenza, forse. Il culto del bene che si è mescolato al culto della persona, un groviglio di migliori intenzioni e di pessimi strumenti. Muccioli smarrì la sua verità interiore, come disse Cantelli. Per inseguire la sua utopia utilizzò ogni mezzo di coercizione possibile. Lucano ha smarrito la verità estrinseca, senza forse neppure rendersi conto di quanto in là si stesse spingendo. Ha forzato la legge, ne ha smarrito i confini. Muccioli agì per correggere gli istinti altrui, Lucano per correggere la burocrazia. L’ex sindaco di Riace ha agito con ingenuità e per un nobile scopo, secondo i più. In sprezzo delle istituzioni, secondo i suoi detrattori. E secondo la legge, che lo ha condannato a una pena dura, inclemente. “Nel processo di San Patrignano, Vincenzo Muccioli fu dichiarato non punibile in appello e in Cassazione per il reato di sequestro di persona e violenza proprio per lo stato di necessità. Ecco, là c’erano violenze, qui la dolcezza di un uomo che agiva per solidarietà, Mimmo voleva salvare chi ospitava”, ha dichiarato Giuliano Pisapia, avvocato di Mimmo Lucano, ricorrendo proprio a un parallelismo tra le due vicende. “Lucano, un bandito idealista da western”, sono state le parole del procuratore di Locri, Luigi D’Alessio. “Ci sono cose che un avvocato capisce al volo. Ad esempio la torsione delle regole del processo penale, la criminalizzazione del caso singolo come simbolo sociale”, ha scritto l’avvocato Cataldo Intrieri. “Talvolta la disobbedienza civile è necessaria”, hanno detto in molti.

Un santo, un bandito, un capro espiatorio, un simbolo.

Ognuno, alla fine, nella vicenda Lucano ha visto ciò che Lucano è stato: un intreccio di ideali e umanità, una gestione spregiudicata e incosciente della cosa pubblica, volano per una parte politica, minaccia per l’altra. Alla legge è toccato un compito infame e scivoloso: giudicare un freddo groviglio di illeciti e tecnicismi che in pochi hanno compreso, reati che hanno suoni sinistri – truffe, peculato, abuso d’ufficio, falso in certificato – e che non hanno arricchito l’uomo, ma il suo progetto, il suo sogno.

E forse qui, se si fa lo sforzo di non leggere politicamente questa sentenza, c’è l’ostacolo maggiore. Quello che impedisce di far coincidere l’assoluzione morale e quella contenuta in una sentenza. Nel caso di Muccioli, i giudici si trovarono a trattare una materia che aveva a che fare con impulsi e libertà, con l’idea di aiuto che passa attraverso una brutalità salvifica. Si discuteva del bene e del male, di uomini, di catene, di astinenza, di morte. Nel caso di Lucano, i giudici si trovano davanti una gelida sequela di reati che riguardano denaro pubblico, appalti, associazione a delinquere. L’interpretazione della legge si fa più complessa, più rigida, a meno che – certo – non si alzi lo sguardo e non si scorga l’insieme, quello che permette non solo di applicare ma anche di interpretare la legge, avvicinandosi il più possibile ai fatti – certo – ma anche e soprattutto a ciò che li ha guidati. E cioè, al fatto che Mimmo Lucano è un uomo giusto.

Neofascisti, mafia e casinò: gli sporchi traffici della P2

Come in una fiction criminale, ma invece nei contorni sfumati eppure implacabili della realtà, cercare “i soldi della P2” significa mettere in fila morti ammazzati, coincidenze a un primo esame inspiegabili, depistaggi devastanti per una qualunque verità, complicità che affondano nel “cuore dello Stato”.

Follow the money, dunque, e per l’ennesima volta. Ma anche due magistrati uccisi (e all’apparenza dei processi, quelli sui loro omicidi, solo per le vendette del terrorismo fascista il primo, della ’ndrangheta salita alla conquista del Nord industriale il secondo): Vittorio Occorsio, pm di Roma, nel 1976, e Bruno Caccia, procuratore capo di Torino, nel 1983. Poi, un altro giudice scampato a un’autobomba, forse la prima nella storia del dopoguerra italiano, e infine morto suicida: il pretore di Aosta Giovanni Selis, nel 1982. Che cosa mai è in grado, però, di collegare quelle vicende, di andare oltre l’unico elemento comune dell’eliminazione riuscita o tentata di tre “servitori dello Stato”, di tessere il filo capace di portare tutto “a un livello superiore”, riconducendolo a uno scenario ben più ampio e che riguarda l’attacco alla Repubblica democratica?

I soldi della P2 (PaperFirst, pp. 502, euro 18), appunto, prova a cercarlo. Non con la certificazione impossibile di una sentenza penale, ma invece con la bussola, quasi la lampada sul casco di un minatore, indispensabile per trovare un qualche squarcio di luce, un possibile sentiero di intrecci nell’oscurità dell’universo criminale e assieme eversivo e più pericoloso della nostra storia repubblicana.

I suoi autori posseggono le “chiavi inglesi” per smontare e rimontare quei misteri, grazie alle loro esperienze di lavoro, a una ricerca accuratissima e alla memoria diretta. Antonella Beccaria, giornalista che da anni dedica il suo impegno allo studio dell’Italia delle stragi; Mario Vaudano, giudice in pensione che, all’inizio degli anni 80, guidò da Torino una delle più importanti inchieste sulla corruzione della politica e delle istituzioni, lo “scandalo dei petroli”, coinvolgendo i vertici della Guardia di Finanza, ministri e sottosegretari dc, il gotha dell’imprenditoria petrolifera italiana, il Vaticano, Licio Gelli e la P2, lambendo addirittura il “caso Moro” e l’omicidio Pecorelli; Fabio Repici, avvocato siciliano e legale delle famiglie delle vittime delle mafie, come quella del procuratore Caccia, il magistrato che aveva condiviso e difeso le indagini di Vaudano.

Torino e Roma, Selis, Caccia, Vaudano e Occorsio: luoghi, nomi e ruoli che per tutto il libro si intersecano senza sosta, ma con improvvisi cortocircuiti, assieme alle connessioni con il denaro della mafia e i casinò italiani e della Costa Azzurra, i sequestri di persona compiuti dalle ’ndrine nel Nord, l’uso dei sicari “neri” per regolare conti ed eliminare avversari. E infine il fiume di soldi gestito sotto l’egida della P2 di Gelli: la potente organizzazione massonica ed eversiva infiltrata all’interno dello Stato.

Gli scarti improvvisi e le ricostruzioni più difficili sono continui nell’opera di Beccaria, Repici e Vaudano. Nella quale anche l’uccisione di Occorsio, la più indagata nel tempo, offre nuovi spunti e pone altrettanti interrogativi. Ma è soprattutto l’omicidio Caccia quello indicato, ancora oggi, come il più deprivato della verità e di un’attenzione nazionale spesso negatagli dai media, trascorsa l’urgenza della sua attualità. Ci sono due sentenze, in epoche diverse, che hanno attribuito la sua morte agli uomini delle ’ndrine. Bruno Caccia, unico magistrato ucciso dalla ’ndrangheta e nella città della Fiat: quanto dovrebbe bastare perché rimanga fissato nell’agenda di uno Stato che vuol sapere come e perché sono stati uccisi i suoi servitori.

Torino e la vicina Aosta paiono allora quasi il baricentro, le “capitali”. dei misteri del libro. Caccia aveva cominciato la sua carriera in Vallée, indagando per primo su vicende legate al casinò di Saint Vincent: la stessa casa da gioco su cui stava lavorando Selis, prima dell’attentato. Sempre Caccia, poi, era stato il procuratore che aveva affiancato a Torino Gian Carlo Caselli nelle indagini sulle Brigate Rosse, aveva appoggiato quelle di Vaudano sul contrabbando petrolifero, aveva avviato l’inchiesta sullo “scandalo delle Tangenti” nel Comune di Torino e nella Regione Piemonte (anticipatrice di Mani Pulite), aveva incrociato la mafia catanese trapiantata in città e gli “alleati” calabresi con i sequestri di persona e il traffico di droga, aveva cominciato con la Procura di Milano a cercare le prove sull’infiltrazione di Cosa Nostra italo-americana nei casinò italiani. Aveva intuito infine (forse la sua “colpa” più grave) i rapporti tra alcuni colleghi del Palazzo di Giustizia subalpino e la criminalità locale.

Gli autori ripropongono così, tra le pagine, un interrogativo che dura da anni: può essere il suo omicidio solo riconducibile a una vendetta del milieu mafioso torinese? O non è invece quasi l’archetipo di quel fil rouge che Beccaria, Repici e Vaudano hanno provato a intrecciare nel sottotitolo del loro libro: “Sequestri, casinò, mafie e neofascismo: la lunga scia che porta a Licio Gelli”?

Austria, premier indagato: “Favorì la corruzione”

Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz è indagato per favoreggiamento della corruzione. Ieri sono state effettuate perquisizioni alla cancelleria viennese, nella sede del partito di governo Övp e al ministero delle Finanze. La Procura sta indagando su dieci persone, incluso il cancelliere, e tre ‘soggetti’. Le ipotesi di reato sono peculato, concussione e corruzione. Oltre agli uffici del cancelliere, dove sono stati sequestrati i telefoni di tre stretti collaboratori di Kurz, gli inquirenti hanno perquisito il ministero delle Finanze e l’abitazione dell’ex ministro alla Famiglia, Sophia Karmasin.

I fatti risalgono al 2016 quando Kurz era a capo del dicastero degli Esteri. Secondo la Procura anticorruzione, il ministero delle Finanze pagò il gruppo editoriale Oesterreich per pubblicare sondaggi falsi avvantaggiando il partito popolare Övp, guidato da Kurz. La tv Oe24 e il quotidiano Oesterreich, di proprietà della famiglia Fellner, avrebbero ricevuto 1,3 milioni di euro per diffondere i risultati di inchieste che non sono mai state svolte.

Non si tratta del primo caso giudiziario che coinvolge Kurz e il suo governo. Dalla scorsa primavera risulta indagato per falsa testimonianza nel caso Ibiza-Gate, nel 2019 il vice cancelliere Heinz Christian Strache venne filmato mentre si faceva corrompere da un oligarca russo. C’è anche una terza inchiesta, ancora in corso, sulle nomine dei Casinos Austria che coinvolge diversi collaboratori di Kurz.

Dall’opposizione, sia i socialdemocratici sia l’ultradestra chiedono le dimissioni del cancelliere. A rispondere è il suo partito: “Dopo le false accuse contro Kurz, la cui infondatezza è ormai dimostrata, ora vengono costruite nuove accuse su vicende che in parte risalgono a cinque anni fa”.

Biden dichiara l’arsenale nucleare in attesa di Mosca

Fermento nucleare negli Stati Uniti: per la prima volta dal 2018, l’Amministrazione rende note le dimensioni dell’arsenale atomico, di cui gli esperti stanno valutando adeguatezza e necessità di ammodernamento. È un segnale di trasparenza da parte dell’Amministrazione Biden: invece, il presidente Donald Trump aveva deciso di non diffondere i dati. Il rapporto fornito dalla National Nuclear Security Administration (Nnsa) indica che gli Stati Uniti disponevano a settembre 2020 di 3.750 testate nucleari. Le cifre escono mentre Usa e Russia discutono se e come rinegoziare gli accordi nucleari, denunciati in gran parte da Trump, e se e come coinvolgervi la Cina: Biden e il presidente russo Vladimir Putin ne avevano parlato, quando si erano incontrati a Ginevra a giugno. Ieri, il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov e il segretario di Stato Usa Antony Blinken hanno pure avuto uno scambio di opinioni telefonico “sulla possibilità di riprendere a pieno l’attuazione” dell’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa), anch’esso denunciato da Trump nel 2018. Secondo la Nnsa, le ogive nucleari a disposizione degli Usa “rappresentano una riduzione dell’88% rispetto al massimo raggiunto a fine anno fiscale 1967 e una riduzione dell’83% rispetto al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino”. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian, che era ieri a Mosca, dice che i colloqui di Vienna sullo Jcpoa riprenderanno fra poco. La prospettiva inquieta Israele, sempre ostile all’intesa: il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid sarà a Washington la prossima settimana e ne parlerà con Blinken. L’obiettivo iraniano è la rimozione delle sanzioni reintrodotte e ampliate da Trump: Teheran ne calcola 800 illegali a suo danno. Il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, conferma l’impegno per una soluzione diplomatica.

Torture e stupri in carcere. “È uno schema dell’orrore”

Uno degli zar della letteratura russa, Lev Tolstoj, diceva che per giudicare il grado di civiltà di uno Stato bisogna visitare le sue prigioni. Quelle della Federazione di Putin sono un inferno e adesso ci sono le prove: un enorme “archivio segreto delle torture”, compiute sui detenuti dalle forze di sicurezza russe, è riuscito ad arrivare oltreconfine, in Europa, e ieri tre video di un enorme repertorio dell’orrore, di 40 giga e mille filmati, sono stati diffusi dall’organizzazione per i diritti umani Gulagu.net, “No al gulag”.

Legato a mani e gambe divaricate alle sbarre del letto d’ospedale del carcere, un detenuto urla a due secondini: “Cosa mi fate? Non fatelo! Voi siete brave persone!”. Il video prosegue riprendendo il suo stupro con un lunghissimo tubo rosso. Quando le parole del prigioniero vengono deformate dal pianto, dallo strazio e dalle urla delle sue viscere, una guardia gli risponde: “Adesso non ti alzerai per almeno tre giorni”.

Questa Guantanamo russa si trova a Saratov, la città dove scorre il fiume Volga. Un altro detenuto piegato in due, a cui sono stati legati piedi e mani allo stesso punto, viene violentato da un uomo nudo che geme. Coperto da un lenzuolo bianco che nasconde il suo volto nella stanza buia, il prigioniero è un fantasma stuprato in un silenzio assordante. Le immagini testimoniano che nelle carceri della Federazione la tortura degli operativi dell’Fsb, Servizi segreti russi, e della Fsin, Sistema penitenziario federale, è sistematica e massiva: stupri e violenze contro i prigionieri vengono esercitate per ottenere confessioni forzate che servono a dichiarare casi chiusi e fare carriera, dice l’Ong. “Che c’è suka, puttana? Chi sei tu? Tu sei nikto, nessuno”.

La guardia lo dice al detenuto mentre preme la sua faccia sul pavimento con lo stivale. Ha le mani legate dietro la schiena e risponde: “Sono nessuno”. I corpi nudi dei reclusi sembrano ancora più pallidi e cerulei quando vengono circondati dalle divise scure che li picchiano e urinano sulle loro facce. Disonorati nelle parti più intime, umiliati nella dignità, alcuni sono costretti a coprire genitali di altri prigionieri mentre ripetono il loro nome. Ai più fortunati vengono spaccati solo i polsi contro il muro.

Alcuni torturatori e torturati hanno già un nome, chi ha trafugato i video dell’orrore ancora no. Il whistleblower che è riuscito a trasportare all’estero le prove degli abusi, dissotterrandoli dal segreto e dall’omertà in cui sono stati compiuti, è un ex detenuto bielorusso dello stesso carcere di Saratov: le guardie hanno abusato di lui finché non hanno capito che era un programmatore e hanno cominciato a sfruttarlo per dividere in fascicoli foto e video dei supplizi. Concedendogli ingenuamente accesso ai server dei computer, l’informatico è riuscito a trasportare rocambolescamente oltre i muri delle celle le prove delle violenze, compiendo il più grande leak della storia delle prigioni della Federazione.

Rimane senza nome: la sua identità sarà svelata se gli verrà garantito l’asilo politico che ora è in attesa di ricevere dallo Stato europeo in cui si nasconde. Se i filmati non fossero stati veri, il Cremlino forse non sarebbe già stato costretto a pronunciarsi. Verranno presi “seri provvedimenti” se i video si riveleranno essere autentici, ha riferito Dmitry Peskov, portavoce del presidente Putin. Cinque ufficiali d’alto grado e il direttore del carcere di Saratov sono stati licenziati.

Il Fsin ha aperto un’indagine interna, parallela a quella aperta dalla Procura generale, “per verificare le informazioni, inquirenti sono stati inviati nella regione di Saratov dal capo della Fsin, Aleksandr Kalashnikov” ha reso noto il Sistema penitenziario. Aleksey Fedotov, a capo del dipartimento regionale, si è dimesso ed è “partito per una vacanza, da cui potrebbe non tornare più a lavoro”. Vladimir Osechkin, che ha fondato l’ong Gulagu.net nel 2011 e dal 2015 non vive più in Russia, dalla Francia riferisce di avere le prove di violenze sessuali e fisiche compiute su almeno duecento prigionieri che si trovano nelle regioni di Saratov, Vladimir, Irkutsk, Belgorod, Kamchatka. Sono testimonianze non di abusi compiuti su singoli, ma di “uno schema”: le carceri sono “una macchina della tortura”. Mentre le immagini arrivano al Consiglio d’Europa e all’Onu, il sito dell’ong, vietato in Russia da luglio, è irraggiungibile. Colpito da un cyberattacco che, secondo il fondatore, arriva da Mosca, risulta inesistente proprio come i diritti dei galeotti slavi, i cui orrori sono stati denunciati da quello che già chiamano “lo Snowden bielorusso”, in onore dell’informatico Usa a cui è stato garantito asilo proprio in Russia.

Ue nella Nato, ma autonoma. Così Draghi fa il leader europeo

Il dibattito non è nuovissimo, ma l’insistenza con cui i dirigenti europei tornano sul tema del coordinamento militare della Ue per una maggiore autonomia dalla Nato fa pensare a una fase diversa. Soprattutto se su questa linea si colloca con parole inusitatamente nette l’Italia di Mario Draghi.

Intervenendo all’incontro tra capi di Stato e di governo in Slovenia, il premier italiano è tornato sul ritiro dall’Afghanistan per dire che il modo in cui è stato comunicato ed effettuato, così come il “cambio di intenzioni che ha riguardato il contratto tra Australia e Francia su alcuni sottomarini” indicano che la Nato “sembra meno interessata all’Europa e alle zone di interesse dell’Europa e ha spostato l’interesse verso altre parti del mondo”.

Se è così, che fa l’Unione europea? Certamente non si separa dagli Stati Uniti, non è questa la discussione, ma i Paesi membri, si domanda Draghi, “possono coordinarsi maggiormente nelle posizioni che prendono all’interno della Nato?”. Domanda retorica, per una risposta che stavolta è più netta di quanto la tradizione atlantica dell’Italia autorizzi a pensare, in sintonia con i ministri Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, rispettivamente agli Esteri e alla Difesa. Tanto da presentare Draghi come il capo di una corrente europea che spinge per una maggiore solidità degli interessi continentali. Non è solo: l’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, ha invitato a trarre le stesse conseguenze dal ritiro in Afghanistan proponendo di decidere già a novembre l’istituzione di una forza strategica da 5.000 uomini. Anche il Segretario della Nato, Jens Stoltenberg, ha fatto dichiarazioni simili sempre sottolineando che non si tratta di dividere la Nato e nel vertice Osce di Parigi anche il Segretario di Stato Usa, Antony Blinken, guarda favorevolmente a una iniziativa europea. Gli Usa sembrano interessati ad altre priorità anche se hanno sempre l’interesse a tenere la Ue legata a un filo stretto.

Come quasi tutte le vicende europee, potrebbe trattarsi di un dibattito che non sfocia in nulla. Ma, al di là delle dichiarazioni di facciata, Kabul ha segnato una frattura tra Ue e Usa, e in Europa si pensa sempre più convintamente che i propri interessi vanno tutelati per conto proprio.

Juan Carlos, il decaduto. “In esilio non intralcio il re ”

“Cosa le manca di più della Spagna?” “Il cibo”. A Madrid ieri è deflagrata la notizia che il sovrano emerito Juan Carlos I di Borbone non verrà processato per le tre inchieste sui reati fiscali a suo carico. A Parigi, nelle stesse ore usciva Mon roi déchu (Il mio re decaduto) un libro su di lui scritto da Laurence Debray, sua giornalista di fiducia. In 200 pagine, la scrittrice 44enne – figlia di Régis Debrayi guerrigliero accanto al Che in Bolivia – che in Juan Carlos vede “l’antimonarca, non schiacciato dal peso della Corona, né costretto dalle sue tradizioni o dei suoi obblighi” già autrice della biografa Juan Carlos d’Espagne diventata il documentario Me, Juan Carlos, King of Spain, diretto da Miguel Courtois – fa di tutto per riabilitare l’immagine di quel re “bello, giovane, atletico, carismatico” che le “ha ridato fiducia nella politica”.

“Eroe di una storia finita bene: che ha assicurato contro ogni aspettativa il passaggio da una dittatura a una democrazia, un capolavoro politico inaspettato”. Ma Juan Carlos per la giornalista – che secondo alcuni media spagnoli sarebbe la sua nuova amante (lei stessa dichiara “un’infatuazione platonica”) in questo libro è l’uomo che inspiegabilmente per il “personaggio” all’alba del 3 agosto 2020 “getta gli ormeggi per svignarsela dalla porta sul retro della Zarzuela (il palazzo reale di Madrid, ndr) per riconnettersi con l’esilio della sua infanzia. Già spogliato dalla sua corona sei anni prima”. Come sia arrivato a questo punto lo sappiamo: “è il Corinnavirus”, come lo definisce l’ammiratrice, lo scandalo delle inchieste sui conti offshore a nome suo e dell’ex amante o “amica intima” come si legge nel libro, Corinna Larsen, derivanti da mazzette per affari in Arabia Saudita. “Sotto la pressione dei media, del governo e della famiglia non aveva scelta”, spiega Debray e “condannato da media e social network ancora prima andare in tribunale. Deve espiare le sue colpe, fare penitenza, scomparire”.

Da qui la giornalista ripercorre il suo regno: dal primo esilio, quello di nascita, a Roma, al momento in cui il dittatore Francisco Franco lo richiama per vestirlo da re, al ruolo fondamentale svolto durante la Transizione spagnola alla democrazia, al baluardo di quest’ultima sotto il colpo di Stato dell’81 all’investitura ad Adolfo Suarez.

Secondo l’autrice, il suo re decaduto non avrebbe meritato un’uscita di scena così “patetica”. Ma è pur vero – ammette la biografa – che “l’uomo che brillava, nel ventesimo secolo non è riuscito a capire e adattarsi al 21° secolo”. Così dopo i capitoli che ripercorrono i loro due incontri a Madrid, il primo ancora da sovrano, era il 2013, e il secondo a pochi giorni dall’annuncio dell’abdicazione nel 2014, Debray svela che “Juanito” per lei non è mai scomparso davvero.

Un giorno piovoso di novembre 2020, mentre Parigi è in lockdown, riceve una telefonata. È Juan Carlos: “Non si sente solo?”, gli chiede. “Qui ho dei buoni amici”. “Tornerà?”. “Non so. Diverse persone sono contente che io sia partito. Ero molto sotto pressione”. “E perché è andato a Abu Dhabi e non in Galizia, per esempio?”, chiede. “Lì i giornalisti mi avrebbero perseguitato. Qui invece non sono di intralcio alla Corona”, risponde lui. Dal suo “esilio” il re decaduto sogna gli “inverni di Madrid”. “Basta prendere un aereo”, si convince lui. “Deve parlare agli spagnoli. Pensi a costruirsi la sua leggenda, maestà”, consiglia lei. “Le istituzioni che ho lasciato dovrebbero bastare a parlare da sé”, chiosa lui, da padre della Patria. Tra i due le chiamate si fanno frequenti. Finché un giorno del 2021, cadute le restrizioni, Debray non sbarca ad Abu Dhabi, dove il re decaduto è andato “a farsi dimenticare” in una villa moderna, con tutti gli agi e gli onori degni di un monarca, guardie del corpo e domestici. Un luogo “discreto e isolato”. Juan Carlos è nel suo studio, ha una scrivania piena di carte e giornali. La abbraccia senza mascherina, è molto dimagrito. Da Madrid un complice gli manda jamon serrano.

Non è vestito da re, indossa una polo bianca troppo larga e scarpe da tennis. Si appoggia al bastone. Lo “sguardo blu si è velato di grigio”. Passa le giornate sul tablet, tra Zoom e Whatsapp, legge, si informa. “Non nasconde la sua afflizione”. La Spagna e il futuro della monarchia sono i suoi pensieri: tanti amici gli hanno voltato le spalle, ma non c’è amarezza: “Affronta tutto con dignità, con la forza dei sopravvissuti”. Non è più l’eroe del passato, ma un uomo solo di 83 anni, un re senza regno né radici. Al telefono, qualche giorno dopo, è scosso per la morte del principe Filippo d’Inghilterra. La cerimonia, dice, “è stata superba, commovente. Anche in Spagna queste cose si fanno bene. I funerali di mio padre sono stati molto belli. Ora devo pensare ai miei”.