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I 5Stelle devono iniziare a farsi rispettare dal Pd

Egregio Travaglio, il risultato elettorale veramente modesto dei 5Stelle dimostra quanto sia stato un suicidio la grande ammucchiata nata tra le forze di destra (Lega, Forza Italia, Italia Viva) e Pd, Sinistra e appunto M5S, nata con la giustificazione della grande emergenza sanitaria ed economica. Ho votato i 5Stelle perché denunciavano quotidianamente quella politica non al servizio della comunità, fatta di corruttela e concussioni accertate spessissimo dalla magistratura. Anche la coalizione con il Pd è zoppa: perché votare per i loro candidati è giusto e corretto, mentre per quelli 5Stelle decisamente meno. Bisogna continuamente farsi rispettare, altrimenti i risultati elettorali saranno come quello attuale, veramente scarso. Lei è d’accordo con la mia?

Francesco Magnetti

Sì.

M. Trav.

 

Le periferie dimenticate sono un brutto segnale

Ma la cosiddetta “periferia”, quella che alle ultime elezioni nei grandi Comuni d’Italia (Roma, Milano, Torino e Napoli) ha preferito rimanere a casa, è di destra o di sinistra? A fine Ottocento, ai tempi di Edmondo De Amicis, non avremmo avuto dubbi. Basta leggere il suo romanzo-inchiesta La carrozza di tutti del 1899 ambientato a Torino, dove la periferia dell’ex capitale è abitata dalla “gente del popolo” (in buona parte classe operaia), mentre la borghesia torinese (“gente della signoria”) risiede nel centro. Ma oggi, nel 2021? Secondo molti nelle nostre periferie si cela una buona fetta di “populismo” e “sovranismo”. Inutile sottolineare che quel bacino elettorale, che sia di destra, di centro o di sinistra, è molto importante per il futuro del nostro Paese.

Stefano Masino

 

Un grazie alle sindache Raggi e Appendino

Come cittadina vorrei ringraziare Chiara Appendine e Virginia Raggi per il loro coraggio, la loro autonomia, la loro determinazione e la loro onestà. Per non essere due cheerleader della politica come ce ne sono tante in tutti gli schieramenti; per aver dato un po’ di speranza nella possibilità che possano essere proprio le donne a cambiare veramente la politica. Travaglio ha ragione quando dice che hanno governato molto meglio di chi le ha precedute: vivendo a Torino, per quanto riguarda l’Appendino, ho potuto valutarlo direttamente, mentre i risultati di queste elezioni hanno dimostrato che non erano pochi i cittadini romani contenti della Raggi. Ora chi verrà dopo di loro potrà iniziare da un’amministrazione in gran parte risanata, spero che almeno questo venga loro riconosciuto. Quello che in questi anni mi ha stupita è stata la pochissima solidarietà femminile (nel mondo della politica e dell’informazione) per l’accanimento che c’è stato nei loro confronti, della Raggi in particolare. “Basta che sia donna” (grilline escluse, aggiungerei) è un’affermazione che non mi ha mai vista completamente d’accordo, a maggior ragione se nasconde dell’incoerenza e dell’ipocrisia. Certe turbo-femministe, paradossalmente, mi sono sembrate persino disposte a mostrarsi in qualche modo soddisfatte che la Meloni, pur lontana anni luce dalle loro idee politiche e dai loro valori, sia la prima donna leader di partito, mentre a proposito di queste due giovani donne coraggiose e determinate al governo di due grandi città come Roma e Torino, non mi pare di aver sentito, non dico degli apprezzamenti, ma nemmeno qualche obiettivo compiacimento al femminile. Sulle due sindache purtroppo è pesata la prevenzione nei confronti di un movimento antisistema. Comunque, grazie Virginia, grazie Chiara.

Enza Ferro

 

Le elezioni nei Comuni con meno di 100 persone

In relazione alle recenti elezioni, con stupore ho constatato l’esistenza di Comuni con pochissimi abitanti, meno di 100 persone, con quindi relativo sindaco e assessore che vengono eletti da quattro gatti di elettori. Ma non sarebbe forse il caso di accorpare questi microcomuni, con un conseguente risparmio di strutture amministrative e di poltrone politiche?

Stefano Tacchini

 

I NOSTRI ERRORI

Per un errore di impaginazione ieri abbiamo troncato una frase di Claudio Michetti dall’articolo di Daniela Ranieri intitolato “I salotti tv nella disperazione, Carlo affondato dagli exit-poll”.

La frase completa è la seguente: ‘Michetti, su tutti i canali, pensa ancora di stare alla radio romana e attacca un pippone antiburocratico inenarrabile: “Se non si muove la MACCHINA, non si rilascia al cittadino la CAPACITÀ di fare qualcosa…”. Non lo ascolta né gli risponde nessuno’. Ce ne scusiamo con l’autrice con i lettori.

 

Ieri, a corredo dell’articolo “Boom preferenze: Feltri e la nipote del Duce”, è stata inserita una foto di Marcello Pittella anziché quella (giusta) del fratello Giovanni Pittella, vincitore delle elezioni a sindaco di Lauria (Pz). Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Fq

“Noi maestre di sostegno abbandonate insieme agli alunni”

Caro “Fatto”, scrivo a voi per far “recapitare” questa lettera al ministro dell’Istruzione Bianchi.

Gentile ministro, come ben saprà, il 13 settembre in Lombardia gli studenti sono tornati a scuola. Non tutti, però. Ad esempio, Marco, 7 anni, non ha potuto: è dovuto rimanere a casa con la sua mamma. Questo perché Marco soffre di una grave forma di autismo e necessita di un’insegnante di sostegno completamente dedicata a lui che lo segua in ogni istante della vita scolastica, dalla didattica all’intervallo, alla mensa. Questa insegnante per Marco non c’è, neppure ora che siamo a ottobre. O meglio: esiste, perché lo scorso anno, grazie alla Messa a disposizione (Mad), era stata convocata una maestra che aveva instaurato una buona relazione con Marco e anche con la sua mamma. Questa maestra avrebbe voluto con tutto il cuore occuparsi ancora di Marco, ma non può essere convocata, perché è inserita in una graduatoria dalla quale non può cancellarsi; purtroppo chi è inserito in graduatoria non può essere convocato tramite Mad. L’anno scorso è stato possibile, per far fronte all’emergenza Covid, ma quest’anno no. A nessuno importa il fatto che per Marco sarebbe stato opportuno rimanere con la sua maestra: la normativa scolastica vigente non lo consente. E le dirò di più, caro ministro. Il fatto che la relazione tra Marco e la sua insegnante sia andata a buon fine è frutto del caso. Marco ha incontrato per la prima volta la maestra alla fine del primo quadrimestre e non l’aveva mai vista prima; lei non sapeva nulla di lui, se non qualche sommaria informazione ricevuta dalla mamma e dalla precedente insegnante. Questa maestra non è nemmeno specializzata nel sostegno, ma non era disponibile nessun insegnante specializzato, quindi era stata assunta. Marco le voleva bene e, essendo autistico, per lui sarebbe stato fondamentale averla ancora come punto di riferimento a scuola; ma non incontrerà più quella maestra e dovrà affidarsi nuovamente al caso, iniziare tutto daccapo con una nuova insegnante. Dovrà sperare di trovare qualcuna che riesca a entrare nel suo mondo un po’ complicato. Intanto Marco ogni giorno con il suo zainetto in spalla chiede alla mamma di andare a scuola, ma non può, perché non è ancora stata nominata una nuova insegnante.

Signor ministro, la scuola inizia da decenni nel mese di settembre… è così complicato procedere con le nomine degli insegnanti a giugno? Ed è davvero impossibile promulgare norme che pongano al primo posto il benessere degli alunni, soprattutto se disabili? I bambini come Marco sono tantissimi: ci si pavoneggia con testi di legge e circolari ministeriali che parlano di inclusione… è questa l’inclusione, secondo il nostro sistema scolastico? È questo il modo in cui vogliamo occuparci dei cittadini di domani?

Una maestra di sostegno precaria

Il premio Balzac 2021 a Wopke Hoekstra

Siamo lietidi attribuire il premio “Personaggio balzacchiano” 2021 al ministro delle Finanze olandese Wopke Hoekstra. Trovare il ragazzo-immagine del rigore fiscale in Europa nei Pandora Papers per un investimento del 2009 in una società offshore nelle Isole Vergini britanniche ha quell’aria Splendori e miserie (dei cortigiani, s’intende) che gli è valso all’unanimità l’ambito premio nonostante la forte candidatura del consulente politico legge e ordine beccato in “orge gay con consumo di droghe miste” (citiamo una sua definizione). Ma chi è il buon Wopke? 46 anni, moglie e quattro figli, leader di un partito cristiano-democratico, corre maratone e ha un curriculum di tutto rispetto in cui vorremmo far notare l’anno passato alla Luiss di Roma; dopo gli studi ha lavorato per la Shell e per McKinsey, incarico che non ha lasciato neanche quando entrò nel Senato olandese. Si è dedicato esclusivamente alla politica solo da ministro delle Finanze (2017): fu lui a formare la coalizione di Paesi noti come “Frugali”, sempre lui a chiedere di punire l’Italia nel 2019 per lo 0,04% di deficit, sempre lui nel marzo 2020 a criticare quegli Stati che “sostengono di non avere spazio fiscale per rispondere alla pandemia” in vigenza del Patto di Stabilità, sempre lui a imporre di collegare il Recovery Fund al rispetto dei vincoli di bilancio, ancora lui a nome del suo Paese a opporsi all’accordo per la tassazione minima globale e via così. Ecco, la difesa dopo la pubblicazione dei Pandora Papers è il suo capolavoro: “Dodici anni fa non avevo realizzato dove fosse quella società, certo avrei dovuto guardare meglio…”. Sarà per questo che ha tenuto nascosto l’investimento al Parlamento e se n’è poi disfatto quando, entrando al governo, sarebbe stato obbligato a rivelarlo. Non sapendo nulla non s’è sentito in imbarazzo nel nominare a capo del supervisory board di Abn Amro, banca controllata dal suo governo, uno dei suoi soci offshore. Non si sa, invece, se sia arrossito martedì quando, coi suoi colleghi Ue, ha deciso di cancellare tre paradisi fiscali dalla relativa blacklist. Su questo però non ci sentiamo di criticare il povero Hoekstra: perché l’Olanda, che è un paradiso fiscale di suo, dovrebbe mettersi a far la predica agli altri?

Cari Conte e Letta, l’occasione è unica, ma no all’Arca di Noè

“Io non vedo destra o sinistra, vedo fango”. Mi ha detto così una donna dell’entroterra ligure davanti al suo paese sommerso dall’alluvione. Uno schiaffo. Noi che ci interroghiamo su schieramenti e coalizioni, mentre i cittadini vivono. Chiedono risposte. Me le porterò dentro queste parole. In Liguria si è realizzato uno dei primi esperimenti della coalizione giallorossa. Un anno fa sono stato candidato alla presidenza della Regione. Subito mi era parso chiaro quanto la sfida fosse difficile. Eppure lo rifarei, cento volte. Immutati, anzi, rafforzati sono gli obiettivi: realizzare un’alleanza di idee e persone scelte per passione e competenza, non una coalizione elettorale di chi non sta con il centrodestra. Oggi, all’indomani degli incoraggianti risultati elettorali, la responsabilità è più grande: abbiamo un’occasione irripetibile.

Mentre ci penso rivedo il fiume impazzito, i mobili che galleggiano. La gente dell’entroterra ligure ci chiede progetti per affrontare i cambiamenti climatici che travolgono la vita. Pretende soluzioni per trattenere i giovani in paesi ormai disabitati. Vale per i piccoli Comuni, ma anche, in modo diverso, per città come Torino, Napoli, Trieste.

In rari momenti della storia, e accade ai giorni nostri, il futuro è adesso. Oggi, come mai prima, possiamo pensare a uno sviluppo dell’economia e del lavoro che protegga l’ambiente e lo renda risorsa. La tutela della salute e dei diritti può andare insieme con investimenti in ricerca e istruzione. La promozione sociale è premessa di una più compiuta uguaglianza, ma anche della sicurezza invocata dai cittadini. L’inevitabile apertura al mondo nasce da un profondo senso di sé, della propria cultura e di un’identità. Cosa c’entra con il fango? C’entra, eccome. La politica ha il dovere di elaborare idee, di trovare una nuova classe dirigente in grado di dare loro concretezza. E di coinvolgere i cittadini. Qui sogni e bisogni degli italiani si toccano con la sfida di un’alleanza. Ma già ci si divide su diverse soluzioni: c’è chi guarda al centrosinistra e parla di un nuovo Ulivo “da Renzi a Rifondazione”. E chi invoca il M5S. Ascoltiamo la donna davanti alla sua casa devastata. Il punto di partenza è su questo argine. Il voto arriva dopo. Ha ragione il Pd a parlare di vittoria, ma non dimentichi che dentro di sé ha sempre trovato il peggior nemico, a partire da quel dalemismo arrogante che si è fatto sistema di potere. Ha ragione chi propone di aprire le porte a chi vorrà starci, ma con la minaccia del renzismo che in nome della moderazione (e delle poltrone) annacqua proposte e convinzioni non si va lontano. Non si imbarca chiunque, non siamo l’arca di Noè, alcune specie politiche possono essere lasciate all’estinzione.

E i Cinque Stelle? Negli ultimi anni per non stare con nessuno sono stati con tutti. La sfida di oggi richiede tradizione e spinta verso il futuro. Concretezza e convinzioni profonde. Proprio qui si incontrano centrosinistra e M5S, post-ideologici, ma con una forte impronta ideale. Sbaglia chi liquida l’esperienza di Beppe Grillo guardando le elezioni. Giustizia, lotta alla corruzione, sanità pubblica, beni comuni e ambiente sono bisogni vivi negli italiani. Erano patrimonio del centrosinistra. Il rischio, ora, non è solo che altri se ne approprino, ma che nessuno li rappresenti (il 50% degli italiani già si astiene).

Dove l’alleanza è stata tentata, come in Liguria, oggi sta crescendo. Qui entra in gioco Giuseppe Conte, chiamato a una scelta di campo (proprio recuperando le battaglie delle origini). Subito, perché il M5S rischia di liquefarsi. Partiamo dal fango, allora. Ascoltiamo chi in Toscana perde il lavoro con un messaggino. Diamo voce ai giovani dei centri di ricerca di Trieste. Le forze progressiste devono segnare strade nuove, non inseguire. Ci vorranno anni, si passerà attraverso sconfitte. E non importa se alla fine saranno altri a raccogliere i frutti della sfida di oggi.

 

Ira i draghetti sognano il semipresidenzialismo

Autorevoli commentatori manifestano un certo compiacimento nell’augurarsi che, domiciliato Mario Draghi al Quirinale, si potrà instaurare, quantomeno di fatto, un regime semipresidenziale alla francese. L’ansia encomiastica gioca a volte brutti scherzi. Quella tesi, infatti, attribuisce al presidente del Consiglio l’intento d’interpretare il ruolo di capo dello Stato fuori dagli ambiti previsti dalla Carta fondamentale, nella quale non si rinvengono norme analoghe agli articoli da 8 a 12 e 16 della Costituzione francese, che conferiscono amplissimi poteri al presidente della Repubblica.

Peggio ancora: l’insolito cambiamento opererebbe senza copertura normativa perché, come ha ricordato il presidente Draghi a proposito dell’elezione al Quirinale, la decisione sulla redistribuzione dei poteri tra organi costituzionali spetta al Parlamento. Nello scampolo di fine legislatura, ammesso che si voti nel 2023, tutto questo non sarà, all’evidenza, possibile. Il fervore elogiativo, privo di chi sussurri, come nei trionfi nell’antica Roma, memento quod es homo quale freno al potere (Bacone, saggio Sull’impero), supera di slancio e senza alcuna riflessione critica una meditazione complessiva su una profonda ristrutturazione costituzionale.

È bene chiarire. Le attuali difficoltà di gestione anche ordinaria della cosa pubblica permangono e pendono quale spada di Damocle sull’attuazione del Pnrr. Occorre perciò un serio ammodernamento istituzionale secondo schemi e principi diversi dalle riforme costituzionali del 2006 e 2016, sonoramente respinte in sede referendaria per l’elevato tasso antidemocratico che le contraddistingueva (specie quella del 2016). La scelta per un modello semipresidenziale non può, tuttavia, muovere da esaltazioni passeggere in ragione del personaggio che si prefigura investito della carica. Quest’ultima sarà conferita nel futuro ad altri soggetti, sui quali potrebbe non condensarsi altrettanta entusiastica adesione. È bene che si formi un “consenso informato”, quale richiesto per delicate prestazioni sanitarie, su argomenti seri e impegnativi per le generazioni a venire.

Perché il modello semipresidenziale alla francese è poco sensibile ai checks and balances tipici del presidenzialismo americano: fu costruito sulla figura carismatica di De Gaulle e risente ancora di un certo bonapartismo intrinseco alle istituzioni d’oltralpe. Ne consegue un eccesso di personalizzazione del potere dal quale ordinamenti come il nostro, che hanno subito il regime dittatoriale, devono guardarsi. Non è un caso che la Germania abbia optato per una distribuzione dei poteri tale da non lasciarne troppo a nessuno e, al contempo, idonea a consentire una decisa gestione della politica generale attraverso il Cancellierato (la sfiducia costruttiva serve proprio a impedire derive di qualunque tipo). Occorre piena consapevolezza dell’effetto diretto del semipresidenzialismo: cioè la cessione di notevoli poteri sovrani, con ridotti ambiti di mediazione, ad una sola persona, che può, con il tempo, dare segni di una preoccupante crisi di emotività come nell’ultima fase della presidenza Cossiga.

Non entrano in gioco, peraltro, solo profili prudenziali. Il semipresidenzialismo impone di riconsiderare con una certa radicalità molti aspetti dell’ordinamento, a cominciare da rappresentanza e legge elettorale. La rappresentanza, infatti, da unitaria si sdoppia attraverso due diversi tipi di elezione: per il presidente e per il parlamentare. Nel modello francese, in entrambi i casi, la valutazione fondata sulla fiducia per la conoscenza o comunque il miglior gradimento della persona (presidente o parlamentare) assume carattere preminente. Ballottaggio per il presidente e doppio turno per i parlamentari acquistano così carattere qualificante sul quale poggia, in buona sostanza, l’intera struttura. Quest’ultima perderebbe la propria ragion d’essere fuori da un sistema elettorale maggioritario capace di garantire la diretta scelta popolare. In casa nostra una notevole parte delle forze politiche è affezionata, per non commendevoli motivi, al proporzionale e pretende di eleggere in Parlamento il capo dello Stato. Introdurre, in queste condizioni, una modello che cerchi di coniugare quelle aspirazioni partitiche e formule anche larvatamente semipresidenzialiste finirebbe per radicalizzare irrimediabilmente lo scollamento tra società civile e dirigenza politica.

 

Milano, Ken Loach nello spam come i voti della sinistra

Ken Loach è stato un protagonista (mancato) delle elezioni comunali a Milano. “Ho letto della tua campagna per rigenerare la città e devo dirti che sono pienamente d’accordo con te”: così il regista britannico aveva scritto a Gabriele Mariani, candidato sindaco della sinistra. “Pertanto sono lieto di sostenere Milano in Comune e il candidato Gabriele Mariani”. Il messaggio di posta elettronica è però andato a finire nella casella spam di una collaboratrice del candidato sindaco e così l’endorsement del regista non è diventato pubblico. Solo ora qualcuno lo ha trovato. Troppo tardi. Non avrebbe probabilmente cambiato di molto il risultato elettorale raggiunto da Mariani, ma lo avrebbe almeno fatto conoscere di più in città, lo avrebbe fatto diventare “il sindaco per cui voterebbe Ken Loach”: “Se le decisioni vengono prese non per i migliori interessi dei cittadini, ma per far ottenere un rapido profitto alle aziende private, sappiamo che otterremo edifici brutti, alloggi scadenti, un non pianificato e insostenibile disastro”, aveva scritto Loach. “Rende poche persone molto ricche, ma lascia la maggioranza con alloggi poveri e infrastrutture carenti che non forniscono buoni servizi pubblici”. E ancora: “Dobbiamo fare in modo che tutti possano beneficiare di ciò che costruiamo. Se c’è un bisogno ma nessun grande profitto, allora il bisogno rimane senza risposta: non è questo il modo per ricostruire le nostre città”.

Nello spam sono finiti anche i voti di Mariani (sostenuto da Milano in Comune e Civica AmbientaLista) che ha raccolto soltanto l’1,5 per cento (7.566 voti) e dunque non entrerà in Consiglio comunale a continuare, come si era proposto, l’opera di Basilio Rizzo, per quattro decenni inflessibile controllore delle scelte dei sindaci di destra e di sinistra. Sconfitti i 5 Stelle. E sconfitta anche la sinistra che aveva deciso di stare dentro lo schieramento di Giuseppe Sala: la lista Milano Unita ha pagato la rinuncia a darsi una caratterizzazione politica più forte e autonoma e si è fermata all’1,5 per cento (7.012 voti). La vittoria è tutta di Sala. Ha trionfato al primo turno con il 57,7 per cento raggiunto con 277.478 voti, contro i 224.213 (41,7 per cento) del 2016: dunque 53.265 voti in più. Un successo ottenuto anche grazie all’ottimo risultato del Pd, 33,8 per cento. Un Partito democratico che a Milano è guidato dai cuccioli allevati da Filippo Penati poi diventati supporter di Matteo Renzi, come Pierfrancesco Maran, assessore uscente all’urbanistica e recordman di preferenze (9.166). Sala non sarà però ostaggio del Pd (a cui peraltro non è mai stato iscritto) perché può vantare, oltre al suo successo, i buoni risultati di tre liste che lo hanno sostenuto: Beppe Sala Sindaco, la sua lista personale, ha raggiunto il 9 per cento; Europa Verde, a cui prima del voto aveva annunciato l’adesione (anche se non si è ancora iscritto davvero), è arrivata al 5 per cento; e un altro 4 per cento è aggiunto dai Riformisti, che raggruppano i renziani di Italia Viva e i sostenitori di Carlo Calenda.

Certo, quella di Sala è una vittoria per mancanza di avversario. Il candidato sbagliato del centrodestra, Luca Bernardo, non ha saputo richiamare i suoi al voto. Così l’affluenza alle urne è stata la più bassa di sempre a Milano: 47,7 per cento. Hanno votato soltanto 490 mila milanesi, sul milione di cittadini con diritto di voto. Tra chi è restato a casa c’è chi non ha trovato nessuno a rappresentare le proprie ragioni, la propria protesta, la propria rabbia. E c’è chi invece vuole lasciar fare all’uomo solo al comando, che ora gestirà, senza alcuna opposizione civica e di sinistra, i tanti soldi del Pnrr che arriveranno a Milano e i tanti progetti urbanistici degli immobiliaristi, veri padroni della città e manovratori, per dirla alla Ken Loach, di “decisioni prese non per gli interessi dei cittadini, ma per far ottenere un rapido profitto alle aziende private”.

 

Il riscaldamento globale e il decisivo impatto sulle misure dei politici

Molti politici si stanno rimpicciolendo. È un fenomeno che riguarda diversi schieramenti e sempre
più osservato dai ricercatori. Il principale sospettato
è il cambiamento climatico.

È noto che i cambiamenti climatici hanno spesso conseguenze sulla distribuzione del corpo elettorale, ma secondo alcuni studi il riscaldamento globale sta avendo un impatto anche sulle dimensioni dei politici. Gli scienziati hanno osservato che, negli ultimi decenni, senatori, deputati, boiardi di Stato e altri parassiti si sono rimpiccioliti a causa dell’aumento delle temperature provocato dalle attività umane, mettendo ulteriormente a rischio di estinzione moltissime formazioni politiche. Uno di questi studi è stato condotto nel 2019 da Gilberto Scoccia, docente di Ecologia politica presso l’Università di Cassino. Con un gruppo di scienziati ha analizzato più di 7mila esemplari di politici, evidenziando che, tra il 1978 e il 2016, molti esponenti degli 80 partiti italiani si sono rimpiccioliti in media del 2,6 per cento, con un accorciamento di femori, tibie e tarsi, ovvero delle ossa che collegano il corpo al piede dei soggetti. Ulteriori studi hanno osservato fenomeni simili anche nel corpo elettorale. Secondo la ricerca, per esempio, i leghisti di Milano pesano fino a due terzi in meno rispetto a 25 anni fa, e la loro popolazione si è ridotta notevolmente. Rispetto agli ultimi dieci anni anche i grillini di Roma e Torino hanno perso circa due terzi della loro massa corporea. Quello osservato di recente è un fenomeno che ha altri precedenti nella storia. Grazie allo studio dei fossili, in particolare della dentatura dei politici del Regno d’Italia, è stato possibile capire che gli esemplari di diversi partiti si stavano già rimpicciolendo all’epoca del secondo governo Facta. Lo studio ha evidenziato che negli ultimi cento anni la taglia di diversi politici è diminuita del 14 per cento, mentre secondo un’altra ricerca, condotta nel 2019 su 15.000 parlamentari europei e pubblicata dalla rivista scientifica Nature, nei prossimi cento anni i politici saranno più piccoli del 25 per cento, sempre a causa delle conseguenze delle attività umane sul pianeta. Gli scienziati hanno anche stimato che più di mille politici di grande taglia si estingueranno entro i prossimi cinque anni: tra questi ci sono politici già a forte rischio, come Matteo Salvini e Matteo Renzi. Man mano che l’atmosfera della Terra e gli oceani continueranno a riscaldarsi, spiega il prof. Scoccia, i politici diventeranno sempre più piccoli, con grosse conseguenze per tutta la catena alimentare. Con l’aumento delle temperature, anche diversi politici di Forza Italia hanno trovato la loro condizione ottimale in dimensioni più piccole: il fenomeno sembra coerente con il principio di Talete, secondo cui i politici hanno dimensioni minori a temperature più elevate perché i politici più piccoli disperdono il calore più velocemente in climi caldi. Il problema è che oggi il pianeta si sta riscaldando a un ritmo di circa dieci volte più veloce rispetto alla media del riscaldamento di un secolo fa, e i politici contemporanei hanno troppo poco tempo per adattarsi senza correre rischi. Le cause alla base del rimpicciolimento dei politici, comunque, devono essere ulteriormente approfondite. “Io non sono un politico, ma quest’estate ho sudato come una scimmia,” dico allarmato al prof. Scoccia. “Ognuno fa quel che può”, ha concluso serafico lui.

 

Finalmente si parla anche di cure

Finalmente si parla anche di terapia anti-Covid. Dopo gli anticorpi monoclonali, sono stati autorizzati dopo ben tre pareri negativi, i farmaci anakirna, baricitinib e sarilumab, tre rimedi salvavita nella disponibilità dei pazienti con procedure “routinarie”, senza autorizzazioni per motivi di emergenza. Per assurdo, apprendiamo che i monoclonali, sebbene possano essere risolutivi nelle primissime fasi dell’infezione, giacciono nei frigoriferi degli ospedali a rischio scadenza. Sembra che tutto vada storto quando si parla di terapia. I tre farmaci, che abbattono la mortalità dovuta al Covid fino all’80%, non saranno disponibili fino a dicembre, per motivi di scarso approvvigionamento. Perché queste lungaggini? Perché si parla solo di vaccini e non dei pazienti guariti da questi farmaci? È un comportamento solo italiano? No. Dopo più di un anno, solo in questi giorni l’Oms hafinalmente pubblicato gli schemi terapeutici per il trattamento domiciliare del paziente Covid. Mesi fa il prof. Rizzini, Istituto Mario Negri, ha pubblicato un lavoro che dimostrava il drastico calo, fino al 90% dei decessi in pazienti curati con aspirina e antinfiammatori sin dai primi sospetti di infezione. È stato criticato ma aveva ragione e per fortuna molti lo hanno seguito salvando vite. Oltre ai ritardi, anche errori grossolani. Già dal 2020 numerosi studi non solo sconsigliavano la tachipirina, ma addirittura ne segnalavano come potesse essere addirittura un’aggravante della malattia. I Paesi che registrano un nuovo aumento di casi positivi alla SarsCoV2, come le quattro principali nazioni dell’Ue e il Regno Unito, dovrebbero promuovere lo sviluppo di linee guida di trattamento più razionali per Covid, tenendo debitamente conto dei fatti e delle considerazioni di cui sopra per evitare che lo stesso errore possa ripetersi nei prossimi mesi. Era questa la considerazione conclusiva del lavoro citato. Alla stessa conclusione è arrivato un lavoro pubblicato da un gruppo di ricerca dell’Università di Pavia. Perché non ci si è interessati di questa problematica, tanto che fino ai nostri giorni, la tachipirina (paracetamolo) risultasse consigliata nel sito del ministero della Salute (utilizzare un trattamento di tipo sintomatico con paracetamolo o Fans in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso)?

 

Mangia Capitale: Buzzi si fa paninaro

Dalla tragedia alla farsa, dalla farsa al panino. Il mondo di mezzo diventa un fast food, Mafia Capitale è già Mangia Capitale. Salvatore Buzzi, protagonista dell’inchiesta più celebre sull’universo criminale romano, ha deciso di ripartire da un ristorante. Il suo curriculum penale è cospicuo, la vicenda giudiziaria è ancora da scrivere (ha annunciato ricorso in Cassazione contro l’ultima pena rideterminata in appello: 12 anni e 10 mesi) ma l’ex ras delle cooperative ha ancora voglia di scherzare. Con la mafia e con i panini. Se la Cassazione nel maxi processo ha escluso il metodo mafioso, sul menu del risto-pub di Buzzi (che apre oggi a Roma in zona Tor Vergata) trovano ospitalità le cosche di ogni ordine e grado. C’è il panino Gomorra, quello Suburra e non poteva mancare l’autobiografico Mondo di mezzo. Hamburger medi, grandi ed extralarge da 100, 250 e 500 grammi, tutti dedicati ai personaggi della malavita. Domina la Banda della Magliana: si può mangiare il “Libanese”, il “Freddo”, il “Dandy”, “er Secco”, er “Bufalo”. Per i salutisti si consiglia l’insalata “Scrocchiazzeppi”. Nella vicenda di Buzzi, Carminati e dei loro numerosi sodali, sparpagliati tra le batterie criminali e i palazzi capitolini, una certezza non potrà mai essere smentita da nessun tribunale, e lo conferma in questa nuova avventura imprenditoriale: ai banditi di Roma mancò la fortuna, mai l’appetito.

Calenda “il romano” saluta e va a Bruxelles

Dopo appena un anno di campagna elettorale sarà strano non vederlo più girovagare per Roma. Carlo Calenda, suo malgrado, ci ha comunicato che resterà al Parlamento europeo, lasciando ad altri il seggio da consigliere d’opposizione nell’Assemblea capitolina. E chi lo avrebbe mai detto, anche visto che il posto a Bruxelles – peraltro conquistato col Pd, qualche mese prima di fondare Azione – garantisce 8.900 euro lordi al mese, benefit esclusi. Niente più buche, monnezza, Ama e Atac, allora: meglio salire sull’aereo e andare a Bruxelles. Dove magari senza campagna elettorale potrà essere più presente: pur avendo il 95 per cento di partecipazione ai cosiddetti “voti chiave”, secondo l’osservatorio VoteWatch Calenda è tra i più assenteisti d’Europa, classificandosi alla posizione 622 su 705 eletti. Un dato che per un attimo ci aveva fatto sperare che ormai Calenda si fosse annoiato del Parlamento europeo e potesse dedicarsi anima e corpo a Roma. Non sarà così, ma la preghiamo, Calenda: ogni tanto ci passi lo stesso a trovare, altrimenti come farà Roma senza cotanta competenza?