La Raggi scriva le sue memorie su questi 5 anni

A differenza dei numerosi libri inutili (e invenduti) prodotti dalla politica, non è difficile prevedere che le eventuali memorie del Campidoglio di Virginia Raggi desterebbero una doppia curiosità. Da parte di quelli che l’hanno sempre osteggiata, accusandola di qualsiasi delitto – a parte forse l’origine del Covid e il riscaldamento globale – e che, dalla lettura, ricaverebbero sicuramente ulteriore materiale di derisione. E da parte di coloro che nel giugno 2016 l’avevano votata (per esempio chi scrive, insieme al 67% dei romani recatisi alle urne), per trovare una spiegazione del tracollo. Per capacitarsi di come sia potuto accadere che nel suo primo mandato una sindaca col vento nelle vele, giovane, onesta, animata dalle migliori intenzioni e che non si è risparmiata nell’adempimento dei suoi doveri, sia progressivamente apparsa ai cittadini non come la soluzione ai problemi della città, bensì il problema essa stessa. Raccogliendo il 3 e 4 ottobre sulla sua ricandidatura soltanto le briciole del plebiscito precedente.

Vivo a Roma e infinite volte ho covato sentimenti non proprio amichevoli nei confronti di un’amministrazione che dai rifiuti per le strade ai bus in fiamme, ai cinghiali vaganti (per limitarci ai titoli di testa) sembrava tenacemente impegnata a fornire della Capitale la peggiore nomea. Nello stesso tempo mi domandavo in quali condizioni la sindaca fosse costretta a lavorare e se quello della solitudine politica di una donna tra mura ostili non fosse soltanto un alibi costruito per alleggerirla dalle proprie responsabilità. Parla di “arroccamento” della sindaca l’ex vicesindaco Luca Bergamo, che con la Raggi ha lavorato e poi litigato. Sul Corriere della Sera

la descrive “diffidente”, con “problemi a fidarsi di chi ha opinioni diverse”, portata a chiudersi “in un giro stretto” di fedelissimi. Ma Bergamo aggiunge che dell’esperienza conclusa salverebbe “molto”. Ovvero: “la ricucitura urbanistica con i piani di zona sbloccati, il concordato Atac, il piano per la mobilità sostenibile e – ultimo ma non ultimo – aver ripulito i lavori pubblici dalle collusioni tra amministrazione e privati”. No, non sarebbe affatto una piccola cosa aver portato trasparenza in una città dove, per abitudine inveterata, ogni buca veniva ricoperta da un po’ di catrame e da una mazzetta. Ma forse, proprio per aver troppo “ripulito”, a un certo punto la sindaca si è ritrovata sola nel palazzo. Ragione di più per leggere la sua versione dei fatti.

De Luca non vuol più ammazzare Fico e Di Maio

Miracoli della realpolitik. O della faccia di bronzo, per non dire di peggio. Da qualche ora circola una foto piena di entusiasmo. I protagonisti sono il neo sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, il governatore campano Vincenzo De Luca e due big 5Stelle come Luigi Di Maio e Roberto Fico. Sorridono e mostrano felici il pollicione sancendo a favor di obiettivo la convivenza giallorosa (dove il rosa, più che il Pd, è il sistema deluchiano). Eppure non possiamo non ricordare le belle parole che fino a qualche settimana fa si scambiavano il presidente della Regione e i due 5Stelle. Il meglio, per la verità, lo dava De Luca. La cui miglior performance rimane un monologo del 2016 in cui definì Di Maio “un chierichetto” e Fico “il Moscio”, liquidandoli come “mezze pippe”: “Sono falsi come Giuda, che vi possano ammazzare tutti quanti”. Ma col sorriso e il pollice all’insù, mi raccomando.

Calcio, i “tifosi fantasma” di Dazn. Gli ascolti tv gonfiati fino al 50%

Scriveva il futurista Marinetti che “il progresso ha sempre ragione, anche quando ha torto”. E sicuramente alla fine ce l’avrà pure Dazn, perché il futuro del pallone è in streaming, inutile rimpiangere il passato. Per il momento però è davvero difficile dargliela. Non bastavano i guai di trasmissione che torturano i tifosi. Il problema non è nemmeno più chi vede bene la Serie A, ma chi la vede in assoluto. Tanti o pochi, quasi un mistero. Secondo i dati analizzati dal Fatto Quotidiano, dall’inizio del campionato ci sono quasi 8 milioni di spettatori “fantasma”: esistono per Dazn, che gli ascolti se li calcola da sola, ma non per Auditel, ente certificato che li rileva da 30 anni. Una media del 50% in più a giornata. La differenza fra una Serie A ancora seguita, apprezzata, tifata, e un calcio italiano abbandonato pure dai suoi fan, che viene guardato di meno, e quindi ha meno valore.

Gli ascolti nel pallone valgono milioni: la legge dice che una parte dei ricavi da diritti tv (l’8%, circa 100 milioni l’anno) va assegnata ai club sulla base della “audience certificata”. Su questi numeri non si scherza. Il problema è che Dazn è una app, pensata anche per smartphone, tablet, pc. C’è una fetta di appassionati che guarderà il calcio in modo più moderno (almeno il 30%, secondo le statistiche): una rivoluzione che sconvolge pure gli ascolti.

Ogni giornata Dazn li rileva con la società privata Nielsen. Una scelta dovuta al nuovo mercato digitale, su cui non ci sono grandi precedenti di misurazione: Auditel potrebbe farlo, ma Dazn ha preferito fare da sola. Fino ad oggi i dubbi si sono concentrati proprio su questi spettatori “digitali”, con cui l’audience di Dazn raggiunge quella passata di Sky. Ma in realtà il problema riguarda l’altra fetta, quella tradizionale tv. È qui l’inghippo: gli ascolti comunicati da Dazn sono clamorosamente diversi, e più alti, di quelli di Auditel. Troppo, per non destare sospetti.

Per Juventus-Milan, Dazn ha contato 1,6 milioni di spettatori tv, ma per Auditel erano solo 1,1. Per Lazio-Roma, si passa da 1,2 milioni ad appena 765mila. Domenica, Atalanta-Milan ha fatto 1,2 milioni o nemmeno 800mila? Mezzo milione in più o in meno trasforma un grande evento televisivo in un flop. E dall’inizio del campionato non c’è una sola partita in cui il dato di Dazn non sia più alto di quello di Auditel. La discrepanza media è del 50%, il record alla seconda giornata: Fiorentina-Torino, addirittura +118%.

Una spiegazione ci dev’essere. Per Dazn, si tratta solo di metodologie diverse: loro rilevano le tv connesse e poi moltiplicano per un coefficiente di “ospitalità” (le persone che guardano insieme il match). Mentre Auditel si basa su un campione di 16mila famiglie perfettamente rappresentativo del Paese. Il punto, però, non è quale dei due sistemi sia migliore, ma che Auditel è un ente indipendente, riconosciuto da tutti. Non da Dazn. È la logica della “disruption” di queste nuove aziende digitali, come Netflix, Amazon: trasformare il business finanche cambiando le regole del gioco. Però gli ascolti delle partite di Serie A sono sempre stati misurati con quel metodo. Se lo applicassimo al campionato in corso, ci accorgeremmo che mancano all’appello 8 milioni di spettatori in termini di audience cumulata. E che tutti i big match hanno registrato ascolti più bassi della scorsa stagione.

Ma quanti tifosi ha davvero la Serie A è una domanda a cui non conviene rispondere quasi a nessuno. La Lega calcio potrebbe scoprire che il campionato viene guardato sempre meno. Dazn, che non ha mai voluto comunicare i suoi abbonati (non decollano, come quelli di TimVision), ha buon gioco a mischiare le carte, e non è l’unica. Dopo aver vinto l’asta, si è affidata a Mediaset per la raccolta pubblicitaria, per farsi garantire più o meno la stessa cifra che incassava Sky, circa 90 milioni a stagione, con un prodotto però diverso, infatti diversi sarebbero i ritorni. E forse non è un caso che non se ne stia occupando Publitalia, concessionaria delle reti tv, ma la filiale Digitalia. Anche Mediaset (e non solo) ha interesse a separare operatori Internet e broadcaster tradizionali. Se le torte restano diverse, ognuno può reclamarne una fetta più grande. Sulla frammentazione del mercato degli ascolti è in corso da tempo una battaglia, che fin qui ha impedito la creazione di una Auditel unica: ora anche Agcom ha chiesto un intervento e Upa (l’associazione dei pubblicitari) ha proposto linee guide unitarie. Non riguarda solo il pallone. Ma cosa c’è di più importante in Italia.

Concorsopoli a Milano, il docente scartato: “Galli & C. sono riusciti a fregarmi sui titoli”

“Il concorso a Milano, hanno valutato i titoli e mi hanno fregato, sono riusciti a fregarmi sui titoli”. Massimo Puoti, primario di Malattie infettive all’ospedale Niguarda di Milano, si sfoga cosi, dopo che tra il 2019 e il 2020, tenterà di concorrere per un posto di professore associato all’ospedale Sacco di Milano nel dipartimento già diretto dal virologo Massimo Galli. Perderà, anzi abbandonerà la sfida, dopo aver compreso la combine a favore di Agostino Riva, ordita, secondo l’accusa, dalla commissione presieduta dallo steso Galli e da altri due docenti, indagati nell’inchiesta di Milano su una presunta concorsopoli all’Università Statale che vede coinvolte 33 persone per accuse, a vario titolo, di falso, turbativa, associazione. Ieri Puoti è stato ascoltato dai pm come testimone. Che il bando in questione sia stato falsato, secondo i pm, si comprende fin da gennaio 2020. È invece il 2 marzo 2020, a giochi quasi fatti, che Puoti, si comprende dalle intercettazioni, capisce che non c’è partita e si sfoga con la sua compagna: “Sono riusciti a fregarmi sui titoli (…) nel senso che una pubblicazione su Science (…). Quello che contava è la posizione del nome nel lavoro (…). Abbastanza penosi”. La compagna risponde: “Veramente non dormono la notte”. Puoti, scrivono i pm, sarà “pretermesso (non portato a termine, ndr) mediante uno stratagemma”. Che la vicenda stia cosi, lo si capisce quando Claudia Moscheni, ricercatrice indagata, già a gennaio spiega che Puoti ha “il doppio” dei titoli di Riva. Eppure Puoti, stando alla ricostruzione dei pm, il 16 marzo chiama Galli. Dice: “Niente Massimo un abbraccio, quella cosa lì l’ho sistemata, non so se hai visto”. Galli: “Ti ringrazio, ne parleremo”. Aggiunge il virologo: “Il mio appoggio ce l’avrai (..) in tutte le sedi possibili”. Dove? Per capirlo tocca tornare al 21 febbraio 2020, quando in Italia si scopre il primo paziente Covid. In quelle ore convulse, un docente dell’Università di Brescia chiama Galli annunciando la buona novella: Puoti si ritira. Bene, bene. Galli è soddisfatto. E però, si comprende, Puoti punta all’Università di Napoli. Il docente di Brescia spiega a Galli di essere contento che Puoti non si presenti. Aggiunge: se poi gli diamo una mano. Richiesta a cui Galli risponde: certo. Ieri sera in Procura è stata sentita la microbiologa del Sacco, Maria Rita Gismondo, che, stando agli atti, avrebbe minacciato di denunciare un altro “progetto illecito”. Chiuso il verbale, avrebbe allargato le responsabilità degli indagati coinvolti nella vicenda.

Morte Luana, zero sicurezza per avere l’8% di guadagno

Luana D’Orazio, la donna di 22 anni morta lo scorso 3 maggio mentre stava lavorando in una fabbrica tessile di Montemurlo (Po), potrebbe aver perso la vita a causa di una manomissione per aumentare la produttività del macchinario dove lavorava. La Procura di Prato, che lunedì ha chiuso le indagini, ha così iscritto nel registro degli indagati Laura Coppini, titolare dell’azienda, il marito Daniele Faggi, considerato dagli investigatori come il vero amministratore dello stabilimento, e il tecnico manutentore Mario Cusimano, quello avrebbe eseguito materialmente la modifica che ha causato la morte della giovane, stritolata dal macchinario. Per tutti e tre i reati ipotizzati sono quelli di omicidio colposo e rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Secondo le perizie disposte dalla magistratura, la manomissione avrebbe fruttato l’8% in più rispetto a quanto previsto se il macchinario fosse rimasto integro. Luana D’Orazio era madre di un bambino di cinque anni.

Chierichetti: “Ci fu sesso, ma gli abusi non sono provati”

Don Gabriele Martinelli e don Enrico Radice, imputati nel processo per gli abusi sui cosiddetti “chirichetti del Papa”, sono stati prosciolti dal Tribunale vaticano. I giudici hanno stabilito che “difetta la prova” che abbiano commesso i reati. Il processo, presieduto da Giuseppe Pignatone, si era aperto il 14 ottobre 2020 nell’ambito delle indagini avviate nel novembre 2017. Secondo l’accusa, dal 2007 al 2012 Martinelli avrebbe abusato di un giovane religioso che frequentava il pre-seminario San Pio X; per questo Radice, all’epoca rettore dell’istituto, era accusato di favoreggiamento. Per Martinelli è stata riconosciuta la non punibilità dei fatti fino al 2008, in quanto la vittima era minore di 16 anni; è stato assolto per quelli avvenuti da allora per insufficienza di prove, e l’ha prescritto per il resto delle accuse. Radice è stato invece assolto dall’accusa di aver scritto una lettera per coprire l’accaduto, in quanto il fatto non sussiste. La sentenza è di primo grado ed è possibile il ricorso in appello.

Caso Becciu, Pignatone dimezza il processo. “Altre indagini su soldi alla coop del fratello”

Processo dimezzato in Vaticano (almeno per ora). I principali imputati nel procedimento sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato tornano a essere indagati. Fra loro – per soli due capi d’imputazione – anche il cardinale Angelo Becciu, ex terza carica d’Oltretevere. Non solo. Il presidente del Tribunale Vaticano, Giuseppe Pignatone, ha anche ordinato il deposito e, su richiesta, la consegna ai difensori del video della “prova regina”, la testimonianza resa da monsignor Alberto Perlasca, l’ex braccio destro di Becciu che da indagato ha collaborato fornendo le accuse decisive per il rinvio a giudizio dei 10 imputati (motivo per cui è stato prosciolto).

Le indagini del Promotore di Giustizia, Gian Piero Milano, e del suo sostituto, Alessandro Diddi, dovranno essere di fatto completate permettendo agli avvocati l’esame dei file audio e video degli interrogatori, compresi quelli di Perlasca. A quel punto, i pm dovranno interrogare gli imputati e, poi, procedere alla riscrittura dell’atto di citazione (il rinvio a giudizio) per i capi di imputazione rinviati al mittente dal giudice. Fra le posizioni stralciate dal processo, ci sono quelle del broker Raffaele Mincione – accusato tra l’altro di truffa e peculato –, del funzionario laico della segreteria di Stato, Fabrizio Tirabassi, e dell’ex finanziere di Credit Suiss, Enrico Crasso, che aveva le chiavi della cassa vaticana e gestiva gli investimenti dei proventi dell’Obolo di San Pietro. Per quanto riguarda Becciu, tornano al mittente l’accusa di subornazione nei confronti di Perlasca e, soprattutto, quella di peculato per aver veicolato 225.000 euro in favore della Spes Coop Sociale del fratello Antonino. Dall’inizio del processo, i legali hanno chiesto il deposito del video della testimonianza di Perlasca. Gli avvocati sospettano che la sua escussione possa non essere avvenuta in maniera regolare. Il sostituto promotore Diddi, in realtà, ha già dichiarato di non aver alcun problema a far visionare il materiale ai legali, temendo solo per la privacy in caso di diffusione. “Non si comprende – ha scritto Pignatone nel decreto – come la tutela della riservatezza possa essere messa a rischio dalla pubblicità, propria della sede dibattimentale, di atti non sottoposti a segreto”. “Il clamoroso processo sulla vendita dell’immobile di Sloane Square è di fatto azzerato e limitato a ipotesi di reato secondarie”, ha dichiarato l’avvocato Cataldo Intrieri, difensore di Tirabassi.

La svolta dell’Oms: via libera al primo vaccino. Ok a uso di massa in Africa

Svolta nella lotta alla malaria in Africa. L’Oms ha infatti raccomandato l’uso diffuso del primo vaccino contro la malattia nei bambini dell’Africa subsahariana e di altre regioni dove la trasmissione è alta o moderata.

La decisione arriva dopo un’ampia sperimentazione che ha coinvolto più di 800 mila bambini dal 2019 in Ghana, Kenya e Malawi. “È un momento storico – ha annunciato il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus – Il tanto atteso vaccino anti-malaria per i bambini è una svolta per la scienza, per la salute dei più piccoli e per il controllo della malaria. Il suo utilizzo potrebbe salvare decine di migliaia di giovani vite ogni anno”. Secondo l’Oms, il vaccino prodotto dalla multinazionale farmaceutica britannica GlaxoSmithKline, dovrebbe essere distribuito in tutta l’Africa subsahariana, dopo il successo dei programmi pilota di immunizzazione. La malaria colpisce circa 230 milioni di persone all’anno e ne uccide 400 mila. Nel 2019 solo in Africa sono morti più di 260 mila bambini.

I trial del 2015 avevano dimostrato che il vaccino poteva prevenire circa quattro casi su dieci, tre su dieci in forma grave e portare a una riduzione di un terzo del numero di bambini bisognosi di trasfusioni di sangue. Tuttavia, c’erano dubbi sulla sua efficacia perché perché richiede quattro dosi: le prime tre a un mese di distanzatra i 5 e i 7 mesi di età con richiamo finale a 18 mesi circa.

I risultati del progetto mostrano che il vaccino è sicuro e porta a una riduzione del 30% della malaria grave.

Iss: ok terza dose ai fragili. Agli altri per ora non serve

Dal quarto rapporto sulle vaccinazioni in Italia arriva la conferma della linea seguita nel nostro Paese sulla terza dose. E cioè farla subito alle persone immunodepresse, che sono circa tre milioni – pazienti trapiantati, oncologici o affetti da patologie patologie autoimmuni – e dal 20 settembre sono già coinvolte nel nuovo ciclo di vaccinazioni, perché per loro la protezione comincia a diminuire già a 28 giorni dalla seconda dose. Cttendere, invece, per la popolazione generale: l’efficacia vaccinale, a sette mesi dalla seconda somministrazione, rimane all’89 per cento in termini di protezione dall’infezione sintomatica o asintomatica; a sei mesi è al 96 per cento contro il ricovero e al 99 per cento contro il decesso.

Sono alcuni dei dati contenuti nell’articolato rapporto diffuso ieri dall’Istituto superiore di Sanità, elaborato del gruppo di lavoro integrato Iss/Salute per la sorveglianza sui vaccini Covid-19, di cui fanno parte tra gli altri Patrizio Pezzotti e Paolo D’Ancona. Dice anche che nelle persone che hanno comorbidità la protezione dalla sola infezione scende del 75 per cento dopo 28 giorni e del 52 per cento dopo sette mesi. Tra gli ospiti delle Residenze sanitarie assistenziali e gli over 80 resta invece sopra l’80 per cento. Anche queste categorie, comunque, in Italia sono coinvolte nel programma di somministrazione della terza dose che è già stato avviato, come gli operatori sanitari almeno sopra i 60 anni.

Il report per la prima volta prende in considerazione la variante Delta, dominante dalla scorsa estate nel nostro Paese. Gli esperti dell’Iss e del ministero hanno confrontato i dati di gennaio e giugno 2021, quando predominava la variante Alfa allora detta Inglese, con quelli di luglio e agosto, a prevalenza Delta: la riduzione della protezione contro il contagio è significativa dall’84,8 al 67,1 per cento, ma contro i ricoveri scende solo dal 91 all’87,8 per cento. E gli autori del report sottolineano anche che “l’apparente riduzione di efficacia dei vaccini nel prevenire l’infezione potrebbe essere dovuta al tempo intercorso dalla vaccinazione e/o a una diminuita efficacia contro la variante Delta. Potrebbero inoltre avere contribuito eventuali modifiche comportamentali a seguito del rilassamento delle altre misure preventive (uso di mascherine, distanziamento fisico)”.

Ora però il tema è la vaccinazione dei giovanissimi. Gran parte degli esperti ritiene insufficiente il campione dello studio di cui Pfizer e Biontech, produttrici del vaccino più utilizzato nel mondo occidentale, hanno diffuso i primi dati (più che positivi) a sostegno dell’imminente domanda di autorizzazione per i bambini da 5 a 11 anni, fin qui esclusi dalle vaccinazioni. E dalla Svezia arriva una notizia che non preoccupa particolarmente le nostre autorità sanitarie, ma getta comunque un’ombra sull’immunizzazione dei più giovani: è stata sospesa la somministrazione di Moderna alla popolazione sotto i 30 anni per una verifica sui casi di infezione cardiaca, registrati in tutto il mondo, non sempre gravi, ma comunque ritenuti al di sotto della soglia d’allarme. Moderna contiene Rna messaggero in quantità superiore a Pfizer/Biontech, l’altro vaccino che impiega la stessa tecnologia. Questo spiegherebbe il maggior numero di reazioni avverse.

Covax, il flop dei vaccini (non) donati ai paesi poveri

La soluzione alla carenza di vaccini nel mondo. Lo strumento più efficace per proteggere dal Covid gli abitanti delle nazioni più povere del pianeta. A questo doveva servire Covax, creato nell’aprile del 2020 dall’Oms per “dare a tutti un vaccino”. I numeri ufficiali, riassunti in una tabella aggiornata al 24 settembre e compilata da Our World in data, dicono che le nazioni più ricche del mondo hanno promesso di donare a quelle più povere 1,01 miliardi di dosi di vaccino, ma al momento ne hanno effettivamente regalate solo 143 milioni. Meno del 15% del totale. Una classifica in cui l’Italia non fa una bella figura. Su un totale di 45 milioni di dosi che abbiamo annunciato di voler donare, ne sono state effettivamente consegnate 1 milione: il 2,2%.

Eppure la produzione di vaccini viaggia ormai a pieno regime. Secondo gli ultimi dati dell’Ifpma – International Federation of Pharmaceutical Manufacturers and Associations, l’associazione internazionale dei produttori di farmaci – in questo momento nel mondo vengono prodotte 1,5 miliardi di dosi di vaccino al mese. La stima è di arrivare a 12 entro la fine dell’anno. Significa, in teoria, che l’intera popolazione mondiale potrebbe ricevere la doppia dose entro dicembre del 2021. I dati sui vaccinati nel mondo dicono che sicuramente non succederà.

Al momento sono 3,6 miliardi le persone che hanno ricevuto almeno una dose, il 47% della popolazione mondiale. La distribuzione dei vaccini è assolutamente iniqua. L’Italia è uno dei Paesi più vaccinati al mondo: il 72,4% della popolazione ha ricevuto la doppia dose. Nella Repubblica Democratica del Congo i vaccinati con doppia iniezione sono 36.255 persone, meno dello 0,1% della popolazione. In Nigeria lo 0,9, in Senegal 3,3, in Egitto 5,6, in Tunisia 3,6, Marocco 51,5. Cinque giorni fa, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto che in media in Africa il 4,4% della popolazione ha ricevuto la doppia dose.

Covax nasce due mesi dopo i primi casi italiani, su iniziativa proprio dell’Oms, della Commissione europea e della Melinda Gates Foundation. Ora è gestita dall’Unicef insieme a Gavi e Cepi. Fino all’agosto del 2020 non ha fatto nulla, poi tra agosto e settembre dell’anno scorso moltissime nazioni hanno aderito, i primi vaccini sono arrivati sul mercato, ma la macchina non si è messa in moto fino quando Usa e Cina non hanno aderito, tra gennaio e febbraio di quest’anno. All’inizio le donazioni non arrivavano, la produzione è andata quasi interamente ai grandi Paesi che hanno comprato. Adesso che il mondo industrializzato è pieno di vaccini, le dosi dovrebbero arrivare. Ma ancora non sta succedendo. Cinque mesi fa, l’Oms aveva detto di voler “consegnare 2 miliardi di dosi entro 2021”. Il 24 settembre eravamo a 143 milioni.

La terza dose, già approvata in diversi Stati tra cui l’Italia, ha fatto sicuramente calare le donazioni. Il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha detto più volte in questi mesi di essere contrario, se prima non si distribuiscono i vaccini a tutti. Ma non è questo l’unico fattore. Nel caso dell’Ue, di sicuro un freno è dato dai contratti firmati con le case farmaceutiche. È impossibile controllarli tutti, perché sono ancora segretati, ma quello siglato il 20 novembre 2020 dalla Commissaria Stella Kyriakides con Pfizer e BionTech – che Il Fatto ha letto – prevede due condizioni particolari. Se uno Stato europeo che ha acquistato la fornitura di vaccino dalle due case farmaceutiche decide di donare le sue dosi a un altro Paese, “sarà soggetto al consenso del venditore”, in questo caso Pfizer-Biontech. Inoltre – dice il contratto – il Paese a cui verranno donate le dosi erediterà la clausola sui risarcimenti in caso di danni, gli stessi firmati dalla Commissione europea, vale a dire che tutte le spese per eventuali indennizzi sono a carico del cliente. Motivi per cui anche i Paesi riceventi potrebbero non essere incentivati a chiedere. “Questa condizione è pazzesca. Abbiamo finanziato la ricerca sui vaccini, li abbiamo pagati per averli, e anche ora che ne siamo in possesso per donarli dobbiamo chiedere il permesso”, dice Vittorio Agnoletto, medico e docente all’Università di Milano del corso Globalizzazione e politiche sanitarie, convinto fin dall’inizio della pandemia che l’unica soluzione sia la sospensione dei brevetti.

I vaccini fin dall’inizio sono diventati un nuovo strumento geopolitico. Ogni grande potenza ha i suoi marchi, e ne usa una parta per consolidare alleanze e stringerne di nuove. Un mese fa l’Italia ha dichiarato i suoi obiettivi, partendo dal Vietnam. Una donazione da 800 mila dosi, scrive il ministro degli Esteri sul suo sito: “Un importante gesto di amicizia e di solidarietà nei confronti di un partner strategico per l’Italia nel Sud-Est asiatico e nell’Asean”. L’Italia donerà vaccini anche ad Albania, Indonesia, Iran, Iraq, Libano, Libia, Yemen. “Il sistema delle donazioni – secondo Agnoletto – dipende dalla volontà soggettiva, che siano Stati o aziende produttrici, e questo si trasforma in Stati che decidono se donare, a chi, quanto e quando. La differenza è che con la sospensione dei brevetti nessuna azienda dovrebbe chiedere il permesso a qualcuno per produrre. Si sostituirebbe la carità, che dipende sempre dalla soggettività del donatore, a un diritto, che è un atto oggettivo”.

La possibilità che i brevetti vengano sospesi è appesa a un’ultima decisione. Il vertice decisivo all’Organizzazione mondiale del commercio è previsto per fine anno, dal 3 novembre al 3 dicembre, alla riunione ministeriale, dove saranno presenti tutti i Paesi membri. Dopo il cambio di decisione da parte dell’Australia, i contrari alla sospensione dei brevetti restano Regno Unito, Svizzera e Unione europea.