Di Donna, l’agente segreto e l’incontro per le mascherine

Il capo di gabinetto del servizio segreto militare italiano, l’Aise, Enrico Tedeschi, avrebbe incontrato con Luca Di Donna, nello studio legale Alpa di Roma, un imprenditore che stava per fornire alla struttura del Commissario all’emergenza Covid un grande lotto di mascherine.

L’avvocato civilista, ordinario a La Sapienza, è indagato con il collega Gianluca Esposito e con l’avvocato Valerio De Luca per associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze illecite. Nell’ipotesi della Procura chiedevano soldi in cambio di consulenze per far ottenere commesse con la struttura del Commissario vantando entrature anche istituzionali.

L’incontro con lo 007 è stato raccontato ai pm dall’imprenditore Giovanni Buini, un dinamico 35enne di Assisi che anni fa si occupava di stufe a pellet e carbo-nafta ecologica. Buini va in Procura e racconta che gli era stata revocata dalla struttura commissariale una commessa per le mascherine chirurgiche. Aveva fatto una prima fornitura ad aprile 2020 ed era in trattative per una seconda tranche. A quel punto era entrato in contatto con gli avvocati Esposito e Di Donna su suggerimento dell’amico Mattia Fella. “I due avvocati – proseguono i pm nella loro sintesi – si erano accreditati in un incontro del 30 aprile 2020 presso lo studio legale dell’Esposito quali intermediari in grado di garantire a Buini affidamenti diretti (…) avevano fatto sottoscrivere senza rilasciargliene copia un accordo per il riconoscimento in loro favore di somme di denaro in percentuale sull’importo degli affidamenti (…) i due non avevano mancato di rimarcare la vicinanza del Di Donna con ambienti istituzionali governativi. In un secondo incontro – proseguono i pm – il 5 maggio 2020 presso lo studio Alpa, il Di Donna si era fatto trovare in compagnia di un Generale della GdF il quale aveva in precedenza rappresentato al Di Donna la necessità di per la struttura di reperire dispositivi di protezione”, cioé le mascherine. Buini dice di non averci visto chiaro e di aver fatto un recesso dalla mediazione già sottoscritta con i legali. Buini racconta di avere ricevuto poi una mail dalla struttura commissariale che gli comunicava il mancato perfezionamento della nuova fornitura e la restituzione delle 500 mila mascherine già consegnate.

I pm scrivono a questo punto “le dichiarazioni del Buini sono state suffragate da quelle omogenee rese da Mattia Fella e dalla documentazione (email. whatsapp) acquisita dai Carabinieri”.

Il racconto sembra fatto apposta per imbarazzare il Governo dell’epoca. I suoi contorni sono vaghi e vanno riscontrati. Il Fatto ha provato a contattare Enrico Tedeschi, che non è indagato, per capirne di più, senza successo. Da molti anni Tedeschi in realtà non presta servizio nella Finanza. Il sito web ‘Sassate’ lo dava in corsa nel giugno 2020 per diventare vicedirettore del servizio Aise.

Partendo dal racconto di Buini i pm si sono imbattuti però in un altro affare sospetto che coinvolgerebbe oltre a Di Donna e ad Esposito (difeso dall’avvocato Mattia La Marra) anche Valerio De Luca. I tre legali sono indagati per associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze illecite.

Il Commissario per l’emergenza Covid ha affidato il 24 giugno del 2020 “con procedura negoziata e senza previa pubblicazione del bando” due forniture di test molecolari Sars-Cov2 alla Adaltis. La prima a giugno per un importo pari a 800 mila euro e la seconda per 2 milioni e 455 mila euro nel dicembre 2020.

L’ipotesi di accusa è che Di Donna, Esposito e il loro collega Valerio De Luca, sfruttando le relazioni personali con personaggi istituzionali si facevano promettere e consegnare soldi da Adaltis.

I professionisti sostengono si tratti di parcelle per prestazioni effettive di consulenza. Per i pm sulla prima fornitura di test sono stati pagati 65 mila e 553 euro accreditati sul conto di Di Donna nell’estate 2020. Parte dei soldi sono poi stati girati a Esposito (la metà) e a un’associazione presieduta da De Luca (18 mila euro). Stesso schema con cifre maggiori sarebbe stato seguito, sempre per i pm, in occasione della seconda fornitura di test a dicembre 2020 per 2 milioni e 455 mila euro. Qui arrivavano due bonifici ciascuno di 90 mila e 178 euro. Il primo a Di Donna che ne gira la metà a e Esposito e il secondo a De Luca. Il 26 maggio 2021 sul conto di Di Donna arrivano poi altri 90 mila e 178 euro.

Ieri fonti vicine ad Arcuri negavano addirittura la conoscenza tra l’ex commissario e Di Donna. Agli atti risulta una storia diversa. Scrivono i pm: “Risultano di elevato interesse sempre per il periodo in cui si sono verificati i contatti intrattenuti dall’utenza in uso all’avvocato Di Donna con l’utenza intestata a Invitalia e in uso al commissario Arcuri. Tali contatti partono infatti dal 5 maggio 2020 (poco prima che abbia avuto avvio la richiesta di offerta, 11 maggio 2020) e terminano 10 giorni dopo, ovvero il 15 maggio 2020, proprio il giorno successivo a quello (14 maggio 2020) in cui Di Donna si è incontrato insieme all’Esposito e al De Luca, con Marco Spadaccioli, evidentemente per conferire in ordine alla gara”. Spadaccioli è l’imprenditore di Adaltis che però fonti vicine ad Esposito sostengono che l’avvocato non abbia mai incontrato.

L’ex commissario Arcuri invece precisa che i tamponi della commessa Adaltis sono stati comprati a seguito di scelte effettuate dalle Regioni Sicilia e Lazio. Non della struttura commissariale.

E “Il Sole 24 Ore” assolve Dell’Utri da ogni peccato

Un elogio di Marcello Dell’Utri. Pubblicato dal Sole 24 Ore nelle pagine dell’un tempo autorevole inserto culturale domenicale. “Che altro si può dire scorrendo le gazzette quotidiane?”, si chiede l’ignoto collaboratore che si firma Mephisto. “Non basta l’orrenda ammuina ai vertici della Magistratura (…). La rimessa all’onor del mondo di Marcello Dell’Utri, signore di raffinata cultura, con lo stigmatizzante ‘il fatto non sussiste’, dovrebbe ora diventare un macigno per chi l’aveva messo alla berlina e ai ceppi, per un paio di lustri irripagabili, vittima di novelli Torquemada (1420-98) e tricoteuses del Terrore (1793-94) alimentati dalle fanfare del vampirismo d’assalto”. Con prosa forbita, faticosa e bislacca, Mephisto il 3 ottobre sul Sole purifica Dell’Utri da ogni peccato. Lo definisce “signore di raffinata cultura”, solito omaggio al “bibliofilo” che in realtà è un collezionista di libri antichi. Quanto alla “rimessa all’onor del mondo”, sarebbe l’assoluzione di Dell’Utri in appello nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Ma perché mai questa assoluzione “dovrebbe ora diventare un macigno per chi l’aveva messo alla berlina e ai ceppi”? Il “novello Tortora” fu “messo ai ceppi”, con condanna definitiva, per un’altra vicenda, che l’assoluzione per la trattativa non può cancellare: condannato a 7 anni per concorso esterno all’organizzazione mafiosa Cosa nostra, per aver fatto da tramite tra la mafia siciliana e Silvio Berlusconi, per aver portato ad Arcore il boss Vittorio Mangano, garante dei patti stretti nell’incontro del 1974 a Milano tra Berlusconi, Dell’Utri e i capimafia Francesco Di Carlo, Mimmo Teresi e Stefano Bontate, allora capo dei capi di Cosa Nostra. Pienamente riscontrato, scrive la sentenza, che “l’assunzione – per il tramite di Dell’Utri – di Mangano ad Arcore” è “la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa Nostra”. Riscontrata anche la “non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso”.

Ma chi è il misterioso Mephisto che ogni domenica con la sua rubrica pontifica con modi luciferini sotto la celeste rubrica di monsignor Gianfranco Ravasi? A dar retta alle chiacchiere di redazione (e al suo simbolo in pagina vagamente nazista) si tratta di Armando Torno, considerato da molti il vero regista culturale del supplemento domenicale del giornale della Confindustria. Pochi invece ricordano che nel 2001 fu cacciato dal Corriere della Sera, dov’era responsabile delle pagine della cultura, per aver fatto scrivere un nazista non pentito, Pio Filippani Ronconi, orientalista, ma soprattutto soldato delle Waffen SS durante la guerra e poi collaboratore dei servizi segreti e protagonista della strategia della tensione.

Lo spione Mancini ora insegna “segreti di Stato” all’università

La competenza c’è. Sul segreto di Stato Marco Mancini è un’autorità. Oltre trent’anni di intelligence, rapporti consolidati in mezzo mondo e due arresti (nel 2006) seguiti da processi bloccati proprio dal segreto di Stato. Quello per lo spionaggio della Telecom di Marco Tronchetti Provera e quello per il sequestro Cia a Milano dell’imam Abu Omar, tutti e due costati cari a suoi colleghi mentre per lui – e per altri – lo scudo eretto dalla presidenza del Consiglio impedì di andare fino in fondo. Certo, si può discutere sull’opportunità di mettere in cattedra, almeno sul piano sostanziale, un ex dirigente dei Servizi segreti come Marco Mancini. Al centro nei primi anni Duemila delle intricate e opache vicende del Sismi guidato dal generale Nicolò Pollari; volto noto da quando curiosamente si offrì ai fotografi e alle telecamere sull’aereo che riportava a casa Giuliana Sgrena del manifesto sequestrata in Iraq e liberata da Nicola Calipari – l’altra faccia di quel Sismi, in tutti i sensi – che però perse la vita per mano di un soldato statunitense; quindi convinto ad andare in pensione l’estate scorsa dopo che Report rivelò il suo incontro all’autogrill con Matteo Renzi. Era diventato, per dirla con un veterano dei Servizi, “una figura troppo ingombrante” al Dis, il Dipartimento per le informazioni e la sicurezza che coordina Aisi (ex Sisde) e Aise (ex Sismi). Incontrava Renzi come anche Matteo Salvini e tanti altri.

Riappare oggi Marco Mancini, in cattedra appunto, nella prestigiosa Università degli studi di Pavia, docente unico di un seminario di quattro ore per gli studenti di Diritto amministrativo e Diritto pubblico comparato. Tema, come si è detto, “il segreto di Stato”. Quattro ore, dalle 9 alle 13. C’è pure lo streaming, sarà interessante. L’ha invitato (e lo introdurrà) il professor Alessandro Venturi, titolare di quei corsi a Pavia e presidente della Fondazione dell’Istituto di ricerca e cura (Irccs) Policlinico San Matteo, nominato dal presidente leghista Attilio Fontana e in questa veste coinvolto (presunto innocente, ci mancherebbe) nelle vicende giudiziarie legate ai rapporti con la multinazionale sanitaria DiaSorin e il grande affare dei test sierologici di cui il Fatto dà ampiamente conto da un anno e mezzo. Un simpaticone, il milanese Venturi. Come il romagnolo Mancini, del resto. “Voglio dare una lezione alla stampa che ha dato conto delle vicende di Mancini senza mai scrivere che non è mai stato condannato, perché di fronte a quel processo mediatico non parlasse”, dice Venturi. Il segreto di Stato, appunto. Per Venturi proprio il segreto di Stato impedì a Mancini di difendersi. “L’hanno confermato sette presidenti del Consiglio, fino a Conte. Non solo Prodi e Berlusconi. E Mancini dovette scegliere se violare il segreto di Stato e beccarsi una condanna a 30 anni per rivelazione del segreto o per i reati che le Procure avevano ipotizzato di addebitargli. Per me non è né un santo né un demone, non mi interessa prendere posizione da una parte o dall’altra, ma solo problematizzare la vicenda. Non voglio parlare del segreto di Stato in astratto, ma di come funziona, anche negli altri Paesi”, dice Venturi. “Perché vede, io adoro insegnare. Ai ragazzi dobbiamo dare strumenti critici, problematici, non il pensiero unico per cui oggi tutti i giornali sono con Draghi”. E rivendica la competenza di Mancini sul segreto di Stato. Ne sapeva e ne scriveva anche il professor Vittorio Grevi, che proprio a Pavia insegnava e criticò l’uso del del segreto nel caso Abu Omar, per il quale l’Italia fu poi condannata dalla Corte europea dei diritti umani per non aver reso giustizia alla vittima di un sequestro di persona seguito (in Egitto) da torture. Mancini intanto, per Abu Omar, era stato condannato una volta in appello, ma poi prevalse di nuovo l’interpretazione estensiva del segreto di Stato.

Venturi intano assicura che dedicherà un altro seminario a quella che chiama “dittatura sanitaria”, anche se “io – precisa – non sono certo un no vax”. Potrebbe chiamare, dice, Giorgio Agamben o Massimo Cacciari, che hanno espresso posizioni molto critiche sul certamente discutibile green pass. “Tutti accettano le limitazioni dei diritti fondamentali e poi nessuno va a votare – osserva ancora Venturi – mentre in Francia la stampa ha preso posizione contro le restrizioni di Macron”. Leghista? “No, mi ha nominato Fontana, la mia è una nomina politica, ma io domenica non ho neanche votato”. Capirai, a Milano c’era Luca Bernardo contro Beppe Sala. “Milano funziona – dice Venturi –. Chiunque sia il sindaco”.

“Delega fiscale inconsistente. Sul catasto la sinistra faccia una scelta di campo”

“È estremamente rarefatta, molto generica, si presta a molteplici e diversi tipi di realizzazione, tutti dicono che si rifà al documento uscito dal Parlamento, un testo contraddittorio e illogico che non stava in piedi, la bozza di Draghi fortunatamente se ne distanzia e ha una sua dignità scientifica”. L’ex ministro delle Finanze e presidente del centro studi Nens, Vincenzo Visco, dà un giudizio sostanzialmente positivo sulla delega fiscale che il governo ha intenzione di chiedere alle Camere, ma è molto scettico sulla possibilità che i decreti delegati vedano la luce in questa legislatura: “Non si possono fare riforme senza redistribuire il prelievo. È molto improbabile che la proposta Draghi venga approvata da questo Parlamento e poi utilizzata appieno, a meno che i decreti delegati non si facciano a tambur battente”.

Eppure su un aspetto chiave, la riforma del catasto, la Lega minaccia di uscire dalla maggioranza.

Mi sembra che ancora una volta Salvini si trovi in un cul de sac: o fa rientrare i mal di pancia e si tiene la riforma o esce e va all’opposizione, per lui sono due opzioni a perdere. Draghi sul catasto sembra molto determinato, anche se parla di 4/5 anni per mettere in campo la nuova normativa, per me si può fare in un anno e mezzo.

La sinistra fa quadrato e ribatte che gli effetti fiscali della revisione degli estimi sono sospesi sine die.

Se la sinistra non fosse così poco consapevole del suo ruolo farebbe una campagna a tappeto uguale e contraria a quella di Salvini, perché la riforma sia applicata subito e a parità di gettito. Bisognerebbe spiegare alla gente che ci sarebbe uno spostamento di valore dai ricchi ai poveri, dal Nord al Sud, dove le case valgono molto meno, dal centro alle periferie, dove abitazioni nuovissime con la crisi del mercato immobiliare hanno perso notevolmente valore, dai grandi ai piccoli centri, dove ci sono interi paesi impoveriti e abbandonati dove si vendono case a un euro. Il fatto che ci siano all’opposizione Confedilizia e la destra è un’occasione per rendere espliciti i riferimenti politici dell’area della sinistra.

Sull’Irpef l’impegno è preciso, si abbatteranno aliquote medie e marginali effettive.

L’Irpef va ridotta, ma la riforma non affronta il problema dell’eccessiva tassazione del lavoro rispetto agli altri redditi, si tratta di ridurre anche i contributi, non solo le tasse.

Le imprese hanno ottenuto l’abolizione dell’Irap e sono d’accordo tutti.

Abbandonare l’Irap è una sciocchezza, se ci sono soldi è bene metterli sull’Irpef, se poi il gettito perso per l’imposta abrogata, necessario a finanziare la Sanità, verrà recuperato sulla stessa platea di contribuenti, l’Ires schizzerà alle stelle.

I redditi da capitale, invece, secondo la bozza presentata, finirebbero sotto il cappello di un’unica flat tax.

La parte più consistente della riforma prospettata riguarda proprio l’intenzione di recuperare e applicare i criteri della dual income tax, l’imposta che avevo introdotto 20 anni fa quando ero al governo; allora era una misura adeguata all’epoca della globalizzazione e della concorrenza fiscale tra paesi e fallì perché andammo all’opposizione, oggi sarebbe una razionalizzazione del sistema. Ma avere un’unica aliquota è pressoché impossibile, non solo perché va allargata ai Bot altrimenti non ha senso, ma anche perché ci sono sempre spinte settoriali per dare a qualcuno un vantaggio competitivo. Mal si presta a farla in Italia.

Un ultimo suggerimento?

Nella delega manca la sistemazione dei rapporti tra fisco e privacy, che sta creando una serie di problemi, dall’attività di accertamento all’applicazione della fatturazione elettronica; era stata annunciata, spero che la possano recuperare con un decreto, in Parlamento verrebbe bloccata.

 

Dopo la Lega, schiaffo ai 5Stelle. Il cashback non durerà a lungo

Dopo l’affondo di Mario Draghi alla Lega con l’approvazione della delega fiscale il giorno dopo le urne, ieri il premier, tramite il suo fedelissimo Daniele Franco, ha sferrato un altro colpo, questa volta contro i Cinque Stelle. Il ministro dell’Economia, nel corso dell’audizione sulla Nota di aggiornamento al Def, il testo in cui il governo spiega come intende impiegare le risorse nei prossimi anni, ha parlato anche del futuro del cashback e del superbonus 110%, le due misure volute dal Movimento ai tempi del Conte-2. L’obiettivo del governo è quello di adottare una politica di bilancio più prudente dopo un anno e mezzo di aiuti a pioggia a causa della pandemia.

“È uno strumento che è stato molto importante per recuperare e muovere verso i pagamenti elettronici, che facilitano il contenimento dell’evasione. C’è un’analisi costi/benefici, nel prorogarla bisogna valutare gli uni e gli altri”, ha spiegato Franco parlando del cashback, il meccanismo per incentivare l’uso della moneta elettronica e poi sospeso in questo secondo semestre dal premier Draghi che ha etichettato la misura come “regressiva”.

Uno stop che ha incassato l’ok della maggioranza, eccetto i 5Stelle ai quali è rimasto il contentino della promessa, sulla carta, di farlo ripartire migliorato nel gennaio 2022. Impegno che ora, però, si infrange contro la stoccata di Franco: “Non la vedrei come una misura strutturale. Nel momento in cui abbiamo spinto le persone verso i pagamenti digitali va bene, si resta nel mondo digitale. Difficilmente se le persone sono abituate all’utilizzo del bancomat tornano indietro”. Insomma, il governo riconosce che il cashback ha prodotto effetti positivi, ma va comunque tagliato. E sul tavolo resta la riformulazione della misura con un robusto ridimensionamento delle spese, da 1,5 miliardi a 500 milioni l’anno.

Il ministro Franco ha, quindi, suonato la stessa sinfonia anche per il superbonus, la maxi-detrazione fiscale del 110% voluta da M5S con in testa il padre della misura, Riccardo Fraccaro: funziona molto bene, ma non è sostenibile, è la tesi. “I bonus edilizi sono molto importanti per far ripartire il settore delle costruzioni, quindi nella legge di bilancio stiamo valutando in che modo possano e debbano essere prorogati. Ma il superbonus non è sostenibile nel lungo periodo e, quindi, non può essere strutturale. Lo Stato paga la spesa, l’effetto sui conti e sul debito è serio”, ha detto Franco. Il rinnovo della misura era stato proposto inizialmente già nel Piano di ripresa e resilienza, poi spostato in manovra almeno per l’estensione fino al 2023 visto che la maggioranza, nella risoluzione alla Nadef, ha ora impegnato il governo. Anche gli altri bonus casa (ristrutturazioni, mobili, ecc) non sono strutturali: di anno in anno, da svariati anni, si trovano le risorse in manovra per prorogarli. Intanto il superbonus è arrivato a sfiorare 7,5 miliardi di lavori. Basta sempre capire da quale parte vedere le misura: non debito, ma investimento.

Stalker arrestati e subito liberi: legge già da rifare

A 14 giorni dall’approvazione al Senato, l’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia sta rimettendo le mani sulla riforma Cartabia. In particolare sulla norma che ha introdotto l’arresto obbligatorio per i reati di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Si tratta di una norma – recepita con l’emendamento a prima firma di Lucia Annibali (Italia Viva) – pensata in difesa delle donne perché riguarda tutti gli uomini che violano quegli obblighi imposti dal giudice di avvicinarsi alle proprie vittime. Peccato però che questa norma nei fatti contrasti con un articolo del codice di procedura penale. Di conseguenza ci potremmo trovare di fronte a una situazione paradossale: persone arrestate, che i pm saranno costretti a far tornare il libertà.

Per capire la questione bisogna partire dalla novità introdotta nella riforma. Questa prevede di intervenire sull’articolo che disciplina l’arresto obbligatorio in flagranza di reato. Che sarà previsto anche per l’articolo 387 bis del codice penale, che riguarda appunto chi viola il provvedimento di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. E sono le cronache quotidiane a raccontare come questo fenomeno, sempre più frequente, sfoci in terribili femminicidi.

Il reato previsto dall’articolo 387 bis è punito con una pena da sei mesi a tre anni. E qui si crea il disallineamento con le regole generali. Il codice di procedura penale infatti all’articolo 280 (condizioni di applicabilità delle misure coercitive) prevede l’applicazione delle misure coercitive per i reati puniti con una pena “superiore nel massimo a tre anni” di reclusione. L’articolo 387 bis del codice penale non è tra questi. Così bisogna mettere una pezza. L’antitesi tra le due norme è stata segnalata in maniera informale al ministero della Giustizia dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio, presieduta da Valeria Valente (Pd). Ora i tecnici degli uffici legislativi di via Arenula nell’ambito di una serie di altre misure di intervento contro la violenza di genere stanno valutando anche le modifiche per superare questa contrapposizione che potrebbe venire a crearsi. Ragionano dal ministero, una soluzione potrebbe trovarsi già nell’articolo 280 del codice di procedura penale, al comma 3: prevede che le disposizioni sulle misure coercitive non si applicano “nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare”. E quindi tra questi potrebbe rientrare, ad esempio, anche il divieto di avvicinamento.

Ma si pensa anche ad altre soluzioni: intervenire proprio sull’articolo 280 del codice di procedura o sulla norma prevista dalla riforma magari rendendo l’arresto facoltativo (ma non è questa la strada che si intende intraprendere). La discussione è in corso. Questa riforma può stupire ancora.

 

Le richieste dei pm contro Siri: il Senato ha aspettato le urne

A urne ormai chiuse è stata pubblicata agli atti del Senato la richiesta inoltrata il 17 settembre dai magistrati di Roma che chiedono di poter utilizzare le intercettazioni che riguardano l’ex sottosegretario leghista Armando Siri. A processo con l’accusa di essersi dato da fare, in cambio della promessa di una mazzetta da 30 mila euro, per favorire Paolo Arata, l’imprenditore in affari con il re dell’eolico Vito Nicastri considerato uno dei finanziatori di Matteo Messina Denaro. Siri che ha chiesto e ottenuto il giudizio abbreviato (previsto per il 22 dicembre) avrebbe asservito i suoi poteri a “interessi privati, proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia” provvedimenti e emendamenti volti a incentivare il mini-eolico.

Gli inquirenti di Roma gli contestano il reato di corruzione anche per un altro episodio, in concorso con Arata, l’intermediario Valerio Del Duca, e i funzionari di Leonardo Spa, Simone Rosati e Paolo Iaboni: in questo caso Siri, allora uno delle personalità più in vista della Lega di Matteo Salvini, si sarebbe attivato, dietro promessa di guadagni, per ottenere un provvedimento normativo ad hoc che finanziasse il progetto di completamento dell’aeroporto di Viterbo, di interesse per future commesse della Leonardo (ritenuta estranea all’inchiesta). E anche per far rimuovere un contrammiraglio della Guardia Costiera critico su alcuni aspetti della fornitura di sistemi radar affidata alla stessa azienda. Le intercettazioni sull’affaire aeroporto, compresa quella dopo l’incontro organizzato grazie i buoni uffici di Siri, tra il figlio di Arata e l’ad di Leonardo, Alessandro Profumo, non saranno però utilizzabili: le uniche captazioni del parlamentare leghista ritenute casuali e autorizzabili dal Senato, sono infatti quelle dell’inchiesta palermitana sull’eolico.

Pure i “nordisti” ora si schierano col capo ribelle

La chiamano “strategia dell’elastico”. Matteo Salvini tira, tira, ma non rompe. Non può farlo, ora. Avrebbe troppo da perdere – la gestione dei fondi del Pnrr e soprattutto la partita del Quirinale a febbraio – e nel suo partito uno strappo che porterebbe la Lega fuori dal governo Draghi provocherebbe la rottura con il fronte governista, quello di Giancarlo Giorgetti e dei governatori del Nord. Ma questo non vuol dire che il leader della Lega, ancora stordito dalla batosta elettorale di lunedì, non continuerà a tenere sul filo il premier Mario Draghi: a ogni provvedimento in cui la Lega avrà qualcosa da ridire, non solo la delega fiscale ma anche il decreto Green pass sui lavoratori che arriverà in aula la prossima settimana, la Lega è pronta a spaccare la maggioranza anche a costo di ripetere gesti politici forti come il non voto di martedì in Consiglio dei ministri. Salvini vuole logorare Draghi sperando di issarlo al Quirinale per poi andare a votare in primavera. I due comunque si vedranno oggi per chiarirsi.

E così ieri, dopo 24 ore di tensioni, è stata la giornata della distensione. I toni erano rimasti alti la mattina con l’intervista del capogruppo alla Camera Riccardo Molinari al Corriere in cui paventava la “crisi” perché “ci vogliono buttare fuori”, a cui facevano eco le parole dello stesso Salvini: “Non firmo un assegno in bianco, questa è una patrimoniale. La Lega sostiene il governo se riduce le tasse”. E ancora Alberto Bagnai, responsabile economico della Lega, faceva sapere che è “difficile stare al governo se veniamo trattati da opposizione”. Uscite che fotografavano una certa insofferenza anche dei gruppi parlamentari leghisti. Ma dopo le parole di Draghi (“non ci saranno nuove tasse”), nel pomeriggio fonti della Lega facevano sapere di apprezzare l’apertura del premier: “Bene Draghi contro patrimoniale e nuove tasse sulla casa, adesso il Parlamento tolga ogni accenno a riforma del catasto”. Una sconfessione delle dichiarazioni del giorno prima in cui il leader parlava di “polpetta avvelenata” ed elencava tutti i temi sbagliati nella riforma. La pace viene confermata anche dal capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo: “Ci sarà presto un chiarimento – dice al Fatto – abbiamo segnato un punto sul fisco, ma non c’è nessun problema”. E Salvini in un giorno solo riesce anche nell’obiettivo di serrare i ranghi e ricompattare i governatori del Carroccio che, dopo averlo sconfessato sul Green pass, sul fisco lo seguono eccome. Dopo una serie di telefonate con Salvini, a metà pomeriggio esce una nota dei presidenti di Regione leghisti, compresi Massimiliano Federiga e Luca Zaia, che chiedono al governo di ripensarci sulla riforma del fisco: “Diciamo no a un nuovo aumento sulla casa”. I governatori ora hanno abbassato i toni contro il segretario in attesa dei ballottaggi tant’è che Zaia ha rimandato la sua visita romana prevista per ieri: dal 18 in poi però, assicura un big, i governisti chiederanno al capo spiegazioni e un cambio di linea. Giorgetti lo va ripetendo: “Io Matteo non lo capisco proprio”.

Dall’altra parte Salvini sa che una Lega più di lotta può aiutare il partito in vista dei ballottaggi. I fedelissimi raccontano anche che la minaccia di una nuova crisi viene usata dal leader a scopo di conta interna: “Vuole capire chi sta veramente con lui e chi no, anche perché le liste le farà Salvini”. Resta da capire fino a che punto si potrà spingere per evitare la rottura. Ancora ieri i salviniani di ferro come Massimo Bitonci e Claudio Borghi continuavano a ripetere che “così la riforma del catasto è invotabile”, mentre Giorgetti ci andava più cauto: “Siamo al governo, lavoriamo, lavoriamo”. La spaccatura nel partito è evidente anche nella coalizione con le ministre forziste Mariastella Gelmini e Mara Carfagna che hanno preso le distanze dalla mossa di Salvini: “Non la condivido e non la comprendo” ha detto Carfagna. “Parlare di patrimoniale è ridicolo – spara Renato Brunetta – nel centrodestra serve un chiarimento”.

Draghi non vuole rinunciare alla Lega e apre alla trattativa

Oggi Mario Draghi e Matteo Salvini si incontreranno. Un modo per mettersi alle spalle (almeno per ora) l’ennesima “crisetta” provocata dal leader del Carroccio. Non ha nessuna intenzione di fare a meno della Lega, Draghi. E che possa arrivare a spingere Salvini a uscire dal governo è un desiderio di molti nel Pd, che però poco ha a che fare sia con la realtà, sia con il ragionamento del premier.

Per capire il filo della sua riflessione basta ascoltare le parole di Angela Merkel al termine del vertice Ue-Balcani occidentali ieri a Brdo in Slovenia: “Abbiamo bisogno di un’Italia economicamente forte e Draghi ha già fatto passi importanti per raggiungere questo obiettivo”. Per il presidente del Consiglio, Merkel ha speso parole d’elogio, ricordando che con le sue scelte a Francoforte “ha compiuto passi importanti per salvare l’euro”. Ora, ha aggiunto, ha “un ruolo completamente diverso”, con un governo “molto inclusivo”.

Nelle valutazioni della Cancelliera – che oggi sarà a Roma in visita prima dal Papa e poi a Palazzo Chigi, in un incontro simbolico che molti vedono come un’investitura simbolica del premier alla guida dell’Europa – l’“inclusività” del governo è evidentemente un dato fondamentale. Cosa, questa, che Draghi sa benissimo: una maggioranza eterogenea è quella che gli consente di “tirare diritto”, andando avanti sulla strada delle riforme. Con un appoggio meno largo, il premier dovrebbe tenere conto molto di più delle richieste dei partiti che lo sostengono.

Ieri si è registrata un’altra puntata dello scontro con il leader della Lega. Ma dopo la giornata di martedì – nella quale la crisi di governo sembrava a un passo – in realtà sia dal Carroccio che a Palazzo Chigi parlano di una giornata più distensiva.

Aveva iniziato Salvini chiedendo al premier di “togliere dal catasto la delega fiscale”, perché si tratta di una “patrimoniale mascherata”. Draghi – parlando da Brdo – ribadisce: “Il governo va avanti: la sua azione non può seguire il calendario elettorale”. Perché, “noi dobbiamo seguire il calendario che è stato negoziato con la commissione europea per il Pnrr ma anche per le raccomandazioni che sono state date dalla commissione all’Italia”. Poi ci tiene a puntualizzare: “La riforma del catasto non è una patrimoniale. Questo governo non tassa, non tocca le case degli italiani. L’ho detto fin dall’inizio: questo governo non aumenta le tasse”. E se Salvini poi fa sapere che non intende uscire dall’esecutivo, ma che in caso tocca a Conte e a Letta, Draghi prende la palla al balzo: “Salvini ha parlato e ha detto che la partecipazione al governo non è in discussione: ci vedremo nei prossimi giorni”. L’altro stavolta se la fa andare bene tipo mezza vittoria. Fonti leghiste plaudono alla rassicurazione draghiana.

Anche qui, Draghi sa benissimo che la Lega per governare gli serve tutta. E che Giancarlo Giorgetti non avrebbe comunque la forza per tenerla ancorata all’esecutivo, in caso di rottura con il leader. Il tema, dunque, è come andare avanti e quanto il quadro può reggere. Mentre filtra qualche indiscrezione secondo la quale Palazzo Chigi potrebbe offrire a Salvini una qualche mediazione tecnica sulla richiesta del leader leghista (insiste che si cancelli dalla delega ogni accenno alla revisione, anche futura, degli estimi), si profila già l’oggetto del prossimo scontro: la riapertura delle discoteche. Secondo il Cts la capienza massima deve essere il 35%. Salvini parla di “presa in giro”. Se ne parlerà in un Cdm che doveva essere oggi e presumibilmente slitterà a domani.

Nel frattempo, le manovre intorno a Draghi vanno avanti. Letta continua ad accarezzare l’idea di una maggioranza Ursula. Perché sa che l’unico modo per reggere davvero ancora il peso di questo governo è farlo come perno della maggioranza. Draghi non è dello stesso avviso. Anche per questo, negli ultimi giorni si ricomincia a parlare sempre più insistentemente del premier al Quirinale: per tutti, sarebbe l’unico modo per togliere dal campo da una figura troppo ingombrante. E non per forza per arrivare a elezioni. Anche se per il segretario del Pd non sono più un tabù. Il punto è che per non bruciare Draghi nell’urna quirinalizia ci vorrebbe già un accordo blindato per il dopo. E visto come sono andate le grandi manovre per il Conte ter, non è detto che i big dei partiti siano in grado di non farsi sfuggire la situazione di mano. Il quadro è complesso, gli scenari aperti. Con tanto di ambizioni di Renzi e Calenda che continuano a sperare in un’evoluzione di Draghi politica alla maniera “montiana”. Cosa che l’interessato vuole evitare come la peste.

I pareri

 

Come Prodi Liti e ricatti continui: governare in 4 sarebbe impossibile

In passato, l’Ulivo e l’Unione hanno portato solo parzialmente fortuna al centrosinistra di Romano Prodi: le grandi ammucchiate hanno permesso di vincere le elezioni, ma mai di governare con tranquillità. Perché quegli esecutivi vivevano l’esperienza poi vissuta dal governo Conte-2: il continuo ricatto da parte dei piccoli fino alla rottura. Enrico Letta lo sa bene. Ma in questo momento non ha alternative. Perché anche dopo i risultati del primo turno delle Amministrative (il cui esito, agli occhi dell’opinione pubblica, verrebbe ribaltato se Roma e Torino andassero tra 15 giorni al centrodestra), Meloni, Salvini e FI restano maggioranza nel Paese. Per Letta, insomma, è naturale spingere per l’unità sperando però che Conte riesca a recuperare consensi tra gli astenuti. In modo da avere, in caso di vittoria alle Politiche, un alleato che renda l’esecutivo numericamente non dipendente dai partitini. Governare in 2 si può. In 3 è difficile. In 4 o più è impossibile.
Peter Gomez

 

Patto Ormai i grillini devono restare a sinistra, anche se insieme ai “rivali”

Questo nuovo Ulivo di cui si parla mi sembra ancora un progetto piuttosto lontano, quasi un ballon d’essai nel tentativo, credo molto sentito, di riproporre in qualche modo un bipolarismo. Le parole di Enrico Letta sono quindi un modo per chiedere a Renzi e Calenda da che parte stanno. Diversa è la posizione del Movimento 5 Stelle, che con la guida di Giuseppe Conte ha già deciso che direzione prendere e soprattutto non è nelle condizioni di tornare indietro, neanche se il Partito democratico volesse coinvolgere Italia Viva e Azione nell’alleanza. La spinta propulsiva del grillismo è svanita, quale può essere la loro ambizione fuori da questo centrosinistra allargato? Anche perché la foto di Napoli, con i 5 Stelle che sorridono accanto a Vincenzo De Luca dopo il trionfo di Gaetano Manfredi, lo dimostra: se si vince, si è tutti contenti.
Piero Ignazi

 

Scelte Ci vuole chiarezza dai dem: o con i moderati o con 5Stelle e Leu
Chi si asterrà al ballottaggio a Roma farà un regalo alla destra. Michetti e Gualtieri non sono la stessa cosa. E chi sta a casa fa il gioco di Meloni, Salvini e Sgarbi. Ma il Pd deve scegliere: o sta con Calenda e Renzi, o sta con Conte e Bersani. Tutto non si può avere. A quale titolo Calenda esige che Gualtieri non dia nulla ai 5Stelle, altrimenti lui non li vota? E Gualtieri s’affanna pure a esaudire prontamente i suoi desiderata! Perché Letta, martedì da Floris, ha asserito che nell’alleanza che lui ha in testa c’è posto per Calenda (e quindi Renzi) e pure per Conte? L’unica strada è quella che ha portato ai trionfi di Lepore e Manfredi, e su questo Letta deve essere chiarissimo una volta per tutte. Troppo facile flirtare con quei due lì e poi pretendere i voti della Raggi. Per dirla grevemente alla toscana, e chiedo scusa in partenza: esimi compagni del Pd, già che ci siete dai 5Stelle volete pure una fettina di culo? E via, su.
Andrea Scanzi