“Andiamo avanti con i 5S, però adesso il baricentro siamo noi”

“Il voto di Bologna è la vittoria di chi crede nel fronte progressista. È servito un anno e mezzo di lavoro per unire questa coalizione. Credo che il metodo si possa esportare al resto d’Italia, poi le formule si vedranno”. Matteo Lepore, 41 anni da compiere tra pochi giorni, ha stravinto le elezioni bolognesi. Lo ha fatto tenendo insieme tutti: dalla sinistra di Emily Clancy al centro di Isabella Conti, grillini compresi. L’ha definita “la coalizione più larga d’Italia”.

Da Calenda a Bersani, in pratica. Come si fa?

Qui la scelta era chiara, mi sono battuto per una coalizione progressista, capace di guardare a sinistra. Abbiamo coinvolto anche i moderati, ma sempre tenendo gli occhi sulle disuguaglianze, sulla solidarietà, la sanità, il valore del pubblico. Sviluppo e coesione sociale non sono in contraddizione. C’è una parte della sinistra che vuole essere più riformista e innovativa, ma si dimentica di dover rappresentare le persone. Noi abbiamo scelto un profilo popolare.

Davvero una squadra del genere si può riproporre per il governo nazionale? Non è ora che il Pd scelga da che parte andare?

La politica ha i suoi tempi. La pandemia ha reso possibili formule di salvezza nazionale con alchimie strane e barocche. Ma alla fine del mandato di questo governo bisognerà fare delle scelte, è vero. Sono convinto che l’idea di Letta per le Politiche sia tenere unito un centrosinistra largo e competitivo. Se qualcuno non ci vorrà stare perché innamorato della propria immagine, credo sarà punito dagli elettori.

Bologna era un laboratorio del patto giallorosso, ma il Pd ha cannibalizzato il M5S.

Un partito deve avere una missione. I Cinque Stelle se la stanno dando grazie a Giuseppe Conte, a cui va lasciato il tempo per organizzare il nuovo Movimento. Si è aperta una nuova epoca, sta a loro decidere da che parte vogliono stare. Io li ringrazio per il contributo che hanno dato in questa città.

Non le pare nel Pd ci sia fretta di archiviare l’alleanza con i grillini?

Non credo. A Bologna non sarà così. Certo, come dice Letta, entriamo in una fase nuova. Per vincere le Politiche serve un percorso comune. Il Pd è il baricentro perché ha preso molti voti, questo può aiutare a tenere insieme una coalizione.

A Bologna, la Lega di Salvini metteva paura fino a poco fa, invece si è squagliata. Come mai?

La Lega non è credibile e presto si vedrà che c’è un trucco anche dietro alla Meloni. Non hanno una classe dirigente, sanno solo parlare alla pancia. A Bologna in 5 anni non sono stati in grado di presentare un progetto, hanno passato il tempo a litigare e si sono dimenticati il loro candidato. I cittadini non si fanno prendere in giro.

Ha stravinto nella sua città, è giovane, pensa già alla ribalta nazionale?

Sono stato eletto per fare il sindaco qui. Vorrei però che fosse Bologna a fare politica nazionale. I sindaci possono dare un contributo al centrosinistra. Lavorerò insieme agli altri per questo, non per essere l’ennesimo leader che si candida a scadere come uno yogurt.

Ma come si fa a non perdere l’anima con una coalizione “pigliatutto”, da destra a sinistra?

Voglio un Comune da combattimento e sarò un sindaco da combattimento. La definizione di sé la danno le battaglie che si scelgono. Quando sui licenziamenti via whatsapp e le delocalizzazioni mascherate, i sindaci si schierano per combattere i soprusi e si impegnano a proporre nuove norme, questo ti dà un’anima politica. A Bologna l’abbiamo fatto, per esempio schierandoci sui rider. Ci si deve battere per dare potere politico a chi ha meno potere economico. Così si è sinistra.

Conte: no a Calenda e Renzi. E nel M5S sale l’onda anti-Pd

Due giorni dopo, gli effetti della botta da urne per i 5Stelle si vedono e si sentono. Si vedono nei capannelli dei deputati a Montecitorio, più stufi che arrabbiati. E si sentono nelle voci su un’altra, imminente infornata di addii: c’è chi dice fino a 20, alcuni dei quali in direzione Lega, e l’ex sottosegretario Gianluca Vacca lo conferma: “L’identità è sbiadita, se non troviamo il modo di discutere di ciò che dobbiamo essere altre uscite saranno inevitabili”. In diversi toccano note simili: “La gente non capisce più cosa siamo, perché dovrebbe votarci?”. Il perché lo dovrà spiegare innanzitutto Giuseppe Conte, a cui i parlamentari chiedono di nominare in fretta la segreteria e i referenti territoriali, e di rilanciare “con due o tre temi forti” il M5S.

Lo sa, l’avvocato, come sa bene che quasi tutti non hanno gradito l’Enrico Letta che in queste ore ha aperto a una coalizione larga con lui federatore e dentro il Movimento, certo, magari però assieme a Carlo Calenda – che ieri ha annunciato il sostegno al dem Roberto Gualtieri a Roma – e Matteo Renzi. Proprio lui, il segretario del Pd, che in mattinata a Roma incrocia i ministri grillini e il presidente della Camera Roberto Fico alla festa per i 70 anni di Pier Luigi Bersani, al Palazzo delle Esposizioni. Sorrisi e brindisi, anche con altri ospiti di riguardo come Romano Prodi, Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Sorride largo, Letta. Ma i 5Stelle no. “Non possiamo stare con Calenda e Renzi, non era questo il perimetro” s’infiamma un big, mentre nel M5S il malumore trabocca: “Siamo troppo schiacciati sul Pd, ci stanno già calpestando”.

Sa pure questo Conte, e non a caso dalla Sicilia, ennesima tappa del suo tour, avvisa tutti che la strada resta quella: “La nostra è una traiettoria politica che vede un dialogo costante con il Pd”. Però qualcosa va precisato, servono segnali, anche per calmare le truppe. Così in serata l’ex premier rintuzza il Calenda che aveva posto l’assenza di assessori del Movimento come condizione per sostenere Gualtieri: “Calenda sta facendo un suo percorso politico autoreferenziale, e noi glielo facciamo fare tranquillamente, ma è all’inizio di un cammino politico nazionale, e quindi dettare condizioni agli altri mi sembra quantomeno arrogante”. Detto questo, “gli apparentamenti nei ballottaggi sono da escludere, ma non c’è alcuna possibilità di poter collaborare con un’eventuale giunta di centrodestra”. L’avvocato parla al capo di Azione per rivolgersi anche al Pd, facendo capire che per lui Calenda non è dentro la coalizione. Quanto ad accordi, “non abbiamo chiesto nulla e non abbiamo mai pensato di avere assessori a Roma”. Conte ha già fatto intendere che va sostenuto Gualtieri – “è un mio ex ministro” – e lo ripeterà. Nell’attesa si espongono i suoi fedelissimi, il ministro Stefano Patuanelli – “ho lavorato con Roberto, se i dati economici sono migliorati è anche grazie a lui” – la viceministra Alessandra Todde: “Lo voterei”. Ma niente accordi formali. Non dopo che Virginia Raggi, ancora popolarissima nella base, ha spiegato che non farà dichiarazioni di voto. E comunque il nodo resta quello, i dem che aprono ai “moderati”, perfino a Renzi. E fonti vicine a Conte spiegano che no, questo no: “Renzi non può essere un nostro interlocutore”. Poi c’è anche altro, il fastidio dei 5Stelle per le parole del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, contro il salario minimo. “È una nostra proposta” ringhiano. Non caso il M5S rilancia sul salario con una nota.

Chissà se ne avranno parlato Letta e Conte, che ieri si sono sentiti per telefono, discutendo innanzitutto di Comunali. “Noi non siamo infallibili” ricorda l’avvocato da un palco siciliano. Ma da qui in avanti, meglio limitare gli errori.

Astensione programmata

Anch’io, come Padellaro, ho visto i colleghi del Giornale Unico esultanti per la morte del populismo (notizia, fra l’altro, fortemente esagerata). E mi sono domandato: ma che avranno da gioire, con Salvini e Meloni insieme al 40% e un elettore su due astenuto? Certo, la gioia incontenibile è per la sconfitta degli odiati 5Stelle di Conte (peraltro non candidato). Ma c’è di più. Per noi democratici, fissati con la Costituzione e la sovranità popolare, l’astensione è un tragedia: per lorsignori, che democratici non sono anche se fingono bene, è una risorsa. Anzi, è il fondamento del loro piano oligarchico: meno gente vota e meglio è, perché alle urne vanno solo quelli che votano “bene”. Non i bifolchi brutti sporchi e cattivi delle periferie, che sbagliano sempre a votare; ma i buoni saggi moderati e obbedienti delle Ztl.

Nella Prima Repubblica, senza vincoli di bilancio e di spesa, il potere si garantiva i consensi degli ultimi distribuendo posti, soldi e prebende clientelari, scambiando voti e favori con le mafie e chiudendo un occhio sull’illegalità di massa (evasione, abusivismo, lavoro nero, falsi invalidi). Nella Seconda Repubblica, finiti i soldi e ingabbiati dalla Ue, la platea dei clientes s’è ristretta, ma per trascinare la gente alle urne s’è inscenato il finto bipolarismo Berlusconi-centrosinistra, le due facce furbe dello stesso sistema. Un gioco a somma zero su una roulette truccata, dove vinceva sempre il banco. Con l’avvento dei partiti anti-sistema (i 5Stelle e poi la Lega salviniana e FdI) la maschera è caduta e le periferie sociali e politiche rassegnate a non contare più nulla han trovato qualcuno che parlava di loro, con loro e come loro. E sono tornate alle urne, mandando in tilt il sistema. Che nel 2013 s’è ammucchiato in orrendi assembramenti contro natura (i governi Letta, Renzi e Gentiloni) pur di tenere i barbari fuori dal recinto. Ma nel 2018 ha dovuto arrendersi alla legge dei numeri e subire ben due governi di cambiamento: il Conte-1 e il Conte-2. Nel 2021 le acque del Mar Rosso si sono richiuse violentemente col Conticidio e l’avvento di Draghi che, con la scusa dei vaccini e del Pnrr (già pronti col governo precedente), si allarga un bel po’ e svela il suo vero mandato: raddrizzare le gambe ai cani, cioè ai partiti, rendendoli tutti docili e obbedienti al sistema. Raddrizzare le gambe agli elettori è più arduo: sono troppi. Ma basta raccontargli ogni giorno a reti unificate che il loro voto non serve a nulla, tanto Draghi (o una sua controfigura se lui ascenderà al Colle) resterà a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni, comunque vadano, senza neppure l’incomodo di candidarsi. Così l’elettore si rassegna: se gli piace il presepe, vota “bene”; se non gli piace, sta a casa.

“SelfieMania”, quando il click diventa l’ottavo vizio capitale

“Uccidono più i selfie che gli squali”. E così l’attrice Elisabetta Pellini ha messo da parte la confessa fobia per i pesci del capolavoro di Spielberg e s’è risolta portare sullo schermo “la malattia del secolo”, la SelfieMania. Da domani in sala con Stemo Production, è un film a episodi come noi italiani non ne facciamo più, malgrado tanti, illustri precedenti, da I mostri (1963) di Dino Risi e Ro.Go.Pa.G. (1963) di Rossellini, Godard Pasolini e Gregoretti a La domenica specialmente (1991) di Tornatore, Giordana, Giuseppe Bertolucci e Barilli: “Ci sono cresciuta con quelle opere, erano la passione di mio padre, sicché la collegialità mi è parsa da subito l’idea migliore per esordire alla regia di lungometraggio”. Quattro filmmaker (con Pellini, Francesco Colangelo, Willem Zaeyen, Elly Senger-Weiss), altrettanti capitoli (Picco di emozioni, The American Stream, Temper tantrum e L’amore… nonostante tutto), tre Paesi coproduttori (Italia, Austria, Russia) per un collage sul complicato, ambiguo e pericoloso rapporto con il nostro alter ego contemporaneo, lo smartphone: “Invidia, superbia, avarizia, i vizi capitali ci sono tutti, e il selfie è l’ottavo: dall’autostima labile alla necessità spasmodica di like e follower, fino alla ricerca dello scatto estremo, è un problema che non possiamo sottovalutare”. Nell’alveo della “comedy votata al sociale, sulla scorta del Borghese piccolo piccolo di Monicelli con l’impareggiabile Alberto Sordi”, Pellini punta a “divertire e al contempo lasciare qualcosa” inquadrando la relazione tra Milena Vukotic, l’attempata e indomita influencer Madame Letizia, e Andrea Roncato, lo sconsolato se non sventurato marito: “Il selfie non conosce età, la storia che a quattro mani con Giancarlo Scarchilli travaso ne L’amore… nonostante tutto viene dall’America, laddove una signora vittima di incidente continuò imperterrita a riprendersi”. Senza stigmatizzarli, la neoregista invita a usare i social con parsimonia e discernimento: “Agli albori Instagram era il paradiso della fotografia, oggi vive di una competizione estenuante e una rincorsa spasmodica della bellezza, Facebook è da tempo uno sfogatoio a cielo aperto, in cui lamentarsi delle corna o mandare a quel paese chiunque”. Il rimedio? “Detto che i selfie sono un fenomeno globale, io stessa sono stata testimone di donne col burqa che se li sparavano sulle Piramidi, dovremmo trattarlo come il vino: uno o due bicchieri a tavola vanno bene, una o due bottiglie testimoniano una dipendenza. Che va curata, senza indugio”.

Piccioni, sapiens e dinosauri: gli animali cambiano la Terra

Migliaia di umani hanno provato a raccontare la vicenda del mondo: ora lasciamo che ci provino i loro migliori amici (e nemici). La Storia illustrata del mondo in 50 animali, scritta da Jacob F. Field e da poco uscita per Il Saggiatore, colma la lacuna speculativa.

Spazio a 50 specie che hanno contribuito a plasmare il pianeta in cui viviamo. “Le specie considerate variano da estinte a quelle ancora prospere, da addomesticate a selvatiche, e provengono da ogni angolo del globo”. Ogni capitolo, arricchito da illustrazioni a colori, è consacrato a una di loro. Tra mitologia e realtà, scienza ed economia, l’autore ne ripercorre a ritroso il misconosciuto cammino. Con alcuni ritratti ad hoc: come quello della pecora Dolly, cartina di tornasole dell’insostenibile hybris umana, o della cagnolina Laika, che nel 1957 venne immolata e sparata in orbita dai sovietici in un viaggio senza ritorno.

Smettiamo per un po’ gli abiti della nostra visione antropocentrica e facciamoci trasportare dalle pagine del volume di Field. A proposito di evoluzione: Darwin non avrebbe mai formulato la sua teoria rivoluzionaria senza avere osservato da vicino i fringuelli delle Galàpagos. Nel Devoniano, tra 419 e 359 milioni di anni fa, si affacciarono sulla crosta terreste i tetrapodi, una banda composita con quattro arti che includeva anfibi, uccelli e mammiferi. Circa 312 milioni di anni fa iniziarono a comparire i primi rettili, evolutisi dagli anfibi. Mentre attorno a 240 milioni di anni orsono irruppero sulla scena, col fragore di fabbrica, i dinosauri. Campioni del Mesozoico. Il Tyrannosaurus, per dirne uno, “arrivava fino a 12 metri di lunghezza e 14 mila kg di peso”. Poi 66 milioni di anni fa andarono incontro all’estinzione, per colpa, pare, di un enorme asteroide. “Un solo gruppo rimase in vita: gli aviani”, che si sarebbero trasformati negli uccelli.

Gli antenati dei coccodrilli fecero capolino 200 milioni di anni fa: “Questi animali semiacquatici vivono principalmente ai tropici e uccidono circa 1.000 persone l’anno, quaranta volte più degli squali”. Noi uomini, è fatto notorio, militiamo nella famiglia delle grandi scimmie (gli ominidi), on the road da oltre 36 milioni di anni. A un certo punto i precursori della nostra razza presero a differenziarsi dalle grandi scimmie: lo sbocco fu l’homo sapiens, “il cui primo fossile risale a 330 mila anni fa”. Millenni di caccia e raccolto e atterriamo a 12 mila anni fa, quando cominciammo a organizzarci in comunità agricole stabili. Ciò fu reso “possibile grazie alla domesticazione di piante e animali selvatici”, in primis i cani, varianti ammansite del lupo. Un amore a prima vista. Nell’Odissea, quando Ulisse torna a Itaca, nessuno lo riconosce tranne Argo, il suo cane.

Il dinamismo, la potenza e la versatilità dei cavalli iniettarono di linfa vitale l’agricoltura delle origini; e cambiarono per sempre la pelle al nostro modo di muoverci, fino all’invenzione del treno e dell’automobile. Furono fondamentali pure in guerra, nella lunga era che precedette le armi da fuoco. Anche l’elefante, il più grande animale terrestre, mai pienamente addomesticato, creava terrore in battaglia. Non a caso Annibale, a capo dell’impero cartaginese, quando invase l’Italia attraverso le Alpi nel 218 a. C. portò con sé 37 elefanti. Ma solo 6 giunsero a destinazione. “Le tartarughe sono tra gli animali più longevi al mondo – annota JaField –. Il più vecchio esemplare conosciuto è una testuggine raggiata del Madagascar che potrebbe aver vissuto 188 anni. Si racconta che il capitano James Cook la donò alla famiglia reale di Tonga nel 1777”.

Prima dell’avvento del telegrafo elettrico nell’800, i piccioni viaggiatori costituivano “il modo più rapido e spesso affidabile di inviare messaggi attraverso lunghe distanze”. E tornarono utili nelle due guerre mondiali. I gatti vivono in mezzo a noi da 9.500 anni. Gli antichi egizi li veneravano come dèi: erano considerati sacri, intangibili, pena persino la condanna a morte. Nel Medioevo, d’inverso, specie quelli neri venivano considerati alla stregua di forze malevole, “in combutta col diavolo”. Diffidare delle dimensioni minuscole: le pulci, per esempio, più di 3 mila tra specie e sottospecie, pur misurando appena 2,5 millimetri hanno provocato pandemie terribili, non solo la peste. E la zanzara, assetata in molti casi di sangue umano, tra malaria e altre malattie è rea di centinaia di migliaia di morti indirette l’anno. Non come i poveri, miti porcellini d’india, usati come cavie negli esperimenti medici per decenni perché il loro sistema immunitario è parecchio simile al nostro. Diffidare pure delle dimensioni maiuscole, le nostre.

Un fisico da Premio Nobel. Con Manabe e Hasselmann

Il Nobel per la Fisica finalmente torna in Italia. A vincerlo è Giorgio Parisi, romano di 73 anni, “per i contributi innovativi alla nostra comprensione dei sistemi fisici complessi”. A condividere con lui il premio ci sono il giapponese Syukuro Manabe di 90 anni e il tedesco Klaus Hasselmann di 89, “per la modellazione fisica del clima della Terra, che ne quantifica la variabilità e prevede in modo affidabile il riscaldamento globale”.

“Qui in dipartimento c’è un’atmosfera di giubilo. È una notizia che aspettavamo da anni e che ci riempie di gioia e di orgoglio, un riconoscimento non solo per il nostro dipartimento, ma per tutta la ricerca italiana”, commenta a caldo il fisico Paolo Mataloni, direttore del dipartimento di Fisica della Sapienza. “La fisica italiana finalmente ha il giusto riconoscimento, un premio per gli sforzi dell’ateneo. Ora tutti sanno che venire a studiare da noi significa entrare a far parte di una grande scuola”, commenta un altro fisico, Riccardo Faccini, preside della facoltà di Scienze Mfn.

È proprio nel dipartimento della cosiddetta “Scuola Romana”, quella che dagli anni 30 con il Nobel Enrico Fermi ha formato intere generazioni di fisici teorici e sperimentali, che inizia la carriera scientifica di Giorgio Parisi. Nel 1970 con una tesi di laurea sul bosone di Higgs sotto la guida di Nicola Cabibbo, poi dal 1971 come ricercatore prima del Consiglio nazionale delle ricerche, poi dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare, per poi ottenere nel 1981 la cattedra di Fisica teorica prima all’Università di Tor Vergata e poi dal 1992 alla Sapienza di Roma. Fino alla sua ultima nomina, quella a presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei dal 2018 al 2021. Una carriera trascorsa in Italia, che rende ancora più importante il suo riconoscimento.

Una vita, quella di Parisi, guidata dalla sua insaziabile curiosità di comprendere i meccanismi più intimi della natura. “Giorgio ha sempre fatto quello che lo incuriosiva e nei suoi filoni di ricerca non si è mai fatto influenzare dai finanziamenti o dai temi mainstream. La sua attività è sempre stata curiosity driven”, racconta un altro fisico del suo gruppo, Federico Ricci-Tersenghi, che con Parisi si è prima laureato e poi ha sempre collaborato, firmando insieme a lui ben 71 pubblicazioni scientifiche. “Siamo strafelici, abbiamo vinto dopo anni di attesa dovuta al poco peso della politica accademica italiana a livello internazionale. Finalmente abbiamo avuto giustizia, anche dopo la triste vicenda del nostro maestro Nicola Cabibbo, scomparso nel 2010 senza avere ricevuto il Nobel”.

Il grande merito di Parisi è stato quello di essere riuscito a trovare un ordine nei sistemi complessi, apparentemente governati dal disordine. Sistemi come quelli biologici, finanziari, per lo studio del clima o del cervello sono tutti caratterizzati da un’elevata complessità, ma hanno una sorta di ordine sottostante difficilissimo da scovare. La “teoria della rottura della simmetria delle repliche” di Giorgio Parisi è riuscita a trovare un ordine macroscopico a questo tipo di sistemi, che microscopicamente sembravano disordinati. “Se si guarda a una sola replica, essa sembrerà casuale. Ma se ne analizziamo tantissime, queste copie si strutturano e troviamo alcuni pattern, un po’ come avviene nei frattali: è così che si manifesta un ordine in un sistema complesso”, spiega Ricci-Tersenghi, che si definisce “il braccio destro computazionale di Parisi”, per il suo contributo fondamentale dal punto di vista delle simulazioni numeriche e della programmazione, senza le quali non sarebbe stato possibile dimostrare la teoria.

La scoperta di Parisi risale a circa 40 anni fa, per questo il suo è da considerarsi un Nobel “alla carriera”. Una carriera da tutti riconosciuta non solo per la sua eccezionale genialità, ma anche per il suo impagabile contributo alla costruzione di una scuola romana di fisica teorica e dei sistemi complessi. Un lavoro meticoloso fatto da chi – e chi scrive può dirlo direttamente, visto che era suo allievo – ha sempre curato il rapporto con gli studenti con estrema attenzione e generosità, un rapporto fatto di interi pomeriggi trascorsi alla lavagna, gesso alla mano, a discutere di fisica ma non solo.

Non solo fisica perché Parisi, come tanti grandissimi prima di lui, ha messo la sua intelligenza anche a disposizione dell’impegno sociale, politico e civile, oltre che intellettuale. È stato lui, grafici alla mano, a spiegarci l’andamento della pandemia fin dai primissimi giorni, quando ancora nessuno ci capiva niente. E ricordo che fu lui, nel 2008, a schierarsi per primo tra i docenti contro le leggi che tagliavano i fondi all’Università e alla Ricerca, e non a caso la sua prima dichiarazione all’Ansa dopo la vittoria del Nobel è stata proprio su questo: “La ricerca è estremamente importante per creare il futuro ed è importante che in Italia sia finanziata sul serio. Investire sulla ricerca significa investire sui giovani”.

La rivincita del boomer: gioie e dolori di 6 ore senza social

“Pronto, ma’? Eh, dimmi. Sì, sono vivo. Sì, tutto bene. Che succed… Cosa? Perché? Come sarebbe a dire che sei preoccupata perché sono tre ore che non mi vedi entrare su Whatsapp?” Nell’era dei boomer, come oggi i giovani chiamano chi giovane non è più o almeno non ci si sente tanto (il riferimento è ai nati negli anni del baby boom), l’utilità sociale della galassia dei social network di Mark Zuckerberg – Facebook, Instagram e Whatsapp – va ben oltre i post, i messaggi a inizio giornata e le catene di sant’Antonio. “È che non mi chiami, così se mi preoccupo mi basta guardare che sei entrato su Whatsapp e mi tranquillizzo” si è sentito dire qualcuno dall’altra parte della cornetta. Grazie all’ignoto dipendente di Facebook che potrebbe aver premuto un tasto sbagliato (un eufemismo, ovviamente) e mandato offline i social per oltre 3,5 miliardi di utenti, lunedì i boomer di tutto il mondo hanno avuto la loro rivincita con un revival di telefonate, sms e finanche fax “consegnati in 860 millesimi di secondo” scrive un utente. Siamo tutti ringiovaniti di vent’anni, comprese le tasche del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, più leggere ora di 6 miliardi di dollari.

La vendetta del reduce analogico a tutti i costi

Dicevamo: è stato un pomeriggio complicato per la tenuta degli equilibri generazionali tanto faticosamente costruiti dalla terza rivoluzione industriale a oggi, soprattutto nella fascia tardo enta/anta. Gli altri avevano ripiegato su piattaforme online alternative neanche mezz’ora dopo i primi rallentamenti di traffico. “Ho fatto una passeggiata. Ho incontrato un gruppo di ragazzini. Ho scoperto che sanno parlare e guardarsi negli occhi” commentava su Twitter l’utente Vito. “Noi a tavola ce siamo pure parlati” rincarava l’utente Antonio. Stupore attempato, con una punta di pentimento. “Papà, non usi mai gli stati! Ti devi modernizzare!” Così ieri pomeriggio, per la prima volta nella mia vita, ho pubblicato uno stato su Whatsapp. E poi è successo quello che è successo”. Si respirava pure una certa aria di nostalgico rimpianto: “Un tempo la società era basata sulla speranza che una tempesta non rovinasse i raccolti, ora sulla speranza che i tecnici di Facebook non scazzino la configurazione di un server” oppure “Ho mandato Sms e fatto gli squilli, ci mancava solo Cher in sottofondo con Believe e Sonique con Sky”. Gli irriducibili analogici, che convivono loro malgrado con queste tecnologie, hanno avuto qualche ora di giustizia. Quando tutto si è aggiustato hanno ricominciato con la loro sorda vendetta: “Mark – supplicava un esponente della generazione Z –, quelli del ‘buongiornissimo kaffè’ sono tornati più forti di prima. Non è che manderesti di nuovo in down tutto dalle 8 alle 9 di mattina?”. Tanto è possibile che neanche se ne accorgano. Chi ha detto che il gap generazionale vada colmato a ogni costo? “Al telefono con mia madre, mi dice che ieri internet non funzionava per colpa del brutto tempo” spiegava Gianni75. Provate a parlargli della crisi innescata dai vari “BGP” e del complesso e intricato “sistema di ROUTING” di cui ieri tutti sembravano esperti. Vi sentirete rispondere: “Ma perché, ci è piovuto sopra?”. Giustamente.

Che simpatico il colosso miliardario…

E mentre una squadra di tecnici aveva sulle spalle la responsabilità della felicità dei nativi digitali e partiva per Santa Clara in California, unica a poter sistemare a mani nude i server di Facebook che hanno bloccato per sei ore tutte le piattaforme e pure i dipendenti fuori dalla porta, visto che i badge non funzionavano, tutti coloro che soffrono di questo male definito FOMO (Fear of Missing Out, letteralmente la paura di essere esclusi da qualcosa che accade online) cercavano febbrili uno sfogo per i loro inquieti pollici. Così Twitter, il social dei cinguettii da 140 caratteri, si è ringalluzzito per questa improvvisa ventata di aria fresca, estranea finanche alla bolla che, in Italia ha portato in questi giorni a far considerare agli utenti più fedeli l’idea che Carlo Calenda potesse diventare sindaco di Roma. “Bentrovati letteralmente a tutti” ha twittato gongolante Twitter (magnifica ridondanza da nerd) per accogliere i 59,6 milioni di utenti arrivati tutti insieme. “Cosa posso fare per te?” ha chiesto sornione l’account di Mc Donald’s. La discussione si è conclusa con un ordine virtuale di 59 milioni di crocchette di pollo per i nuovi twittatori. “Crocchette che sto ancora aspettando” scriveva ieri Rory653. Giovane o vecchio, “il popolo del web non dimentica”.

Non mentite: alzi la mano chi non l’ha fatto

Infine, alzi la mano chi lunedì non ha fatto almeno una di queste cose: 1) Provato a inviare un messaggio Whatsapp per dire a qualcuno che Whatsapp non funzionava; 2) Scritto su tutti i social network disponibili che “i social network non servono a nulla e che finalmente possiamo ricominciare a parlare e a guardarci negli occhi”; 3) Provato ad aprire ogni cinque minuti Whatsapp, Instagram e poi Facebook, anche in ordine inverso, scontrandosi con lo stesso post o la stessa storia di quattro ore prima (di cui oggi sente un po’ la mancanza); 4) Spento e riacceso il router o il telefono per un paio di volte prima di consultare un sito a caso e accorgersi che il problema non era la rete; 5) Chiamato figli, nipoti, cugini, vicini, amici d’infanzia, tecnici informatici, per chiedere cosa stesse succedendo; 6) Fatto una battuta, o almeno incrociato qualcuno che l’abbia fatta, sul “per fortuna funziona ancora Porn Hub” ; 7) Riattivato l’account di Twitter ignorato da anni o essersi beato di averlo sempre utilizzato; 8) Avuto difficoltà a individuare l’icona degli sms sullo smartphone o a ricordarsi la password della email abbandonata da anni. E, una volta trovata, aver ripensato con un mezzo sospiro a Megan Gale, alla pubblicità della Omnitel e alle super offerte della Christmas Card dei primi anni Duemila. I furbacchioni, come Lucas45 su Twitter, avranno esclamato: “Sapevo che quei 2 euro in più per i messaggi illimitati sarebbero tornati utili un giorno!”. Niente? State mentendo. O possedete ancora un Nokia 3310.

Un film tra le stelle, Mosca si riprende la scena spaziale

I russi sono primi: di nuovo. Mosca batte sul tempo gli americani e gira il primo film nello Spazio della storia. Quando Hollywood e Nasa, con Tom Cruise ed Elon Musk in coro, l’anno scorso hanno annunciato di voler ambientare una storia in orbita, la Federazione che non ama mai arrivare seconda stava ascoltando. Dopo mesi di preparazione frenetica, ieri due cineasti russi sono arrivati sulla Stazione spaziale internazionale.

È dei russi, all’epoca sovietici, il primo satellite nello Spazio: lo Sputnik. Il primo animale in orbita: la cagnetta Laika. Il primo uomo al mondo tra le stelle: Yuri Gagarin. Come la prima donna della storia: Valentina Tereshkova. Adesso russa sarà anche la protagonista del primo film che sfida la gravità. A bordo di un Soyuz Ms-19, sono partiti ieri dal cosmodromo Baikonur, in Kazakistan, il regista 38enne Klim Shipenko e l’attrice Yulia Peresild, selezionata tra una rosa di 3mila candidate. Una cecchina tra i pianeti: il volto della star 37enne è rimasto nel cuore del pubblico da quando la Peresild, nel 2015, ha interpretato nel film La battaglia di Sebastopoli la sniper sovietica Lyudmila Pavlicenko. Insieme all’astronauta veterano Anton Shkaplerov, che parteciperà al film, l’attrice e il regista hanno raggiunto una squadra di astronauti americani, giapponesi e francesi ora in missione nella base, dalla quale faranno ritorno tra dodici giorni, il 17 ottobre prossimo, con una capsula. Sia budget che trama di The Challenge sono stati tenuti segreti dalla Roscosmos, l’agenzia spaziale russa, in sofferenza da quando il Cremlino ha deciso di finanziare più guerre che missioni spaziali, che però ha lasciato trapelare negli ultimi giorni che la Peresil interpreterà una chirurga intenta a salvare cosmonauti. In orbita ormai ci vanno tutti e, più che frontiera geopolitica dove si scontrano gli imperi, lo Spazio è diventato il teatro di un turismo elitario fatto solo per ricchissimi. Tra qualche giorno ci tornerà anche il multimiliardario Jeff Bezos, questa volta per tramite di William Shatner, l’attore che ha interpretato il Capitano Kirk in Star Trek, icona di un’epoca passata.

Chiesa, 300 mila bambini vittime di 70 anni di abusi

I numeri sono impressionanti. Almeno 216 mila sono le giovani vittime di abusi da parte di preti pedofili in Francia dal 1950 a oggi. Il numero sale a 330 mila se si contano i minorenni abusati da laici che lavorano nelle istituzioni ecclesiastiche. I preti “predatori” sono tra 2.900 e 3.200.

Sono i risultati agghiaccianti di un’inchiesta portata avanti dalla Ciase, la Commissione sugli abusi sessuali nella Chiesa, un’istanza indipendente di una ventina di esperti presieduta da Jean-Marc Sauvé, ex vicepresidente del Consiglio di Stato, creata dalla Conferenza dei vescovi di Francia nel 2018, dopo che uomini e donne abusati durante l’infanzia hanno rotto il silenzio.

Il report, un volume di 485 pagine e oltre 1.500 di allegati, è stato consegnato ieri al presidente della Conferenza episcopale. Eric de Moulins-Beaufort ha chiesto perdono: “La voce delle vittime ci sconvolge, il loro numero ci devasta”. Dall’inchiesta emerge che gli abusi nella Chiesa cattolica francese rappresentano il 4-6% del totale di questi reati in Francia, sapendo che, da dati Inserm, circa cinque milioni e mezzo di adulti sono stati abusati quando erano piccoli. Altro dato: l’80% delle piccole vittime sono dei bambini, tra i 10 e i 13 anni, mentre al di fuori della Chiesa, a subire gli abusi sono soprattutto le bambine (75%).

Inoltre, le vittime sviluppano da grandi difficoltà nella vita sociale, sessuale, professionale nel 60% dei casi. Gli esperti hanno raccolto 200 pagine di testimonianze come questa: “Una volta al mese raggiungevo padre *** nel corridoio della sala parrocchiale. Mi faceva mettere in ginocchio, con la testa bassa, mentre lui era su una sedia. Portava una sottana nera, la mia testa era all’altezza del suo sesso. Avevo 7 anni. Mentre gli confessavo le “cose brutte” che pensavo di aver commesso, sentivo dei rumori strani, vedevo che la sottana si muoveva, nel punto dove teneva una mano, mentre l’altra era posata sulla mia testa. Oggi so che si masturbava durante la confessione. Con quella stessa mano mi dava l’assoluzione”. Un altro scrive: “È come con Chernobyl: si nasconde tutto sotto un sarcofago, ma tutto è ancora lì”. Sono stati ascoltati undici religiosi, oggi tra i 60 e gli 80 anni, che hanno una cosa in comune: tutti minimizzano i fatti.

Papa Francesco ieri ha espresso “dispiacere per le ferite delle vittime” e “gratitudine per il loro coraggio nel denunciare”. Si è rivolto poi alla Chiesa di Francia “perché, nella consapevolezza di questa terribile realtà, possa intraprendere una via di redenzione”. Ma il report è senza appello: “Fino all’inizio degli anni 2000, la Chiesa cattolica – ha detto Sauvé – ha manifestato un’indifferenza profonda e crudele. Le vittime non vengono credute né ascoltate, e si ritiene che abbiano contribuito a quanto è loro accaduto. È necessario riconoscere la responsabilità della Chiesa e riparare il male fatto”. Sono proposte 45 raccomandazioni, dal versamento di indennità al riconoscimento dello statuto di vittima, dalla revisione delle formazioni per i preti alla riforma del segreto della confessione. Gran parte del cammino si deve all’associazione La parole libérée, nata a Lione nel 2016 per rompere l’omertà sugli abusi di padre Preynat, condannato a cinque anni di prigione nel 2020 per aver aggredito sessualmente decine di piccoli scout tra gli anni 70 e 90. Il cardinale Barbarin, arcivescovo di Lione, prima condannato per non aver denunciato il prete pedofilo, è stato poi prosciolto in appello. Ieri François Devaux, fondatore dell’associazione, ha denunciato il silenzio delle istituzioni: “Il Papa è assente, preferendo, in piena coscienza, proteggere chi ha contribuito a questo sistema. L’istituzione deve essere rifondata, serve un Concilio Vaticano III”.

“Londra virtuosa solo sulla carta: è epicentro di corruzione globale”

Susan Hawley è una veterana della lotta alla corruzione nel Regno Unito. Specializzata in politiche di contrasto al riciclaggio di denaro sporco, è fra i fondatori della ong Corruption Watch Uk, per la quale ha lavorato anche sulla trasparenza nel settore giudiziario. Oggi guida Spotlight on Corruption, che monitora il percorso delle legislazione britannica anticorruzione, analizza l’efficienza dei regolatori e conduce campagne per una maggiore trasparenza del sistema economico e politico britannico. L’abbiamo sentita per un commento sui Pandora Papers.

Ciò che emerge dall’immensa mole di informazioni su conti offshore, riciclaggio di denaro ed elusione fiscale la sorprende?

Non direi. A parte la mole davvero senza precedenti, i Pandora Papers, come i Panama Papers, sono la conferma di quello che sapevamo, ma non potevamo provare. Di nuovo e molto rilevante, dal punto di vista britannico, c’è l’evidenza dell’influenza diretta di questi giganteschi flussi di denaro, non solo corrotti ma spesso criminali, mafiosi, frutto della razzia di interi Paesi, sulla politica britannica, in particolare sui Tories al governo, tramite ricche donazioni al partito da parte di personaggi discutibili. La mia speranza è che questa pressione, sommata ai tanti scandali degli ultimi mesi, renda politicamente insostenibile continuare a ignorare una corruzione che ormai pervade l’economia e mina la vita politica del Paese.

Eppure il governo di Boris Johnson lo scorso anno si è rifiutato di indagare oltre, per esempio, sulle interferenze russe sul referendum per Brexit e sul voto successivo, malgrado la raccomandazione a farlo da parte di un autorevole comitato parlamentare.

Certo, ma sapere che metà Londra è di proprietà di oligarchi russi o dittatori azeri, insieme allo stillicidio di scandali sui finanziamenti poco chiari ai conservatori, sta cominciando ad avere un impatto sugli elettori che non credo il governo possa ignorare a lungo.

Lei ha evocato i Panama Papers, l’enorme impressione che fecero quando uscirono. Ma alla fine queste inchieste servono? Hanno un impatto sul sistema?

Possiamo solo sperarlo e, come esperti, giornalisti e attivisti, aumentare la pressione pubblica. Dopo i Panama Papers il governo britannico costituì una fantastica task force completamente inutile. Un esempio: la riforma del registro delle imprese, che ci permetterebbe di sapere di chi sono davvero società e proprietà registrate in indirizzi londinesi o in protettorati britannici offshore giace in Parlamento da due anni. Speriamo che queste rivelazioni, così imbarazzanti per i Tories, siano decisive per spingere all’approvazione.

Le forze in campo: da una parte un esercito di facilitatori privati, dall’altro regolatori e investigatori pochi e con scarse risorse.

Certo, Londra attrae i ricchi del mondo anche perché offre l’accesso, senza domande o verifiche sul denaro, a proprietà da sogno, campi da golf, scuole d’élite, gioiellerie, gallerie d’arte, stuoli di avvocati e commercialisti ai vertici della professione e una magistratura deferente, orientata a decidere sulla base dell’idea che un ricco abbia beni offshore per motivi legittimi. A combattere questo, nel pubblico, poche risorse, poco budget e spesso professionalità non all’altezza. Il tema è la volontà politica.

Londra è un epicentro di corruzione globale, uno dei luoghi che la rendono possibile. L’inglese medio ne ha consapevolezza?

Comincia a rendersi conto, ora che vede come la corruzione o l’elusione fiscale stanno condizionando la politica nazionale. Ma il Paese ha molti problemi, la gente cerca di andare avanti, e uno degli effetti negativi collaterali della corruzione di alcuni politici è la sfiducia e la disaffezione nella politica tout court.

Ma il Regno Unito, specie dopo Brexit, può permettersi una lotta reale a un sistema che porta a Londra status e immense ricchezze?

In questo momento anche nel partito al governo ci sono orientamenti diversi. Da una parte chi spinge per una totale deregolamentazione; dall’altra chi invece non vuole rinunciare all’idea che il Regno Unito resti un leader internazionale nella lotta alla corruzione. Un primato francamente ridicolo: l’unica spiegazione per questa fama è che sia stata ottenuta con una intensissima attività di lobby, visto che la lotta al denaro sporco qui è forte solo nel piccolo commercio di stupefacenti, mentre i grossi flussi non vengono nemmeno indagati. Uno dei problemi è il rapporto pubblico-privato: gli enti regolatori sono 25, molti del tutto inutili e senza nessuna supervisione. E sul contrasto al riciclaggio di denaro, per esempio, il mandato politico è collaborare con le banche. Il risultato è che sono i privati a imporre le policy al pubblico. Io spero non sia cosi, ma temo che il compromesso che si troverà sarà una compliance solo sulla carta, a fini retorici, mentre si continua come prima.