Una cosa è certa: alla Lega toccherà presto cambiare un’altra volta la scritta nel simbolo. Quel pretenzioso “Lega per Salvini premier”, introdotto quattro anni fa per volontà del diretto interessato, ormai sa di vecchio. Anche se bisogna riconoscere che Salvini a quel traguardo ci è andato vicino, diventando vicepremier nel 2018 e buttando via l’occasione della vita al Papeete l’estate successiva.
Allorquando – sovreccitato dalla macchina propagandistica per lui stesso allestita da un piccolo aspirante Goebbels mantovano che citava Heidegger a sproposito nel tentativo di convincermi che la sua Tecnica avrebbe piegato il corso della Storia – il Capitano si lasciò convincere di essere munito della forza sufficiente per dare una spallata al sistema e prendersi i pieni poteri.
Troppo facile deriderlo, oggi. Salvini si era conquistato la leadership del Carroccio sprigionando dalle frequenze di Radio Padania la virulenza comunicativa poi amplificata sul web dalla Bestia. È stato lui il maestro di Luca Morisi, non viceversa. E quanto ai vari Giorgetti, Zaia, Fedriga che oggi passano per moderati governisti, all’epoca si fregavano le mani, lo ossequiavano mettendosi in scia e non gli erano da meno nel turpiloquio e nei proclami xenofobi. Quella insurrezione verbale, cavalcando il malessere sociale e sopraffacendo le culture progressiste, diffuse la convinzione che la “cattiveria” di Matteo incarnasse lo spirito dei tempi, di più, che fosse l’espressione più autentica degli umori popolari.
A quel punto il leghismo sembrava destinato a fagocitare l’intera destra italiana, innestando la sua carica aggressiva sul tronco rinsecchito del berlusconismo. Fu così che prese forma l’audace progetto che oggi sta rivelando i suoi limiti congeniti di velleitarismo: cioè la trasformazione del leghismo da fenomeno nordista in nazional-leghismo. In fondo, non era nato a Milano anche il fascismo? Perché la creatura fondata da Bossi per difendere i lombardi dai troppi meridionali immigrati non avrebbe dovuto puntare a prendersi l’Italia tutta?
Come vedremo, il nazional-leghismo si è rivelato una contraddizione in termini. Ma intanto la natura magmatica di quel movimento, il suo offrirsi da catalizzatore di potentati locali nell’Italia dei campanili, il magnetismo dell’uomo forte capace di occupare il centro della scena mediatica, han funzionato, eccome.
Ricordate? Abbiamo visto Salvini sconfinare oltre le frontiere immaginarie della Padania, con il suo modellino di ruspa in mano e – da Fregoli della politica – indossando una felpa diversa per ogni città che visitava: pisano a Pisa e lucchese a Lucca, perfino napoletano ha cercato di spacciarsi. In piazza poi vendeva sempre la stessa merce, naturalmente, condita di retorica patriottica, viva il popolo italiano, difendiamoci dall’invasione straniera… ma i suoi ammiratori, per quanto inebriati, tornavano a casa a mani vuote.
La carta vincente della Lega essendo il particolarismo, il localismo, non poteva funzionare dappertutto. Se vuoi trattenere i soldi delle tasse in Lombardia non puoi difendere pure i finanziamenti dello statuto speciale in Sicilia. Gli stessi notabili centro-meridionali pronti ad arruolarsi in cambio di una candidatura sono altrettanto lesti a cercare approdi migliori quando capiscono che lì non c’è trippa per gatti.
Così il partito che fu di Bossi, e che già faticò a tenere insieme i lombardi e i veneti, si ritrova a fare i conti con i limiti esistenziali imposti dalla sua stessa natura. In sintesi: nazionalismo e leghismo non stanno insieme, per quante felpe uno possa cambiarsi in una sola giornata.
Nella penisola delle piccole patrie, venuta a noia (causa Covid) la sceneggiata della ruspa e de “la pacchia è finita”, Salvini si sgonfia e la Lega si ridimensiona. Del resto, sul palcoscenico della retorica nazionalista risulterà più credibile una post-fascista romana che ha chiamato il suo partito Fratelli d’Italia rispetto a un bauscia milanese di cui restano celebri le intemerate secessioniste.
La veloce parabola ascendente e discendente del nazional-leghismo ha certo consolidato una nomenclatura ministeriale romana, prima con Conte e ora con Draghi. Ma ha sguarnito l’amministrazione dei territori in cui il leghismo delle origini aveva costruito il suo radicamento. La giunta lombarda di Fontana si è messa a collezionare scandali e figuracce. Il Veneto se n’è andato sempre più per conto proprio. E se nella Milano di Salvini la Lega adesso ha meno di un terzo dei voti del Pd (152 mila contro 48 mila), il governista Giorgetti non può certo vantarsi del risultato di Varese (doppiati dal Pd), né il doge Zaia può dirsi soddisfatto del 17% raggranellato a Conegliano.
La verità è che la cosiddetta ala governista della Lega non può assolutamente permettersi di fare a meno del volto truce del salvinismo, se vuole limitare i danni del sorpasso a destra di FdI. La sconfitta del 3 ottobre 2021 sta già generando accuse di tradimento rivolte dalla base leghista ai ministeriali, colpevoli di aver convinto Salvini ad appoggiare Draghi. Preso tra i due fuochi, il segretario sarà fortemente tentato di operare l’ennesima giravolta tornando all’opposizione. Condividere il governo con un Pd imbaldanzito sarà duro da sopportare.
Scissione in vista? Non credo. L’ala governista della Lega senza Salvini non sarebbe in grado di andare da nessuna parte. Per quanto i giornali dell’establishment dipingano Giorgetti come il grande statista capace di traghettare il Carroccio nel Partito popolare europeo garantendo a Draghi fedeltà sempiterna, l’uomo ha fiuto politico sufficiente per sapere che il leghismo si alimenta di pulsioni reazionarie e autonomistiche irrinunciabili. Reciderle sarebbe un’evirazione.
Dopo 25 anni trascorsi nelle aule parlamentari a Roma, non mi stupirebbe se Giorgetti si offrisse quale prossimo candidato presidente della Regione Lombardia. Perché sarà quella lombarda la vera battaglia della sopravvivenza per una Lega in ritirata, dopo il fallimentare tentativo di espandersi fuori dai suoi confini originari. Un vero uomo di potere si riconosce anche dalla capacità di intuire quando arriva il momento di ripiegare a difesa del suo territorio. Asserragliarsi nel Pirellone, dopo aver rinunciato per assenza di classe dirigente anche solo al tentativo di conquistare Palazzo Marino, sarà l’unica mossa possibile. Lasciando Salvini, ex candidato premier, a tuonare nei talk televisivi. Almeno finché non si stuferanno di invitarlo.