Il Salvini nazionale batte in ritirata

Una cosa è certa: alla Lega toccherà presto cambiare un’altra volta la scritta nel simbolo. Quel pretenzioso “Lega per Salvini premier”, introdotto quattro anni fa per volontà del diretto interessato, ormai sa di vecchio. Anche se bisogna riconoscere che Salvini a quel traguardo ci è andato vicino, diventando vicepremier nel 2018 e buttando via l’occasione della vita al Papeete l’estate successiva.

Allorquando – sovreccitato dalla macchina propagandistica per lui stesso allestita da un piccolo aspirante Goebbels mantovano che citava Heidegger a sproposito nel tentativo di convincermi che la sua Tecnica avrebbe piegato il corso della Storia – il Capitano si lasciò convincere di essere munito della forza sufficiente per dare una spallata al sistema e prendersi i pieni poteri.

Troppo facile deriderlo, oggi. Salvini si era conquistato la leadership del Carroccio sprigionando dalle frequenze di Radio Padania la virulenza comunicativa poi amplificata sul web dalla Bestia. È stato lui il maestro di Luca Morisi, non viceversa. E quanto ai vari Giorgetti, Zaia, Fedriga che oggi passano per moderati governisti, all’epoca si fregavano le mani, lo ossequiavano mettendosi in scia e non gli erano da meno nel turpiloquio e nei proclami xenofobi. Quella insurrezione verbale, cavalcando il malessere sociale e sopraffacendo le culture progressiste, diffuse la convinzione che la “cattiveria” di Matteo incarnasse lo spirito dei tempi, di più, che fosse l’espressione più autentica degli umori popolari.

A quel punto il leghismo sembrava destinato a fagocitare l’intera destra italiana, innestando la sua carica aggressiva sul tronco rinsecchito del berlusconismo. Fu così che prese forma l’audace progetto che oggi sta rivelando i suoi limiti congeniti di velleitarismo: cioè la trasformazione del leghismo da fenomeno nordista in nazional-leghismo. In fondo, non era nato a Milano anche il fascismo? Perché la creatura fondata da Bossi per difendere i lombardi dai troppi meridionali immigrati non avrebbe dovuto puntare a prendersi l’Italia tutta?

Come vedremo, il nazional-leghismo si è rivelato una contraddizione in termini. Ma intanto la natura magmatica di quel movimento, il suo offrirsi da catalizzatore di potentati locali nell’Italia dei campanili, il magnetismo dell’uomo forte capace di occupare il centro della scena mediatica, han funzionato, eccome.

Ricordate? Abbiamo visto Salvini sconfinare oltre le frontiere immaginarie della Padania, con il suo modellino di ruspa in mano e – da Fregoli della politica – indossando una felpa diversa per ogni città che visitava: pisano a Pisa e lucchese a Lucca, perfino napoletano ha cercato di spacciarsi. In piazza poi vendeva sempre la stessa merce, naturalmente, condita di retorica patriottica, viva il popolo italiano, difendiamoci dall’invasione straniera… ma i suoi ammiratori, per quanto inebriati, tornavano a casa a mani vuote.

La carta vincente della Lega essendo il particolarismo, il localismo, non poteva funzionare dappertutto. Se vuoi trattenere i soldi delle tasse in Lombardia non puoi difendere pure i finanziamenti dello statuto speciale in Sicilia. Gli stessi notabili centro-meridionali pronti ad arruolarsi in cambio di una candidatura sono altrettanto lesti a cercare approdi migliori quando capiscono che lì non c’è trippa per gatti.

Così il partito che fu di Bossi, e che già faticò a tenere insieme i lombardi e i veneti, si ritrova a fare i conti con i limiti esistenziali imposti dalla sua stessa natura. In sintesi: nazionalismo e leghismo non stanno insieme, per quante felpe uno possa cambiarsi in una sola giornata.

Nella penisola delle piccole patrie, venuta a noia (causa Covid) la sceneggiata della ruspa e de “la pacchia è finita”, Salvini si sgonfia e la Lega si ridimensiona. Del resto, sul palcoscenico della retorica nazionalista risulterà più credibile una post-fascista romana che ha chiamato il suo partito Fratelli d’Italia rispetto a un bauscia milanese di cui restano celebri le intemerate secessioniste.

La veloce parabola ascendente e discendente del nazional-leghismo ha certo consolidato una nomenclatura ministeriale romana, prima con Conte e ora con Draghi. Ma ha sguarnito l’amministrazione dei territori in cui il leghismo delle origini aveva costruito il suo radicamento. La giunta lombarda di Fontana si è messa a collezionare scandali e figuracce. Il Veneto se n’è andato sempre più per conto proprio. E se nella Milano di Salvini la Lega adesso ha meno di un terzo dei voti del Pd (152 mila contro 48 mila), il governista Giorgetti non può certo vantarsi del risultato di Varese (doppiati dal Pd), né il doge Zaia può dirsi soddisfatto del 17% raggranellato a Conegliano.

La verità è che la cosiddetta ala governista della Lega non può assolutamente permettersi di fare a meno del volto truce del salvinismo, se vuole limitare i danni del sorpasso a destra di FdI. La sconfitta del 3 ottobre 2021 sta già generando accuse di tradimento rivolte dalla base leghista ai ministeriali, colpevoli di aver convinto Salvini ad appoggiare Draghi. Preso tra i due fuochi, il segretario sarà fortemente tentato di operare l’ennesima giravolta tornando all’opposizione. Condividere il governo con un Pd imbaldanzito sarà duro da sopportare.

Scissione in vista? Non credo. L’ala governista della Lega senza Salvini non sarebbe in grado di andare da nessuna parte. Per quanto i giornali dell’establishment dipingano Giorgetti come il grande statista capace di traghettare il Carroccio nel Partito popolare europeo garantendo a Draghi fedeltà sempiterna, l’uomo ha fiuto politico sufficiente per sapere che il leghismo si alimenta di pulsioni reazionarie e autonomistiche irrinunciabili. Reciderle sarebbe un’evirazione.

Dopo 25 anni trascorsi nelle aule parlamentari a Roma, non mi stupirebbe se Giorgetti si offrisse quale prossimo candidato presidente della Regione Lombardia. Perché sarà quella lombarda la vera battaglia della sopravvivenza per una Lega in ritirata, dopo il fallimentare tentativo di espandersi fuori dai suoi confini originari. Un vero uomo di potere si riconosce anche dalla capacità di intuire quando arriva il momento di ripiegare a difesa del suo territorio. Asserragliarsi nel Pirellone, dopo aver rinunciato per assenza di classe dirigente anche solo al tentativo di conquistare Palazzo Marino, sarà l’unica mossa possibile. Lasciando Salvini, ex candidato premier, a tuonare nei talk televisivi. Almeno finché non si stuferanno di invitarlo.

 

Moretti torna in tv, ma arbasino non c’è

Il mondo è sottosopra: James Bond abbraccia la castità, Mauro Corona indossa lo smoking e Nanni Moretti va ospite in televisione. Non si ricorda un simile passo temerario dai tempi del Telematch di Alberto Arbasino, sulle Teche è visibile lo scontro con un imperturbabile Mario Monicelli, identico a Giorgio Almirante (“Nanni, guarda che anche i tuoi film sono commedie all’italiana”). Nella prima puntata di Che tempo che fa, Nanni era senza Monicelli e con Fabio Fazio al posto di Arbasino. Un’attenuante, perché quello di Fazio resta il telesalotto più esclusivo e chiuso d’Italia – come tutto ciò che passa di sinistra in Italia –, forse ti si nota di meno se ci vai che se non ci vai. A voler pensar male, si potrebbe dire che questa concessione al grande pubblico del più misantropico dei nostri registi è dettata dagli incassi non entusiasmanti del suo film Tre piani; ma noi vogliamo pensar bene, e credere che anche Nanni, come tanti intellettuali gauchisti, si sia convinto che la tv non è sempre spazzatura. Per esempio quando ci vanno loro.

In ogni caso, il più emozionato tra i due era sicuramente Fazio. Suggeriva le domande a voce bassa, poco per volta, camminando sulle punte, temendo potessero irritare l’interlocutore. – È vero che a Cannes hai avuto undici minuti di applausi, la sera della finale degli Europei? – Vero. – È vero che hai cominciato a guardare le serie tv? – Vero. Sai, per me è lavoro. – È vero che durante la pandemia hai scoperto i social? – Vero. – E hai perfino postato su Instagram? – Vero.

Incredibile, ma vero. Sembra che ogni tanto cammini sulle acque, giusto quattro passi sul Tevere, ma non è sicuro; è invece certificata da Fazio la sua capacità di prevedere il futuro, e il conduttore osa –Te la senti di dirci qualcosa sul tuo nuovo film? – No, non me la sento.

Peccato; ma se uno non se la sente, non se la sente. Questa è stata la prima volta di Moretti a Che tempo che fa; e forse non sarà l’ultima, se i prossimi film continueranno a non dare i frutti sperati.

Razzismo “La mia collaboratrice non trova casa perché è romena”

Caro Direttore, so benissimo che non è un argomento nuovo né particolarmente attrattivo, ma sono indignata e dunque le invio questa mia lettera, augurandomi che possa essere pubblicata.

Denuncio un’incresciosa situazione che riguarda una giovane lavoratrice romena, vittima di discriminazione “razzista”. La ragazza vive a Carrara da più di venti anni; lì ha cresciuto le due piccole figlie garantendo loro un’adeguata formazione culturale con diploma di scuola secondaria di secondo grado. Ha sempre rispettato la legge e ha sempre svolto la sua attività di collaboratrice domestica con regolare contratto. Io stessa l’ho assunta, ovviamente nel rispetto delle norme, apprezzandone l’educazione, la cortesia e la dedizione al lavoro.

Da quasi due anni, dovendo lasciare l’appartamento per un progetto di ristrutturazione dello stesso da parte del proprietario, cerca la locazione di un nuovo appartamento. Due anni di incertezze e preoccupazioni nonostante un regolare contratto di lavoro a garanzia, nonostante le ottime referenze sia del proprietario della sua attuale residenza sia dei datori di lavoro.

Dopo così tanto tempo, dopo così tanti rifiuti alla richiesta di visionare e affittare nuove case, pare evidente che vi sia una questione culturale di fondo, una mentalità “razzista” che pone un ipocrita muro di gomma contro una onesta lavoratrice. A fugare ogni dubbio, ci ha pensato finalmente una delle agenzie cui si è rivolta da subito: dice, senza alcun ritegno, che nessuno vuole affittare una casa a uno straniero e, dunque, anche l’agenzia non perde tempo facendo visionare case.

Cosa dovrebbe fare una quarantaquattrenne straniera per ottenere una casa in affitto? Dovrebbe essere meno onesta, magari lavorare in nero, offrire il proprio corpo o diventare dedita ad attività illegali? È cosa nota che interi caseggiati in città sono locati in nero, in condizioni igieniche e di sicurezza precarie, a uomini che sopravvivono al limite della legalità. Mi chiedo allora quanto sia ipocrita questa bella società carrarina che si svela razzista con gli onesti e pronta a spremere ogni euro di chi in nero lavora, magari arrotonda con l’illegalità, e in nero paga.

 

Mail Box

 

La linea del Fatto e il caso del sindaco di Riace

La risposta, o meglio la smentita di Travaglio all’articolo di Furio Colombo “Due nuovi eroi tipici di un’Italia deragliata” mi ha stupito e amareggiato. Infatti la sentenza contro Lucano viene confermata e se possibile aggravata nelle parole di Travaglio, che si allinea ai commentatori delle prime pagine dei giornali dell’estrema destra. Colombo, a mio avviso, mette giustamente in evidenza l’impossibilità di condividere “il rapporto fra il delitto e la pena”. È questo il fatto rilevante! Poi l’esame puntiglioso e minuzioso dei fatti ha poco o nessun rilievo. Ovvero penso ne abbia per chi si sofferma e applica scrupolosamente, per usare un termine benevolo, e con una visione angusta, le norme del Codice penale. Se questa è la linea del giornale, non mi piace affatto.

Marcello Scano

Sì, la linea del giornale è quella della Costituzione: i pubblici ufficiali devono esercitare le loro funzioni con disciplina e onore e soprattutto incarnare una Pubblica Amministrazione che rispetti le leggi, il Codice penale, l’imparzialità e la trasparenza nell’assegnazione degli appalti. Facendo le gare.

M. Trav.

 

La sconfitta della Raggi è anche colpa dei 5 stelle

I numeri delle elezioni comunali di Roma dicono due cose: la prima è che la gente si fa influenzare molto dalle campagne mediatiche, altrimenti non si capisce perché cinque anni fa è stato votato un sindaco per voltare pagina dalle orribili vicende di Mafia Capitale, e oggi si pensa che il problema di Roma siano i cinghiali. La seconda è che puoi anche lavorare bene, ma se non hai un partito che ti appoggia, che spieghi il tuo lavoro e che ti difenda dalle critiche, la gente non ti vota. E in questo purtroppo devo dare la colpa ai 5 stelle che in tante, troppe occasioni ha fatto mancare alla Raggi il sostegno che avrebbe meritato. In questi cinque anni, a parte qualche intervento isolato di qualche esponente pentastellato romano (incluso l’unico e vero leale Di Battista), non c’è stato un reale appoggio a Virginia Raggi, lasciata sola a difendersi dal massacro mediatico che l’ha coinvolta. Il risultato è che anche il M5s ha così perso l’occasione di spendere il suo nome e le sue battaglie, per far rinascere il movimento. Battaglie per le quali la Raggi ha pagato un prezzo molto più alto di una mancata rielezione. Quindi concludo questo mio messaggio, ringraziando Virginia Raggi per il suo lavoro, la sua dedizione e la sua perseveranza, e augurandomi per lei un futuro all’altezza delle sue innegabili capacità.

Valentina Felici

 

L’accanimento dei media sull’ex sindaca di Roma

Il dato elettorale ci consegna un ritorno ai “vecchi partiti”, ma è lecito chiedersi se quanto di questo successo sia da ricondurre alla sistematica delegittimazione personale da parte di certa stampa nei confronti di alcuni candidati. Certamente sarebbe stato sorprendente veder vincere Virginia Raggi a Roma dopo tutto quello che si è detto su di lei. In effetti non si è mai visto un simile accanimento nei confronti di altri sindaci anche a fronte di degrado, corruttele, clientelismi e ben altre inefficienze amministrative al limite del default. Lascia perplessi e profondamente destabilizzati la consapevolezza che la narrazione mediatica, dall’alto della sua autoreferenzialità, possa condizionare il processo democratico alterando il “percorso” di formazione del libero convincimento dei cittadini e perfino inquinando il dibattito pubblico con fake news propalate per finalità di parte e senza alcuna conseguenza. Era questo che intendevano i padri costituenti americani quando intesero garantire alla stampa le tutele più ampie perché fossero al servizio esclusivo dei governati?

Luigi Caccia

 

Cosa bisogna fare quando votano in pochi

In numerosi Comuni italiani alle Amministrative di domenica e lunedì (Roma compresa), ha votato una percentuale di aventi diritto inferiore al 50%. In questi casi il sindaco e il consiglio comunale saranno nominati in maniera illegittima poiché la maggior parte dei cittadini ha dimostrato di non voler essere rappresentato dalla attuale politica. In questi casi il sindaco non va nominato e il numero dei seggi in consiglio comunale va rapportato alla percentuale di votanti effettivamente registrati. È un principio di democrazia diretta con notevoli ricadute sui costi della politica che verrebbero ridimensionati. Si nomini allora un commissario fino a quando i cittadini dimostreranno maggiore senso di appartenenza alla politica. Per farlo non credo occorra una legge costituzionale, ma è sufficiente apportare una modifica alla legge elettorale. Continuare a infischiarsene della volontà popolare espressa in sede di voto, può portare a una pericolosa deriva.

Paolo Rosa

 

L’assenza delle Regioni e la scarsa affluenza

Qualche tempo fa Travaglio scrisse un articolo negativo sulle Regioni e sulla loro inutilità. Il modo in cui hanno gestito la pandemia conferma in pieno la sua tesi, per non parlare delle continue ruberie, vari scandali e dell’enorme spreco di denaro pubblico che esse comportano. Sono lontane e invise ai cittadini (l’astensionismo crescente alle elezioni lo dimostra), che vedrebbero meglio la gestione dei fondi statali ed europei in mano ai loro sindaci. Non è venuto il momento di pensare a una revisione del Titolo V?

Nino Ragno

Astensione: votare non serve più, ci sono i Migliori

Oltre ai consueti, insopportabili bla bla bla (copy Greta) su chi ha vinto e chi perso, su chi sopravvive e chi si consegna al passato, il dato più rilevante uscito dalle urne in questa tornata di Amministrative è il drammatico calo dell’affluenza. I numeri dell’astensione fanno paura: sui circa 13 milioni di cittadini chiamati al voto circa uno su due non si è presentato. Alle Suppletive in Toscana ha votato il 35,5 degli aventi diritto; tra le grandi città, solo Bologna ha superato (e di poco) il 50 per cento dell’affluenza. Certo i partiti, e i talk show al seguito, s’interessano esclusivamente dei risultati: atteggiamento comprensibile, ma scioccamente miope. E naturalmente l’obiezione di chi sostiene che chi ha vinto ha vinto, e pazienza se hanno votato quattro gatti, è una stupidaggine priva di fondamento.

Nei pensieri della sera inviati via newsletter, ieri Matteo Renzi ha scritto che “Salvini ha compiuto un errore incredibile nell’inseguire la Meloni anziché seguire Draghi. Mario Draghi sta cambiando anche la politica, Salvini sembra non averlo capito”. Per una volta ci tocca dargli ragione, soprattutto sulla seconda affermazione, con una correzione. Senza nulla togliere ai migliori e a Mario Draghi, sono i tecnici che stanno cambiando la politica. E non in meglio. Le forze politiche, a cicli sempre più ravvicinati, vanno in crash, come i sistemi informatici; decidono di non essere in grado di uscire da impasse di varia natura; alzano le mani e si fanno da parte in attesa che passi la tempesta. Meglio che a prendere decisioni impopolari ci pensino i tecnici, cioè coloro che sono svincolati dal consenso popolare. C’è l’idea che si possa tornare, dopo le lacrime e il sangue, a governare come se nulla fosse successo, in una sorta di reset istituzionale. Ed è abusando di questa scorciatoia che il disamore dei cittadini ha superato il livello di guardia. Negli ultimi anni tutte le volte che si sono trovate davanti a scenari complessi, le forze politiche hanno scelto di sottrarsi, preferendo affidarsi a un salvatore della patria: era fatale che i cittadini si convincessero dell’inutilità dei partiti. Loro stessi hanno fornito l’argomento migliore.

Come si capisce, l’atteggiamento è contemporaneamente suicida e omicida nei confronti del meccanismo democratico: i partiti sono lo strumento attraverso cui si attua la rappresentanza. Ovviamente non ha aiutato il progressivo annacquamento identitario di destra e sinistra, ormai sostanzialmente irriconoscibili se non per qualche proclama, spesso derubricabile a folclore. Non giovano i governi ammucchiata, in cui entrano tutti, sebbene siano di salute pubblica o unità nazionale. E nemmeno ha aiutato la sistematica delegittimazione del popolo come attore della vita democratica: il popolo è puzzone quando si esprime in direzione contraria rispetto al pensiero unico. È naturale che dopo anni di insulti e disprezzo (dispensato da opinionisti per lo più privi di autonomia intellettuale e pensiero critico) i cittadini (cioè il popolo) disertino le urne. Non è un caso che a parte Milano e Bologna, le periferie delle città sono quelle dove si registrano i numeri peggiori. Se i partiti pensano di poter sopravvivere sui social, s’illudono.

È ora di tornare a sporcarsi le mani, fuori dalla pozzanghera di twitter. L’alternativa è scomparire. E se il primo pensiero è che la qualità della classe politica non è mai stata così infima, il secondo (ben più allarmante) è: chi occuperà il vuoto lasciato dai partiti?

 

Meloni e fascisti. Non può continuare a cavarsela con ridicoli “calembour”

Come anche ciechi e sordi hanno capito da tempo, Giorgia Meloni non ha nessuna intenzione di fare i conti con i cascami fascisti nel suo partito, che sono parecchi e ben radicati (d’altronde, basta guardare il simbolo per capire da dove viene, e con chi). Mi spiego, non quattro dirigenti mattacchioni – ogni tanto ne beccano uno vestito da nazista, o che saluta romanamente, o peggio – ma una vera cultura di base: la moderna FdI poggia su un irrequieto cimitero di labari e gagliardetti di cui finge ogni tanto di vergognarsi, ma che non può seriamente combattere. Diciamo così: per ogni dirigente che racconta la barzelletta su Hitler ci sono dieci militanti che ridono e si danno di gomito, fingere di non vedere il problema fa parte del problema.

Ma siccome qui si parla di comunicazione e narrazioni, rimane interessante capire come fa la leader di FdI a sfiorare ancora una volta la domanda, parlare d’altro e, in definitiva, non rispondere. Insomma, scienza e tecnica della deviazione, ché tanto i media ci cascano (e infatti: ci cascano). Il classicone intramontabile di Giorgia è la data di nascita: è nata dopo il 25 aprile del ’45 (un bel po’ dopo) e quindi bon, chiuso, il fascismo non la riguarda, roba vecchia, che palle, tipo i Beatles. Una visione interessante, una specie di vertigine storica da film di fantascienza, la mente che cancella, e tutto quello che esisteva prima di te non esiste. Purtroppo il dibattito politico è fatto così, una battutina e via, e dall’altra parte (i famosi media) nessuno che incalzi sul punto, che dica: “Bella battuta, ora però parliamo seriamente”.

L’ultima trovata per non rispondere alla famosa domanda è la strabiliante richiesta di “tutto il girato” di un’inchiesta audiovideo durata tre anni a opera dei cronisti di Fanpage. Si tratta dello stesso procedimento retorico: rispondere con una battuta o una pretesa risibile, o con qualche trucchetto per cui dici e non dici, ammicchi, giochi la carta del vittimismo e insomma, alla domanda politica non rispondi, perché non puoi farlo. Un’elusione in piena regola con aspetti divertenti, perché quel che si lascia intendere è che vedendo le altre 99 ore e passa di “girato”, chissà a quali meraviglie avremmo assistito, che so, dirigenti di FdI che portano i fiori sulla tomba di Matteotti, che festeggiano il 25 Aprile, o salvano migranti in mare, vai a sapere cosa ci nascondono! Insomma è un altro trucchetto retorico, buono per il bar, per il videomessaggio sui social e per i comunicati stampa, niente di nuovo sotto il cielo di Giorgia, che promette di “torchiare” i suoi, e a noi maligni viene in mente via Tasso.

Eppure la questione politica è enorme: FdI sta per strappare lo scettro della leadership della destra al povero Salvini, decisamente rintronato, e si candida (pur incassando una bella sberla alle Amministrative) a guidare il Paese, dunque la questione dell’intima anima fascista del partito andrà affrontata con argomenti un po’ più solidi. Oggi la narrazione prevalente dice di una Meloni brava, uh che brava!, e di un partito inadeguato e senza classe dirigente. È una narrazione un po’ comoda e semplicistica, e oltretutto non tiene conto che un politico che vuole arrivare a Palazzo Chigi non può cavarsela a lungo con piccoli calembours.

Oppure è tutto più semplice e cristallino: alla domanda se FdI contenga una consistente componente fascista, se siamo ancora al fascino per le puttanate in orbace, la non-risposta di Giorgia Meloni è invece una perfetta risposta. Affermativa.

 

È finita la democrazia, ora è il gioco dei potenti

Chi ha vinto le recenti elezioni amministrative? Io. Perché appartengo da sempre a quel movimento degli astensionisti che in questa tornata si è confermato come prima forza politica del Paese, lasciando, col suo 46%, i partiti, anche quelli che credono di avere vinto o piuttosto dicono di avere vinto, a una distanza siderale. Una vittoria “a paletti” come si dice in gergo ippico. E a quel 46% andrebbero aggiunte le schede bianche e nulle, dati che il Viminale si guarda bene, prudentemente, di fornire, di cittadini che, pur disgustati dalla politica, vogliono comunque onorare il rito democratico.

Né ci si può consolare affermando, come ho sentito dire, che anche nelle altre democrazie occidentali l’affluenza alle urne è piuttosto scarsa (comunque sempre intorno al 65, 70%). Perché il voto non voto – anche il non voto è un voto – ha ragioni opposte. Nelle altre democrazie non si va a votare perché i cittadini si fidano della propria classe politica e quindi vinca l’uno o l’altro fa poca differenza. In Italia al contrario il non voto esprime una profonda diffidenza nei confronti della classe politica. Ci si può chiedere se un Paese dove una persona su due non va a votare sia ancora una democrazia. E infatti non lo è. È una partitocrazia, che è cosa diversa. La partitocrazia esaspera tutti gli elementi negativi della democrazia. La selezione della classe dirigente non avviene per merito perché, a differenza delle aristocrazie storiche, l’uomo politico democratico, e tanto più partitocratico, non possiede qualità specifiche, la sua sola qualità è tautologicamente quella di fare politica. Sono i professionisti della politica secondo la classica definizione di Max Weber. “Poiché non è necessaria alcuna qualità prepolitica la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all’interno degli apparati di partito attraverso lotte oscure, feroci, degradanti, spesso truffaldine” (Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). In una situazione particolarmente degradata come quella italiana, dove si è perso il senso di valori condivisi, dove i partiti occupano non solo l’intero settore pubblico, ma condizionano pesantemente anche quello privato, un sistema del genere porta inevitabilmente verso l’illegalità. Per prevalere su un mio compagno di partito o su un altro sono disposto a tutto. E questa situazione di illegalità diffusa coinvolge spesso anche chi volentieri ne starebbe fuori. Non è tanto quindi una questione di uomini, perché nella nostra classe dirigente ce ne sono anche di capaci, ma di sistema. Per non farci mancar nulla assistiamo negli ultimi tempi, non solo da parte della cerchia berlusconiana che per motivi facilmente intuibili è sempre stata contro la Magistratura, a un tentativo di delegittimazione di quello che viene sprezzantemente chiamato il “manipulitismo” di cui si è fatto vessillifero anche Luciano Violante che pur è un ex magistrato. Insomma si tende a togliere di mezzo anche l’unico momento in cui la classe dirigente è stata chiamata a rispettare quelle leggi che tutti noi abbiamo l’obbligo di seguire. La classe politica sta dandosi da sola il calcio dell’asino. Non c’è quindi da meravigliarsi se molti e sempre di più si astengono per non legittimare questo gioco sporco.

Qualcuno ha ululato di gioia perché, dando già per scomparsi, peraltro un po’ prematuramente, i 5 stelle che pur avevano come uno dei punti fermi la legalità, si tornerebbe al bipolarismo. Ma che senso avrebbe questo bipolarismo. Sarebbe un bipolarismo senza ideali, asettico. Che cosa ci sia di sinistra nell’attuale Sinistra è difficile capire (“D’Alema dì qualcosa di sinistra, dì qualcosa”, Nanni Moretti) in quanto a questa destra definirla tale è un oltraggio alla Destra, una categoria storica che ha avuto una certa importanza.

Per tutto ciò, paradossalmente, a uscire vincitore da questa tornata elettorale è Silvio Berlusconi, non per la vittoria di Occhiuto in Calabria dove ha votato il 43%, ma perché si propone e viene proposto come federatore di sinistra, centro, destra in una grande ammucchiata da cui a essere escluso è solo il normale cittadino. Del resto il “delinquente naturale” sarebbe il presidente della Repubblica ideale perché rappresenta al meglio il peggio degli italiani.

L’altro paradosso è che a uscire vincente da queste elezioni è una perdente: Virginia Raggi. Ritengo quasi miracoloso che abbia ricevuto il 19% dei voti, dopo che per cinque anni è stata sottoposta ad un fuoco di fila di cui non ricordo l’uguale. Non aveva fatto ancora in tempo a mettere piede in Campidoglio che il Corriere della Sera apriva su due pagine una rubrica titolata “Caos Roma”. Improvvisamente si scoprivano i rifiuti di Roma, le buche di Roma, i topi di Roma, le rane di Roma e qualsiasi altro animale compreso l’Ippogrifo. Raggi, oltre ad aver dimostrato una tenuta nervosa straordinaria per una così giovane donna, ha molti meriti soprattutto per essersi dedicata alle periferie romane (qualcuno ricorderà, forse, il suo intervento in prima persona per far sloggiare i Casamonica da stabili che avevano occupato abusivamente per farvi entrare chi ne aveva diritto, è solo un esempio). Ma il suo torto maggiore è di aver cercato, in armonia con i principi dei 5 stelle, di riportare legalità in una città che vive di illegalità.

Infine. Sono decenni che ci rompono il cazzo con il femminismo. Per una volta che due donne, Appendino e Raggi, hanno raggiunto posizioni apicali in genere riservate agli uomini, si è fatto di tutto da parte dei media e di coloro che li controllano per stroncarle. E poi sarei io il misogino.

 

L’uomo dentro la foresta, la bella zingara di Bari e mi piace essere maschio

Ogni custode moderno del fuoco sacro, della sensitività e della malinconia primigenia, si difende da questa nostra civiltà intesa al successo coltivando la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la sua vita prosegua serrata, e si arricchisca: lentissimamente, ma senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

Sto girando un film con Giancarlo Giannini. Dicono tutti che dovresti sempre lavorare con chi è migliore di te, così puoi migliorare. E lui sta migliorando.

Come tutti i grandi attori, Giannini è molto sensibile. È sempre lì a piangere: “Non posso credere che sto facendo un film con te”.

Una delle donne più belle che abbia mai conosciuto è una zingara di Bari. Una volta mi ha letto la mano e mi ha detto che mi facevo troppe seghe.

Mi piace essere un maschio perché ho un pene, e avere un pene è come avere avere un grande amico che vuole sempre giocare. Lo porto ovunque, e lui sa rendersi utile. Sto innaffiando il giardino, lui dice: “Guarda che figa!” E io: “Grazie, pene. Sono contento di averti tirato fuori”.

Quest’estate al mare ho scoperto che urlo allo stesso modo sia quando credo che uno squalo mi stia divorando sia quando un’alga mi sfiora un piede.

Sono stato a un concorso di bellezza per cani. I giudici tastano i cani per essere certi che abbiano due testicoli. Che è lo stesso provino che mi fece la Rai.

Il mio cane guarda sempre il mio pappagallo con uno sguardo che pare dire: “Saprai anche parlare, ma ti sei mai ascoltato?”.

Se un uomo parla nel mezzo della foresta e non c’è nessuna donna che lo ascolta, ha torto lo stesso?

Non mi vedo come un uomo sposato. Mi vedo più come un pirata.

Idea per un romanzo: un uomo trascorre una giornata a Dublino, ricalcando senza saperlo le avventure di Ulisse. E alla fine c’è una pagina che puoi leccare e sa di Vov.

Quando piove esco sempre di casa perché sono convinto che i fulmini siano ricchi di vitamine.

Se fossi un omicida cannibale e stessi divorando le viscere della mia vittima, credo mi arrabbierei parecchio vedendo che nel frattempo lei sta leggendo DiPiù.

Gli ambientalisti fanno benissimo a dire che le risorse naturali del pianeta si stanno esaurendo e che il clima è impazzito. Questo terrà alla larga gli alieni.

Pensate a un mondo senza guerre. Nel frattempo, io frugo fra la vostra roba.

Ho intenzione di vivere per sempre. Finora sta funzionando.

 

Cari giornali, diteci cosa c’è da esultare

Ho visto e sentito in tv cose che voi umani non potreste immaginare. L’italovivo Faraone che esulta per la “straordinaria affermazione” di Carlo Calenda (giunto terzo su quattro a Roma), in merito al quale successone è il medesimo, sempre pragmatico Calenda a ricordare che la sua non “era una corsa di testimonianza”, ma voleva stranamente farsi eleggere sindaco o almeno andare al ballottaggio. Comprensibile, tuttavia, che per Matteo Renzi e i suoi cari perdere, comunque e dappertutto, rappresenti uno scopo nella vita. E che dire delle pensose analisi sul danno elettorale che avrebbe subito il partito della Meloni dal documento di Fanpage, trasmesso da PiazzaPulita, sui fasci in doppiopetto in FdI? Visto che Chiara Valcepina, la dama nera immortalata con il braccio teso, è entrata alla grande in consiglio comunale a Milano? A dimostrazione che, probabilmente, saranno in tanti i camerati, vecchi e nuovi, pronti a mobilitarsi nella Capitale dove il Michetti chi? (spassosa controfigura di Giorgia)si prepara a dare l’assalto ai Colli fatali.

Vogliamo parlare della “sconfitta dei populisti”, magnificata dal Giornale Unico come una formidabile resurrezione della democrazia riemersa dalle catacombe dove giaceva murata dai perfidi grillini? Interpretazione che avrebbe un minimo di fondamento se l’ex elettorato cinquestelle fosse domenica ritornato in massa alle urne per convertire il voto cattivo in un voto buono (per esempio al Pd) e con il capo cosparso di cenere. Sembra invece che dentro il 46% di astenuti (senza contare il 40% complessivo della destra populista col botto) ci sia una quota consistente di elettori che cinque anni fa avevano puntato su sindaci di cambiamento, come l’Appendino e la Raggi e che domenica, evidentemente delusi, hanno preferito non recarsi ai seggi. Sui motivi della frustrazione di tanti cittadini italiani che avevano creduto nel Movimento dovrà lavorare a fondo Giuseppe Conte. Anche perché se, allora, la protesta del Paese era stata incanalata, grazie soprattutto al M5S, nelle istituzioni rappresentative, oggi che quei voti sono evaporati a soffrirne è soprattutto la democrazia. Ma allora cari colleghi a reti unificate diteci, per cortesia, cosa diavolo c’è da esultare?

Borsellino quater: definitive le condanne per la strage di via D’Amelio e il depistaggio

Apoco più di 29 anni dalla strage di via D’Amelio in cui furono uccisi Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, la quinta sezione della Cassazione, presieduta da Stefano Palla, ha confermato le condanne di mafiosi e falsi pentiti imputati al processo cosiddetto “Borsellino quater”, incentrato sui depistaggi di Stato. Dunque, sono definitive le condanne all’ergastolo inflitte in primo grado e in appello dai giudici di Caltanissetta per i boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e quelle per calunnia per i falsi pentiti Calogero Pulci, 10 anni, e Francesco Andriotta, che ha avuto uno sconto di 6 mesi, da 10 a 9 anni e mezzo, per la prescrizione di due calunnie ai danni dell’ex pentito Vincenzo Scarantino. I giudici della Cassazione hanno così accolto la richiesta dell’avvocato generale Piero Gaeta che, durante una puntuale requisitoria, in merito al depistaggio delle indagini sulla strage, aveva parlato di “una mostruosa costruzione calunniatrice che secondo me è una delle pagine più vergognose e tragiche” della nostra storia giudiziaria ed è “di una gravità tale da escludere qualunque circostanza attenuante” per gli imputati di calunnia. Unico imputato in appello a non fare ricorso, Scarantino, il “pupo vestito” che, invece, aveva ottenuto la prescrizione del reato di calunnia pluriaggravata per la concessione dell’attenuante di essere stato indotto a dire falsità da “inquirenti infedeli”, cioè uomini dello Stato, non ancora identificati. Ora il verdetto della Cassazione rende definitiva la verità giudiziaria scritta dai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta, confermata in Appello. Il presidente della Corte d’assise di Caltanissetta Antonio Balsamo, neo presidente del Tribunale di Palermo, nel 2017 parlò nelle motivazioni di “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Per i giudici nisseni Borsellino “rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni” della mafia, ma anche “di molteplici settori del mondo dell’economia e della politica compromessi con Cosa Nostra”. E la strage serviva anche a “destare panico nella popolazione”, in modo che costringesse “gli organi dello Stato a sedere da ‘vinti’ al tavolo della ‘trattativa’ per accettare le condizioni che Riina e i suoi sodali intendevano imporre”. Sarebbero stati gli investigatori dell’epoca guidati da Arnaldo La Barbera, morto tempo fa, a costruire i falsi pentiti e tre poliziotti sono ancora sotto processo a Caltanissetta per calunnia aggravata.