Secondo turno, Calenda minaccia Gualtieri: “O me o i Cinque Stelle”

“Hanno detto che sono di destra? Sì, ma non si fa politica con il rancore”. Tradotto: sì a Gualtieri ma senza il M5S. Carlo Calenda guarda a sinistra, ma pone delle condizioni che potrebbero imbarazzare il Pd. Il candidato del centrosinistra potrebbe incassare presto l’endorsement di Giuseppe Conte. Per vincere nella Capitale, però, il tesoretto da “aggredire” è il 19,81% dell’ex ministro. Lui, d’altra parte, è stato eletto al Parlamento europeo col Pd, si è sempre dichiarato di centrosinistra e quando qualcuno gli dice che è di destra, si offende. L’interlocutore naturale quindi è Gualtieri. C’e’ un “però”. In fase di scelta dei candidati, Calenda è arrivato a ribaltare il tavolo del centrosinistra, uscendo dalle trattative, quando Nicola Zingaretti ha fatto entrare nella giunta del Lazio due assessore del M5S. “O me o loro”, ha sempre detto il candidato terzo classificato. Principio che vale anche per la dichiarazione di voto “personale” promessa lunedì sera a urne chiuse e risultati delineati. La cosa potrebbe mettere difficoltà i dem: cosa succederà se e quando Conte darà il suo endorsement al suo ex ministro dell’Economia? L’altra partita è geografica. C’è chi dice che Calenda abbia “rubato” elettori a destra e a sinistra. Dalla distribuzione dei voti, lo si e’ visto andare fortissimo nei due municipi più centrali della Capitale, il Centro storico (30,24%, a meno di 2 punti da Gualtieri) e soprattutto ai Parioli (36,03%, il candidato più votato), quartieri di solito a trazione dem. Più si va in periferia – dove le destre hanno gioco facile – peggio è, con il minimo al 9,09% preso a Tor Bella Monaca.

Eletta la “nera” Valcepina Ma Meloni non la caccia

Il suo è il terzo nome più votato di Fratelli d’Italia a Milano. Chiara Valcepina, la candidata protagonista dell’inchiesta di Fanpage sull’associazionismo neofascista e i presunti fondi neri al partito di Giorgia Meloni, entra in Consiglio comunale grazie a 903 preferenze. Meglio di lei solo un big come Vittorio Feltri (2.268 voti) e Riccardo Truppo, con Francesco Rocca – anche lui ripreso durante le cene “nostalgiche” organizzate dal Barone Nero Roberto Jonghi Lavarini – quinto e dunque eletto. Al di là della notorietà mediatica, però, la Valcepina può stare tranquilla: al momento FdI non ha nessuna intenzione di cacciarla.

Lo spiegano al Fatto fonti vicine a Giorgia Meloni, secondo cui la linea della leader sarà la stessa che ha concesso clemenza all’autosospeso Carlo Fidanza, che ieri si è scoperto essere indagato insieme a Jonghi Lavarini per riciclaggio e finanziamento illecito. Si aspetterà insomma “la possibilità di consultare l’intero girato di Fanpage”, e perciò per il momento la Valcepina resta una eletta di FdI. Versione confermata dal senatore Ignazio La Russa, uno degli organizzatori della campagna elettorale milanese: “Tutti i comportamenti verranno valutati quanto vedremo i filmati completi”. Secondo l’ex ministro “sia la Valcepina che Rocca avevano fatto una campagna elettorale molto ben costruita e con un’ottima comunicazione”, motivo per cui “la Valcepina, che è stimata avvocata, senza l’inchiesta avrebbe forse sperato di prendere ancora più voti”.

Toccherà accontentarsi e il risultato non è certo da buttare, considerando che la neo-consigliera era alla prima esperienza in lista ed è stata capace di sconfiggere politici esperti come l’ex capogruppo di FdI Andrea Mascaretti. Anche grazie a lei, il partito è andato a un centimetro dall’impresa, ovvero battere la Lega a casa sua: “Meglio esserci fermati qualche decimale dietro – scherza La Russa – per la serenità della coalizione”.

Serena è di certo la Valcepina, che ieri notte ha affidato ai social la propria soddisfazione sorvolando su tutti i guai degli ultimi giorni: “Grazie a chi ha creduto in me e, con la forza della democrazia, mi ha regalato questo sogno. Da domani sarò al lavoro per Milano”. E pazienza se arriverà in Consiglio senza aver mai chiarito davvero il contenuto dell’inchiesta di Fanpage, quella in cui l’eurodeputato Fidanza, suo grande sostenitore, sembra trattare con un giornalista infiltrato i termini di un finanziamento in nero alla campagna elettorale. Il tutto con la regia di Jonghi Lavarini, punto di riferimento della destra sociale in città. Ieri il Barone nero ha subito una perquisizione da parte della Guardia di finanza di Milano, nel tentativo di capire qualcosa in più sui presunti fondi irregolari a FdI. Qualunque sviluppo abbia l’inchiesta, la Valcepina la seguirà da dentro il Consiglio comunale.

Lampi di Papeete bis: “Matteo” è azzoppato e riflette sullo strappo

Tra le due opzioni che lo attanagliavano dalla lunga e drammatica notte elettorale – cioè fare il “draghiano” o iniziare a colpire l’esecutivo come reazione alla batosta elettorale – Matteo Salvini ha scelto la seconda. Che sia un Papeete bis è ancora presto per dirlo. Le spinte, però, ci sono tutte. Il leader della Lega lo aveva già fatto capire lunedì sera mentre a via Bellerio arrivavano i dati sconfortanti dalle città: “Il governo deve essere più incisivo su tasse e sicurezza”. E proprio sulle tasse ieri Draghi ha provato un blitz che nella Lega è stato visto come un affronto: dopo la débâcle elettorale e con la Meloni che in mattinata ballava sulle sue spoglie (“FdI è primo partito del centrodestra e lo rivendico”), il segretario azzoppato proprio non poteva accettare un altro schiaffo dal premier sui cavalli di battaglia della Lega, dal catasto alla flat tax. E così, all’ora di pranzo, quando i ministri del Carroccio ricevono il testo della delega fiscale in discussione un’ora dopo in cabina di regia, Salvini prima decide di sostituire Giancarlo Giorgetti con Massimo Garavaglia come capodelegazione e poi chiede ai suoi ministri di non votare il testo in Cdm. Mossa applaudita da Giorgia Meloni.

Un’assenza, quella di Giorgetti, che pesa. Una scelta tutta politica: Salvini non voleva che il suo numero due, ormai considerato un fedelissimo di Draghi, potesse fare scherzi e sconfessarlo. Allo stesso tempo, fanno notare i salviniani, Giorgetti ha accettato di non rappresentare la Lega in cabina di regia: “Giancarlo è fatto così – sussurra un fedelissimo del capo – quando sente puzza di bruciato scappa”. Una distanza tra i due che aumenta di giorno in giorno dopo l’intervista di lunedì scorso in cui il titolare del Mise sconfessava i candidati del centrodestra nelle città e poi quando, a urne chiuse, commentava con una battuta il risultato disastroso della Lega un po’ ovunque: “Non ne so niente…”, ha detto a chi gli ha chiesto un parere.

Fatto sta che alle 5 del pomeriggio, mentre il premier Draghi chiede da Palazzo Chigi che la Lega “spieghi” il suo gesto, Salvini si presenta in conferenza stampa scuro in volto. Ha passato ore difficili, è sempre più solo e in preda ai dubbi su cosa fare del governo e del partito. Uscire o restare? Convocare il congresso per sfidare i suoi avversari o rimandarlo? Tutte domande cui ancora il segretario non ha trovato una risposta, ma l’ipotesi che prende piede è quella del redde rationem dopo i ballottaggi. Intanto bombarda il governo perché, dice ai suoi, “così di certo non si può proseguire”. Una reazione evidente al tracollo elettorale: “I cittadini si sono astenuti – dice il leghista in conferenza stampa – perché la politica si occupa di massimi sistemi, ma se entra nei problemi a gamba tesa non riavvicina la gente”. Poi denuncia il problema di metodo (“non si può avere mezz’ora di tempo per analizzare i testi perché non è l’oroscopo, c’è qualcosa da cambiare”) e di merito: “L’impegno era di tagliare le tasse – dice – qui si va in un’altra direzione e si dà una delega in bianco al governo. Di Draghi mi fido, ma magari tra sei mesi o un anno ci sarà qualcuno che tassa l’aria”. Scadenze che non coincidono con la fine della legislatura. Di certo, conclude Salvini, serve “un chiarimento” politico.

E se non ci sarà, il leader, per uscire dal cul de sac in cui si ritrova, potrebbe anche pensare di lasciare il governo. Anche perché presto per la Lega potrebbero arrivare nuovi colpi duri, dal terzo decreto sul Green Pass alle pensioni. Ipotesi che stuzzica molti dei suoi fedelissimi. E non è un caso che dopo lo strappo i salviniani abbiano iniziato a battere duro: “La Lega contraria oggi domani e sempre” dice Claudio Borghi. La mossa di Salvini va interpretata anche come una risposta agli avversari interni al partito e alla coalizione. Nella Lega il leader ha voluto mandare un messaggio ai governisti – “comando io” – che ancora ieri con Luca Zaia lo avevano preso a sberle rivendicando il successo del Carroccio in Veneto: “Il segretario deve fare il segretario, gli amministratori gli amministratori”. Nella coalizione invece ieri Salvini ha attaccato i ministri di FI che hanno “chinato il capo” a Draghi. In serata fonti azzurre di governo facevano filtrare forte irritazione.

Lo schiaffo di Draghi a Salvini. E i ministri della Lega disertano

La tempistica, in politica, ha una sua discreta importanza. E quella scelta ieri da Mario Draghi per incassare l’ok alla delega fiscale somiglia a un blitz per approfittare a caldo dello schiaffo preso dalla Lega alle Amministrative. La convocazione di cabina di regia e Consiglio dei ministri per discutere la riforma era arrivata lunedì già un’ora dopo la chiusura delle urne. Questa mancanza di tatto ha provocato lo strappo più grave dalla nascita del governo Draghi. Il delegato leghista Massimo Garavaglia (spedito al posto del “draghiano” Giancarlo Giorgetti) lascia la cabina di regia e i ministri leghisti disertano il Cdm che approva il testo, fermo da un mese per i malumori del Carroccio. La mossa non piace a M5S e Pd, Giuseppe Conte ed Enrico Letta parlano di “scelta gravissima” e invitano il premier ad andare avanti. In conferenza stampa Draghi prima prova a rassicurare. “Il voto – spiega – non so se rafforza il governo, come scrivono i giornali, ma non lo indebolisce”. Poi non nasconde il nervosismo per la diserzione leghista: “È un gesto serio, ma quali siano le sue implicazioni dovrà spiegarlo Salvini”. Che pochi minuti dopo parla, non senza qualche ragione, di “testi inviati al buio un’ora prima del vertice” e di “violazione degli accordi”. Il punto è nei contenuti della riforma. A partire da quella, contestatissima, del catasto.

Premessa. Il testo è una legge delega, che va approvata dal Parlamento. Fissa i principi a cui il governo deve attenersi per scrivere le norme nei decreti delegati. Le misure le scriverà il Tesoro, guidato da un fedelissimo di Draghi come Daniele Franco insieme a una commissione di tecnici, dove forse troverà posto il consigliere del premier, l’economista Francesco Giavazzi. Le Camere possono esprimere pareri non vincolanti. Tutto si chiuderà in 18 mesi.

Detto della forma, i contenuti sono assai generici in modo da ottenere il via libera da una maggioranza così variegata. Il più controverso è quello del catasto. Solo a luglio le Camere avevano votato una proposta che esplicitamente escludeva la revisione delle rendite, di fatto ferme dagli anni 80. Draghi e Franco hanno tirato dritto, visto che la misura è tra le raccomandazioni per l’Italia dalla Commissione Ue e – insieme ad alcune cose come la riduzione del deficit – rientra tra i paletti da rispettare per ottenere i fondi del Pnrr. La formulazione scelta da Draghi è però calibrata per evitare l’implosione del centrodestra e permettergli di dire che “nessuno pagherà di più”.In sostanza, il catasto verrà rivisto per ricomprendere tutti i fabbricati evitando il fenomeno dalle “case fantasma” e così le rendite per adeguarle a quelle di mercato (con un meccanismo di aggiornamento periodico). Tutto questo, però, avverrà non prima del 2026. Solo allora, il governo, quale sarà, deciderà se applicare le misure (che faranno vincitori e vinti). È vero, come teme la Lega, che difficilmente si tornerà indietro, ma è pure vero che il centrodestra alle urne potrà mostrarsi come l’unico argine a che ciò accada.

Il resto della delega, come detto, è assai generico. La sua portata dipenderà dalla forza del governo (questo o chi per lui) ma, va detto, le premesse non sono entusiasmanti e non poteva essere altrimenti vista l’ampia maggioranza che sostiene l’esecutivo. Il testo abbandona qualsiasi velleità di alzare le tasse sulle rendite finanziarie o sui redditi più alti e, in sostanza, propone di rivedere l’Irpef riducendo gli scaglioni intermedi, abolire “gradualmente” l’Irap (come chiesto da Confindustria) e rivedere l’Ires, ma a bilancio per il momento stanzia solo 2 miliardi per il 2022 e uno per ogni anno dal 2023, cifra insufficiente, senza rabbocchi in legge di Bilancio, per poter parlare di taglio delle tasse (cosa contestata anche dalla Lega). Il grosso dovrebbe arrivare dal recupero dell’evasione che, a ben vedere, è la parte più corposa della riforma e considerata una priorità dal governo visto che è il primo articolo della delega. In sostanza, la riscossione verrà potenziata inglobandola direttamente nell’Agenzia delle Entrate, aumentando così la capacità del fisco di accedere ai dati finanziari dei contribuenti, altra cosa che certo non piace alla Lega, così come l’impegno a rivedere le detrazioni fiscali (che, detto volgarmente, significa che qualcuno pagherà più tasse).

Letta prepara il Nuovo Ulivo, da Calenda fino ai grillini

Non perde l’aplomb, Enrico Letta. Neanche mentre festeggia la vittoria in un ristorante di piazza del Campo a Siena, circondato solo dal suo staff e dal gruppo di dirigenti locali che l’ha supportato nella campagna di Toscana. Neanche mentre percorre le strade della cittadina sotto la pioggia, con un’espressione che trasuda soddisfazione. Lo schema non cambia. Sostegno al governo Draghi e nuovo Ulivo, tanto per sintetizzare. Eppure, il politico che è in lui sa che questo è il momento di accelerare nella costruzione della coalizione, nel percorso che dovrebbe portare a un’alternativa a Mario Draghi. Che non è il partito per il premier che molti accarezzano.

Ieri, dopo lo strappo della Lega, ha riunito i ministri del Pd, i vice segretari e i capigruppo al Nazareno. Una scelta che anche plasticamente dice che il Pd fa blocco contro la Lega. Ma anche che a Matteo Salvini a questo punto il segretario non ha intenzione di farne passare una. “Draghi ha potuto tirare dritto perché una parte importante della maggioranza ha consentito di andare avanti”.

Che i dem accarezzassero il sogno della maggioranza Ursula, senza il Carroccio, non è un segreto per nessuno. Che l’uscita dal governo sembra una tentazione del leader leghista è ora la netta sensazione al Nazareno.

Le prossime mosse si vedranno in questi giorni. Roma è la sfida Capitale, con Roberto Gualtieri: Letta non farà apparentamenti, guarderà a Carlo Calenda come ai Cinque Stelle. “ Conte e Calenda possono stare nella stessa coalizione ed è quello che proporrò a tutti e due”, ma in vista dei ballottaggi “parleremo agli elettori”. Poi, entrerà nel vivo la costruzione del nuovo Ulivo. Ha la benedizione di Romano Prodi, Letta. E i risultati gli consegnano un vantaggio sul resto del Pd e anche nei confronti di Giuseppe Conte (che però continua a considerare un punto di riferimento imprescindibile). Quanto il centro di Calenda porrà veti per entrare in coalizione è tutto da vedere. Dopo i ballottaggi.

“Nuova fase: al Pd per vincere servono 5Stelle e moderati”

“Dobbiamo unire il più possibile per vincere nelle città al ballottaggio”. Francesco Boccia, responsabile Enti locali del Pd, il teorico dell’alleanza con il M5S, ma anche quello che è impazzito per settimane alla ricerca del candidato unico nelle città, mantiene un profilo basso. È stato tra i protagonisti del dossier Amministrative. Anche se in genere non si tira indietro rispetto alle prese di posizione. Ma sa che per vincere Roma servono sia gli elettori di Carlo Calenda sia quelli di Virginia Raggi, e dunque non ci pensa proprio a “scegliere” tra i due. “Eleggere Roberto Gualtieri significa scegliere un europeista competente. Eleggere Enrico Michetti andare dietro alla propaganda”.

Onorevole Boccia, il Pd ha vinto le elezioni, ma le percentuali delle sue liste non sono un granché. A Napoli e a Roma, per esempio.

La soddisfazione è giusta, ma l’ entusiasmo è fuori luogo. È solo il primo tempo di una partita, che è poi la prima di un campionato appena iniziato. Però, sommando le liste dei candidati sindaci dei Comuni che hanno vinto al primo turno siamo oltre il 25%. A Napoli e Roma i voti degli elettori dem sono confluiti anche nelle liste dei candidati.

In Calabria ha pesato il pasticcio per la scelta della candidata?

Abbiamo fatto di tutto per unire e per convincere De Magistris a stare insieme. Ma lui ha sempre detto “o io o io”. Amalia Bruni ha fatto un’ottima corsa. Poi, c’è il 70% di astensionismo.

L’astensionismo è alto ovunque. Come ve lo spiegate?

In parte con il voto a ottobre, ma non basta. Aumenta il livello di disillusione e disaffezione.

Non vi sembra una vittoria “inerziale”, con la politica un po’ all’angolo?

Noi ci siamo dati l’obiettivo di costruire un fronte, che non c’era prima. L’alleanza giallorosa è in 39 città su 135. E spesso la coalizione va oltre Pd-M5S, con i partiti più moderati.

Con il M5S che esce male, cambia qualcosa nella strategia delle alleanze? Peserà di più il centro?

Stiamo parlando di un alleanza progressista e riformista, dove non c’è chi pesa di più o chi pesa di meno.

Se Conte o Calenda si mettono i veti a vicenda che fate?

Con la politica dei veti non si costruisce. Per arrivare a un campo largo bisogna parlare un linguaggio comune agli elettori, non fare un risiko politico. Se ci dividiamo lasciamo le città al ballottaggio a Meloni e Salvini.

Calenda per appoggiare Gualtieri vuole la garanzia che non ci saranno assessori M5S.

È un problema che non si pone: si hanno assessori comuni quando si fa campagna insieme.

Conte resta un punto di riferimento?

I 5S alle Amministrative non sono mai andati benissimo a parte nel 2016. Non mi fermerei a giudicare i risultati delle liste. Uniti possiamo vincere.

Sarà Letta il federatore?

Letta ha sempre avuto la cultura della ricerca dell’unità. Se vogliono tutti partecipare ci saranno più federatori. Ma per ora è un percorso in cui crediamo fortemente noi.

Cambia il rapporto del Pd con il governo?

Noi manteniamo i nostri impegni, le ambiguità sono tutte della Lega, che mi pare si stia ricongiungendo all’opposizione.

La Meloni ha rilanciato Draghi al Colle. Voi che dite?

Se ne parla il 3 febbraio. Allora saremo pronti a discutere di qualsiasi opzione.

Al Pd non conviene votare subito?

Non si va a votare per convenienza. Altrimenti il Pd avrebbe potuto fare questa scelta almeno 2 volte in 4 anni. Dopo l’elezione del presidente mancheranno meno di 12 mesi alla fine della legislatura: non è più un discorso così rilevante.

I conti di conte: Piazze piene, urne semivuote

Speravano andasse maluccio, è andata malissimo. E adesso nei Cinque Stelle tira aria di sfaldamento, di tutti contro tutti. L’opposto dell’unità inseguita dal leader, Giuseppe Conte. “Ho riempito le piazze, eppure sono arrivati questi numeri…”: così – raccontano – l’avvocato ha espresso la sua amarezza per i risultati delle Comunali. Sperava in risultati migliori, nell’effetto traino. Anche se in queste settimane aveva ricordato spesso che alle Amministrative il M5S aveva sempre stentato – ma nel 2016 prese Roma e Torino – e che lui si è appena seduto alla guida. Ma la politica non aspetta nessuno, e il giorno dopo le urne il Movimento è tutto un gorgoglio di proteste, liti e di ennesimi addii. Il leader promette: “Rimedieremo”. Però dovrà fare in fretta.

Tracollo nelle periferie, estinzione al Nord

La sintesi migliore l’ha fatta ieri la sindaca uscente di Torino, Chiara Appendino, sul Corriere della Sera: “Non siamo riusciti a mobilitare nuovamente al voto chi si sente ai margini”. Il M5S del Reddito di cittadinanza è crollato nelle periferie, quelle che nel capoluogo piemontese come nella Roma di Virginia Raggi cinque anni fa lo avevano fatto stravincere. I numeri relativi proprio alla Capitale sono chiarissimi. Rispetto al 2016, Raggi ha perso 22mila voti a Ostia, 21mila a Tor Bella Monaca e 16mila a San Basilio, la zona che in questa campagna elettorale aveva eletto a simbolo della sua vocazione per i quartieri più in difficoltà. Eppure a Roma il M5S ha toccato il miglior dato nazionale con l’11 per cento. Ha fatto peggio anche nella Napoli del neo-sindaco contiano Gaetano Manfredi, dove alle Politiche del 2018 il M5S superò il 51 per cento. Questa volta, nonostante la mobilitazione di due pesi massimi, Luigi Di Maio e Roberto Fico, è arrivato un fiacco 9,73 che è valso il terzo posto, dietro il Pd e la lista di Manfredi. È la conferma che non c’è più la spinta dei ceti meno abbienti. Quella che si è raramente vista nel Nord, dove il Movimento è quasi sparito. Non avrà neppure un consigliere, nella Milano dove ha preso un umiliante 2,78 per cento. Mentre a Trieste si è fermato al 3,62, sotto di un punto alla lista dei No Vax. Uno smacco anche simbolico. Altro, significativo dato: nei 57 Comuni sopra i 15mila abitanti che hanno eletto il sindaco al primo turno, il M5S ha vinto solo a Grottaglie (Taranto), l’uscente Ciro D’Alò.

L’incognita ballottaggi: un segnale a Gualtieri

Per Alessandro Di Battista, da sempre contrario all’alleanza con il Pd, commentare è stato come segnare a porta vuota: “Quanto avvenuto ieri lo immaginai un anno e mezzo fa quando sostenni che un’alleanza strutturale con il Pd fosse nefasta. Oggi l’alleanza con i dem non è più una scelta, è una necessità per qualcuno e per la sua poltrona”. Chiosa feroce: “Erano francescani, oggi sono Franceschini”. Certo, Di Battista è tecnicamente un ex. Ma il tema del rapporto con il Pd è riesploso nel Movimento. Ed è connesso alle scelte di Conte anche nella gestione delle sconfitte. “Mi è dispiaciuta la presenza di Conte solo a Napoli, secondo me per ripartire bisogna mettere la faccia anche nelle città dove si perde, come Torino e Roma” morde l’ormai ex candidata sindaca torinese Valentina Sganga. Comunque coraggiosa nel sostenere che l’ex premier avrebbe dovuto mostrarsi almeno accanto alla Raggi: dritta, lunedì, nel precisare che lei non darà indicazioni di voto per il 2° turno, perché “gli elettori non sono pacchi postali”. Un avviso anche a Conte, che però ieri dalla Sardegna ha lanciato un primo segnale in favore del dem Roberto Gualtieri: “È un ministro che ha lavorato con me e con il M5S e quindi vi è un’esperienza di governo misurata sul campo”. Dopodiché “ogni indicazione è prematura”. Soprattutto ora, con la bufera in corso. Però la strada resta verso sinistra, ribadisce il capo: “Nel M5S è finita la stagione in cui si andava a tutti i costi orgogliosamente da soli”. A sostegno potrebbe citare gli 8 Comuni conquistati dai giallorosa, e i diversi centri dove il Movimento andrà al ballottaggio con una coalizione di centrosinistra: da Varese a Isernia, fino a Spoleto, Città di Castello, Carbonia e Olbia. A Marino, il 5Stelle Carlo Colizza può giocarsela. E poi c’è la Puglia, con 3 Comuni al ballottaggio. Resta il fatto che quasi ovunque i numeri del Movimento sono stati bassi, e talvolta peggio (l’1,6 a Varese). Di certo non ha aiutato a metabolizzare la linea quella foto di lunedì sera in cui Di Maio e Fico mostrano il pollice della vittoria accanto a Vincenzo De Luca, il governatore dem della Campania che per anni li ha attaccati pubblicamente. Immagine che ha presto fatto il giro delle chat interne, suscitando critiche a catena. Curiosità: proprio nella Salerno di De Luca, il M5S che andava da solo è arrivato sopra il centrodestra. Un caso, o forse no.

Raggi invoca unità. I nodi: segreteria e soldi

In serata, Raggi si mostra più che responsabile: “Non è il momento di dividerci. È il momento di restare uniti, più che mai. Ringrazio Luigi Di Maio e Giuseppe Conte che ci hanno messo la faccia”. Così scrive l’ex sindaca, che da oggi sarà soprattutto uno dei tre membri del comitato dei garanti assieme a Di Maio e Fico. Prova ad abbassare la temperatura, l’ormai dirigente. Ma i deputati Sergio Battelli e Vincenzo Spadafora invocano a gran voce “la nomina degli organi interni, non più rinviabile” come sibila Spadafora. Mentre Battelli è drammatico: “Le piazze sono piene ma le urne vuote, serve una risposta o saremo travolti”. Parte della risposta, cioè la segreteria, Conte l’ha posticipata proprio per le Comunali, temendo la reazione degli esclusi. “Ma ora serve una squadra”, dicono tutti. Al Fatto, la contiana Lucia Azzolina sottolinea “la necessità di proseguire velocemente sulla strada del nuovo corso, rimboccandosi le mani. Bisogna ripartire dai territori”. Complicato. Ieri alcuni dei candidati del M5S a Torino si sono accapigliati sui social. Mentre la consigliera comunale lombarda Monica Forte se ne va: “Questo è il nuovo partito di Conte che nulla ha a che vedere con il M5S”. In Parlamento già prevedono altri addii. Mentre si ripropone il nodo delle mancate restituzioni. Perché senza soldi, l’ex premier non potrà costruire la struttura territoriale. Cioè la via, per sopravvivere.

“Tutt’altro che finito: il populismo si astiene, ma resta in agguato”

Marco Revelli, cosa dice il voto delle città sullo stato generale della politica nazionale?

È sotto gli occhi di tutti che il dato centrale è il livello dell’astensione, altissimo soprattutto nelle grandi città, che un tempo erano invece quelle con la maggiore affluenza. Il fatto che siano tutte sotto il 50%, tranne Bologna – che è sopra per un soffio – significa che più di metà del corpo elettorale ha deciso di restare fuori dai giochi.

Per quali ragioni?

Sicuramente per la scarsa qualità dell’offerta politica e dei candidati. Un’offerta scadente in modo clamoroso a destra, dove hanno scelto con cura i peggiori candidati possibili. Ma sicuramente non eccellente nemmeno nel centrosinistra, dove invece hanno selezionato persone competenti ma prive di fascino per l’elettore. Alla destra gli incompetenti, al centrosinistra i “frigidi”.

È possibile pure che gli elettori abbiano la sensazione che il voto politico sia inutile, visto che tanto prima o poi si torna tra le braccia dei tecnici?

L’astensione è un sintomo della crisi della politica nella forma della crisi della rappresentanza. Se il 50% del corpo elettorale diserta alle urne per questioni che riguardano il territorio, è perché sono convinti – temo a ragione – che il voto non sia in grado di influenzare le loro vite. La politica evapora perché le sedi della decisione sono trasferite abissalmente lontano dai luoghi della vita delle persone.

Otto mesi di draghismo incontrastato hanno contribuito?

Questo fenomeno di disaffezione generale, molto preoccupante, non nasce certo con Draghi, ma il premier l’ha disvelato nella sua forma più piena, ha lacerato il velo di Maya. Ha lasciato al personale politico dei partiti un parterre dove azzuffarsi, tanto le decisioni importanti si prendono in alto, dove ha accentrato tutto su di sé. Questa situazione produce un forte incentivo all’astensione.

Il fatto che i risultati siano stati interpretati come un sostegno alla stabilità del sistema – e del governo – quindi è un’illusione ottica?

È perlomeno superficiale pensare ci sia stabilità su un tessuto morto. Che stabilità è quella di un sistema che si sente più forte perché sotto di sé la metà di coloro che dovrebbero pronunciarsi è in apnea e non partecipa? Credo sia del tutto fuori luogo il sospiro di sollievo di chi dice che il populismo è finito. Ma è finito dove?

Di sicuro nelle urne ieri il voto “populista” non è stato rilevato.

Perché una buona parte del voto populista è finito nell’astensione. Ma non significa che quelle persone abbiano cessato di esistere: hanno semplicemente cambiato posizione all’interno dello spazio politico. Però continuano a esserci, a pensarla nello stesso modo, a essere frustrati, arrabbiati, indignati.

Se non votano però non contano, le decisioni le prendono gli altri.

Si è riflettuto poco sul fatto che il voto in uscita dai Cinque Stelle, ovviamente massiccio, solo in minima parte si è riversato nel voto a Salvini e Meloni. È molto interessante che sia finito nel non voto. I populismi non sono vasi comunicanti. Hanno sempre l’opzione del rifiuto, dell’exit, ma è una scelta temporanea: si sta in attesa e ci si prepara a rientrare in campo, se e quando si ritiene che ne valga la pena.

L’abbraccio dei Cinque Stelle al Pd si sta trasformando in una strategia suicida? È la fine del Movimento?

Ho sempre pensato che fosse la scelta più ragionevole, sia dal loro punto di vista, sia da quello di chi spera in una politica migliore di quella che c’era prima. Non vedo alternative, se non la speranza di mettere insieme i rispettivi aspetti virtuosi, invece di quelli viziosi. Dove questo asse è stato costruito bene, come a Napoli, ha funzionato.

Però il M5S ha smesso di essere il punto di riferimento di chi contesta radicalmente il sistema politico, come faceva nei suoi anni d’oro.

L’unico propellente del Movimento non poteva certo essere la sua anomalia selvaggia: quella fase sarebbe finita comunque. Per definizione l’effervescenza prima o poi si esaurisce e deve trasformarsi in pratica politica, non si può vivere solo e sempre da Savonarola. Certo, la scelta di responsabilità del sostegno al governo Draghi, specie per la velocità con cui si è realizzata, li ha danneggiati presso una parte significativa del loro elettorato.

Meno di due anni fa la Lega rischiava di prendersi l’Emilia-Romagna e l’egemonia assoluta nella politica nazionale, ora è più che dimezzata. Salvini può riprendersi o è davvero finito?

Di sicuro è molto malconcio. Intanto è vulnerabile dal punto di vista elettorale, è ovvio che aver perso un’elezione così malamente lo azzoppa. Ma poi ha problemi anche sugli altri fronti: lo scandalo della Bestia, qualunque cosa si pensi del comportamento di Morisi, dice molto della sua debolezza. È molto grave, per un leader politico, che non si sia accorto – o abbia fatto finta – che il suo uomo della comunicazione facesse in privato tutto ciò che in pubblico fustigava. In generale, il progetto di unire il radicamento territoriale al nord e la conquista di un nuovo pubblico al Sud è fallito. Non scommetterei molto sul futuro politico di Salvini.

La vittoria dei moderati è un equivoco: ecco perché

Centrodestra e Movimento 5 Stelle hanno perso questa tornata elettorale, il centrosinistra l’ha vinta: su questo non ci piove. Gli sbrigativi peana a giornali e tv quasi unificati sul ritorno all’ordine dell’elettorato, la sua stabilizzazione moderata (in chiave pro-Draghi ovviamente) e il pacifico riapprodo allo status quo ante le sbornie populiste della fine degli anni Dieci rischiano invece di peccare di superficialità per diversi motivi.
Il primo e più importante è il crollo dell’affluenza: metà del corpo elettorale è rimasta a casa, non ci rimarrà per sempre. Notato che a questo giro i voti spariti (oltre 800mila rispetto al 2016, che già fu un anno di bassa affluenza) sono soprattutto quelli di centrodestra e grillini, va tenuto a mente che fattori locali e personali (l’appeal dei candidati, il tipo di alleanze, il contesto politico) possono mutare assai rapidamente: questi risultati, detto in parole povere, significano assai poco in prospettiva futura.
Qualche numero generale darà l’idea della complessità del quadro: nei 57 Comuni con più di 15.000 abitanti che hanno eletto il sindaco al primo turno in 20 casi ha vinto il centrodestra, in 18 il centrosinistra, in altri 8 l’alleanza giallorosa (poi ci sono 6 civici, 4 candidati di destra e 1 M5S); nei 61 Comuni che invece andranno al ballottaggio il centrodestra è presente in 49 casi, il centrosinistra in 43 (nove dei quali insieme ai grillini) e il M5S da solo in nove.
L’equivoco più rilevante di questa due giorni elettorale è il risultato del centrosinistra, soprattutto per via delle performance nelle cinque grandi città andate al voto. Forse la cosa sarà più chiara analizzando i voti assoluti, che rivelano plasticamente come i vincitori di oggi non abbiano attirato/convinto nuovo elettorato, ma si siano limitati a tenersi il proprio, anzi a perderne il meno possibile. Prendiamo il caso di Roma. Roberto Gualtieri va al ballottaggio con 230mila voti e il 27% dei consensi: cinque anni fa Roberto Giachetti al primo turno prese 325mila voti e il 25% (il Pd ne raccolse 204mila, oggi 166mila). Dissolto il cospicuo patrimonio di Virginia Raggi (da 461mila a 211mila voti), il centrodestra si rafforza solo marginalmente: Enrico Michetti mette assieme 334mila voti e il 30,1%, Giorgia Meloni nel 2016 arrivò a 269mila, ma con 50mila voti di Forza Italia andati all’imprenditore Alfio Marchini.
L’altra città al ballottaggio è Torino, dove il centrosinistra è avanti. Stefano Lo Russo, ex assessore con Fassino, è forte di 140mila voti e il 43,8% dei consensi (la lista del Pd al 28,5%, pari a 85.890 preferenze): proprio Fassino al primo turno del 2016 prese 160mila voti (41,8%) e il Pd 106mila. Crollati i grillini (da 118mila preferenze a 28.700), il centrodestra riprende gli stessi voti della batosta del 2011: 124mila, nonostante un candidato, Paolo Damilano, civico, imprenditore, assai moderato e con tanto di benedizione anti-sovranista di Giancarlo Giorgetti. Avere buona stampa non basta a prendere voti, ma il centrodestra – va detto – rischia seriamente di vincere tra due settimane.
Napoli è un caso bizzarro. Cinque anni fa il Pd non arrivò neanche al ballottaggio, eppure nel trionfo di Gaetano Manfredi (218mila voti e il 62,8%) si perde per strada quasi quattromila voti rispetto al 2016 (da 43.800 a 40mila), la metà dell’emorragia M5S (da 38.800 a 31mila): ammesso che sia un conto possibile o interessante, entrambe le liste non sono necessarie per la vittoria dell’ex ministro al primo turno.
Queste, riassumendo, sono le tre città in cui un’astensione oltre il 50% si è concentrata soprattutto nelle periferie che nel 2016 elessero in massa i sindaci “anti-sistema” (Raggi, Appendino e De Magistris, che era già in carica e fu confermato): il centrosinistra, insomma, non ha recuperato gli elettori delusi che lo avevano abbandonato.
Un po’ diversi sono i casi di Milano e Bologna, dove la maggiore astensione si registra nei centri storici e la conferma del centrosinistra alla guida delle città è stata netta e relativamente omogenea nei quartieri. Beppe Sala con 277mila voti supera, seppur di sole 10mila schede, anche il suo risultato del ballottaggio 2016 annettendosi di fatto il bacino elettorale grillino (da 54mila voti agli attuali 12.900), mentre il centrodestra si suicida perdendo 70mila consensi sul primo turno del 2016 e 100mila sul secondo. Anche a Matteo Lepore, che aveva il M5S in coalizione, va bene al primo turno: i suoi 93.565 voti (61,9%) sono all’ingrosso quelli presi al primo turno 2016 dal dem Virginio Merola (68.700) e dal grillino Massimo Bugani (28.889, oggi meno di 5mila). Siamo sempre lì: metà del corpo elettorale si è inabissato, pensare che lo abbia fatto perché non trova abbastanza moderazione e riformismo sulle schede è una pia illusione che la realtà potrebbe incaricarsi presto di smentire. D’altra parte, tolto Carlo Calenda a Roma, le liste centriste – comprese Azione e Italia Viva – sono irrilevanti.

Ball-ottaggi

Ultime notizie dal magico mondo degli esperti.

“Il voto rafforza Draghi”, “Vince Draghi”. Infatti la Lega ha subito disertato il Consiglio dei ministri (peraltro con più di una ragione) perché SuperMario pretendeva il solito voto a scatola chiusa degli Ufo detti volgarmente “eletti dal popolo” sulla delega fiscale con riforma del catasto incorporata. Dopo le sconfitte della Lega (sorpassata dalla Meloni) e del M5S, che pagano anche l’adesione all’ammucchiata draghiana, sarà tutto un rafforzamento.

La destra paga il “fango del caso Morisi” e l’“agguato” di Fanpage alla Meloni. Parola delle educande di Libero, quelle di “Raggi patata bollente”.

“È la fine dei populisti”, dei “sovranisti” e “dell’antipolitica”. L’antipolitica è il primo partito: 45% di astenuti. Populisti e sovranisti, sempreché così si possano definire FdI, Lega e M5S, totalizzano nei sondaggi il 57-58%. Alle Politiche del 2018 erano al 55%, quindi sono pure aumentati. Ma un pallottoliere in redazione no?

“A destra vincono i moderati”. A Roma un elettore su tre vota tal Michetti solo perché gliel’ha chiesto la Meloni che, se si fosse candidata lei, avrebbe probabilmente vinto al primo turno. A Torino l’ultramoderato Damilano s’è fatto scavalcare da tal Lo Russo del Pd. A Milano il pediatra Bernardo straperde, ma non perché non sia moderato: perché non lo conosceva nessuno. Né come moderato né come estremista.

“Per far parte del nuovo centrosinistra, i 5Stelle devono invitare a votare Gualtieri e Lo Russo”. Il nuovo centrosinistra, per il Pd, non è un’alleanza, ma un’annessione. A Roma si ripresentava la Raggi, ma il Pd ha candidato Gualtieri; a Milano si ripresentava Sala e i 5Stelle erano pronti ad appoggiarlo, ma lui li ha respinti e ha vinto senza di loro. A Torino, Conte, Appendino, Letta e Boccia puntavano sul rettore del Politecnico Guido Saracco per un progetto comune che poteva sbancare al primo turno, come Manfredi a Napoli. Ma i dem locali hanno deciso di cancellare ogni traccia della sindacatura Appendino e candidato Lo Russo, il consigliere che l’aveva denunciata e fatta condannare per un debito di Fassino (tutto vero). E che ha pure siglato un solenne “patto” con l’ex FI Portas giurando di non fare accordi neppure al ballottaggio con gli appestati 5S. Intanto Gualtieri definiva la giunta Raggi “peggio di Alemanno” (condannato per Mondo di Mezzo). Per convincere gli elettori di Raggi e Appendino a votare Gualtieri e Lo Russo non servono appelli (fra l’altro poco dignitosi) di Conte: sono Gualtieri e Lo Russo che, se vogliono quei voti, devono chiederli, riconoscendo alcune delle cose buone fatte dalle due sindache 5Stelle. Volendo, non hanno che l’imbarazzo della scelta.