Dopo il ritorno sul mercato del vinile e il relativo boom nelle vendite, è il momento delle audiocassette? La domanda non è poi così peregrina se si considera in primis il fatto che viviamo in una società che impazzisce per tutto ciò che è retrò e commemorativo (vedi le reunion di band, gli album-tributo, i cofanetti…). E, in secondo luogo, il successo che sta riscuotendo il progetto, italianissimo, Dirt Tapes, con cui si ripropongono in formato audiocassetta dei dischi storici della musica italiana e non. I dati, infatti, parlano chiaro e raccontano non solo di un ritorno del vinile, ma anche di una sempre più estenuante richiesta di musicassette, soprattutto da parte dei giovanissimi. Dirt Tapes nasce dopo tre anni di ricerche della strumentazione migliore e del perfezionamento delle tecniche di produzione e registrazione, a opera di un gruppo di appassionati di musica e collezionisti di supporti audio analogici tra i quali c’è il batterista degli Zen Circus, Karim Qqru. “L’idea – racconta – nasce non dalla nostalgia, un sentimento legittimo, ma più semplicemente dal bisogno di toccare con mano la musica, perché per noi il legame col supporto fisico è ancora qualcosa di imprescindibile. E poi c’è la sfida, di natura creativa, di riadattare la copertina di un album a uno spazio di packaging molto più esiguo. L’idea infatti è di proporre in questo formato anche dischi che non sono mai stati incisi su nastro”. Ovvio che dietro un progetto del genere ci sia un passione smisurata: “La cassetta – prosegue Karim – è stato il mezzo con cui ho scoperto i dischi più importanti della mia vita, mentre il Cd non mi ha mai preso. Quando uscivano nuovi album mi dicevo ‘Quanto mi piacerebbe averlo in cassetta, ma originale’. Così, a un certo punto, qualche anno fa, ho pensato di stamparmi le musicassette da solo. Prima, però, si doveva trovare il macchinario. Un’impresa non facile, visto che quelle poche in circolazione si trovavano in mercati dell’Africa e dell’Asia ed erano in condizioni pietose, o negli Usa. Dopo mille peripezie – prosegue Karim – abbiamo trovato una Tapematic del ’91: una volta lanciato il progetto Dirt Tapes mi aspettavo una marea di offese, invece l’entusiasmo è tale che sembra di esser tornati ai tempi delle fanzine”. E i primi tre album riproposti nella speciale versione audiocassetta sono La seconda rivoluzione sessuale dei Tre allegri ragazzi morti, Vita e opinioni di Nello Scarpellini Gentiluomo degli Zen Circus e Auff del Management, realizzate in edizione limitata di 250 copie, e in vendita dal 15.10 oltreché sul sito www.dirttapes.com, anche in negozi selezionati dello Stivale.
“Una visione del mondo”: ama la moglie, e pure i gay
Di tutte le vite che ha vissuto, “il Cechov dei sobborghi americani”, quella di scrittore è solo la sintesi delle sue contraddizioni. William John Cheever nasce nel 1912 a Quincy, Massachusetts. Il mestiere di scrittore lo inizia da giovanissimo: pubblica sul New Yorker il racconto Buffalo a soli 23 anni. Scrive anche romanzi come Cronache della famiglia Wapshot e Bullet park. Vince il Pulitzer. Ma solo con i suoi racconti riesce a scandagliare in maniera clinica la società. Quello che restituisce al lettore è Una visione del mondo, come si intitola la raccolta dei sedici racconti scelti da Julian Barnes, editi da Feltrinelli.
I suoi scritti nascondono la dualità di una vita tormentata, passata tra famiglia e alcolismo, ma anche tra manifesta omofobia in pubblico e innumerevoli relazioni omosessuali in privato. Cheever descrive i salotti, ma vive per 5 anni in mutande in una cantina di Manhattan. Elogia la monogamia e pratica tutt’altro. La sua biografia è chiave di lettura per stanare l’altra faccia della società repressa e malata: rampanti esponenti del consumismo fuori, anime insicure e deboli dentro. Quello che caratterizza i suoi acconti di Cheever è l’assoluta straordinarietà degli eventi che capitano a personaggi estremamente ordinari. Il contesto in cui si muove l’individuo piccolo-borghese di Cheever è la periferia delle grandi metropoli. Qui la vita si aliena tra lavoro e famiglia. L’unica via di fuga è portare a galla i propri “demoni”. Ciò che gira tutto intorno è la società: austera, distaccata, di puro contorno estetico, ma sempre depositaria di straordinari accadimenti. Quasi assurdi, ma abbastanza verosimili da rivelare la precarietà della natura umana.
Un esempio tra i racconti: il marito compra una radio alla moglie per ascoltare la musica classica quando lui è a lavoro. La donna scopre che l’apparecchio, al posto dei concerti, riproduce le conversazioni private del vicinato. Sente la balia inglese del piano di sopra che legge le storie ai bambini; origlia una lite tra sposi nell’interno accanto. Poi la festa all’angolo dell’isolato. Lei ascolta tutto, ci si immedesima così tanto da non riuscire più a staccarsi dall’aggeggio misterioso: questo diventa il suo dramma. Quella radio si trasforma in un’ossessione che fa esplodere tutte le incertezze che una vita agiata le aveva fatto dimenticare. Anche Cheever sembra origliare i suoi personaggi, pubblicamente irreprensibili, ma sotto sotto malati di una nevrosi che la società reprime con forza.
Il cinema (di prima) è morto. “Ma adoro Mastroianni”
“Il cinema è morto, ma non provo alcuna nostalgia”. Demiurgo del body horror, autore di capolavori inquietanti quali Videodrome (1983) e La mosca (1986), Crash (1996) e A History of Violence (2005), il regista canadese David Cronenberg è special guest al Matera Film Festival.
Cronenberg, qual è il suo rapporto con l’Italia?
Voglio girare un film in Italia da quando vidi La dolce vita. Fellini mi ha ispirato profondamente, per me il vostro Paese era via Veneto, così diverso dalla Little Italy della mia Toronto. E che dire di Marcello Mastroianni: il Marcellooo di Federico, il Bell’Antonio di Bolognini, indelebile. Noi canadesi non siamo come gli americani, per noi l’Europa vale: Bergman, Antonioni, una vera alternativa a Hollywood. Cruciale per la mia arte.
Come la pandemia ha intaccato le nostre vite?
Ho 78 anni, e come il Covid ricordo solo la poliomielite. Molti bambini come me ne erano affetti, tutti eravamo preoccupati: finché non hanno trovato il vaccino. Sebbene dal punto di vista personale sia un’esperienza devastante, la pandemia è un’avventura globale sorprendente, impressionante: è l’unica cosa che ha unito tutto il mondo. In un certo senso, una forza positiva.
Il Covid perfeziona il controllo dei corpi, catalizza la biopolitica?
Il controllo del corpo è vecchio quanto l’umanità, basti pensare a quello delle donne, anche nella cultura occidentale. Ogni dittatura vi si appoggia, ma nel Covid c’è qualcosa di più interessante: liberare il corpo tramite il suo controllo, giacché la malattia è un attacco.
Sui vaccini però non c’è unanimità.
Sono doppiamente vaccinato, e dovremmo esserlo tutti. Da sempre c’è gente contraria ai vaccini, ma Internet ha radicalizzato il quadro: è una grande fonte di disinformazione. C’è paura per le terapie mediche, per i vaccini basati sul Dna, per gli effetti collaterali: una persona comune fatica a capire. Negli Usa, e non solo lì, si paga la forte sfiducia per tutto quello che è legato al governo: si pensa che sotto ci sia sempre qualcosa di malefico. Ma come si può credere che Bill Gates si sia servito della pandemia per impiantarci dei microchip e controllarci, e poi andarsene in giro con l’iPhone in tasca? Eppure, la colpa non è solo della gente, ma dei governi che non hanno fatto nulla per conquistarsi la nostra fiducia.
La pandemia ha influenzato il suo lavoro?
Non dal punto di vista creativo o filosofico, ma pratico: è stato più costoso e impegnativo, però i protocolli ci hanno consentito di girare ugualmente. Certo, della mia troupe ho visto solo gli occhi sopra la mascherina.
Nessuna relazione tra il Covid e il cortometraggio da lei scritto e interpretato in cui si prende cura del suo cadavere, The Death of David Cronenberg?
Non ha nulla a che fare con la pandemia, bensì con la tecnologia NFT (Non-Fungible Token) a cui s’è interessata la regista, mia figlia Caitlin (sulla piattaforma SuperRare il corto è stato acquistato per 71mila dollari, ndr). Per una serie tv in cui ho recitato, Slasher, avevano riprodotto fedelmente il mio corpo con un doppio in silicone: mi ci sono affezionato, l’ho messo a letto e ci ho fatto questo corto.
A sette anni da Maps to the Stars è tornato sul set anche per il lungometraggio Crimes of the Future, che riprende la sua opera seconda del 1970: il protagonista Viggo Mortensen dice che per lei è un ritorno alle origini, a partire dalla manipolazione degli organi.
L’ho scritto vent’anni fa, riesumato con entusiasmo e finito di girare due settimane fa ad Atene, ora devo montarlo, e preferisco sia una sorpresa. Diciamo che è ambientato in un universo parallelo, e ha una struttura complessa.
Make-up biologico e transumanesimo sono della partita?
La cultura umana non ha mai resistito a modificare il corpo: cicatrici, mutilazioni, tatuaggi, ultima la chirurgia plastica, non c’è corpo che sia naturale. Io stesso senza l’auricolare ipertecnologico che indosso, mille volte più potente del computer del programma spaziale Apollo, non sarei in grado di sentire: oggi abbiamo tante risorse per arrestare o alterare il processo di invecchiamento, senza questa collaborazione hi-tech la mia carriera sarebbe finita anni orsono.
Il cinema per come lo conosciamo finirà mai?
La dissoluzione del cinema tradizionale è un fatto. La pandemia ha accelerato il processo: piattaforme quali Netflix e televisori con qualità cinematografica hanno esaltato il consumo domestico. Io per primo non vado in sala da molti anni, e non ho alcun rimpianto: tra problemi di parcheggio e spettatori che guardano il telefonino, ho avuto esperienze tremende. I festival saranno uno dei pochi posti in cui continuare a vedere film in sala.
Nessun rimpianto nemmeno per la pellicola?
Non scherziamo, il digitale è largamente superiore. Spielberg ricorda i vecchi tempi del cinema come meravigliosi, ma si sbaglia: erano terribili. È la stessa differenza che esiste tra la pur fascinosa macchina per scrivere e i software per l’elaborazione testi che funzionano come la nostra mente. Non c’è paragone.
Pravda, giornalista finisce in cella: ha sbagliato pezzo
Gennady, dove sei? In una cella d’isolamento di una delle sature carceri di Minsk, dove rimangono ammassati migliaia di dissidenti e oppositori del regime di Aleksandr Lukashenko. Il giornalista Gennady Mozheiko, cittadino bielorusso, lavorava per il quotidiano russo Komsomolkskaya Pravda, media allineato alle posizioni del Cremlino. È stato prelevato a Mosca dal Kgb bielorusso mentre tentava di fuggire altrove: adesso rischia oltre dieci anni di carcere. Il 29 settembre scorso, Mozheiko ha firmato un’intervista a un compagno di classe di Andrey Zeltser, informatico che ha colpito a morte un ufficiale dell’intelligence di Lukashenko durante un raid a Minsk. Il ragazzo, definito “pericoloso criminale” dalle autorità, è stato ammazzato. La testimonianza raccolta dal reporter però riferiva altro: Zeltser era “un bravo ragazzo”. Poche parole sono valse il blocco istantaneo del giornale sul web bielorusso e un’accusa al giornalista di “oltraggio alle autorità” e istigazione alla “discordia nazionale”. Il primo ottobre, due giorni dopo la diffusione dell’articolo ritirato pochi minuti dopo la pubblicazione, Mozheiko è scappato in Russia per pianificare un’ulteriore fuga, però, grazie a un trattato vigente tra Mosca e Minsk, gli uomini di Lukashenko lo hanno raggiunto. Fondata nel 1925 come organo ufficiale del Partito comunista, la Komsomolkskaya non si è dissolta quando l’ha fatto l’Urss: adesso il tabloid è di proprietà della società Media partner (a sua volta controllata da una compagnia energetica vicina a Gazprom, colosso del gas russo). Vladimir Syngorkin, direttore dal 1997, ha detto di non sapere in che modo il suo giornalista abbia offeso le autorità bielorusse: “Ha solo pubblicato un’intervista”. Quella dove si definiva una presunta nuova vittima un “bravo ragazzo”, in un Paese dove il presidente invece non lo è.
I talebani contro il Califfato: prima operazione anti-Isis
Adesso che nessuna truppa straniera sale e scende dai picchi delle loro montagne, i nemici numero uno dei talebani sono gli uomini dello Stato islamico del Khorasan. Dieci membri dell’organizzazione sono stati neutralizzati ieri durante la prima “operazione antiterrorismo” degli studenti coranici. A riferirlo è stato lo storico portavoce talib, Zabihullah Mujahid, ora ministro dell’informazione e cultura. L’ultima strage dell’Isis-K era avvenuta pochi giorni fa proprio al funerale della madre del capo del dicastero: nella moschea Eid Gah, a Kabul, 12 persone sono morte nell’attentato e 32 sono rimaste ferite. Altri scontri si sono verificati due giorni fa a Jalalabad.
Islamisti contro islamisti, ma è la battaglia delle bandiere bianche contro quelle nere. È la lotta dell’Emirato islamico contro il Califfato in un Paese che i talib dominano da poco più di un mese con terrore, approssimazione e un apparato di propaganda pronto a rivendicare i suoi successi. “Tutti i combattenti sono stati uccisi, la base dell’Isis è stata distrutta, è il risultato di un attacco decisivo e vittorioso” ha riferito ancora Mujahid, senza fornire però dettagli sull’operazione avvenuta nel distretto 17, a nord di Kabul, e durata almeno due ore.
Non ci sono dati su vittime civili o prove che i terroristi fossero i responsabili della strage in moschea. Solo due settimane fa era stato sempre il portavoce a comunicare che non erano presenti miliziani di alcuna organizzazione terroristica sul territorio: “L’Isis che esiste in Siria e Iraq non esiste nel nostro Paese, ma alcune persone possono aver assunto la loro mentalità, un fenomeno che la popolazione afghana non supporta”.
Il terrore è solo una delle emergenze che affrontano i civili. La matrioska di crisi innescatesi con l’arrivo dei talib avvolge il Paese in una spirale di povertà, ormai cronica e diffusa. Gli afghani non riescono a ritirare i contanti necessari per comprare il cibo che, dall’avanzata degli studenti coranici ad agosto scorso, costa almeno il 50% in più. Con il sistema bancario ancora paralizzato e la fine dell’arrivo degli aiuti internazionali, chiamarla emergenza è ormai erroneo: l’economia di Kabul è al collasso, precipita come le strutture sociali e il sistema sanitario. Presto arriverà anche il freddo: “L’inverno arriva e può diventare una catastrofe” ha detto Joseph Borrell, Alto rappresentante Ue.
Con il report “Afghanistan20” pubblicato ieri, cosa è cambiato in due decenni di guerra lo racconta bene Emergency, Ong di Gino Strada presente sul territorio dal 1999. Secondo i dati della Brown University, raccolti nel libro Costs of war, 241mila persona sono state uccise, ma nessuno sa quante siano decedute per fame e mancanza di servizi essenziali. In Afghanistan “gli Stati Uniti hanno speso 2 trilioni di dollari”, scrive Emergency, che in quel Paese, per curare 7,5 milioni di persone, ha speso solo 145 milioni di euro. Sono costi equivalenti a quelli “di un piccolo contingente di soldati”: “come sempre si tratta di scegliere da che parte stare”.
Catalogna, vince Puigdemont: i giudici sardi non lo estradano
Un’altra vittoria per l’ex presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, sulla cui estradizione il Tribunale di Sassari ieri ha sospeso la sentenza in attesa che il Tribunale europeo si pronunci sulla pregiudiziale sollevata circa la competenza del Tribunale belga – l’ultimo a cui la Spagna ha richiesto di consegnare Puigdemont – di decidere sul caso. Questo è bastato perché ieri – nella seconda conferenza stampa da Alghero, nel cui aeroporto è stato arrestato la settimana scorsa dai carabinieri in ottemperanza all’ordine di arresto internazionale – l’ex President desse libero sfogo alla sua soddisfazione. “Lo dico in italiano alla giustizia spagnola: ‘basta’, basta politicizzare i processi, basta di reprimere la libertà di espressione, di movimento e di ricerca dell’indipendenza da parte mia e dei consiglieri Clara Ponsatì e Toni Comin”, ha detto Puigdemont indicando i due europarlamentari anche loro ricercati da Madrid per il reato di sedizione e malversazione dei fondi in relazione al referendum illegale per l’indipendenza del 2017 e che l’hanno accompagnato davanti al giudice di Sassari.
Puigdemont ha rimarcato che quello di ieri è stato il terzo pronunciamento contro l’ordine di arresto spagnolo da parte di un Tribunale europeo, dopo quelli emesso da Belgio, Germania e Scozia, Paesi dove i tre leader separatisti catalani erano già stati fermati e poi rilasciati in seguito alle sentenze dei rispettivi Tribunali. “Questo sottolinea ancora di più l’anomalia del sistema giuridico spagnolo che politicizza i tribunali e le sentenze”, ha accusato Puigdemont la cui estradizione era stata di nuovo richiesta dal giudice del Tribunale supremo di Madrid, Pablo Llarena ai colleghi italiani. E non è mancato in conferenza stampa neanche il momento dedicato alla lotta antifascista, quando il presidente esiliato in Belgio ha svelato la presenza ieri nell’aula Falcone del Tribunale di Sassari di una delegazione del partito di ultradestra spagnolo Vox che con un avvocato italiano ha chiesto di partecipare al processo. “Possibilità che gli è stata negata”, ha chiarito l’avvocato Agostinangelo Marras. “Sono passati 4 anni dal mio esilio – ha chiosato l’ex governatore – è il momento che Madrid capisca che lo sconto tra Spagna e Catalogna deve risolversi fuori dai Tribunali”. La palla così ripassa a Pedro Sanchez e agli alleati indipendentisti di Esquerra Republicana che con l’attuale presidente catalano Pere Aragonés siedono al tavolo dei negoziati e dei compromessi: a partire dall’approvazione del Bilancio che già due anni fa costò al premier il governo.
Il capitale ti sorveglia. “È il profitto a guidare Fb”
Una “sfera pubblica privatizzata”: da quando i social hanno catalizzato attenzione e opinione pubblica, i luoghi istituzionali, così come i salotti tv e i bar, hanno perso il loro peso e il dibattito sociale e politico è, volente o nolente, intermediato da piattaforme come Facebook e Twitter che inseguono solo il profitto. Così, libertà d’espressione, pluralismo, diversità e complessità restano un miraggio. Jillian C. York, attivista per la libertà d’espressione online negli Usa e direttrice dell’International Freedom of Expression dell’Electronic Frontier Foundation, è autrice del bestseller Silicon Values: la incontriamo ospite al Dig, il festival di giornalismo investigativo che si è appena concluso a Modena. Proprio nei giorni in cui stanno facendo il giro del mondo le rivelazioni sul Washington Post della whistleblower Frances Haugen, ex dipendente di Zuckerberg & C.
Jillian, il suo libro Silicon Values parla di “capitalismo della sorveglianza”. Cos’è?
È una definizione resa popolare da Shoshanna Zuboff e indica il processo con cui aziende come Facebook ci risucchiano e sfruttano i nostri dati per venderci cose. I post che pubblichiamo ci sembrano solo una espressione di noi stessi, in realtà per queste aziende sono un mezzo per arrivare al profitto.
E qual è l’impatto sulla libertà di parola?
Per massimizzare i profitti devono limitare alcuni tipi di discorsi, altrimenti perderebbero inserzionisti o utenti. Mentre determinati contenuti sessuali o i nudi sono tutelati negli Stati Uniti, Facebook ne vieta ugualmente ogni forma. Dicono sia per proteggere i giovani, ma è una questione di soldi: gli inserzionisti più “conservatori” si tirerebbero fuori, se il social ospitasse troppi contenuti espliciti.
I social alimentano il populismo?
Alimentano ogni tipo di connessione. Ci consentono di trovare “la nostra gente”, la community, come può essere ad esempio nel caso di un giovane in una zona rurale che trova compagni LGBTQ o un fan di una band che trova altri fan. Ma allo stesso modo, consentono alle persone con intenzioni “sinistre” di ritrovarsi, che si tratti di bigotti o politici populisti.
Quale deriva hanno preso i valori della Silicon Valley?
Molte: ad esempio, il modo in cui un insieme di costumi unicamente americani viene esportato nel resto del mondo. O il modo in cui le opinioni americane su chi sia o non sia estremista o terrorista vengono applicate a livello globale, influenzando anche l’interazione di attori politici extra Usa. Infine, naturalmente, il privilegiare il dibattito politico su tutti gli altri tipi di espressione, dall’arte alla satira.
Questo sistema influisce sul dibattito politico?
C’è un forte squilibrio. Aziende come Facebook si concentrano sui politici occidentali, basti guardare quanta più attenzione il ban di Trump ha ricevuto rispetto al divieto dei politici iraniani. Credo che questo alimenti gli squilibri già esistenti nella società globale.
I governi dovrebbero regolare i social?
Paesi come la Germania vogliono ritenere, per legge, le piattaforme responsabili dei contenuti che veicolano. Non sono sicura serva a cambiare la società, che è quello che invece vorrei accadesse. I governi dovrebbero concentrarsi su trasparenza, diversità, processi equi e inclusione negli iter decisionali di queste aziende.
E gli algoritmi?
Non stanno facendo un buon lavoro. Funzionano bene quando si tratta di moderare questioni binarie: “È una foto di un seno o no?”. Ma non quando si tratta di sfumature. Il loro impiego per mitigare i contenuti terroristici ha portato alla rimozione di anni di documentazione di crimini di guerra in Paesi come Siria e Libia.
Cancel culture, incitamento all’odio e politicamente corretto: i social ne gestiscono ormai i diritti…
Non sono convinta che sia nel nostro interesse affidare ai social media il potere di moderare il nostro discorso pubblico. Il cosiddetto deplatforming (cacciare qualcuno da una piattaforma, ndr), ad esempio, quando è buono è eccellente, ma quando va male è pericoloso. Rimuovere i “propagandisti” è positivo. Consentire agli utenti di silenziare un “nemico” comune manipolando un algoritmo no. Dovrebbe essere maneggiato con cautela, piuttosto che presentato come un mezzo per aggiustare Internet o, più importante, le nostre società.
Il “Capitano Kirk” nello Spazio (per davvero)
“Dove nessuno è mai giunto prima”: lo Spazio è vegliardo e premia i famosi, anche ex (e i ricchi). L’attore canadese William Shatner, capitano Kirk della serie televisiva Star Trek (1966-1969) i cui episodi iniziavano con la frase sull’“ultima frontiera” andrà nello Spazio, quello vero: non con la leggendaria Enterprise, ma a bordo della New Shepard di Blue Origin, il 12 ottobre. E diventerà, a 90 anni, l’uomo più anziano ad andare in orbita, battendo l’82enne Wally Funk, lanciato a luglio sempre dal fondatore di Amazon, Jeff Bezos.
Insieme al capitano Kirk si imbarcheranno il vicepresidente di Blue Origin per le missioni e le operazioni di volo, Audrey Powers, e i co-fondatori di Planet Labs e Mediadata, Chris Boshuizen e Glen de Vries. Per la società di Bezos si tratterà del secondo volo nello Spazio sui tre previsti per il 2021. “Ho sentito parlare dello Spazio per molto tempo e ora colgo l’occasione per vederlo con i miei occhi. Che miracolo”, ha detto Shatner commentando il viaggio che durerà qualche minuto per dar modo alla navicella di superare la linea di Karman che segna, 100 chilometri sopra il livello del mare, la frontiera dello Spazio secondo le convenzioni internazionali.
La Federal Aviation Administration sta intanto valutando timori e dubbi sulla sicurezza di Blue Origin sollevati da 21 fra dipendenti ed ex lavoratori della società. In una lettera aperta pubblicata sul sito Lioness, hanno denunciato il sessismo imperante all’interno della società e soprattutto carenze nella sicurezza, ignorate dai vertici per accelerare il programma di New Shepard e soprattutto per “fare progressi per Jeff”. “Secondo un ingegnere, Blue Origin finora è stata fortunata per il fatto che non sia successo nulla. Molti degli autori di questa lettera affermano che non sarebbero a loro agio a volare su uno dei veicoli di Blue Origin”, hanno scritto i dipendenti e gli ex lavoratori della società, fra i quali Alexandra Abrams, unica a essere uscita allo scoperto pubblicamente.
Trivulzio, nominate 2 nuove dirigenti: vincitrici segnalate già a maggio ai pm
Un’altra brutta storia scuote il Pio Albergo Trivulzio. Questa volta, ad abbattersi sulla struttura milanese sono due concorsi per “direttore di struttura complessa” (cioè da dirigente) chiusi il 2 agosto 2021, dei quali però si conoscevano i vincitori già nel maggio precedente. Un “vaticinio” contenuto in un esposto presentato alla Procura di Milano il 19 maggio 2021 dal consigliere regionale M5S, Marco Fumagalli. Nella denuncia si sottolineava come i titoli richiesti dai bandi fossero molto aderenti ai curriculum vitae di due dottoresse già in forza al Pat: Sonia Baruffi e Barbara Caimi. Che infatti vinceranno.
La cronistoria: l’8 marzo 2021 il Pat emette i due avvisi pubblici, per titoli e colloquio, per altrettanti incarichi quinquennali; il 19 maggio Fumagalli presenta l’esposto. Il 22 luglio si effettua la selezione (alle quali partecipano solo le due dottoresse); il 2 agosto il Pat dichiara vincitrici Baruffi e Caimi. Voci di dissenso su quest’ultima avevano iniziato a circolare mesi prima: il 29 marzo 2021, infatti, la Cgil aveva presentato un esposto alla Guardia di finanza, denunciando che la cardiologa avrebbe effettuato decine di visite in regime privato durante l’orario di lavoro per il pubblico. Allegate all’esposto, le date delle timbrature e 24 fatture. Il sindacato aveva indirizzato la stessa segnalazione anche ai vertici del Pat, senza però ottenere risposta, se non la richiesta di ulteriore documentazione.
Che tra le mura del Trivulzio ci sia un clima poco sereno lo conferma anche un dipendente, che chiede l’anonimato: “Ormai qui non si vive più – dice – abbiamo paura anche di fermarci a parlare in corridoio. La direzione ci controlla, organizza blitz nei reparti. E poi fioccano i procedimenti disciplinari”. Tra il 2013 e il 2018 questi ultimi erano stati una cinquantina (25 quelli che si sono conclusi con una sanzione), mentre dal 1° gennaio 2020 (data d’arrivo del nuovo dg Giuseppe Calicchio) a oggi sfiorano quota 200.
Un clima pesante, diventato rovente dopo la pubblicazione sul Fatto (il 16 giugno 2021) della fattura da 48.312 euro pagata a maggio 2020 dal Pat alla Dama srl, la società della moglie e del cognato di Attilio Fontana, per la fornitura di 6.600 camici. Una fattura finita agli atti dell’indagine a carico di Fontana. “Da allora è scattata la caccia alla talpa”, dice il dipendente. Il 17 giugno 2021, il giorno dopo l’uscita dell’articolo, l’avvocato Massimo Meraviglia, capo dell’Area legale del Pat, firma un affidamento diretto alla 4N6 Srl per “l’estrazione dei dati dai sistemi informatici e dai dispositivi in genere in dotazione all’Azienda (…) e al suo personale al fine di verificare il rispetto e le corrette modalità di accesso e utilizzo dei dati del personale stesso dell’Azienda”. Valore 7.200 euro. Il weekend successivo l’azienda ha così ispezionato i computer di almeno quattro dipendenti. “Qui si vive così – spiega la fonte – del resto lei lo sa chi è il responsabile anticorruzione? Vada a vedere a chi i dipendenti dovrebbero indicare le malefatte dei vertici…?”. Quel nome è Meraviglia, l’avvocato delle ispezioni nei pc. Raggiunto dal Fatto, il Pat ha rifiutato di commentare.
De Luca jr. è diventato prof. Correva solo e non insegna
Buone notizie in casa De Luca, la famiglia più potente di Salerno, l’unica in Italia che può vantare un papà governatore e un figlio alla Camera. Il deputato Pd Piero De Luca è diventato professore universitario associato di diritto dell’Unione europea all’Università di Cassino. È stato promosso da ricercatore a tempo indeterminato a docente, pur essendo in aspettativa, e parlamentare. Ha vinto una selezione a chiamata riservata a ricercatori interni, bandita dall’Ateneo laziale nel cuore dell’estate del 2020, apparsa sull’albo pretorio internet il 31 luglio 2020, scadenza per le domande il 31 agosto successivo. La commissione esaminatrice lo ha dichiarato idoneo e basta. Senza comparare il suo curriculum e le sue pubblicazioni con quelle degli altri candidati. Ma non gli ha riservato un trattamento di favore: semplicemente, altri concorrenti non ce n’erano. Piero De Luca era l’unico aspirante all’incarico. A corredo della domanda, ovviamente,
De Luca ha presentato le sue pubblicazioni. E tra quelle lodate dalla commissione esaminatrice in un verbale pubblico e reperibile da fonti aperte, c’è il libro Parlamenti nazionali e processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea. Ha lo stesso titolo della pubblicazione del 2016 per la quale il non ancora onorevole De Luca aveva ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale per accedere ai concorsi da professore universitario. Pubblicazione che, secondo un’inchiesta di Laura Margottini messa nero su bianco sul Fatto Quotidiano del 3 marzo 2018, all’epoca presentava “ampi blocchi di testo identici a quelli presenti in un dossier degli Affari Internazionali del Senato, senza che siano presenti citazioni e virgolette, e senza che il dossier sia citato in bibliografia”.
Insomma, De Luca pareva aver copiato pezzi di libro, anche se il diretto interessato, interpellato per replicare, dichiarò al Fatto di aver “indicato in nota a piè di pagina i riferimenti ai testi originali francesi della Cosac che ricostruiscono esattamente la storia di questa istituzione, gli stessi testi che probabilmente hanno ispirato anche il documento del Senato, ma su quelli, com’è ovvio, non c’è alcuna esclusiva scientifica”.
L’edizione del libro presentata alla commissione di Cassino però è del 2020. Nulla vieta di ritenere che De Luca nel frattempo abbia messo pieno riparo alle criticità indicate dal Fatto tramite l’utilizzo di alcuni software antiplagio. Criticità che all’epoca non suscitarono la curiosità dei tecnici del ministero dell’Università. Avrebbero potuto rivedere il giudizio di abilitazione alla docenza e non l’hanno fatto. E poi la commissione esaminatrice di Cassino, presieduta dal docente di Milano Massimo Condinanzi e composta anche dalla docente della Parthenope di Napoli Cristina Schepisi e dal docente di Cassino Giancarlo Scapace, valuta la pubblicazione con termini lusinghieri: “Il lavoro evidenzia una corretta analisi del tema, rigore metodologico e una buona conoscenza delle regole del sistema e del progressivo consolidarsi dei principi di formazione giurisprudenziale”.
Cosa fatta capo ha e ora De Luca non è soltanto abilitato, ma può lustrarsi del titolo di professore. Associato, di seconda fascia, poco importa. È un docente universitario di Cassino. Di ruolo. Ha fatto carriera mentre era in aspettativa e, come è ovvio, non bazzica da anni un’aula universitaria. Tutto normale, tutto lecito. Non si possono penalizzare le ambizioni e i diritti di chi legittimamente è in aspettativa. Resta il dato, paradossale, di fondo: un settore che bandisce una cattedra da professore associato lo fa dopo aver segnalato una sofferenza di organico. Carenze che un docente in aspettativa almeno fino al 2023, data di fine legislatura, non potrà colmare nel breve periodo.
Degna di segnalazione è anche un’altra circostanza: i cinque professori di ruolo selezionati a Cassino con lo stesso bando vinto da De Luca – due a Giurisprudenza ed Economia, uno a Lettere e due a Scienze Umane – hanno tutti ottenuto l’incarico senza concorrenza. Numero di domande pervenute per ogni cattedra: una. Secondo le nostre fonti non c’è nulla di strano, capita frequentemente. Tutti i decreti di approvazione delle selezioni risalgono a dicembre e hanno la stessa chiosa: “La effettiva presa di servizio del vincitore è subordinata alla disponibilità dei corrispondenti punti organico e delle risorse finanziarie”. E infatti risulta che nessuno abbia preso servizio, tantomeno De Luca che comunque non avrebbe potuto.
Un pezzetto del decreto circola tra i social che commentano le elezioni di Salerno. È parte di un meme frutto della satira politica dei ‘Figli delle Chiancarelle’, movimento social che alle Amministrative di Salerno ha sostenuto il candidato sindaco Oreste Agosto, l’avvocato dei ricorsi contro il Crescent. “Mio figlio professore”, come il manifesto dell’omonimo film del 1946. Ma al posto di Aldo Fabrizi e Giorgio De Lullo – il bidello e il figlio di bidello che grazie allo studio diventa insegnante nella scuola dove lavora il padre – ci sono i fotomontaggi di Vincenzo e Piero De Luca. Sono soddisfazioni anche queste.