Il vaso ormai è scoperchiato. Ne straripa uno sconvolgente catalogo di pubbliche virtù e vizi privati che coinvolge almeno 23 capi di Stato, 12 di governo, 14 ministri, 300 politici, 130 miliardari, famiglie reali, leader religiosi, celebrità dello spettacolo e dello sport, truffatori, trafficanti. I loro nomi sono solo i primi a spuntare dai Pandora Papers, la nuova e gigantesca inchiesta del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij). Il leak riguarda 11,9 milioni di file “persi” da 14 società di servizi finanziari che operano in oltre 38 Paesi. Passaporti, estratti conto, dichiarazioni fiscali, atti societari, contratti immobiliari, immagini, email, audio e video sono al vaglio di 600 giornalisti di 130 testate per identificare chi si cela dietro entità registrate alle Isole Vergini britanniche, Seychelles, Hong Kong, Belize, Panama, nel South Dakota e in altri paradisi fiscali. I file vanno dagli anni 70 al 2020: 29 mila conti offshore, un patrimonio nascosto di oltre 27.500 miliardi di euro. Non è il primo scoop di Icij: nel 2016 il consorzio rivelò i Panama Papers, 11,5 milioni di documenti sfuggiti allo studio Mossack Fonseca, l’anno dopo i Paradise Papers, 13,4 milioni di file di Appleby e Asiaciti Trust. La doppia morale dell’élite globale ora imbarazza soprattutto molti leader dei Paesi rigoristi e di quelli più poveri. Ecco il giro del mondo di chi predica bene e razzola male.
I Paesi Bassi ospitano circa 15 mila società paravento che sottraggono al resto del mondo imposte per 3,5 miliardi. Nei Pandora Papers ora emerge il nome dell’ex ministro delle Finanze Wopke Hoekstra, falco del rigore per i conti pubblici italiani dimessosi a gennaio per uno scandalo: nel 2009 investì 27 mila euro in una società offshore delle Isole Vergini britanniche, Candace Management, che li convogliò in un’impresa di turismo sostenibile in Africa. Nel 2017 il politico ha venduto le quote una settimana prima di diventare ministro, come prevede la legge olandese, ma non ha mai fornito questi dati al Parlamento quand’era vicepresidente della Commissione Finanze. Lui giura di aver dato in beneficenza i dividendi, 4.800 euro, ma l’opposizione chiede che ne risponda in Parlamento.
L’Argentina andò in default per l’ottava volta a fine 2001, bruciando i risparmi di un popolo e anche quelli di centinaia di migliaia di italiani. Il nono default è del 23 maggio 2020, il decimo è dietro l’angolo. Nel Paese che fu il più ricco dell’America Latina fa scalpore che nei Pandora Papers compaiano Zulemita Menem, figlia dell’ex presidente Carlos (in carica dall’89 al ‘99) ed ex first lady dopo il divorzio dei genitori, di Daniel Muñoz, segretario dell’ex presidente Néstor Kirchner che sedette alla Casa Rosada dal 2003 al 2007, e del calciatore Angel Di María, star della Nazionale e del Paris Saint-Germain.
Ma l’Argentina non è il solo paese latinoamericano protagonista dei Pandora Papers.
In Brasile lo scandalo riguarda le imprese in paradisi fiscali del ministro dell’Economia di Jair Bolsonaro, Paulo Guedes, e del direttore della Banca centrale, Roberto Campos Netos. Guedes, il Chicago Boy brasiliano, è azionista dell’azienda Dreadnoughts International Group registrata alle Isole Vergini a nome suo e di sua figlia dal 2014 per 9 milioni di dollari. Ma non è questo il punto: in Brasile è abituale che alte cariche istituzionali e bancarie riscuotano dividendi in paradisi fiscali. La polemica nasce dal conflitto di interessi del ministro. È sua infatti la bozza di riforma fiscale che favorisce chi ha denaro all’estero. Per non parlare del direttore Campos Netos che firma la risoluzione che esonera i possessori di meno di un milione di dollari su conti esteri dal dichiararli alla Banca centrale. Entrambi assicurano di aver informato il fisco delle azioni, peccato che Campos Netos fondò l’impresa offshore Cor Assets nel 2004, ma nel 2018, dopo lo scandalo dei Panama Papers, trasferì il patrimonio al gestore Overseas Management Company, per un capitale di un milione di dollari.
In Cile invece l’inchiesta del consorzio internazionale tocca il presidente Sebastián Piñera il quale, tra i suoi affari alle Isole Vergini ha anche l’acquisto del progetto della miniera Dominga. Piñera e la sua famiglia risultano azionisti del progetto con il 33% per un valore di 152 milioni di dollari. La doppia morale in questo caso, oltre che finanziaria, è politica. La riuscita del progetto Dominga, infatti, era nelle mani del governo Piñera, che non tenne conto del rischio ambientale. Pochi mesi dopo fu sua la decisione di cancellare la costruzione della centrale termoelettrica di Barrancones, della franco-belga Suez che aveva i permessi per operare nella zona della miniera Dominga. Il governo risponde che il presidente da 12 anni è fuori dal progetto e che ne ha abbastanza di questa vicenda.
Il Libano finì nel suo primo default il 9 marzo 2020. Il 4 agosto 2020 l’esplosione di un magazzino di fertilizzanti nel porto di Beirut uccise 214 persone, ne ferì 7mila e devastò la Capitale di un Paese già in ginocchio. I libanesi non possono accedere ai loro conti bancari, ma dai Pandora Papers scoprono i conti offshore da milioni di dollari – spesso aperti poco prima del crac – del primo ministro Najib Mikati, di suo figlio Maher, del suo predecessore Hassan Diab, del governatore della Banca centrale Riad Salameh, sotto inchiesta per riciclaggio in Francia, dell’ex vice governatore Mohammad Baasiri, dell’uomo d’affari ed ex deputato Neemat Frem, dei banchieri Ibrahim Debs e Marwan Kheireddine, ex ministro.
Nel Regno Unito l’opinione pubblica considera il proprio paese un faro della lotta alla corruzione: di fatto, invece, Londra è la destinazione preferita delle élite corrotte globali, grazie alla presenza di professionisti e istituzioni che facilitano la creazione di società offshore, l’elusione fiscale e la risoluzione favorevole di dispute legali. Il Labour di Tony Blair ha contribuito a creare un assetto legislativo favorevole: lo stesso ex Pm, che dopo le dimissioni ha accumulato una fortuna in consulenza private, è finito nei Pandora Papers per aver risparmiato oltre 310 mila sterline di tasse sull’acquisto di un ufficio di pregio da una società offshore. Già nel 2012, secondo il Mail, su 12 milioni di redditi aveva pagato solo 315 mila sterline in tasse grazie a una serie di artifici contabili perfettamente legali. Il pm conservatore David Cameron, a parole, si è fatto paladino della lotta all’evasione fiscale, salvo ammettere di aver guadagnato, pochi mesi prima di essere eletto, da un trust offshore del padre rivelato dai Panama Papers. Fra le riforme indispensabili per la lotta alla corruzione, quella del registro delle imprese. Promessa dai Tories al governo nel 2016 e mai portata a termine.