Tutto secondo copione: la Calabria è di Occhiuto

Tracollo Pd che regge solo a Reggio. Tracollo pure dei 5Stelle che si fermano attorno al 6%. Ma anche un De Magistris bloccato al 18,1% a cui non è riuscita la rivoluzione sperata e che rischia di non entrare in Consiglio regionale a causa della legge elettorale. La stessa sorte spetta all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano: non potrebbe essere eletto per la recente condanna ma la sua lista, al momento, è comunque sotto il quorum. Non pervenuto, infine, Mario Oliverio che, ormai relegato al passato, con la sua lista si ferma all’1,7%. Era tutto scritto l’esito delle Regionali in Calabria: un film già visto alle elezioni del 2020. Allora vinse Jole Santelli di Forza Italia, oggi stravince Roberto Occhiuto. L’ex capogruppo dei berlusconiani alla Camera dei deputati ha sfondato con il 55% dei voti, più o meno lo stesso risultato della presidente della Regione scomparsa nell’ottobre dello scorso anno. Più di Occhiuto, in questa tornata elettorale, ha fatto l’astensionismo: è andato a votare, infatti, solo il 44,36% degli aventi diritto. Insomma: circa un milione di calabresi è rimasto a casa. Questo è l’unico dato certo che conferma il trend delle precedenti elezioni regionali la cui batosta, alla luce dei risultati di ieri, a distanza di tempo non è stata ancora compresa da un centrosinistra ormai in crisi di identità.

Se la vittoria del centrodestra, infatti, era scontata, una sconfitta così non l’aveva considerata nemmeno il Pd che, a differenza del 2020, si è presentato in coalizione con il M5S e con “Tesoro Calabria di Carlo Tansi” che, alla precedente tornata elettorale, correva pure da solo. Oggi erano tutti insieme a sostegno della candidata Amalia Bruni che si è fermata al 25,5%. In politica due più due non fa quattro e, infatti, a scrutinio in corso il risultato dell’alleanza è inferiore a quello che da solo il centrosinistra, targato Pd, aveva ottenuto un anno e mezzo fa. Il disastro è in casa dem con Letta che si limita a fare gli auguri a Occhiuto e a ringraziare la scienziata Amalia Bruni. Ma anche dalle parti dei Cinque Stelle dove i comizi del presidente Conte negli ultimi giorni sembravano aver ridato entusiasmo ai grillini. Le urne, però, hanno confermato quanto è siderale la distanza dal 2019, quando il movimento è stato il più votato alle europee.

La Calabria si sveglia, quindi, come si era addormentata: con il centrodestra al governo, ma con la novità che il Pd non è più il primo partito della Regione. Con il 12,1%, infatti, cede il passo a Forza Italia che, con circa il 19%, è stata la più votata in Calabria. Più del doppio, quindi, dei consensi di Fratelli d’Italia (8,7%) e della Lega (7,9%). Se ai voti di Forza Italia si aggiungono poi quelli della lista collegata, “Forza Azzurri” (7%), i berlusconiani hanno superato il 26%. Non c’è partita e questo consentirà a Roberto Occhiuto maggiore autonomia anche rispetto agli alleati. Nonostante Salvini ostenti sicurezza (“Io sono un uomo di parola”), la verità è che la Lega già rivendica il ticket promesso al presidente facente funzioni Nino Spirlì mentre il partito della Meloni attende l’esito delle urne.

Con un quinto delle sezioni scrutinate, in serata Occhiuto parla già da presidente e dedica la vittoria a Jole Santelli: “Ci guarda. A lei dedico questa vittoria che è al di sopra delle aspettative”. È stata la sua prima dichiarazione. E ancora: “Conquisterò la fiducia da domani con i fatti”.

Torino, la rimonta dem. Ora caccia ai voti dei 5S

Le periferie di Torino hanno imbracciato la protesta: non col voto, ma decidendo invece per l’astensione. Come il resto della città: solo il 48,6% dei torinesi si è recato infatti alle urne. Un record negativo storico per la Torino del Pci e della Fiat che furono: nel 1970 aveva votato il 93%, vent’anni fa l’82, nel 2011 quasi il 68, nel 2016 quasi il 58. Ma proprio quell’astensione nei quartieri popolari, gli stessi che 5 anni fa avevano spinto Chiara Appendino a battere Piero Fassino al ballottaggio, ha ribaltato le previsioni: così Stefano Lo Russo, centrosinistra, ha rimontato scavalcando col 44,1% il candidato civico del centrodestra, Paolo Damilano, a lungo favorito nei sondaggi e fermatosi, nella realtà dei numeri, al 38,4%.

Nelle ex barriere operaie, luogo di disagio cittadino e piegate dalla pandemia, la Lega e soprattutto Fratelli d’Italia contavano di mietere consensi, sostituendosi ai successi 5stelle nel 2016. Così non è stato: lì i cittadini non hanno puntato sulle elezioni, e soprattutto sul fascino di Matteo Salvini (la Lega crolla al 9,3%) e Giorgia Meloni (FdI raccoglie il 10,7), per segnalare il loro scontento. Nello stesso tempo il M5S (appena l’8% contro oltre il 30,9% del 2016), orfano della sindaca uscente Appendino, azzoppata da due sentenze, ha smesso di raccogliere le voglie di alternativa: Valentina Sganga ha messo assieme il 9% che, però, peserà sul ballottaggio.

La fuga delle urne, dunque, è la spiegazione più seria per capire l’insuccesso del centrodestra, da analizzare nei prossimi giorni assieme ai voti assoluti dei partiti e dal confronto coi consensi personali di Damilano. Dietro il balzo finale di Lo Russo, invece, c’è probabilmente il controllo da parte del Pd, l’unico partito con ancora una qualche organizzazione territoriale, del proprio elettorato nelle realtà dove è più forte, a cominciare dai quartieri del centro. Gli unici che hanno superato di un soffio il 50 per cento della partecipazione.

Che accadrà adesso al ballottaggio? Il risultato di ieri indica un nuovo favorito che però, forse, potrebbe aver già incassato il pieno dei consensi: Lo Russo. Dalla sua, può raccogliere un po’ dei voti dello storico Angelo d’Orsi (2,5%), candidato della sinistra radicale, e poi chiamare la città alla battaglia finale contro le destre.

Il centrodestra, invece, tenterà l’impossibile scuotendo le periferie e imponendo magari a Damilano una torsione rispetto ai suoi slogan e alla sua immagine: non più “un civico liberale e moderato”, anche un po’ “democristiano”, ma invece sfidante vero per conto di Lega e Fratelli d’Italia.

Poi resterà da capire cosa faranno Appendino e Giuseppe Conte: endorsement per Lo Russo o libertà di voto? Un sentiero disseminato di inciampi, con l’avversione dei Cinquestelle più ortodossi per il candidato Pd: colui che ha denunciato Appendino per falso in bilancio e firmato un “preambolo” che esclude rapporti con chi “ha guidato male la città”.

In questa situazione non è facile capire dove andrà il voto Cinquestelle: tra un altro possibile strappo verso l’astensionismo, la rabbia anti-Lo Russo, una spalmatura ecumenica di consensi. Ieri sera, le dichiarazioni dei tre candidati apparivano come da copione. Lo Russo. “Batteremo le destre: ma no ad apparentamenti col M5S”, Damilano: “Non chiederemo alleanze a nessuno, solo ai cittadini”, Sganga: “Nessuna indicazione, ma saremo determinanti”. Dopo di loro, ha parlato per ultima la sindaca: “Lo Russo anche oggi ha rifiutato intese con noi, i voti dei cittadini non sono pacchi postali”. All’apparenza, quasi le parole di un verdetto: anche se bisognerà attendere i giochi romani su Gualtieri e in particolare gli schemi di Conte.

A Bologna stravince l’“Ulivetto” di Lepore, la Lega si è dissolta

Diluvia a Bologna nel lunedì che chiude il ponte di San Petronio, patrono cittadino. Diluvia sul centrodestra locale, con un risultato scontato nei pronostici della vigilia, ma ancora più largo di quanto si prevedeva: il nuovo sindaco è Matteo Lepore del Pd, ex assessore della giunta di Virginio Merola, eletto al primo turno con una percentuale poco meno che plebiscitaria, attorno al 62%. Stefano Battistini, l’imprenditore scelto da Matteo Salvini e Giorgia Meloni per tentare un’impresa improbabile, è più che doppiato: si ferma al 30%. Un risultato inquietante per le destre locali: solo un anno e mezzo fa Salvini si aggirava come uno spettro in campagna elettorale su e giù per la provincia bolognese, con la minaccia di regalare a Lucia Borgonzoni l’Emilia-Romagna. Non ci riuscì e da quella stagione sembra passata un’era geologica. Erano elezioni diverse – le Regionali del 2020 – ma il dato resta impressionante: la Lega bolognese valeva il 21,8%, ora si deve accontentare di un mefitico 8%.

Stravince Lepore dunque, e con lui la coalizione “più larga d’Italia”. Dentro c’erano un po’ tutti: il Pd nettamente egemone; il Movimento 5 Stelle guidato dal grillino della prima ora Massimo Bugani; le varie anime della sinistra emiliana riunite nella lista Coalizione Civica (Mdp-Articolo 1 di Vasco Errani, Coraggiosa di Elly Schlein, Emily Clancy); i renziani che a Bologna hanno battezzato la sindaca di San Lazzaro di Savena, Isabella Conti; Europa verde e pure il Partito socialista italiano.

È un trionfo per il “laboratorio” giallorosso che ha ambizioni nazionali, su cui hanno investito il Pd di Enrico Letta e soprattutto il nuovo Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. C’è chi si affretta a definirlo addirittura un “Nuovo Ulivo”, come ha detto il segretario provinciale del Pd bolognese, Luigi Tosiani. Ma a guardare i voti di lista, la narrazione giallorossa perde un po’ di consistenza: il risultato del M5S è molto deludente rispetto alle aspettative. Il 3,5% varrà un solo seggio in consiglio comunale (e sarà probabilmente il terzo mandato di Bugani). L’alleanza col Pd è cruciale per il futuro nazionale del Movimento, ma a Bologna i grillini sono stati cannibalizzati dal Pd (vicino al 37%). “Abbiamo fatto una scelta generosa ma non sono pentito – dice Bugani al Fatto mentre lo spoglio comincia ad assumere una forma chiara –. Il grande Movimento di massa di tre anni fa non esiste più, lo sapevamo da tempo. Ora siamo entrati in una fase nuova e dobbiamo ripartire da zero. La strada è quella tracciata da Conte”.

Nell’“Ulivetto” felsineo in verità prende più voti la Conti dei contiani. Nel senso di Isabella, la sindaca di San Lazzaro che aveva sfidato Lepore nelle primarie, l’unica vera competizione di questa tornata amministrativa bolognese. La sua lista si avvicina al 6% e vince il “derby” interno con i Cinque Stelle. Buono, ma non eccellente, il risultato della sinistra di Coalizione civica, che si arrampica sopra al 7% ma si aspettava un risultato in doppia cifra.

La grande giornata del Pd bolognese e di Matteo Lepore si chiude con una festa di fronte a Palazzo d’Accursio, la sede del comune. Il neo sindaco ha 41 anni e una carriera già importante nel partito. Dopo due consiliature da assessore (dal 2011 al 2016 ha avuto le deleghe, tra le altre, di Economia e Turismo, dal 2017 di Cultura e Sport), ha raccolto l’eredità di Virginio Merola. Ha avuto il merito di tenere insieme l’intero spettro del centrosinistra bolognese: come dice lui, la “coalizione politica più larga d’Italia”.

Nel pomeriggio, mentre prende forma una vittoria schiacciante , Lepore partecipa insieme al sindaco uscente alla messa di San Petronio, nella basilica del patrono della città. Arriva al comitato elettorale della Bolognina alle 19 per le dichiarazioni, prima della festa: “Siamo ufficialmente la città più progressista d’Italia”. Non si nasconde e proietta il suo successo sullo scenario politico nazionale: “Dai sindaci progressisti di Bologna, Milano e Napoli – ma dopo i ballottaggi credo anche di Torino e Roma – partirà la riscossa nazionale. Ha vinto un’idea di coalizione di centrosinistra, bisogna costruire un fronte largo in vista delle Politiche. Spero che i Cinque Stelle scelgano da che parte stare e lavorino con noi anche nel resto del Paese”.

L’unico numero modesto è quello dell’affluenza, che si ferma al 51,2%: è il dato più basso nella storia delle elezioni comunali bolognesi, anche se è il più alto tra le grandi città al voto in questi giorni. Dalla prima e superficiale analisi dei numeri, a restare a casa sono stati soprattutto gli elettori di centrodestra.

Astensione e destra regalano il bis a Sala

Giuseppe Sala vince al primo turno per mancanza di avversario. Ha raccolto il 57 per cento dei consensi, contro il 33 raggranellato del candidato di centrodestra, Luca Bernardo. Ma l’affluenza alle urne è la più bassa di sempre a Milano (47,7 per cento, meno della metà dei cittadini con diritto di voto) e soltanto quando avremo i risultati definitivi sapremo se Sala ha preso almeno il numero di voti raccolti nel 2016 (erano 224 mila) o se stavolta ha vinto addirittura con meno consensi di allora.

Gli elettori di centrodestra sono rimasti a casa oppure hanno votato per Sala, dichiara il vincitore, soddisfatto di aver convinto anche i milanesi moderati. Degli altri dodici candidati sindaco, entreranno in Consiglio comunale soltanto Gianluigi Paragone (2,7 per cento) e la 5 Stelle Layla Pavone (2,7 contro il 10,1 portato a casa dal Movimento nel 2016).

Il Pd ha avuto un ottimo risultato, il 33,4 per cento, che si aggiunge al 9 della Lista Sala, al 5 di Europa verde e al 3,8 dei Riformisti. Ma con la vittoria al primo turno e l’affermazione della sua lista personale, Sala avrà mano libera per formare la nuova giunta (“entro una settimana”, promette) decidendo chi confermare assessore e chi cacciare. E non avrà più bisogno di apparentarsi con altre liste (come i 5 Stelle a cui aveva promesso un assessorato).

Ben diverso è l’umore al comitato elettorale di Bernardo. Fino a tarda sera non si vede nessuno, perché nessuno vuole mettere la faccia su una sconfitta prevedibile, ma non certo con questi margini. E così nel pomeriggio arriva soltanto Maurizio Lupi, mentre Bernardo improvvisa una conferenza alle 8 di sera. Per dare l’idea dell’umore nel centrodestra, Bernardo ammette candidamente che a cinque ore dalla chiusura delle liste non ha “ancora sentito Salvini e Meloni”. Il pediatra, più volte delegittimato dalla sua stessa coalizione, prova a minimizzare la disfatta: “L’unico vincitore è l’astensionismo. Io resterò in Consiglio comunale, abbiamo lasciato un seme che può crescere”. E nell’analisi della sconfitta è priva di autocritica, se si pensa che per tre volte Bernardo se la prende coi tempi stretti della campagna elettorale: “Ad agosto Milano era vuota, abbiamo avuto 15 giorni per farci conoscere. Non voglio parlare di miracoli perché sono credente, ma sfido chiunque a fare di meglio”. Sarà. La realtà è che Lega e Fratelli d’Italia, principali azionisti della coalizione, hanno occhi solo per il risultato della propria lista. Da settimane Salvini aveva l’incubo del sorpasso da parte di Meloni, circostanza che i dati raccolti fino a sera sembrano scongiurare d’un soffio: 10,9 per cento la Lega, quasi 10 per cento per FdI. Con una curiosità: Chiara Valcepina, la candidata al centro dell’inchiesta di Fanpage sui presunti fondi neri a FdI, dovrebbe riuscire a entrare in Consiglio.

Manfredi prende il triplo di Maresca. I giallorosa volano

L’ingegnere ha stravinto e l’avvocato del popolo brinda. Napoli fa risorgere il Pd che cinque come pure dieci anni fa nemmeno arrivò al ballottaggio, ed è una idrolitina effervescente per i Cinquestelle new version, quella della modalità istituzionale ed educata, guidata dalla cravatta di Giuseppe Conte. Merito di Gaetano Manfredi, 56 anni, dal carattere sufficientemente distante dall’anima partenopea. Ex rettore della Federico II ed ex ministro dell’Università nel governo giallorosso, piuttosto taciturno, concretista, persino juventino, ha sfondato oltre l’immaginabile nella città della capolista del campionato. Cavalca infatti un’onda alta che, quando lo scrutinio è ancora aperto, lo conduce alla vetta del sessanta per cento dei suffragi rendendo i suoi avversari poco più che sparring partners. “La verità è che sono entrato nel cuore della gente”, ha detto, e con ragione.

Dunque merito suo? O anche merito di Letta che l’ha incoronato? O piuttosto merito di Conte che l’ha proposto e scelto proprio Napoli per seminare le radici di un’alleanza di centrosinistra duratura e vincente? Sicuramente merito loro, ma un po’ anche del centrodestra che ha scelto di affidarsi a Catello Maresca, magistrato anticamorra, intrigato dalla politica ma estraneo ad essa. Era “il candidato giusto” secondo Matteo Salvini. Il leader della Lega sotto al Vesuvio non si è visto e per la verità i napoletani hanno perso d’occhio anche il suo partito sparito, per via dei rappresentati locali pasticcioni, dalle schede elettorali.

Senza Salvini, ripudiato da Giorgia Meloni (anche Fratelli d’Italia è stata esclusa da sette delle dieci municipalità), lontano da Silvio Berlusconi, il dottor Maresca ha fatto quel che ha potuto: alla fine della conta quasi niente. Poco più del venti per cento, una carezza appena, un soffio che ha ringalluzzito ancora di più Manfredi e le sue tredici liste. L’ingegnere infatti s’è dimostrato abile acchiappavoti, allungando le mani su un esercito di circa duemila candidati, allineando la sinistra pura, compressa dentro una sola lista (Napoli solidale) e la vedovanza berlusconiana, gli ex di Forza Italia, i tanti fuoriusciti (infatti con lui la lista Azzurro Napoli). L’arco dei supporters è stato così ampio e totale che nemmeno la presenza di Antonio Bassolino, l’ex sindaco che ha voluto gustare di nuovo il sapore della sfida (“in fondo ho quattro anni meno di Biden”, ha spiegato), ha prodotto smottamenti.

Anzi! Bassolino, uomo di sinistra, il suo nove o dieci per cento l’ha conquistato svuotando ancora di più l’armeria di Maresca già saccheggiata dall’ex ministro. E Manfredi, soprattutto nelle ultime settimane, ha veleggiato tranquillo e senza patemi. A Napoli per cinque volte è venuto Conte promuovendo tour tra vicoli e piazzette sempre apprezzati dall’elettorato femminile, devoto alla causa dell’ex premier. “È un grande risultato, Napoli è il nuovo laboratorio” ha detto, per contrapporlo al risultato nazionale “ancora non in linea con le nostre ambizioni”.

La Napoli a cinquestelle, quella di Roberto Fico, uno dei tre garanti del nuovo movimento ma soprattutto patrono pentastellato in città, ha garantito un supporto omogeneo e condiviso. Fico, anche Di Maio e gli altri leaders hanno visto Napoli come il sol dell’avvenire.

“Da qui dobbiamo ripartire”, ha detto ieri Manfredi, sempre misurato nei toni. Per ripartire però serviranno soldi, tanti soldi. Napoli infatti è la città tra le più indebitate d’Italia (il totale storico la conduce alla vetta dei quattro miliardi di euro) e dunque svuotata da ogni capacità di spesa. “Senza un intervento del governo è impossibile garantire l’amministrazione della città”, ha detto l’ingegnere mettendo in fila i numeri. Da Draghi deve arrivare almeno un miliardo di euro. “Almeno”, dice lui senza neanche farsi il segno della croce.

Virginia non compie il miracolo. Sarà Gualtieri a sfidare Michetti

Roma torna agli anni 2000. Basta scommesse, basta sindaci “marziani”. Almeno stando alle proiezioni elaborate fino alla serata di ieri. Saranno con molta probabilità i profili rassicuranti di Enrico Michetti e Roberto Gualtieri a sfidarsi il 17 e 18 ottobre al ballottaggio per il Campidoglio. Centrodestra contro centrosinistra, come ai vecchi tempi. I romani sceglieranno fra un candidato civico, Michetti, scelto da Fratelli d’Italia, sostenuto e ben integrato nel centrodestra, e un uomo di apparato, come l’ex ministro dell’Economia Gualtieri, una vita politica dalla Federazione Giovani Comunisti degli anni 80 fino all’attuale Partito democratico. Le proiezioni indicano il primo intorno a un atteso 30,8%, il secondo si ferma al 28,2%. Dati che sembrano confermati anche dal novero delle primissime sezioni scrutinate (appena il 10% alle ore 20). “Roma può rinascere, avere un ruolo di punta tra le grandi Capitali europee e può guidare una stagione di rilancio del Paese”, ha commentato in serata Gualtieri. “Per governare la macchina amministrativa serve una laurea di 20 anni, non di 5 anni. Per questo sono il candidato sindaco del centrodestra”, ha replicato Michetti.

Niente bis invece per Virginia Raggi. Stando ai dati parziali, la sindaca uscente non centra l’approdo al confronto finale, ottenendo – stando alle proiezioni aggiornate alla serata di ieri – un punteggio vicino al 20% dei votanti, che a loro volta sono stati appena il 48,83%. In cinque anni, in pratica, Raggi dovrebbe aver dissipato un terzo dei consensi, circa 150.000 voti sui 450.856 ottenuti al primo turno del 2016. Complice il forte astensionismo nelle periferie romane (al VI Municipio Tor Bella Monaca, alle urne appena il 42% degli aventi diritto). Un dato comunque superiore alle attese di molti commentatori e alcuni sondaggi che, anche alla vigilia delle elezioni, la davano addirittura al quarto posto dietro l’outsider di lusso Carlo Calenda. Quest’ultimo, se le proiezioni saranno confermate, è al momento la sorpresa delle elezioni capitoline, dato al 18% con una sola lista (e pochi big) a supporto.

E proprio il tesoretto di Calenda, ancor più di quello di Raggi, adesso fa gola ai due candidati. Con il diretto interessato che non si sottrae. L’ex ministro dei governi Renzi e Gentiloni prima dice “non farò accordi o apparentamenti, né darò indicazioni di voto”, poi annuncia: “Mi consulterò coi miei e, nel caso, esprimerò una preferenza del tutto personale e senza alcuna contropartita”. Ieri in diretta su La7, Calenda ha anche ricevuto il corteggiamento neanche troppo velato di Vittorio Sgarbi, potenziale assessore alla Cultura se dovesse vincere Michetti: “È lui il vincitore morale, lui ha l’unica lista civica vera”.

La giornata di oggi sarà fondamentale per capire la forza dei partiti. Da quello che emerge, Michetti e Gualtieri sono andati al di sotto della somma delle liste che li sostengono, mentre Raggi e Calenda hanno fatto meglio. Addirittura, la sindaca uscente, con il suo 19,1%, potrebbe aver quasi doppiato il M5S, indicato all’11,5%. “Sono l’unica che sta tenendo testa alle corazzate centrodestra e centrosinistra”, ha dichiarato Raggi in un breve flash dal suo comitato elettorale. Non solo. Al momento, il primo partito risulta essere Fratelli d’Italia, dato intorno al 17,5%, cui seguirebbe a sorpresa la Lista Calenda al 17,4% e il Pd al 16,6%. Malissimo la Lega guidata nel Lazio da Claudio Durigon, ferma al 5,9%, e Forza Italia, sotto il 4%. Per fare un termine di paragone, basti pensare che nel 2016 il Pd post inchiesta “Mondo di Mezzo” e post sfiducia a Marino ottenne il 17,2%, mentre il M5S arrivò ad attestarsi al 35,3% e Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni candidata si fermò al 12,8%.

Giorgia sfonda e sfida il Pd: “Votiamo Draghi al Colle e poi elezioni”

La sconfitta nel centrodestra è cocente, ma dalle parti di Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi la débâcle brucia un po’ meno. Da una parte perché Enrico Michetti, a Roma, è stato il più votato e, come dice Fabio Rampelli, “la partita ora è aperta”. Dall’altra, invece, è il partito berlusconiano a gioire per la vittoria di Roberto Occhiuto in Calabria, dove FI conquista la palma di primo partito (oltre il 18%).

Nel centrodestra, durante la giornata, parla solo Matteo Salvini, facendo autocritica (“abbiamo scelto i candidati troppo tardi”, dice). Giorgia Meloni fino all’ultimo si fa attendere, segno di un certo nervosismo. L’inchiesta di Fanpage su Carlo Fidanza e il suo entourage milanese, che la leader ha definito “una trappola a orologeria a due giorni dal voto”, non è ancora stata digerita e non ha aiutato. Ma alla fine l’ex ministra compare, verso le 8 di sera. E il primo dato che sottolinea in negativo è l’affluenza (54,69% quella definitiva, ndr), “segno che siamo di fronte a una vera crisi della democrazia”. Ma conseguenza anche della “profonda distanza tra il Palazzo e gli elettori, perché ormai molti italiani pensano che votare sia inutile”. Poi entra nel dettaglio dei risultati, esultando per “la buona notizia della scomparsa del M5S”, pur riconoscendo l’onore delle armi a Virginia Raggi “che a Roma si è battuta bene”. Non si spiega, invece, tutto questo entusiasmo a sinistra. “Noi perdiamo in tre grandi città e in altre tre siamo al ballottaggio. Voglio sottolineare il grande risultato di Michetti che, da professionista sconosciuto ai più, è riuscito a piazzarsi primo e ora vedremo…”, spiega Meloni. E le sue parole suonano come una rivincita verso Salvini, la cui scelta su Milano, Luca Bernardo, è stato asfaltato da Beppe Sala. Infine, lancia un amo a Enrico Letta: “Eleggiamo insieme Draghi al Quirinale e poi andiamo alle urne”. “Siamo soddisfatti perché siamo il primo partito della coalizione. Ovunque aumentiamo molto i consensi rispetto alle scorse Amministrative ed Europee”, aggiunge soddisfatto Ignazio La Russa. Che va orgoglioso di vittorie al primo turno in due realtà diverse tra loro come Latina e Busto Arsizio, mentre qualche rammarico ce l’ha sul nord, “dove potevamo crescere di più, ma siamo stati penalizzati dall’affluenza”.

I numeri, però, sopra il Po non sono da poco. Se il sorpasso sulla Lega a Milano è fallito, FdI è sopra il Carroccio a Torino (oltre il 10%) e a Trieste (sopra il 12). Dal partito berlusconiano, invece, si esulta per vittoria di Occhiuto, che all’inizio gli alleati non volevano, specialmente Salvini. “Berlusconi ha indovinato il candidato, tutto merito suo”, dice Tajani. Poi si rimarca come il centrodestra vince “se è a trazione moderata ed europeista”. Mentre Maurizio Lupi, che voleva candidarsi a Milano, ammette: “Nelle grandi città abbiamo preso una scoppola…”.

Salvini barricato e solo: “Siamo arrivati tardi”

Alle 5 del pomeriggio, quando i risultati sono ormai consolidati e la débâcle del centrodestra nelle grandi città è davanti agli occhi di tutti, Matteo Salvini si presenta al Tg1 collegato dal primo piano di via Bellerio con una parete alle spalle che è tutto un programma: “Chi sbaglia paga”. Sarebbe lo slogan dei referendum sulla giustizia della Lega, ma nel giorno della batosta elettorale quella frase assume tutto un altro significato. Il centrodestra a trazione salviniana ha perso ovunque e il segretario è assediato dagli avversari interni al partito e dentro la coalizione. I due candidati al ballottaggio – Michetti a Roma e Damilano a Torino – non sono stati scelti da lui e rischiano grosso. A Milano il suo Bernardo viene doppiato da Beppe Sala. E nel voto di lista, Fratelli d’Italia sorpassa la Lega a Roma (18 a 6%), Bologna (12 a 7%), Torino (10,7 a 10,2%), Trieste (16 a 11%) ed è a un’incollatura sotto a Milano (11 a 10%).

In Calabria, dove vince il forzista Roberto Occhiuto, il Carroccio arriva addirittura terzo con l’8%, superato da FdI (9%) e Forza Italia (18%). Quella della Lega è una sconfitta che va oltre ogni immaginazione considerando che alle Europee del 2019 in tutte queste città aveva ampiamente superato il 20% . E così il segretario, a metà pomeriggio, è costretto a rilasciare una breve dichiarazione in cui fa autocritica per la bassa affluenza, ma poi ammette solo in parte le proprie responsabilità sulla sconfitta: “In alcune città siamo arrivati a scegliere troppo tardi i candidati da opporre al centrosinistra”. Per tutto il pomeriggio il leader della Lega si barrica nel suo ufficio con i suoi collaboratori per analizzare i voti di lista, città per città. È solo: tra i parlamentari si vede solo Roberto Calderoli che qui è di casa. Nessun altro. E ogni dato che arriva dalle grandi città è un colpo alla sua già fragile leadership. Salvini si rallegra solo per i risultati dei Comuni minori: “Abbiamo vinto a Bernarda e Muggia” dice senza temere di cadere nel ridicolo. All’ora di cena, dopo che Meloni da Roma ha rivendicato la leadership del centrodestra, Salvini si presenta davanti ai cronisti senza prendere domande. Non riesce ancora ad ammettere la sconfitta: “Abbiamo 50 Comuni in più” dice.

Evita di parlare delle grandi città: esulta per le vittorie di Novara, Grosseto, Pordenone, Latina e per il ballottaggio a Varese.Se a casa Durigon Vincenzo Zaccheo ha un vantaggio di venti punti su Damiano Coletta (52-32%), nel feudo leghista, il sindaco uscente del centrosinistra Davide Galimberti sfiora il primo turno contro il giorgettiano Matteo Bianchi (48-44%). In serata Salvini telefona a Meloni e Berlusconi per invitarli a scegliere presto i candidati delle Comunali del 2023. La prima reazione alla sconfitta però è chiara: bombardare il governo. “Chiediamo più incisività su tasse e sicurezza”, dice Salvini. Ostenta unità (“la Lega è compatta”) ma Zaia e Giorgetti sono già pronti a chiedergli il conto. Il ministro ieri pomeriggio ha incontrato a Roma il governatore della Sassonia della Cdu, Michael Kretschmer. Era molto lontano da via Bellerio.

Letta vince e avvisa l’avvocato: “Siamo più forti dei 5Stelle”

“Non mi devo montare la testa”. In un salone del- l’Hotel Garden di Siena, da dove aspetta i risultati, Enrico Letta è da solo prima delle dichiarazioni ufficiali. Diventa rosso mentre afferma che sì, il Pd ha vinto le elezioni. Quasi si schernisce: “Devo prima telefonare a tutti i candidati sindaci”. Prima di apparire davanti alle telecamere, prima di decidere come capitalizzare la vittoria. Ci metterà tutto il pomeriggio per chiarire: Conte è ancora un punto fortissimo di riferimento? “Era un’altra fase. Con Conte il rapporto è ottimo, continueremo a lavorare, ma sulla nostra coalizione bisognerà fare un discorso allargato”.

Il non-leader per antonomasia è il vero vincitore della tornata elettorale più importante di questa fase. Vince la sua sfida personale (le Suppletive nel collegio di Siena e di Arezzo) con il 49,92% (33.391 voti) superando di quasi 12 punti il candidato del centrodestra Tommaso Marrochesi Marzi. A Milano e Bologna vincono candidati dem, a Napoli il candidato sostenuto dal Pd. E a Roma e Torino i dem vanno al ballottaggio. Andrea Casu conquista il seggio di Primavalle. Resta la sconfitta in Calabria, frutto (anche) di un pasticcio reiterato nella scelta del candidato.

Alle 18 e 20 Letta appare sul podio con Siena sullo sfondo. Racconta di un Pd che vince quando va “oltre” se stesso, fa sapere che non ci saranno apparentamenti ufficiali ai ballottaggi, ma vuole i voti di tutti i candidati: nella Capitale Roberto Gualtieri è il favorito e non a caso tra Virginia Raggi e Carlo Calenda il segretario non fa scelte. È il Pd il perno dell’Ulivo 2.0 in costruzione. Letta insiste su un Draghi da ora più forte, ma parla di un “dopo Draghi”, nel 2023. Quando ricorda che i risultati 5 anni fa furono decisamente meno buoni di questi, si sente l’eco di una rivincita personale nei confronti dell’allora segretario, Renzi. Assicura che dalla sua posizione vigilerà sul futuro di Mps. È un fatto che dopo l’inizio in cui l’acquisto della banca da parte di Unicredit con un accordo dai confini piuttosto incerti sembrava un macigno sulla campagna, è sceso il silenzio sul tema e il dossier è apparso congelato. Esibisce una certa emozione Letta quando racconta che “questa è stata la più bella campagna della mia vita, tutta sul territorio”. Di più: “La giornata di oggi completa la mia formazione politica”. In due mesi, il segretario ha fatto 10mila chilometri, sostanzialmente da solo (con la sua portavoce ombra, Monica Nardi e con Michele Bellini, il giovane che si è portato dietro da Parigi). Solo era anche ieri, con tutto il Pd nazionale riunito al Nazareno. Nomina solo il suo predecessore, Nicola Zingaretti. Le polemiche sul futuro dei dem le liquida con un mezzo sorriso: “Credo che sia meglio vincere”. Difficile, ora, pensare che ci sarà un congresso. Uno dopo l’altro, arrivano gli amministratori locali: Eugenio Giani, presidente della Toscana, Dario Nardella, sindaco di Firenze, Simona Bonafè, segretaria regionale. Fonti di Iv millantano una centralità che non c’è mai stata.

Fino all’ultimo si respira un’atmosfera sospesa, con i primi dati che non sono chiari e le proiezioni Swg che prefigurano un testa a testa Gualtieri-Raggi. “La politica è sempre meno rappresentativa. In fondo questo è un voto di inerzia”, commenta qualcuno in controtendenza mentre la vittoria già si profila nettissima. Ma anche l’astensione: l’affluenza qui è al 35,59%. Letta quanto utilizzerà davvero la vittoria? “Potrei dire andiamo al voto, ma penso più all’interesse del Paese”, chiarisce prima di scendere in piazza del Campo a festeggiare. “In serena attesa” era stato descritto a urne appena chiuse. “Sereno” riacquista il suo significato.

Conte si intesta Bologna e Napoli. E su Roma: “Mai con la destra”

A Napoli è un trionfo con il contiano Manfredi, altrove è tutto il contrario, con Virginia Raggi che saluta dignitosamente e il M5S che nel voto di lista nelle città va male o malissimo. Mescolare il tutto, ed ecco il presidente Giuseppe Conte, che un po’ è realista e un po’ si giustifica: “C’è tanta domanda di politica, abbiamo cercato di intercettarla, però siamo partiti molto tardi”. Chissà se è un riferimento a quel Beppe Grillo con cui in estate era stata guerra totale, tale da bloccare l’avvocato per settimane e da spingerlo sull’orlo della scissione, di un suo partito.

Diversi mesi dopo, a urne delle Amministrative ancora aperte, proprio Grillo twitta una sua foto quasi iconica con Gianroberto Casaleggio. A corredo, parole pragmatiche per celebrare il 12° compleanno del Movimento: “Dodici anni fa abbiamo fatto l’impossibile, ora dobbiamo fare il necessario”. Ovvero, dal sogno si è passati alla realtà, dal no a qualsiasi alleanza si è passati al Conte che di lunedì pomeriggio ribadisce la rotta: “Le proiezioni confermano l’enorme potenzialità del nuovo corso e la prospettiva politica seria di lavorare assieme alle forze progressiste. I dati di Napoli e Bologna sono politicamente molto importanti”.

Tradotto, il M5S deve insistere sulla strada del centrosinistra. Per questo l’ex premier in serata corre a Napoli, per celebrare la vittoria dell’unico candidato sicuramente suo, lasciandosi dietro una risposta che conferma il gelo irrimediabile con Grillo: “E che sono, l’interprete dei suoi post?”. Però i numeri nelle urne in giro per l’Italia sono poca, pochissima roba; il 9 per cento nella Torino dove governava Chiara Appendino, un tragico 2,88 a Milano, un altrettanto mortifero 3 e qualcosa a Bologna, addirittura il 2 a Varese. “Nel Nord non esistiamo, se andiamo con il Pd la gente vota il Pd”, ringhia un parlamentare di peso. “Siamo all’inizio di un nuovo corso, questo è un progetto a medio e lungo termine, e poi noi siam poco radicati nei territori” prova a spiegare Conte. Di più non si poteva fare, è la tesi. E ora bisogna essere pragmatici, quindi ecco la linea per il secondo turno: “I cittadini non possono essere considerati pacchi postali, ma la nostra proposta politica non può avere affinità con le forze politiche di destra”.

Ergo, Conte parlerà a favore di alcuni candidati di centrosinistra. Ai piani alti del Movimento danno per scontato “un segnale” dell’ex premier a Roma per Gualtieri, “che è pur sempre un suo ex ministro”. Mentre per il dem Lo Russo non dirà nulla, non per l’uomo che presentò un esposto contro la sindaca uscente Chiara Appendino, probabilissima vicepresidente nella segreteria del M5S. Oggi sarà in Sardegna, Conte, per sostenere i candidati del centrosinistra a Carbonia e a Olbia. Mentre venerdì parteciperà in collegamento a un evento a Roma, il Forum Compraverde, e chissà se potrà essere l’occasione per quel segnale a Gualtieri. Ma dovrà essere attento alle sfumature, l’avvocato, perché non bisogna irritare Raggi. La 5Stelle che “non sparirà, perché è nel comitato dei Garanti con Di Maio e Fico” come aveva ricordato sempre lui, Grillo, nella telefonata al comizio conclusivo della sindaca uscente. Reattiva, ancora. Le prime parole pronunciate ieri sera al suo comitato da Raggi – “sono l’unica che sta tenendo testa alle corazzate del centrosinistra e del centrodestra” – suonavano già come un possibile muro a Gualtieri e al Pd (tanto che Roberta Lombardi le ha subito risposto: “La politica non è un risiko, bisogna confrontarsi”).

Ma sono state anche un modo per rivendicare i numeri del M5S a Roma, decisamente i migliori a livello nazionale assieme a quelli di Napoli. Perché nella Capitale i 5Stelle ieri sera veleggiavano sopra l’11 per cento, dato molto simile a quello del capoluogo campano. Il resto è un bel problema. E in serata il segreterio dem Enrico Letta fa capire che certe cifre in politica fanno la differenza: “Conte fortissimo punto di riferimento? Quella era un’altra fase”. Quando i voti ce li avevano soprattutto i grillini.