Non vota la periferia, a Milano e Bologna si astiene il centro

La cosa certa è che un italiano su due dei circa 13 milioni interessati alle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre non si è presentato alle urne.

Le cinque città più grandi attese al voto hanno fatto registrare i loro record negativi: Roma, Milano, Napoli, Torino sotto il 50% di affluenza, Bologna poco sopra). Le Regionali in Calabria hanno confermato il pessimo dato del gennaio 2020: 44%. Bassa al solito pure la partecipazione alle suppletive per due seggi alla Camera (Roma Primavalle e Siena). Sotto il 50% pure l’affluenza in Friuli-Venezia Giulia, i cui dati elettorali non sono compresi nella piattaforma del Viminale. Restando ai dati del ministero, si scopre che i votanti si sono fermati al 54,69%, il dato più basso di sempre e sette punti in meno rispetto al 2016: in teste fa 800-900mila astenuti in più, circa la metà dei quali nelle città maggiori (che contavano il 40% degli aventi diritto).

Fin qui il dato è univoco, come pure la constatazione che questa diserzione di massa dalle urne ha finito per premiare il centrosinistra: basti dire che in termini assoluti Beppe Sala a Milano dovrebbe aver preso più o meno gli stessi voti di cinque anni fa, ma stavolta sufficienti per una vittoria al primo turno. Il resto, seppur l’alta astensione è un fenomeno nazionale, andrà interpretato coi dati consolidati e all’interno dei singoli contesti: a Trieste, per dire, i votanti sono crollati al 46,2%, ma a Caserta s’è presentato ai seggi il 70% degli aventi diritto e nei 54 Comuni pugliesi al voto il 63,2% in media.

Insomma, chi sono questi astenuti? In parte è vero, come detto fin da domenica, che si tratta dei residenti delle periferie urbane che cinque anni fa e nel 2018 fecero la fortuna dei 5 Stelle e poi gonfiarono le urne e i sondaggi della destra. Solo che non dovunque è così o almeno non è un fenomeno “geograficamente” così ovvio. A Milano il quartiere che in percentuale ha votato meno (44,5 contro una media del 47,7%) è il Municipio 1, il centro storico, un feudo del Pd nell’ultimo decennio e in cui anche ieri Sala ha stravinto. Anche a Bologna, che ha la diminuzione di votanti più consistente rispetto al 2016, si assiste a una dinamica simile: l’affluenza più bassa si registra nel quartiere centrale Santo Stefano, quella più alta a Borgo Panigale-Reno, periferia occidentale della città. E anche a Bologna, come a Milano, i voti spariti rispetto a 5 anni fa sono quelli della destra e del M5S, che nel capoluogo emiliano s’è presentato a sostegno del dem Lepore raccogliendo percentuali da Italia Viva.

È a Roma, Torino e Napoli invece che il dato della partecipazione e quello geografico-sociale viaggiano di pari passo. A Roma, ad esempio, l’affluenza totale s’è attestata al 49% circa: il Municipio II (da San Lorenzo ai Parioli) è però quello col dato più alto, il 56,67% degli aventi diritto, mentre la maglia nera va al Municipio VI, periferia che comprende anche Tor Bella Monaca (42,85%); sotto la media cittadina votano pure Ostia, Portuense, Magliana, Primavalle e altre periferie.

A Torino, invece, il M5S stavolta non ha raggiunto nemmeno la doppia cifra, ma la situazione è assai simile a quella della capitale, ivi compreso il dato generale dell’affluenza (48%): analizzando però il dato per circoscrizioni si scopre che la numero 1 (Centro e Crocetta) porta al voto il 51,5% degli aventi diritto, la 5 e la 6 (periferia Nord) rispettivamente il 43,4 e il 42,9% (e in entrambe il candidato del centrodestra batte largamente quello del Pd). Anche Napoli, in cui ha votato il 47,1% degli aventi diritto, segue fedelmente questo copione: la “ricca” Municipalità 5 del Vomero e dell’Arenella porta ai seggi il 54,5% dei residenti, la 7 di Miano e Secondigliano, appena il 42,6%.

Sono tre città, queste ultime, che escono da sindacature “extra-sistema” e che sicuramente stanno subendo la crisi da Covid più di Milano e Bologna: fu il voto delle periferie nel 2016 a eleggere Virginia Raggi e Chiara Appendino e a confermare Luigi De Magistris; è la loro diserzione elettorale che chiude quella stagione.

Primo partito l’astensionismo. Giallorosa su, disastro a destra

Il centrodestra resta con le gomme a terra nelle grandi città e prende solo la Regione Calabria, i giallorosa vincono due elezioni al primo turno (Napoli e Bologna), il Pd porta a casa anche Milano senza aspettare il ballottaggio, mentre i 5 Stelle incassano la sconfitta nella Roma di Virginia Raggi. Va quasi tutto come previsto, nelle elezioni comunali in cui non ha votato nemmeno la metà degli elettori: esclusa Bologna, nelle grandi città l’affluenza è clamorosamente tutta sotto al 50 per cento. Per cui si fa prima a dire le cose che non sono successe, almeno stando alle previsioni dei partiti e delle “bolle social”, come il boom di Carlo Calenda a Roma o la vittoria al primo turno di Damilano e della Lega a Torino.

È proprio lui, Matteo Salvini, il primo a parlare, subito dopo le 17. C’è poco da attendere per fare autocritica: “Ci siamo presentati troppo tardi”, dice. Evoca la grancassa sul caso Morisi che li avrebbe danneggiati, ma rivendica di aver sostituito i 5 Stelle ai ballottaggi di Roma e Torino, rispetto a 5 anni fa. Un’ora più tardi è il dem Enrico Letta a suonargli il requiem: “Senza il federatore Berlusconi, il centrodestra non esiste più”, dice, mentre festeggia il centrosinistra che “si è rimesso in sintonia con il Paese” e vince “allargando la coalizione”. A Montecitorio intanto sta parlando anche Giuseppe Conte, sulla stessa lunghezza d’onda: “Questo è il tempo della semina per il M5S”, quella del “nuovo corso” che ha “la prospettiva seria di lavorare con le forze progressiste”. Al punto, aggiungerà poi, da “non poter avere alcuna affinità con le forze politiche di destra”. Una indicazione che vale soprattutto per Roma, dove alla fine al ballottaggio con il candidato di Meloni e Salvini, Enrico Michetti, va l’ex ministro dem Roberto Gualtieri. La sindaca uscente, la 5Stelle Virginia Raggi, non arriva al ballottaggio, segnando un primato negativo: nelle tre principali città italiane, i sindaci uscenti che si sono ricandidati, pur non rieletti, sono sempre passati al secondo turno. In ogni caso, Raggi rivendica di aver tenuto botta “alle corazzate dei partiti”: è vicina al 20 per cento e Roma è l’unica città insieme a Napoli in cui il Movimento mantiene la doppia cifra.

I big però sono tutti corsi a Napoli, dove l’ex ministro del governo Conte, Gaetano Manfredi, ha già strappato la vittoria al centrodestra. Nel capoluogo partenopeo, cinque anni fa, il Movimento non era proprio stato in partita, ché a scassare tutto ci aveva pensato Luigi De Magistris, eletto al ballottaggio con il 66 per cento dei voti. Oggi la sua erede, Alessandra Clemente si è fermata al 5,7 per cento, mentre lui – Giggino, l’ex pm – ha portato a casa un 18 per cento in Calabria, alle Regionali dove nel frattempo si era candidato presidente. È andata meglio la giallorosa Amalia Bruni, arrivata al 25. Ma, divisi, hanno spianato la strada alla riconferma del centrodestra di Roberto Occhiuto, che diventa presidente con il 54,7 per cento dei voti.

A Bologna, invece, è stata (anche) l’unità dei giallorosa a permettere a Matteo Lepore di stravincere al primo turno superando il 60 per cento. Qui era attesa la sconfitta del civico di centrodestra, Fabio Battistini, che infatti si ferma al 30 per cento.

Al di sotto delle aspettative, invece, la performance dell’altro civico di centrodestra, Paolo Damilano, a Torino: va al ballottaggio ma resta a 6 punti dall’aspirante sindaco del Pd, Stefano Lo Russo. Eppure la débâcle vera, per Salvini, Meloni e Berlusconi, è a Milano: la scorsa volta, il centrodestra – che pure non aveva un candidato fortissimo, Stefano Parisi – al primo turno almeno pareggiò con Beppe Sala. Adesso il sindaco uscente ha quasi doppiato il pediatra-gaffeur, Luca Bernardo. “Siamo al più basso risultato nella storia del centrodestra a Milano, per tutti i partiti e per tutte le liste”, dice il coordinatore della campagna Maurizio Lupi, chiudendo la porta.

 

I PARERI

 

Ultimi

Quartieri popolari delusi: conte e letta si occupino di loro

Il sonoro ceffone incassato dalla destra, tonitruante ma incapace di esprimere una classe dirigente credibile, rende concreta la possibilità di nuovi scenari oltre la contingenza forzata del governo Draghi. L’emorragia del voto grillino e non solo, torna per lo più a rifugiarsi nell’astensionismo. Guai se i vincitori di oggi dimenticassero il popolo che diserta le urne, accontentandosi del successo conseguito. Milioni di cittadini convinti che votare sia diventato inutile devono poter trovare una rappresentanza alternativa, altrimenti la democrazia scricchiola. C’è un grande vuoto da riempire per scongiurare il pericolo che il disagio sociale torni a cercare nel demagogo di turno il veicolo della protesta. Per questo è importante che Letta e Conte consolidino l’asse di un nuovo centrosinistra che anche a Roma e Torino, se non commetteranno errori, è già maggioranza numerica; ma per riuscirci questo centrosinistra ha bisogno di radicarsi nei quartieri popolari per dare voce agli interessi degli svantaggiati.

Gad Lerner

 

Attivismo

I nostri giovani credono nei movimenti, non più nei partiti

Il dato sulla scarsa affluenza è preoccupante. C’è un chiaro disimpegno a cui in certe città ha contribuito anche la scontatezza del risultato. Credo che però una riflessione la meritino in particolare i giovani. Quattro giorni fa, a Milano, i ragazzi hanno riempito le piazze insieme a Greta e al movimento ambientalista, segno di un grande attivismo. Non abbiamo dati precisi, ma ipotizzo che i giovani non abbiano avuto lo stesso trasporto per le urne: essi sono molto attratti dai movimenti e poco dai partiti. E quando un movimento diventa partito è come se ci si disinnamorasse, complice il fatto che si smorzano i toni del linguaggio e che si è percepiti come qualcosa di burocratico. Queste Amministrative consegnano poi un altro dato inequivocabile: l’unica speranza che il centrosinistra ha per battere la destra è allearsi con il Movimento 5 Stelle. Spero che tutti quegli intellettuali di sinistra con la puzza sotto il naso che hanno sempre osteggiato i grillini se ne siano resi conto.

Domenico De Masi

 

Deboli

A destra candidati scarsi, a sinistra non scaldano il cuore

C’è una offerta politica molto mediocre. Nelle grandi città la destra non è riuscita a proporre un candidato decente, mentre il centrosinistra ha trovato profili più professionali, ma che non scaldano il cuore. Diventa difficile allora che si produca entusiasmo tra gli elettori. C’è poi un altro aspetto che contribuisce allo scarso interesse da parte dei cittadini: negli ultimi anni la politica è scivolata ai margini della sfera di decisione. Le cose importanti si decidono altrove rispetto ai luoghi elettivi, i partiti si azzuffano su sicurezza e spazzatura, ma gli elettori percepiscono che si tratta quasi solo di retorica. E a rinforzare questo messaggio ha contribuito pure il governo Draghi, che ha verticalizzato il processo decisionale e reso poco rilevanti i luoghi della rappresentanza.

Marco Revelli

Cosa dicono quei numeri

“È la somma che fa il totale”, diceva Totò. Quindi non c’è nulla di originale nell’osservare che il nuovo centrosinistra giallorosa vince solo se è unito: a Napoli con Manfredi è un po’ più contiano e dimaiano, a Bologna con Lepore è molto più pidino. A Milano i 5Stelle sono irrilevanti, come sempre, e quello di Sala (mai iscritto al Pd e proveniente dal centrodestra morattiano) è un trionfo personale e trasversale. Il vecchio centrodestra a tre punte, a trazione meloniana e non più salviniana, va male dappertutto: per ora porta a casa solo la Calabria, e più per i demeriti del centrosinistra (ben tre candidati) che per meriti propri. È secondo persino a Torino, dove il moderato Damilano era strafavorito sul pd Lo Russo. Il quale però ora deve sperare nella scarsa memoria dei 5Stelle, dopo gli insulti alla buona esperienza Appendino e il rifiuto tracotante di qualsiasi dialogo col M5S. Roma fa storia a sé. La Raggi s’è rivelata un osso molto più duro di quel che diceva la black propaganda, ma non abbastanza per qualificarsi alla finale. Lì però può succedere di tutto: la Meloni farà pesare tutto il suo consenso personale e, anche se Conte facesse l’endorsement a Gualtieri e molti elettori raggiani lo seguissero, Michetti avrebbe un ottimo serbatoio di riserva tra gli elettori di Calenda, l’altro candidato di destra (l’altra destra: quella borghese, confindustriale e tecnocratica), allergico ai giallorosa.

Tutto ciò premesso, sarebbe ridicolo confondere questa tornata amministrativa con le prossime Politiche. Chi lo fa, seguendo i soliti esperti del nulla, si condanna al suicidio. Il centrosinistra che ha appena stravinto il primo turno delle Comunali, su scala nazionale resta 10 punti sotto il pur malconcio centrodestra. Il che rende semplicemente comico il pressing dei giornaloni perché il Pd molli l’asse col M5S contiano per allearsi con non si sa bene chi. Se il Pd vince è proprio grazie alla linea Zinga-Letta sull’alleanza col M5S: la linea Renzi, alle Comunali del 2016, portò il partito alla débâcle. Anche chi vaneggia di “sconfitta dei populisti”, con Lega e FdI al 40% e gli astenuti al 46%, racconta barzellette. I non votanti – il primo partito d’Italia – sono soprattutto ex elettori 5Stelle in attesa di un’offerta credibile. È un monito soprattutto per Conte, che dovrà trovare linguaggi e contenuti di populismo gentile e competente per recuperare almeno una parte delle periferie sociali ed elettorali che non si sentono rappresentate da nessuno. Specie nel deserto del Nord. Dalla sua, ha la fortuna di essere la soluzione migliore alla penuria generale di classe dirigente: fra i vari ex premier in circolazione, è di gran lunga il più apprezzato dal “popolo”. Ma quel ricordo non dura in eterno.

Il nuovo corpo del romanzo (come dire addio all’eros)

“Cominciamo dal corpo, perché è lì dentro che tanto viene vinto e poi perso, perso, perso.” scrive Billy Ray Belcourt, poeta canadese appartenente alla popolazione indigena della Driftpile Cree Nation in Storia del mio breve corpo (fresco di stampa per le Edizioni Black Coffee) il primo memoir a narrare cosa significhi, oggi, essere un indigeno queer schiacciato dalla violenza coloniale. Se la riflessione attorno al corpo non è nuova perché si è sempre inserita nella tradizione letteraria, filosofica e teologica, che di volta in volta lo cancella o lo riabilita, è tuttavia inedito il suo trattamento nella letteratura contemporanea degli ultimi anni. Tramite frammenti di prosa che testimoniano i pezzi in cui è frantumato, Belcourt racconta una cosciente autodistruzione – anoressia, bulimia, incontri rischiosi nelle app di sex dating – come risultato di un odio per la propria presenza nel mondo, che è il riflesso dell’odio per il diverso che raccoglie.

Il suo corpo sfracellato è politico. Lo sa bene anche Ocean Vuong, scrittore vietnamita di espressione inglese che nel suo Brevemente risplendiamo sulla terra (La Nave di Teseo) ne sgretola l’archetipo mitico-eroico, rievocando le cicatrici della sua esistenza e quella di sua madre, “vite usa e getta” scrive, in una danza letteraria fatta di attrazioni e repulsioni tra di loro che portano “la guerra dentro”. Accanto a lui, il francese Edouard Louis in Chi ha ucciso mio padre (Bompiani) – a metà tra il pamphlet e la novella – compie una circumnavigazione mentale attorno alla figura di suo padre, proletario svigorito e incarognito dal duro lavoro, in cui s’interroga su chi ha negato la possibilità di diventare altro al corpo del genitore, ormai liso e deformato. Come deformato è il ricordo della madre nei quadri di Johanna, protagonista di Lontananza di Vigdis Hjorth (Fazi), dopo che è scappata via di casa per inseguire il desiderio di felicità. E sempre i ricordi, stavolta di un corpo sparito – quello dell’amico Giulio –, sono al centro dell’intenso Atti di un mancato addio (Hacca) di Giorgio Ghiotti.

Considerato nella sua integralità o disperso nelle sue membra, filiforme, callipigio, chiaro, scuro, assente, soggetto a infiniti avatar e metamorfosi, la mise en scène del corpo nello spazio letterario non lo definisce più oggetto di un’evocazione erotica. Temi come il gender, il bullismo, l’aborto, la violenza, irrompendo nella letteratura, hanno spezzato la retorica del desiderio e in parte rovesciato l’obiettivo di quell’esplorazione di senso che è la scrittura, che ha preso a investigare su di esso come un soggetto che si frappone tra il sé e il mondo.

In questi romanzi, i protagonisti che lo concretano sono tutti eroi dell’incertezza, vittime di una carne malferma in cui sguazzano: come Maria e Tonio in Un bel giorno sarà estate di Giovanna Amato (fve editori) che non riescono a innamorarsi perché, per motivi diversi, manca loro un pezzo, il cuore; e ancora Kojima e il suo amico in Heaven (e/o), il nuovo titolo di Meiko Kawakami, che vengono bullizzati dalla società degli altri bambini per l’aspetto fisico non conforme; e perfino la stessa Annie Ernaux quando ne L’evento (L’orma) sul proprio aborto scrive di aver provato “un dilagare ovunque che sbatte contro le anche e muore all’altezza delle cosce”.

Non è più, allora, un corpo fisiologicamente relazionale: per intenderci quello di Julien Sorel de Il Rosso e il Nero, che prima conosce l’affetto quasi materno e poi l’amore carnale di Madame de Renal. Come accade in alcuni quadri di Frida Kahlo – per esempio Qualche piccolo colpo di pugnale in cui la pittrice si raffigura su un letto, ferita a morte dall’ennesimo tradimento di Diego –, a parlare è un corpo malato. “Ho tentato di uccidermi il 26 luglio 2012, avevo da poco compiuto trentadue anni e da neppure quattro mesi partorito la mia prima e unica figlia, Greta” scrive Fuani Marino, che in Svegliami a mezzanotte (Einaudi) narra il suo tentato suicidio, preda di un dolore fisico e psichico. Il racconto del corpo, dunque, si configura come una continua tensione verso la prova della finitezza umana e sottolinea che da una narrazione metafisica si è come passati a una contro-narrazione fisica, in cui esso viene frantumato e diventa infinito. “Inizia a parlare da solo, esonda, dice quel che non si può dire. Fa vedere il rimosso, l’inascoltato” spiega bene Jonathan Bazzi in Febbre (Fandango).

Senza inerpicarsi in ragionamenti generazionali – che rischiano sempre di impoverire il discorso – colpisce che la più parte di questi autori, i più viscerali, siano nati dopo gli anni 80. Quasi che l’erotizzazione compulsiva cui si è stati sottoposti negli ultimi decenni abbia fatto tramontare il mito del corpo, ultimo baluardo di una specie di sacralità e intoccabilità metropolitana. A dar credito a Freud, adesso sì che può essere raccontato davvero nella continua sfida per scuotere il senso del mondo che è scrivere.

Ponte di Rialto: tutti i doni di Brugnaro al “mecenate”

Dopo l’uscita del mio articolo dedicato alla terrificante targa murata sul Ponte di Rialto per celebrarne il “mecenate” Renzo Rosso, ricevetti una mail di Paola Somma. Il testo era laconico (“In allegato la lista dei regali che abbiamo fatto al mecenate”), e l’allegato – a me colpevolmente sconosciuto – illuminante. Era il “Piano della comunicazione del restauro del Ponte di Rialto”, documento ufficiale dell’Assessorato ai Lavori Pubblici (aggettivo che suona vistosamente ironico) del Comune di Venezia, che elencava un incredibile rosario di concessioni : “All’azienda viene concessa la possibilità di personalizzare la struttura (fiancate e tetto) di n. 2 vaporetti, ciascuno per una durata complessiva di 730 gg; all’azienda viene concessa la possibilità di esporre, per i 18 mesi di durata dell’installazione del cantiere sulla struttura stessa del ponte, spazi di comunicazione aziendale inseriti nella struttura dell’assito di cantiere; all’azienda viene concesso di utilizzare la struttura del Ponte di Rialto o eventuale altra location per effettuare proiezioni artistiche, anche personalizzate con logo ed altri elementi di comunicazione dell’azienda; All’azienda viene concessa la possibilità di personalizzare n. 2 imbarcaderi ACTV mediante l’esposizione di n. 4 banner personalizzati cm 200×260 cadauno”.

Un elenco di elargizioni da capogiro, capace di far cancellare già dopo la prima voce la parola “mecenate”: perché un mecenate è chi regala del denaro in cambio di nulla (se non prestigio e legittimazione sociali e morali), mentre è uno sponsor chi stipula accordi capaci di garantirgli un ritorno economico (attraverso la pubblicità) assai più rilevante della cifra versata. Naturalmente in questo secondo caso, la condizione è che le autorità pubbliche siano disposte a trasformare la città in un mercato privato.

E se uno continua a leggere quel piano di prostituzione di Venezia si toglie, su questo, ogni dubbio: “All’azienda viene concesso l’utilizzo delle seguenti location per l’organizzazione di eventi privati aziendali: Ca’ Vendramin Calergi (sede principale del Casinò di Venezia): n. 4 volte all’interno dei tre anni di durata del contratto. Teatro La Fenice: n.2 volte all’interno dei tre anni di durata del contratto. Ca’ Rezzonico (sede del Museo del Settecento Veneziano, Fondazione Musei Civici Veneziani): n. 2 volte all’interno dei tre anni di durata del contratto. Per Ca’ Vendramin Calergi, Teatro La Fenice e Ca’ Rezzonico: la capienza, le caratteristiche delle aree per l’accoglienza, i servizi disponibili e le modalità di svolgimento dell’evento variano a seconda della location, e devono quindi essere preventivamente concordate con il Comune di Venezia e coi i soggetti gestori sulla base del calendario di disponibilità delle location. Palazzo Ducale (Fondazione Musei Civici Veneziani): n. due volte all’interno dei tre anni di durata del contratto. Piazza San Marco: possibilità di organizzare n. 1 evento personalizzato nell’arco dell’intera durata del contratto da svolgersi in Piazza San Marco”.

Nemmeno a un doge sarebbe stato consentito tanto. E il vero capolavoro del piano di comunicazione è che qualcuno si senta anche in dovere di ringraziare chi si sta prendendo Venezia per un tozzo di pane.

Ora la fortuna di avere una corrispondente come Paola Somma (già docente di Urbanistica allo Iuav di Venezia) non è più riservata a una cerchia ristretta: è infatti appena arrivato in libreria il suo Privati di Venezia. La città di tutti per il profitto di pochi (Castelvecchi). Quella della professoressa Somma è, da anni, la voce più radicale e lucida sulla situazione drammatica, e sul destino, di Venezia. E questo libro indispensabile è una discesa agli inferi della privatizzazione, dello svuotamento, della privazione di senso di quella che è stata la città per eccellenza nell’immaginario occidentale. La “parola d’ordine è che le fabbriche diventino alberghi, gli operai camerieri”, la Laguna “un terreno di conquista per investitori stranieri”, l’Arsenale è stato “spartito”, il Fontego dei Tedeschi regalato a Benetton, la Biennale dell’architettura trasformata in vetrina della svendita e premio per gli architetti conniventi.

Un quadro terribile, descritto con una prosa asciutta e priva di retorica, sorretta ad ogni affermazione da una documentazione inoppugnabile. “La speranza – scrive Paola Somma – è che questo libro possa servire da avvertimento ai cittadini di altri luoghi che, di fronte alla distruzione delle opportunità di lavoro e al degrado delle loro condizioni di vita, sono indotti a pensare che il turismo sia l’unico modo per sopravvivere e che il patrimonio pubblico sia un fardello di cui è bene liberarsi. In ogni caso, intende proporre una versione dei fatti alternativa a quella dominante, affinché la nostra storia non sia scritta dai vincitori. Come è noto, in guerra, la prima vittima è la verità”.

Striscia di Gaza. Per Hamas la kefiah non è più di moda

È negli Anni Trenta che la kefiah – il copricapo dei contadini arabi – diventa un simbolo del patriottismo palestinese. I britannici durante il loro mandato – scaduto nel 1948 – cercarono di vietarla nella città di Jenin in Cisgiordania. Più tardi, negli Anni Sessanta diventò il simbolo di “al Fatah”, la più vasta organizzazione della galassia palestinese fondata da Yasser Arafat. Il leader dell’Olp la portò alla ribalta mondiale indossandola anche quando pronunciò il celebre discorso all’Onu a New York nel 1974. Arafat aveva un modo tutto suo di piegarla: visto di spalle i lembi della sua kefiah disegnavano la Palestina mandataria che all’epoca l’Olp rivendicava come propria terra. Dagli Anni Ottanta a ogni scontro con le forze israeliane in Cisgiordania o a Gerusalemme è sempre sventolata come una bandiera, il vessillo di uno Stato che non c’è. Oggi solo una vecchia fabbrica a Hebron tesse ancora kefieh, il resto nei suk è tutto Made in China. Ma nonostante ciò per la gente di Fatah è sempre un simbolo intoccabile. E questo ad Hamas – che governa Gaza – non piace. La scorsa settimana a Gaza le forze di sicurezza di Hamas hanno malmenato studenti e personale universitario che indossavano la kefiah all’Università Al-Azhar. L’attacco ha scatenato violenti scontri tra poliziotti di Hamas e studenti. L’ateneo, fondato nel 1991, è una delle maggiori università palestinesi pienamente affiliate al movimento Fatah, il principale rivale di Hamas. I sostenitori di Fatah mandano i loro figli all’Al-Azhar per il sostegno finanziario che ricevono, come sovvenzioni e prestiti. Il presidente del CdA dell’ateneo è nominato dal presidente Abu Mazen.

Il Centro per i diritti umani “Al Mezan” ha denunciato la messa al bando della kefiah da parte della polizia di Hamas, l’assalto all’ateneo e il pestaggio degli studenti. Hamas – che controlla la Striscia dal 2006 – in un comunicato ha negato i fatti, attribuendoli a coloro che vogliono discreditare il governo della Striscia. Resta il fatto che, adesso, portare la kefiah a Gaza è diventata anche una sfida ad Hamas.

 

Ora Islamabad ha un timore: che il talebano diventi nemico

“Huge win”, una “grande vittoria”: è così che le autorità del Pakistan hanno definito l’arrivo al potere dei talebani in Afghanistan, secondo quanto riportato dal The Dawn, l’influente quotidiano in lingua inglese di Karachi. Per il giornale però, stando a un editoriale del 19 settembre, il successo militare e politico degli insorti rischia di provocare “sfide ancora più grandi” per il Pakistan. Alcuni esperti si dicono pessimisti. “Il Pakistan ha sostenuto i talebani perché la loro conquista dell’Afghanistan ha contribuito a tenere lontana l’India, che sta tentando di estendere la sua influenza nel paese – ha scritto Abbas Nasir, uno degli editorialisti del quotidiano –. Il Pakistan dovrebbe rallegrarsene, ma non lo fa, perché non si sa come evolverà la situazione”. Islamabad teme innanzi tutto che Washington, dopo il fiasco della missione militare in Afghanistan, faccia del Pakistan il suo “capro espiatorio”: “Gli Stati Uniti hanno già iniziato a riversare sul Pakistan la colpa dell’umiliazione subita. Del resto, come potrebbe una superpotenza mondiale accettare di essere umiliata così da un branco di straccioni?”, osserva ancora il quotidiano.

Altri editorialisti sembrano rammaricarsi del fatto che il primo ministro, Imran Khan, abbia esultato quando l’ultimo aereo statunitense ha lasciato Kabul e dichiarato: “Gli afghani hanno spezzato le catene della schiavitù”. Il timore di Islamabad è che gli Stati Uniti possano imporre al paese delle sanzioni. E, a leggere la stampa pachistana, le autorità di Islamabad non sottovalutano le critiche espresse dall’entourage di Joe Biden sul ruolo che il Pakistan avrebbe svolto nella vittoria dei talebani, e di conseguenza nella débâcle americana. Finora gli Stati Uniti non hanno mai adottato delle sanzioni contro il Pakistan. Il 25 luglio 2010, WikiLeaks pubblicò l’Afghan War Diary, 91.000 documenti provenienti dai registri militari statunitensi, molti dei quali riguardavano i rapporti tra Pakistan e talebani. Si confermava che l’esercito pachistano aveva svolto un ruolo fondamentale nella nascita del movimento, nel 1994, e che aveva continuato a sostenerlo contribuendo al suo finanziamento, al reclutamento dei suoi soldati e alla loro formazione, così come alla pianificazione della sua strategia. È probabile anche che l’esercito pachistano abbia partecipato ad alcune offensive talebane, soprattutto nel 1996, per prendere Kabul. Il doppio gioco di Islamabad è definitivamente venuto a galla quando, nel 2011, Osama bin Laden, l’uomo più ricercato del mondo, è stato ucciso da un commando statunitense a Abbottabad, nei pressi di una delle accademie militari più prestigiose del Pakistan.

Nell’agosto 2017, una dichiarazione di Donald Trump sembrava annunciare sanzioni imminenti: “Stiamo pagando ai pachistani miliardi e miliardi di dollari e loro accolgono i terroristi che combattiamo. Le cose devono cambiare e subito”. Un anno dopo, gli Stati Uniti avevano sospeso gli aiuti militari a Islamabad, senza adottare sanzioni. Altre minacce pesano sul Pakistan. Secondo le Nazioni Unite, l’Afghanistan e i suoi 18 milioni di abitanti rischiano di andare incontro a una grave carestia con l’arrivo dell’inverno, che potrebbe sollevare le proteste della popolazione, ma anche spingere milioni di afghani a rifugiarsi in Pakistan, come accadde durante l’invasione sovietica, quando più di tre milioni di persone superarono la Linea Durand che separa i due paesi. “Data la crisi politica e economia attuale in Pakistan, la situazione potrebbe diventare incandescente”, osserva The Dawn. Ma, per il momento, nel General Headquarters, il “GHQ”, persiste un sentimento di euforia per la vittoria dei talebani.

Il 4 settembre, il generale Faiz Hamid, capo della potente Inter-Services Intelligence (Isi), i servizi segreti militari pachistani, è stato accolto in pompa magna a Kabul. La sua mediazione ha reso possibile la formazione del primo governo talebano, che si trascinava a causa dei conflitti tra le diverse fazioni, e posto le basi di un piano per la creazione di un esercito professionale e di un servizio di intelligence. Secondo il sito Intelligence Online, queste missioni sarebbero state affidate a due funzionari talebani vicini al Pakistan, Abdoul Haqq Wathiq e Taj Mir Jawad, un ex studente delle scuole coraniche di Peshawar, noto alla Cia per aver passato dodici anni nella prigione di Guantanamo. “La visita di Faiz Hamid ha dato nuova visibilità all’esercito pachistano – osserva Laurent Gayer, specialista nel subcontinente indiano a Sciences Po –. Islamabad è favorevole a un riconoscimento ufficiale dell’Emirato Islamico d’Afghanistan, ma sa anche che, nell’attesa, il regime talebano ha bisogno di intermediari. Il Pakistan non è il solo a voler assumere questo ruolo. Il Qatar gli fa concorrenza”. “Dobbiamo rafforzare e stabilizzare l’attuale governo per il bene di tutto il popolo afghano”, aveva detto Imran Khan all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 24 settembre scorso. In caso contrario, aveva aggiunto, il Paese rischia di diventare “rifugio” dei terroristi. In Pakistan, i gruppi jihadisti locali, tra cui Jaish-e-Mohammed, Lashkar-e-Taiba, Lashkar-e-Jhangvi, o ancora Sepah-e-Sahaba, stanno già festeggiando. “La conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani amplia la gamma delle possibilità dei diversi gruppi jihadisti. Ci potrebbero per esempio esserci ripercussioni nel Kashmir, con una ripresa del conflitto”, spiega Laurent Gayer. Il Pakistan potrebbe trovarsi in difficoltà anche con i talebani al potere in Afghanistan: “A differenza dei più anziani – spiega il ricercatore –, non tutti i giovani combattenti talebani hanno frequentato le scuole religiose pachistane e quindi non hanno la stessa adesione al mondo politico-religioso pachistano. Di qui un certo rifiuto della “pachistanizzazione” del loro movimento”. In un video pubblicato sui social il 21 settembre scorso, girato a Torkham, principale posto di frontiera tra Afghanistan e Pakistan, si vede un gruppo di talebani che strappa una bandiera pachistana da un camion andato a fornire aiuto al popolo afghano. “Questo incidente non è banale – afferma Karim Pakzad, ricercatore presso l’Istituto per le relazioni internazionali e strategiche (Iris) –. Non era la bandiera degli Stati Uniti o di un altro paese, era la bandiera del Pakistan, il Paese protettore dei talebani”.

La vittoria dei talebani afghani potrebbe inoltre ridare slancio ai jihadisti pachistani, con il rischio di nuove rivolte jihadiste nei territori di confine dell’Afghanistan: “La vittoria dei talebani afghani avrà per forza di cose delle conseguenze. C’è un rischio reale che i talebani pachistani si sentano rafforzati dal successo del movimento in Afghanistan”, osserva Karim Pakzad. Un recente episodio ha messo in allarme le forze di sicurezza pachistane: nelle ultime settimane, in tre occasioni, quattro o cinque bandiere talebane afghane sono comparse sul tetto del “Jamia Hafsa”, un seminario per ragazze attiguo alla celebre Lal Masjid (la Moschea Rossa), nel centro di Islamabad. Lal Masjid è il cuore pulsante del movimento islamico pachistano più radicale. Il 10 e l’11 luglio 2007, dopo otto giorni di assedio, le forze speciali pachistane dello Special Service Group avevano dato l’assalto, provocando più di 150 morti. La resistenza dei jihadisti fu feroce e provocò un’ondata di rappresaglie terroristiche senza precedenti, che fecero 3.650 morti in sei mesi, in più delle vittime in operazioni militari. Provocò anche la rottura definitiva tra il movimento dei talebani pachistani (Tehrik-e-Taliban Pakistan o Ttp) e il governo pachistano e la ripresa dell’insurrezione armata, che oggi si può considerare finita, ma che potrebbe risvegliarsi in qualsiasi momento. Le bandiere talebane del Jamia Hafsa, che hanno provocato l’intervento della polizia, fanno paura alla borghesia pachistana. La stessa borghesia che, nei giorni scorsi, perché ostile all’India e agli Stati Uniti, si è congratulata con gli insorti per aver conquistato Kabul.

Traduzione di Luana De Micco

ITA. Se il governo ci crede riscriva il piano industriale, altrimenti tanto vale farla fallire

“Se resta ancora qualche traccia di liberismo … mi aspetto che i ministri … quel che rimane dell’anima liberista … votino contro il salvataggio dell’Alitalia col denaro dello Stato e rendano pubblica la loro opposizione”. Questo auspicio, molto netto, è stato scritto da Francesco Giavazzi, economista della Bocconi, in un articolo sul Corriere della Sera del lontano 27 febbraio 2004. Poiché all’epoca i soldi pubblici spesi per Alitalia erano stati ancora relativamente pochi, e il grosso del conto si è aggiunto dopo, è poco probabile che Giavazzi abbia addolcito la sua opinione. Ma sarebbe interessante saperlo visto che da febbraio svolge il ruolo di consigliere economico del premier e dovrebbe rivestire un ruolo di rilievo proprio nella gestione del dossier di Alitalia e di ITA. È un dossier molto costoso per le casse pubbliche, il più costoso in tutta la storia di Alitalia: i 4 anni e mezzo di amministrazione straordinaria sono già costati oltre 2 miliardi e altri 3 sono stati stanziati per il lancio della nuova compagnia ITA, che tuttavia nasce con dimensioni irrisorie per competere nel mercato (e dunque con nessuna chance di successo), con una flotta che non raggiunge la metà di quella di Alitalia e porta a bordo meno di un dipendente ogni quattro.

Quelli che resteranno a terra, pur avendo tutte le capacità per svolgere i mestieri aerei per cui sono stati formati e pur essendo già in atto una buona ripresa della domanda post-pandemia, dovranno essere protetti con strumenti di welfare, il cui costo, stimabile tra due e tre miliardi, porta il conto totale del dossier sulla scrivania di Giavazzi a sette-otto miliardi.

È esattamente il doppio dei soldi pubblici spesi nell’operazione “capitani coraggiosi” del 2008 con la quale fu chiuso un terzo dell’Alitalia di allora. E anche più del doppio dei soldi pubblici spesi nell’Alitalia statale dalla sua fondazione nel 1947 alla privatizzazione del 2008 e più del quadruplo dei soldi che erano stati spesi sino alla data in cui, nel lontano 2004, il prof. Giavazzi invocava la rivolta liberista dei ministri economici del governo Berlusconi. Qual è la strategia del governo ora in carica sul doppio dossier Alitalia/Ita? Nessuno lo ha capito, neppure il Parlamento, perché nulla è stato esplicitato al suo riguardo. Non si ha alcuna idea dell’obiettivo perseguito e dunque neppure degli eventuali benefici attesi, solamente dei costi esorbitanti di ciò che si sta facendo.

Si abbia allora il coraggio della chiarezza: se le motivazioni del 2004 sono ancora valide si abbia il coraggio di chiudere tutto, non solo Alitalia ma anche ITA, che in rapporto alle sue piccole dimensioni è destinata a perdere molto di più di tutte le Alitalia che l’hanno preceduta. Se invece si ritiene che le connessioni del nostro Paese col resto del mondo e tra regioni italiane non adeguatamente servite dal treno non possano essere affidate alla benevolenza dei gestori di vettori esteri, destinati tra poco a essere gli unici attori sul nostro mercato, e neppure all’instabile correlazione tra il loro desiderio di guadagno e il nostro fabbisogno di servizi aerei, si abbia allora il coraggio di cestinare l’attuale piano d’impresa di ITA, il quale assicurerebbe una facile bocciatura a un allievo che osasse presentarlo a una business school anche di medio livello.

 

L’inflazione attesa e altre idee assurde dei modelli economici

Durante l’audizione al Congresso svoltasi nell’ottobre 2008 l’allora governatore della Federal reserve Alan Greenspan ammise di aver trovato un “difetto” nella sua “ideologia”, nel modo con il quale egli riteneva che le persone affrontassero la realtà : “Questo è proprio il motivo per cui sono rimasto scioccato, perché sono andato avanti per 40 anni con considerevoli prove che stava funzionando eccezionalmente bene”. Nel 2016, il futuro premio Nobel per l’economia Paul Romer in un lavoro intitolato Il problema con la macroeconomia scrisse una dura critica non solo su alcuni principali aspetti tecnici del paradigma dominante, ma anche su come la disciplina economica si fosse chiusa in sé stessa, refrattaria alle critiche e impermeabile ai fatti: “La situazione ora è peggiorata. I modelli macro fanno ipotesi che non sono più credibili e molto più opache”.

Proprio la fondatezza dei modelli, il grado di realismo che essi assumono, sono da tempo oggetto di critiche. Se per gran parte della disciplina pare non esser un problema così rilevante, fedele al postulato di Friedman sull’irrealismo delle assunzioni – secondo cui la bontà di un modello si misura sulla sua capacità previsionale e non sul grado di aderenza alla realtà – le cose si complicano quando i modelli sono impiegati nella pratica per scopi di politica economica: se basati su fondamenti dubbi o totalmente irreali potrebbero condurre a risultati diametralmente opposti a quelli ipotizzati, come visto nella crisi finanziaria del 2007-2008 o in quella dell’euro.

Un lavoro pubblicato la settimana scorsa da J. B. Rudd, uno stimato economista della Fed che dal 1999 lavora per il Consiglio dei Governatori della banca centrale Usa, ha suscitato una notevole attenzione perché solleva più di un dubbio su uno dei totem che fondano l’intero impianto teorico della macroeconomia “mainstream”: quello delle aspettative di inflazione. Secondo Rudd “l’economia mainstream è piena di idee che ‘tutti sanno’ essere vere, ma che in realtà sono assurdità”. Tra queste include le aspettative di inflazione, che a partire dagli anni 70 hanno assunto un ruolo fondamentale per spiegare come si determina l’inflazione e come si possono produrre situazioni di stagflazione (forte aumento dei prezzi), che erano inconcepibili per i modelli utilizzati in precedenza. La critica riguarda sia l’impostazione teorica che ne è alla base sia la rilevanza empirica.

Che qualcosa non andasse riguardo a come queste aspettative influiscano sull’andamento attuale dei prezzi era però abbastanza evidente anche prima del paper di Rudd. Davvero crediamo che basti la credibilità della banca centrale perché i consumatori possano formarsi un’idea di quella che sarà l’inflazione tra due o tre anni? E crediamo che il comportamento razionale sia quello di anticipare il rialzo dei prezzi in futuro aumentando i consumi adesso o lasciando il posto di lavoro? Come se andassimo al cinema due o tre volte in più oggi perché pensiamo che in futuro il prezzo del biglietto sarà più elevato. O che, con milioni di disoccupati, chi è occupato lasci il suo posto per cercarne un altro con uno stipendio migliore per compensare il possibile aumento del costo della vita.

Rudd amplia il quadro e fornisce una serie di incoerenze nel modo col quale le aspettative vengono costruite, le difficoltà di averne delle conferme empiriche e suggerisce che se mettiamo da parte le attese di inflazione esiste ugualmente un modo alternativo con cui interpretare l’andamento dei prezzi. L’economista della Fed evidenzia come ci sia una relazione abbastanza solida di lungo termine tra l’andamento dei prezzi e l’andamento dei costi di produzione, del costo del lavoro in particolare. Guardare a come si evolve il costo del lavoro per unità di prodotto, a cosa lo determina, a come le imprese reagiscono ad aumenti attuali di costo, potrebbe avere efficacia predittiva maggiore.

Certo si può osservare che anche il ragionamento presentato da Rudd non è esente da critiche. Se le aspettative di inflazione non incidono, o incidono solo marginalmente, nella dinamica dell’inflazione degli Stati Uniti, non è detto che questo ragionamento valga in assoluto per tutte le economie, e in particolare per le economie emergenti, le cui valute sono molto sensibili al sentiment del mercato e i prezzi al consumo dipendono molto più dai prezzi dei beni importati. Ma resta un punto fondamentale della critica, che riguarda l’eccessivo grado di astrazione dei modelli macroeconomici. Ci si chiede spesso perché gli economisti non sono stati in grado di prevedere un evento. Cercare il massimo grado di realismo nei modelli usati potrebbe essere un primo passo.

Terre rare: la Cina ha già vinto la prossima guerra commerciale

Digitalizzare e decarbonizzare: due obiettivi che in comune hanno la necessità delle cosiddette “terre rare”. Parliamo di elementi che, pur essendo molto comuni, presentano due grossi problemi: 1) la loro concentrazione in natura è variabile e mista ad altre sostanze e così il processo di separazione per produrle risulta costoso, soprattutto dal punto di vista ambientale (molte estrazioni richiedono, ad esempio, lo smaltimento di scorie radioattive); 2) produzione, lavorazione e mercato sono appannaggio quasi esclusivo della Cina. L’occidente, di fatto, ha mollato da anni la palla e rischia di pagarne presto le conseguenze.

Intanto, di che parliamo? Le terre rare sono un gruppo di 17 tra gli ultimi elementi chimici della tavola periodica e includono la famiglia dei lantanidi più lo scandio e l’ittrio. Sono stati scoperti per lo più a partire dal XVII secolo e sono poco noti quanto fondamentali nello sviluppo tecnologico, soprattutto per l’energia rinnovabile e i motori elettrici. Con loro, ci sono i cosiddetti “minerali critici” come litio e cobalto. Oggi la Cina, non solo controlla la propria produzione e le catene di fornitura, ma ha anche consolidato relazioni strette con altri fornitori, per lo più Paesi in via di sviluppo.

“Le terre rare sono indispensabili per l’imminente trasformazione economica e costituiscono un aspetto fondamentale dell’ultimo disperato sforzo per contribuire a salvare il pianeta dalla catastrofe climatica”, spiega Sophia Kalantzakos, docente in Environmental Studies and Public Policy alla New York University nel suo libro Terre rare, la Cina e la geopolitica dei materiali strategici (Egea, Bocconi Editore): “Quando vengono brandite geopoliticamente come armi, possono trasformarsi in catalizzatori di relazioni internazionali sempre più aggressive e pericolose”. Chip, microchip, nanotecnologie ma anche fotovoltaico, eolico, idroelettrico. E batterie: le terre rare sono la materia prima della materia prima per le nuove tecnologie, green e non. Oggi assistiamo alla crisi delle forniture, alla base c’è anche la stretta ulteriore che Pechino sta imponendo sulla sua produzione di terre rare e relativa supply chain. Nella situazione attuale, l’Occidente semplicemente non si può permettere una guerra commerciale.

Una prima crisi delle terre rare si era avuta nel 2010, durante la disputa sulla sovranità delle isole Senkaku. Il blocco (non ufficiale) delle esportazioni di terre rare in Giappone generò uno choc nei prezzi (tra +300% e picchi del +4.000%) e negli approvvigionamenti in tutto l’Occidente. La controversia fu risolta dal Wto: stabilì che la Cina aveva violato le regole internazionali, ma il governo di Pechino rimosse le limitazioni alle esportazioni solo nel 2014. “Benché la Cina abbia accettato di sottostare alle decisioni, tra la presentazione del ricorso e il verdetto finale ha avuto tempo per raggiungere i suoi obiettivi intermedi senza mostrarsi apertamente inadempiente” spiega l’autrice.

Nel frattempo Usa e Ue si misero in moto per potenziare una propria industria, scontrandosi con diversi ostacoli: la mancanza di tecnologia adeguata, l’altissimo costo del lavoro (che portò gli Usa ad aprire imprese direttamente in Cina), i rischi aziendali e soprattutto lo smaltimento delle scorie. In meno di un decennio, l’attenzione è scemata, le aziende aperte sono fallite, la crisi del 2010 è stata dimenticata.

Intanto, dal 2018, la Cina è diventata anche un importatore di terre rare. Per la monazite è diventata il principale acquirente da Brasile, Madagascar, Thailandia e Vietnam. Ha sviluppato, inoltre, tutta la filiera della lavorazione. Spiega Kalantzakos nel suo libro: “Nel 2021 la Cina sta portando a compimento il suo piano per standardizzare la gestione del settore delle terre rare e promuoverne lo sviluppo a un alto livello qualitativo, rafforzando management e supervisione sull’intera catena industriale, il che le consentirà di esercitare un maggior controllo sull’offerta, la domanda e le dinamiche di prezzo”.

Le imprese cinesi, che sono verticalmente integrate lungo tutta la filiera, si sono assicurate importazioni dal Sud America e costruito stretti legami con l’altro grande fornitore mondiale di terre rare, l’Australia, (che genera da sola il 55 per cento delle esportazioni di litio). Durante l’ultima crisi, quando Canberra ha invocato un’inchiesta internazionale sulle origini del Covid-19, Pechino ha ufficiosamente suggerito di evitare molte delle importazioni dall’Australia: “L’Australia – spiega Kalantzakos – è priva del tipo di verticalizzazione necessario per il controllo della supply chain e acquisire quella capacità potrebbe essere proibitivo perché il costo del lavoro in Australia è molto più alto che in Cina”.

Molti sono stati anche gli errori, anche di sottovalutazione, degli Usa. La storia dietro al magnete neodimio-ferro-boro è emblematica. “Quando questi magneti furono creati – spiega Kalantzakos – due imprese, General Motors (GM) e Hitachi, ottennero i brevetti. GM brevettò i magneti a ‘solidificazione rapida’, mentre Hitachi brevettò i ‘sinterizzati’. GM poi affidò a un’impresa costituita appositamente – la Magnequench – la produzione dei magneti per i propri veicoli. Nel 1995, due gruppi cinesi hanno unito le loro forze con una società di investimento statunitense e hanno cercato di acquistare Magnequench. Il governo statunitense ha approvato l’acquisizione e l’operazione è stata autorizzata alla condizione che i cinesi accettassero di mantenere l’impresa negli Usa per almeno cinque anni. Il giorno successivo alla scadenza, l’impresa ha chiuso le sue attività, i dipendenti sono stati licenziati e l’intero business è stato trasferito in Cina”. Con l’impresa, è partita anche la tecnologia. “Nel 1998, il 90% della produzione di magneti era in Usa, Ue e Giappone. Ora la gran parte è in Cina”. Anche considerare la crisi del 2010 una “perturbazione passeggera” è stato un errore e con l’abbassamento dei prezzi successivo le miniere non cinesi sono collassate, come la Molycorp negli Stati Uniti, che ha presentato istanza di fallimento nel giugno 2015.

Infine, va segnalato che nessuno è ancora riuscito a trovare una soluzione non antieconomica per riciclare le terre rare già impiegate, cioè a risolvere il paradosso di una rivoluzione ecologica che potrebbe aver bisogno di inquinare. “Nessuna delle proposte di legge Usa è giunta fino all’approvazione, né la comunità scientifica è stata capace di trovare soluzioni”. Ma non sono solo i politici ad avere la vista corta: “Le imprese pronte a pagare una maggiorazione di prezzo per le terre prodotte fuori della Cina quando il mercato era ai massimi, ora non sono disposte a supportare le fonti alternative esistenti a meno che i prezzi dei prodotti non siano uguali o inferiori a quelli cinesi”.