La cosa certa è che un italiano su due dei circa 13 milioni interessati alle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre non si è presentato alle urne.
Le cinque città più grandi attese al voto hanno fatto registrare i loro record negativi: Roma, Milano, Napoli, Torino sotto il 50% di affluenza, Bologna poco sopra). Le Regionali in Calabria hanno confermato il pessimo dato del gennaio 2020: 44%. Bassa al solito pure la partecipazione alle suppletive per due seggi alla Camera (Roma Primavalle e Siena). Sotto il 50% pure l’affluenza in Friuli-Venezia Giulia, i cui dati elettorali non sono compresi nella piattaforma del Viminale. Restando ai dati del ministero, si scopre che i votanti si sono fermati al 54,69%, il dato più basso di sempre e sette punti in meno rispetto al 2016: in teste fa 800-900mila astenuti in più, circa la metà dei quali nelle città maggiori (che contavano il 40% degli aventi diritto).
Fin qui il dato è univoco, come pure la constatazione che questa diserzione di massa dalle urne ha finito per premiare il centrosinistra: basti dire che in termini assoluti Beppe Sala a Milano dovrebbe aver preso più o meno gli stessi voti di cinque anni fa, ma stavolta sufficienti per una vittoria al primo turno. Il resto, seppur l’alta astensione è un fenomeno nazionale, andrà interpretato coi dati consolidati e all’interno dei singoli contesti: a Trieste, per dire, i votanti sono crollati al 46,2%, ma a Caserta s’è presentato ai seggi il 70% degli aventi diritto e nei 54 Comuni pugliesi al voto il 63,2% in media.
Insomma, chi sono questi astenuti? In parte è vero, come detto fin da domenica, che si tratta dei residenti delle periferie urbane che cinque anni fa e nel 2018 fecero la fortuna dei 5 Stelle e poi gonfiarono le urne e i sondaggi della destra. Solo che non dovunque è così o almeno non è un fenomeno “geograficamente” così ovvio. A Milano il quartiere che in percentuale ha votato meno (44,5 contro una media del 47,7%) è il Municipio 1, il centro storico, un feudo del Pd nell’ultimo decennio e in cui anche ieri Sala ha stravinto. Anche a Bologna, che ha la diminuzione di votanti più consistente rispetto al 2016, si assiste a una dinamica simile: l’affluenza più bassa si registra nel quartiere centrale Santo Stefano, quella più alta a Borgo Panigale-Reno, periferia occidentale della città. E anche a Bologna, come a Milano, i voti spariti rispetto a 5 anni fa sono quelli della destra e del M5S, che nel capoluogo emiliano s’è presentato a sostegno del dem Lepore raccogliendo percentuali da Italia Viva.
È a Roma, Torino e Napoli invece che il dato della partecipazione e quello geografico-sociale viaggiano di pari passo. A Roma, ad esempio, l’affluenza totale s’è attestata al 49% circa: il Municipio II (da San Lorenzo ai Parioli) è però quello col dato più alto, il 56,67% degli aventi diritto, mentre la maglia nera va al Municipio VI, periferia che comprende anche Tor Bella Monaca (42,85%); sotto la media cittadina votano pure Ostia, Portuense, Magliana, Primavalle e altre periferie.
A Torino, invece, il M5S stavolta non ha raggiunto nemmeno la doppia cifra, ma la situazione è assai simile a quella della capitale, ivi compreso il dato generale dell’affluenza (48%): analizzando però il dato per circoscrizioni si scopre che la numero 1 (Centro e Crocetta) porta al voto il 51,5% degli aventi diritto, la 5 e la 6 (periferia Nord) rispettivamente il 43,4 e il 42,9% (e in entrambe il candidato del centrodestra batte largamente quello del Pd). Anche Napoli, in cui ha votato il 47,1% degli aventi diritto, segue fedelmente questo copione: la “ricca” Municipalità 5 del Vomero e dell’Arenella porta ai seggi il 54,5% dei residenti, la 7 di Miano e Secondigliano, appena il 42,6%.
Sono tre città, queste ultime, che escono da sindacature “extra-sistema” e che sicuramente stanno subendo la crisi da Covid più di Milano e Bologna: fu il voto delle periferie nel 2016 a eleggere Virginia Raggi e Chiara Appendino e a confermare Luigi De Magistris; è la loro diserzione elettorale che chiude quella stagione.